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Autore: Ellenw    15/01/2021    1 recensioni
La fiction è ambientata nel Mu, dove L e Light, o meglio le loro anime, si ritrovano dopo la morte e dopo aver superato il Rito di Espiazione, e anche se le loro anime sono destinate ad andare in due direzioni diverse, non riescono a stare l'uno senza l'altro.
E nonostante le tenebre, trovano la luce.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: L, Light/Raito | Coppie: L/Light
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La prima sensazione che percepisco è il freddo. Ma non il tipico freddo invernale cui sono ormai abituato: un freddo che viene direttamente dalla parte più interna della mia anima, inizia dal centro del corpo e si irradia fino alla punta delle dita.
Poi, subito dopo il freddo, lo sento, arriva il dolore. E quello lo conosco bene, perché in questo momento mi sembra di non aver provato altro per tutta la vita. Mi concentro un attimo, per capire esattamente da dove origina il dolore, e quasi subito mi rendo conto che proviene dal cuore. Sento uno strano peso in mezzo al petto, come se ci fosse un macigno, fermo e pesante, che schiaccia tutto il resto, e non mi fa respirare.
Fermo.
Ora ricordo, e la consapevolezza mi colpisce con la forza di una coltellata.
Sono morto.
O meglio, sono stato ucciso. Da Light. Da Kira.
In un attimo mi tornano in mente tutti i ricordi, e una parte di me quasi se ne rattrista, perché mi rendo conto di quanto sarebbe stato più facile, e più piacevole, non sapere, restare nell’oblio della non-conoscenza. Torno a quel momento, alla mia fine, e cerco di rievocarlo nella mia mente. Non devo pensarci molto in realtà, perché lo ricordo molto chiaramente, come se fosse successo un attimo fa. Anzi, probabilmente dev’essere successo proprio qualche minuto fa, nonostante a me sembra sia passata un’eternità.
Ricordo che ero seduto sulla mia sedia, di fronte al computer, nella sala d’indagine del quartier generale. Stavo discutendo con gli altri membri della squadra: sapevo che l’unico modo per arrivare alla soluzione del caso era testare il Death Note e provare così la falsità della regola dei 13 giorni, l’unica cosa che ancora ostacolasse le mie accuse, e i sospetti, nei confronti dei due Kira. Ma gli ex-poliziotti, prevedibilmente, non erano d’accordo.
Tuttavia è successo qualcosa, in quel momento, che ha mandato tutto in fumo.
All’improvviso tutti gli schermi dei computer sono diventati bianchi, e un allarme mi segnalava che tutti i dati raccolti erano stati cancellati. E c’era solo una chiara, terribile, unica spiegazione per questo fatto: Watari era morto. Al solo pensiero di questa verità mi invade un moto di rabbia, odio, tristezza e senso di colpa, e basterebbe veramente solo una di queste emozioni per farmi perdere definitivamente il senno. L’onda di repulsione tuttavia scema quasi subito, quando mi rendo conto che non c’è nulla che io possa fare per impedire ciò che è già accaduto, e al suo posto resta solo un profondo senso di impotenza.
Decido di ritornare mentalmente a quello che è successo. Ricordo la sensazione di angoscia, di paura, che mi ha assalito subito dopo essermi reso conto della morte di Watari, perché dentro di me sapevo esattamente quello che stava per succedere.
Anzi, l’avevo sempre saputo. Immagino che esista in tutti gli esseri viventi una specie di istinto primordiale, quasi animale, che a un certo punto della vita ti suggerisce che quello è il tuo ultimo giorno. O forse era solo il mio intuito da miglior detective del mondo, o forse ancora era la mia follia in quel momento fatidico in cui ho sentito le campane.
E ho capito che per me era la fine, semplicemente. Ho dovuto accettarlo.
La conferma definitiva l’ho avuta quando, dall’altra stanza, ho sentito scrivere Rem, lo Shinigami. E in un solo istante nella mia mente tutti i pezzi del puzzle sono andati al loro posto, e l’intrigato piano di Light mi è stato chiaro in tutta la sua, devo ammetterlo, genialità.
Elementare: poiché non aveva modo di scoprire il mio vero nome, a quanto pare nemmeno da Misa, deve aver manipolato lo Shinigami per fare il lavoro al posto suo. Come sia riuscito a farlo e cosa abbia ottenuto in cambio non potrò mai saperlo.
Ma tutto questo l’ho elaborato nel giro di un paio di secondi, e in realtà non ho avuto nemmeno il tempo di terminare la frase, perché in seguito tutto quello che sono riuscito a percepire è stato il forte sussulto del mio cuore nel petto, che scoppiava come una bomba nel suo ultimo battito.
E Il dolore. Dio, il dolore.
E’ stato tanto forte da farmi perdere l’equilibrio, da farmi dimenticare tutto il resto, da lasciarmi cadere nel vuoto. Lo ricordo chiaramente, perché anche allora mi sembrava di stare osservando tutta la scena dall’esterno, come se fossi solo un lontano spettatore della mia morte. Ero terrorizzato all’idea della fine, e in quel momento era così tremendamente vicina, reale. Ricordo di essermi reso conto che sarei caduto, e per un attimo mi sono chiesto come sarebbe stato quando al martellante dolore nel mio petto si sarebbe aggiunto anche quello dell’impatto sul pavimento.
Ma quel dolore non arrivò. Perché qualcuno mi aveva afferrato appena in tempo, prima che il mio corpo ormai finito si schiantasse al suolo.
Non ho avuto bisogno di voltarmi per sapere che era lui.
Col senno di poi mi chiedo perché abbia compiuto quel gesto, visto che ormai i giochi erano terminati, chiaramente in suo favore. Forse ha pensato che fosse più sicuro mantenere la sua maschera fino alla fine: il bravo ragazzo sconvolto dall’imminente morte dell’amico, a cui non permette di morire da nessuna parte se non tra le sue braccia.
E quanto sei bravo a recitare, Kira, quanto ti sei impegnato per umiliarmi fino alla fine.
Quasi rido dell’ironia quando mi rendo conto che l’ultima cosa che ricordo è l’ambra di quegli occhi inchiodati ai miei, impenetrabili e allo stesso tempo così trasparenti, più profondi di un abisso. Come il sorriso diabolico che hai mostrato solo a me, e che mi ha confermato ciò che sapevo già da tempo.
Sento montare un impeto di odio al pensiero di quel volto, ed è una sensazione particolarmente sconosciuta per me, visto che non credo di aver mai odiato nessuno in vita mia. Non che non ne avessi il motivo, semplicemente non ho mai trovato alcun interesse a sprecare tutta questa energia mentale per indirizzare un tipo di emozione così poco controllabile verso qualcuno. Ma ora che sono morto, bè, non ho poi molto da perdere.
E all’improvviso la catena di pensieri si arresta. Sono morto?
Alla luce dei fatti, c’è il 99% di probabilità che in questo momento io sia morto. Ma se fossi morto, in teoria, non potrei pensare. Né percepire o muovere il mio corpo.
Sussulto, perché solo ora mi rendo conto che posso muovermi: cosa che fino a questo momento non avevo assolutamente realizzato, da quanto sono stato occupato a divagare nei miei pensieri.
Apro gli occhi, e quasi non credo a quello che vedo.
Perché, illuminata dai raggi del sole, intorno a me c’è una radura.
Alzo lo sguardo per capire dove mi trovo, anche se dubito di riuscire a trovare nell’immediato una risposta razionale per tutto questo.
Sono seduto al centro di un prato dall’area circolare, e la prima cosa che mi verrebbe in mente per descrivere l’ambiente che mi circonda è la parola “verde”. Appoggio la mano sul terreno e la faccio scivolare attraverso i cortissimi e sottili fili d’erba, che mi si incastrano tra le dita. Al contatto con la pelle l’erba è fresca di rugiada, fa quasi il solletico dal tanto che è raffinata, e mi rendo conto che questa è la prima bella sensazione da quando mi sono risvegliato.
La radura non è per niente vasta, anzi, posso dire con certezza che il suo diametro non supera i dieci metri di larghezza. A circondare lo spiazzo erboso in cui mi trovo ci sono delle siepi, che fanno da circonferenza tutt’intorno al prato, quasi racchiudendolo in un abbraccio murario. Le siepi sono le più belle che io abbia mai visto: superano la mia altezza di qualche metro, quindi devo alzare lo sguardo verso l’alto per guardarle nel complesso. Ad adornarle ci sono migliaia di tipologie diverse di fiori, tra cui riconosco gigli, camelie, rose, orchidee e tante altre. Noto che ci sono anche dei frutti, principalmente fragole e albicocche, anche se in numero nettamente inferiore rispetto alla componente floreale. In ogni caso l’effetto d’insieme è meraviglioso, perché la siepe si presenta come una parete in cui paiono raccolti tutti i colori attualmente conosciuti al mondo: è un vero e proprio arcobaleno di fiori, e probabilmente mi ci vorrebbero anni per dare un nome ad ogni sfumatura di giallo, rosa, azzurro che si trova in questo giardino. Mi alzo in piedi spinto dalla curiosità, e mi sembra quasi di stare immaginando tutto. Il mio sguardo si perde in ogni dettaglio di questo piccolo paradiso.
Possibile che sia davvero il Paradiso?
Personalmente, non ho mai creduto nell’esistenza del Paradiso o dell’Inferno, né tantomeno in Dio. Tuttavia, prova nel fatto che ricordo chiaramente di essere morto, e che in qualche modo adesso sono ancora vivente, questo dev’essere per forza una sorta di aldilà.
Il mio sguardo ruota di novanta gradi, e mi accorgo che in realtà le siepi non racchiudono completamente la radura, ma lasciano in fondo ad essa una piccolo varco, al di là del quale posso vedere solo altre siepi fiorite. Decido di attraversare l’apertura nella siepe per uscire dalla radura, e quando vedo cosa si trova oltre questa rimango del tutto spiazzato.
Perché di fronte a me si presentano tre strade pavimentate d’erba verdissima, ognuna delle quali è delimitata ai lati da siepi del tutto identiche a quelle della radura. Ma quello che più mi lascia perplesso è il fatto che alla fine di questi viali alti e stretti ci sono altre strade uguali ad essi che si dividono in una decina di altre ramificazioni, alle quali seguono altre strade, alle quali ancora ne seguono altre, in quello che pare un incrocio infinito di percorsi tutti uguali. In ogni direzione in cui guardo riesco solo vedere strade erbose limitate da siepi fiorite che portano in una babele di incroci, curve e direzioni.
E’ un labirinto.
E nel momento stesso in cui me ne rendo conto, mi accorgo anche di un’altra cosa che fino ad ora mi era completamente sfuggita: ossia che questo posto è tremendamente irreale. Infatti, nonostante la prima sensazione di vitalità trasmessa dalla natura, attorno a me regnano un silenzio e un’immobilità inquietanti, tombali. La luce del sole è intensa, troppo intensa, e raggiunge ogni angolo del labirinto, ma i raggi che colpiscono la pelle non scaldano, cosa che invece dovrebbe accadere se si trattasse del mondo reale. Noto anche che la parte del mio corpo che si trova in controluce non produce alcuna ombra sul prato alle mie spalle. Insomma, in qualsiasi luogo mi trovi, si tratta di un artificio.
Dopo circa un’ora che sono accovacciato a terra, con la schiena appoggiata alla siepe e le ginocchia raccolte al petto, a valutare i pro e i contro della situazione, decido di provare a prendere una delle strade, e fare perlomeno una mappatura mentale del labirinto.
Non so esattamente quale sia lo scopo del mio essere qui, o cosa dovrei aspettarmi che accada, a questo punto. Ma l’attesa è semplicemente snervante, e un modo sensato di agire potrebbe essere quello di trovare una via d’uscita da questo posto.
Osservando le varie vie capisco di non avere attualmente idea di come uscire dal labirinto, pertanto la cosa migliore da fare è mantenere la radura, che appare come l’unico spiazzo circolare e che suppongo essere il centro del labirinto, come punto di riferimento, e intraprendere una delle strade per capire se tra loro si ricongiungono a un certo punto o se invece portano a dei vicoli ciechi. Il criterio di scelta della strada da prendere dovrà essere pertanto casuale, visto che ai miei occhi sono tutte uguali.
Decido di puntare prima alla strada alla mia sinistra, e cercare di andare sempre dritto, ossia verso sinistra, in ogni strada che incontrerò dopo di questa: nel cammino conterò i passi fino all’ultima parete del labirinto, che corrisponderà al lato sinistro del perimetro totale, e potrò così conoscere la distanza tra la radura, dove mi trovo ora e presumibilmente il centro dell’intrigo, e l’ultima parete alla mia sinistra, oltre la quale non ci sono più strade. Dopodiché tornerò alla radura e farò lo stesso lavoro, ma questa volta andrò verso nord, e conterò i passi che separano la radura dal lato ultimo a nord. Se le due distanze saranno uguali, saprò che il labirinto è quadrato, o pentagonale, o di ogni figura geometrica in cui i lati sono tutti egualmente distanti dal centro: il che costituirebbe una circostanza a mio favore, poiché sarebbe più facile trovare l’uscita. Se invece le distanze saranno diverse significa che il labirinto ha forma rettangolare, e a quel punto cercherò di trovare il lato più vicino alla radura e camminare a ridosso di esso finché non incontrerò l’uscita.
Inoltre, se il labirinto avesse quattro lati, come presumo, c’è il 25% di probabilità che una di queste due direzioni corrisponda effettivamente al lato in cui si trova l’uscita, e a quel punto sarà gioco facile. Almeno, penso, vale la pena tentare.
Mi incammino lungo la strada alla mia sinistra e proseguo senza indugio fino al primo bivio, che svolta verso la mia destra: imbocco dopo questa la prima deviazione, per puro caso corrispondente alla traiettoria che intendo seguire per raggiungere il lato estremo a sinistra. Utilizzo questa strategia per un numero di strade che mi sembra infinito, ma sono certo di spostarmi, seppur lentamente, verso ovest.
Lancio un’occhiata al cielo e i miei sospetti vengono confermati: sono in questo posto da ore, se non giorni, e il sole non è si è mai spostato. Non è mai tramontato, né di conseguenza è mai sorto: è sempre rimasto nello stesso punto, al centro esatto del cielo, e il solo fatto di guardare direttamente l’intensa fonte di luce mi annebbia la vista.
Una bella delusione, comunque, dato che il suo spostarsi mi sarebbe stato molto utile per discernere i punti cardinali o anche solo per cronometrare lo scorrere del tempo.
Dopo quelle che mi sembrano ore di cammino ed esattamente 91887 passi, mi fermo, esausto: della fine del labirinto non c’è traccia, anzi, a questo punto mi chiedo se esista davvero una fine a questo luogo. Forse il fatto è proprio questo: non c’è modo di uscirne. Forse l’aldilà è semplicemente un labirinto interminabile in cui l’anima resta intrappolata dopo la morte, e in tal caso non ci sarebbe possibilità per una mente umana di riuscire a superare qualcosa di così trascendente, neanche se questa mente umana fosse i tre migliori detective del mondo e avesse un quoziente intellettivo di 202.
D’improvviso sento le gambe cedermi, più per un senso di frustrazione che per l’effettiva stanchezza, e indietreggio fino ad appoggiare la schiena contro la siepe più vicina, per poi lasciarmi scivolare in terra. Raccolgo le ginocchia al petto e le cingo con le braccia, osservando la strada in cui mi sono fermato.
Se non fossi sicuro dei novantamila passi che ho fatto per arrivare fino a qui, giurerei di non essermi mai spostato dalla strada davanti alla radura: perché ogni via è del tutto identica alle altre, con le stesse siepi, gli stessi fiori, la stessa immobilità. Questo, sommato al fatto che qui non esiste una misura del tempo e che non c’è traccia di una possibile via d’uscita, metterebbe a dura prova la volontà di chiunque.
Ma non la mia.
Devo assolutamente capire cosa sta succedendo, se c’è un senso a questo posto e chi o cosa ci sia dietro. Forse non sono nemmeno morto, e questa è soltanto una prigione con una scenografia più elaborata. Forse qualcuno (Kira) ha inscenato apposta la mia morte per potermi rinchiudere qui e farmi perdere il tempo e la ragione nel tentativo di uscirne. Ma scarto subito questo pensiero, perché mi rendo conto che se fossi vivo sarei messo decisamente male. Infatti, a occhio e croce, sono quasi una decina di giorni che non mangio e non dormo, e nonostante questo non sento né fame né sonno, ad eccezione di un leggero fastidio alla pancia dovuto probabilmente all’abitudine di non aver mai tenuto a lungo vuoto lo stomaco.
Decido di concedermi un attimo di riflessione, quindi appoggio la testa contro la siepe dietro di me e avvicino il pollice alle labbra, un’involontaria abitudine che metto in atto quando sono sovrappensiero. Attualmente mi trovo nel bel mezzo di un incrocio, ossia di fronte a due diramazioni della strada da cui sono arrivato: una delle due procede diritta davanti a me, fino a dividersi in tre una quindicina di metri dopo, mentre l’altra procede alla mia destra e termina con una svolta ad angolo retto al di là della quale non riesco a vederne il percorso. Mi sembra chiaro che, poiché fino ad ora ho marciato in direzione sinistra, ossia verso l’ipotetico ovest, e poiché poco fa sono certo di essere arrivato da sud, la prossima strada da prendere dovrebbe essere quella di fronte a me.
Tuttavia non sono mai stato abituato a muovermi a lungo, e anche se sembro immune a sensazioni come la fame o il sonno, mi accorgo di sentire un certo fastidio alle gambe dopo così tanto tempo passato a camminare; senza contare il fatto che sono leggermente a corto di fiato e sento la testa pesante come un macigno. Decido di riposarmi almeno un po’, e socchiudo gli occhi per pensare a quello che sarebbe giusto fare a questo punto.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, probabilmente un’ora dopo, in preda ad una sensazione di ansia che pare totalmente infondata, ma che trova fondamento qualche istante dopo, quando mi rendo conto di non trovarmi nello stesso punto in cui mi sono addormentato.
Scatto in piedi.
Apparentemente il luogo sembra lo stesso, ma al posto dell’incrocio in cui mi sono fermato poco fa, di fronte a me c’è una linea di siepi fiorite che costeggia in parallelo la strada in cui mi trovo. Lascio scorrere lo sguardo e noto che le siepi procedono lungo la strada, la quale a destra termina in un vicolo cieco, mentre dalla parte opposta si suddivide in tre vie che a loro volta si diramano in altre direzioni. Che diavolo sta succedendo?
Sono certo di non essermi mosso da qui almeno nelle ultime due ore, quindi le alternative sono due: o sono stato spostato di proposito da qualcuno, oppure è il labirinto stesso ad essersi in qualche modo spostato. E poiché oltre a me in questo luogo non sembra esserci nessun’altro, dev’essere stato il labirinto a cambiare forma.
Un labirinto mutante.
Nel momento stesso in cui lo realizzo mi sento mancare l’aria nei polmoni, e un senso di rabbia e frustrazione mi monta nel petto. Perché se così fosse, tutta la strada che ho percorso fino ad ora con l’intento di andare verso sinistra sarebbe stata solo una perdita di tempo e di fatica, dato che il labirinto può cambiare aspetto ad ogni momento.  
In preda allo sconforto tiro un calcio alla siepe più vicina, e una dozzina di petali colorati e fragoline di bosco cadono sul prato, di fronte ai miei piedi. Resto a fissare il tutto per qualche minuto, il pollice appoggiato alle labbra e l’altra mano lungo il fianco, finché non mi viene un’idea. Mi chino leggermente e con il pollice e l’indice afferro l’estremità della foglia di una delle fragole, raccogliendola e avvicinandola al mio viso per osservarla più da vicino. Sembra a tutti gli effetti un frutto reale, molto simile a quelle che usavo raccogliere in Inghilterra, quando ero bambino.
D’improvviso mi viene voglia di assaggiarla: sembra passato un secolo dall’ultima volta che ho mangiato qualcosa. Mi rendo conto che questa fame, in queste circostanze, è del tutto insensata e irrazionale. Ma si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire.
Inoltre, ora come ora, non vedo come questo possa cambiare la situazione. Avvicino la fragola alle mie labbra e schiudo la bocca, lasciando uscire la lingua a toccare quel frutto gustoso di cui ho quasi dimenticato il sapore, ma prima che i miei denti possano afferrarla completamente mi blocco.
E se fosse avvelenata?
Abbasso lo sguardo sulla fragola, ponderando questa possibilità: in effetti, dato che ogni cosa in questo labirinto pare essere un inganno architettato in modo surreale, se non una vera e propria trappola, è possibile che questo frutto dall’aspetto così vividamente rosso e succoso sia avvelenato, o comunque rappresenti una qualche sorta di pericolo. Ma anche se così fosse, mi ritrovo a pensare, il fatto che io sia già morto rappresenta una buona motivazione a correre il rischio.
Senza pensarci ulteriormente, addento la fragola, e il dolce sapore zuccherino mi invade la bocca inebriandomi­. Socchiudo gli occhi e mi sento già meglio. D’altronde il cibo mi ha sempre fatto questo effetto, mi ha sempre dato quell’energia mentale di cui avevo bisogno perché il mio cervello funzionasse al meglio. Quando mangio, da sempre e soprattutto i dolci, non posso fare a meno di apprezzare totalmente la sensazione di appagamento e sollievo che ne deriva: e il solo fatto di riuscire ad apprezzare qualcosa mi fa sentire vivo.
Aspetto una decina di minuti per accertarmi che la fragola non fosse avvelenata, ma non succede nulla, così decido di mangiarne ancora qualcuna per recuperare le energie spese durante la camminata di oggi. Prima ancora di rendermene conto ho ingurgitato una dozzina di fragole, in preda alla frustrazione per il fatto di essermi completamente sbagliato e di non sapere assolutamente cosa fare.
“L Lawliet”
Mi volto di scatto nel sentire pronunciare il mio nome da una voce molto, molto familiare. E per poco non prendo un secondo infarto quando nel voltarmi, vedo nientemeno che una versione opalescente di me stesso, in piedi, di fronte a me. Tra le tante domande che mi affollano la mente, una emerge sulle altre.
“Che diamine sta succendendo?”
La figura accenna un sorriso, ma invece di tranquillizzarmi questo mette a dura prova la mia angoscia.
“Come già avrai capito, sei morto, L. Questo luogo trascende ogni spazio e ogni tempo, ma ogni essere umano, terminata la propria vita finisce in un luogo che riflette la sua anima. Questo labirinto infinito e bellissimo è semplicemente la parte più profonda del tuo essere”
Sono interdetto nel sentire le parole pronunciate da questa versione trasparente di me stesso.
“Quindi, se ho capito bene, io sono condannato a rimanere in questo giardino per l’eternità?”
“No, questo è solo un luogo di passaggio in cui ogni anima, dopo la morte, si risveglia, e deve compiere il Rito di Espiazione per accedere al Mu, il nulla eterno”
Il Rito di Espiazione? Possibile che sia tutto vero e non stia sognando?
L’altro me stesso sembra intuire i miei dubbi e precede le mie domande.
“Il Mu è un aldilà in cui vivono in serenità le anime che superano il Rito di espiazione e, purificate dai loro peccati, esistono sospesi nel tempo e nella pace. Le anime che non superano il Rito restano in un luogo come questo che riflette la loro natura, soli in eterno. Prima che tu me lo chieda, io sono l’essenza che sorveglia il Mu, assumo le sembianze della persona stessa con cui mi ritrovo a parlare perché il mio aspetto non è visibile in nessun modo. Alcuni mi chiamano Dio, altri un portavoce, ma in realtà sono solo un custode. Non ho il compito di giudicare né condannare, bensì di guidare ogni anima verso il Mu”
Ormai non riesco più a celare la mia curiosità e le mie domande, gli ingranaggi nel mio cervello tentano di elaborare più informazioni possibili.
“Che cos’è il Rito di Espiazione, e soprattutto, come si supera?”
“Il rito delle anime consiste in tre prove e castighi per le tue colpe che devi superare. Se non superi la prova ricominci dall’inizio, come in un gioco a livelli.”
Tutto questo mi sembra totalmente assurdo, eppure, non vedo come potrei rifiutarmi, visto che la prospettiva di rimanere in questo labirinto fiorito in eterno non mi aggrada per niente. D’altronde, ogni cosa che ho visto e fatto finora, va oltre ogni umana immaginazione.
“E dimmi, questo ha a che fare con il modo in cui sono stato ucciso? O la procedura è la stessa per ogni essere umano che lascia la propria vita?”
“La procedura è la stessa in quanto nessun essere umano è senza peccato, e tutti meritano la redenzione, anche se in teoria non per tutti è così facile superare il Rito di espiazione, ma non posso dirti altro. Sono un essere onnisciente e so che in questo momento hai molta rabbia e rancore dentro al tuo cuore, le tre prove ti aiuteranno a liberartene. Durante la prima prova ti ritroverai in un universo in cui tu non sei mai esistito, dovrai fornire almeno ad una persona la prova della tua esistenza e far sì che questa ti creda.”
Nel momento stesso in cui termina la frase, il mio sosia scompare, e al suo posto mi ritrovo con molte più domande di quelle a cui posso rispondere, ma al posto della sensazione di disorientamento mi ritrovo con una volontà e una curiosità riguardo a queste fatidiche tre prove. Vivo o morto, L non si tira indietro di fronte ad una sfida.
  
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