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Autore: Genziana_91    11/01/2021    4 recensioni
Quando un giovane finisce per caso su uno strampalato sito archeologico, Villa Eleni e i suoi abitanti diventano il fulcro di un gomitolo di intrighi e di una misteriosa sparizione.
Genere: Commedia, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Un Fiorino!

 
Anche quella mattina il sentiero si perdeva a circa una decina di metri dai miei piedi, divorato da quella nebbia opprimente che non si diradava neppure a mezzogiorno. Ero partito da San Damiano da due giorni e già mi sembrava una vita. Le ore trascorrevano infinite, il senso del tempo distorto da minuti sempre uguali a sé stessi, da una luce opaca e spenta, che mai cambiava, se non a sera quando diventava pallida e quasi solida. L’umidità era la fedele compagna della nebbia. Era ovunque: nei calzettoni, sullo schienale dello zaino, sotto i quattro strati di pile che indossavo, dentro le mie ossa. Il secondo giorno di cammino provai ad accendere un fuoco, con quel che ricordavo dei miei anni da girovago, ma non ci fu niente da fare: il legno era fradicio, la terra non ne parliamo. Persino le pietre con cui provai ad isolare il mio piccolo focolare erano umide e scivolose.
 
Niente in quel viaggio si stava svolgendo secondo le aspettative. Non sapevo neppure se stessi seguendo il sentiero giusto e tale pensiero generava in me un’inquietudine profonda e strisciante. Il panico era alle porte della mente e solo la razionalità e una buona dose di incoscienza lo tenevano fuori. Sapevo che non sarebbe durata a lungo. Alla fine cedetti e un pomeriggio crollai. Mi tolsi lo zaino, lo scaraventai lontano e gridai con tutto il fiato che avevo in corpo tutta la mia rabbia e frustrazione. Quel viaggio era stato un fallimento. Non mi aveva portato né serenità, né introspezione, né positività e meno che mai chiarezza di vedute. Odiavo tutto, odiavo tutti, me stesso sopra ogni cosa, per la mia idea folle di partire, per la mia incapacità di prendere in mano la mia vita e gestirla.
Non so quanto tempo stetti lì, imprecando e prendendo a calci l’erba. Sarebbero potuti essere minuti come ore. Alla fine, fui interrotto nei miei sterili cinque minuti (si fa per dire) di isterismo dal rombare di un’ auto in lontananza.
Mai il rumore di un motore mi aveva procurato tanta gioia. Se avesse suonato il clacson mi sarei potuto mettere a piangere dalla felicità. Dopo pochi istanti due fari fenderono la nebbia e ne uscì un furgoncino bianco di quelli a nove posti, con le gomme un po’ sgonfie e il parafango coperto di una solida crosta di terra e fango. Il veicolo si fermò a qualche metro da me, emanando un piacevole calore e un rassicurante aroma di monossido di carbonio. Già vedevo nella mia testa uscirne una specie di rude boscaiolo in maniche di camicia a quadri e pantaloni da militare, perché no, magari anche con un cappello da montanaro.

Il destino, però, volle stupirmi.

Dallo sportello uscì un tizio sulla sessantina, con il viso curiosamente squadrato e pacato e una camicia in diretta dagli anni Settanta. Si sistemò gli occhiali con un dito di polvere sulle lenti e mi squadrò.
Rimasi imbambolato come un cretino, preso alla sprovvista. L’uomo aspettò sereno per qualche momento una risposta, poi incalzò:
“Ho capito, sali, ti do uno strappo.”
Borbottai ringraziando. La mia faccia era così disperata? Mi arrampicai al posto del passeggero e il tonfo della portiera venne attutito dalla nebbia opprimente e il furgoncino si mise in moto borbottando.
Troppo tardi, mi assalì il panico puro di essere finito nelle mani di uno psicopatico. Magari era un serial killer. Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza, nessuno mi avrebbe cercato. Sarei finito in fondo ad un fosso, cadavere insepolto in tutta quella maledetta nebbia! Misi una mano sulla maniglia della portiera, valutando i rischi del lanciarmi in corsa fuori dal mezzo. Nel migliore dei casi mi sarei rotto la metà delle ossa. Lo esclusi. Cominciai a guardarmi attorno studiando l’ambiente alla ricerca di un’arma impropria. Il furgoncino era sporco e pieno di terra, i pozzetti erano pieni di impronte fangose di scarponi. Dovevano essere in molti, forse erano una banda. Avevo caldo e sudavo. Oltre alla terra e al fango, intravedevo sul fondo alcuni secchi, delle cassette da frutta giallo pallido, una cazzuola che ad ogni sobbalzo sbatteva sul secchio, rimbombando. Qualche oggetto di plastica basculava rumorosamente dietro all’ultimo sedile. Niente che potesse essermi utile, ero una vittima inerte.
Ma cosa mi era saltato in mente a salire nel furgone di uno sconosciuto?!
“Ehi, stai bene?”
L’uomo mi studiò un momento, le mani salde al volante, mentre saltellavamo sballottati dalle buche del sentiero. Alla fine, ridacchiò:
“Siamo archeologi, non satanisti.”

I satanisti! Ecco, a quello non avevo pensato. Mi venne da ridere. O da piangere. Forse entrambi.
   
 
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