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Autore: Marti Lestrange    22/01/2021    5 recensioni
L’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Haydon Hall non è un bel posto, e basta una sola occhiata per dirlo, ma James Sirius Potter è costretto a trascorrervi un intero anno, per scontare una punizione che in fondo sa di meritare. Quando mette piede nella Scuola non si aspetta, però, che l’atmosfera da incubo lo trascinerà in un incubo vero, con radici profonde in parti della storia magica che nessuno vuole più ricordare, segreti di famiglia e purezza di sangue, lacrime e morte. Una storia in cui la giovane Emma Nott, studentessa ribelle appena arrivata alla Scuola, non può non rimanere invischiata, il richiamo del suo stesso sangue troppo forte per opporsi.
[ dal testo: Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. C’è chi dice che l’inverno del 1981 sia stato uno dei più duri, sia per coloro che vivevano al villaggio, sia per chi abitava tra queste mura fredde e spoglie; c’è chi asserisce che non ci sia stata primavera più bella di quella che ne è seguita, quando cespugli di rose sono cresciuti, a maggio, nei giardini e tra le siepi, e si sono arrampicati sulla facciata ovest, per poi morire ai primi freddi successivi. ]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Sirius Potter, Michael Corner, Nuovo personaggio, Pansy Parkinson, Theodore Nott
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'GENERATION WHY.'
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THE HAUNTING OF HEYDON HALL


 

CAPITOLO DIECI

 

 

“Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte.”
O. Wilde

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 19 settembre 2023

James camminava avanti e indietro sulla porta di Heydon Hall. E attendeva. Quella mattina, il preside Corner gli aveva chiesto di accogliere Theodore Nott quando sarebbe giunto all’istituto, intorno alle nove, come concordato via gufo con Pansy. 

 

[CHIACCHIERE CON MICHAEL]

 

Inoltre, avevano anche parlato di ciò che era successo la sera prima, James seduto di fronte alla sua scrivania e Corner in piedi a scrutare il parco della tenuta dalla finestra. 

 

«Pansy come sta?» gli chiese prendendo posto.

Corner si voltò e James notò quanto fosse stanco: due pesanti borse viola gli erano apparse sotto gli occhi piccoli, e sembrava che non avesse più preso sonno, dopo l’incidente. 

«Sta meglio, per fortuna», rispose. «A tal proposito, le ho brevemente raccontato cos’è successo, stamattina, al suo risveglio. Ha insistito per sapere tutto, nonostante volessi evitarle i dettagli. Mi ha detto di ringraziarti per il tuo aiuto, in attesa che possa farlo lei stessa.»

James scosse la testa. «Ho fatto solo ciò che avrebbe fatto chiunque altro, se fosse stato lì.»

«Oh, no, non penso», lo contraddì il preside. «Hai dimostrato un grande coraggio, James, un coraggio che tanti uomini adulti possono solo sognarsi.» A James sembrò quasi che stesse parlando un po’ di se stesso, ma ovviamente non fece domande inopportune, non aveva con l’uomo un tale grado di confidenza da potersele permettere. «Spero che tu sia riuscito a dormire, dopo…»

«A malapena, l’adrenalina mi ha tenuto sveglio un bel po’ di tempo.» 

Oltre che gli strenui tentativi di stanare i ragni che si erano rifugiati sotto la mia finestra, pensò. Alla fine si era dato per vinto e si era buttato a letto, per poi addormentarsi dopo un tempo esageratamente lungo. 

Intanto Corner si era voltato di nuovo verso il parco, le mani intrecciate dietro la schiena, in una posa evidentemente riflessiva. 

«Preside Corner?» lo chiamò James. Doveva chiederglielo, anche se dubitava che l’uomo gli avrebbe detto davvero ciò che pensava, in merito. L’altro si girò e ne incontrò lo sguardo. «Cosa pensa che sia successo, questa notte? A Pansy, intendo.»

Lo vide sospirare, e prendere posto. Si sfilò gli occhiali e si stropicciò gli occhi stanchi. Poi tornò a guardare James. «Ho passato tutta la notte in infermeria», cominciò, e James lo immaginò seduto accanto al letto di Pansy, magari a tenerle una mano. Okay, basta fantasticherie stupide, pensò. «E ho pensato a talmente tante cose, ipotesi surreali e strane teorie… Poi sono arrivato alla semplice, e più scontata, soluzione, e proprio parlando con la signora Parkinson. Nessuno di noi lo sapeva, ma soffre di sonnambulismo. Per questo era solita chiudersi a chiave nella sua stanza, la notte, per evitare di andarsene in giro per Heydon Hall e, magari, fare del male a sé e agli altri.»

Sonnambulismo? Nah, James non ci credeva per niente. O meglio, credeva che lo fosse, visto che lo aveva asserito Pansy stessa, ma non credeva che fosse la causa di quello scampato incidente. L’idea però che Pansy potesse essersi inventata la storia del sonnambulismo solo per giustificare l’accaduto gli balenò nel cervello veloce come un Boccino. E decise che sarebbe andato a parlare con lei, con la scusa di verificare come stesse. 

Annuì, quindi, bevendosi la versione di Corner: quanto l’uomo sapeva?, quanto a fondo conosceva la storia di Heydon Hall?, e credeva al fantasma allo stesso modo nel quale tutti, indistintamente, lì a scuola, ci credevano a loro volta?, e aveva sentito le parole di Pansy su una Lei misteriosa?

 

«Ho paura… Se lei… Se lei tornasse…»

«È stata lei… Lei mi ha messa qui…»

 

James non aveva alcun dubbio: il fantasma della dama di Heydon Hall era responsabile di ciò che era successo a Pansy. Non poteva che essere Lei, la Lei che la sua collega aveva nominato con tanta paura, con tanto cieco terrore nella voce. E sembrava l’unica spiegazione sensata (per quanto insensata) a quell’incidente. 

«Ha senso», commentò solo alla spiegazione del preside, continuando ad annuire. Non pensava che fosse il giusto tempo per scoprire le sue carte, o comunque per avanzare teorie e ipotesi con Corner, ché l’uomo era ancora piuttosto scosso e pensieroso, e in qualche modo assente, come se il suo corpo fosse lì con lui ma la sua testa fosse da tutt’altra parte - forse con Pansy?, a macerarsi nella preoccupazione?, a chiedersi se lei si sarebbe mai ripresa del tutto da quello shock? 

«Riguardo la mia reazione di stanotte, invece…» cominciò quindi Corner distogliendo momentaneamente lo sguardo da lui, come se gli creasse imbarazzo parlarne. E forse era davvero così. «Ero molto preoccupato che a Pan—, la signora Parkinson», si corresse in fretta, arrossendo leggermente, «potesse succedere qualcosa di irreparabile e irrimediabile. Si trovava ad un’altezza pericolosa, e vederla lassù mi ha… be’, mi ha paralizzato… Soffro le altezze, io, sai? Quindi è stato come essere lassù con lei, ecco… » James non lo aveva mai visto così nervoso, e annuì energicamente per incoraggiarlo a continuare. «Quando siete scesi ero così sollevato… così sollevato che l’ho presa in braccio di slancio… volevo solo portarla via da lì. E rendermi utile dopo il tuo prezioso apporto, aggiungerei.»

James cercava di trattenere le risate: era divertente assistere allo spettacolo di un uomo adulto alle prese con le sue “faccende di cuore” come se fosse un quindicenne. Già solo pensare alle parole “faccende di cuore” lo faceva ridere. Per fortuna riuscì a darsi un contegno.

«E poi dopo… sul divano…»

A quel punto, James alzò una mano ad interromperlo. Non poteva sostenere oltre quel discorso così imbarazzante per entrambi. Corner lo guardò sbarrando gli occhi, sorpreso.

«Non ho bisogno di spiegazioni, davvero», disse. E gli restituì lo sguardo, sperando che il preside capisse cosa in realtà gli volesse trasmettere.

L’uomo allora annuì e gli sorrise, arricciando le labbra comicamente e schiarendosi la gola. James quindi si alzò in piedi, sapendo che la loro conversazione era bella che conclusa. 

«Più tardi passerò a trovare Pansy», disse ancora. «Voglio salutarla e vedere come sta.»

Corner annuì nuovamente. «Penso sia una buona idea. Tra l’altro, tu e Lambert sarete piuttosto oberati di lavoro, ora che la signora Parkinson è in convalescenza, mi dispiace.»

«Nessun problema, ce la caveremo.»

 

James aveva poi salutato ed era tornato alle sue mansioni. Aveva distribuito la colazione, e aveva notato l’assenza di Emma. Aveva chiesto spiegazioni ad Archie, ma ovviamente lui sembrava non saperne molto più di lui. Parlarono brevemente di ciò che era successo in dormitorio, e che aveva coinvolto nuovamente Isabelle, ripromettendosi di aggiornarsi su eventuali novità. Anche Archie e Tyler sembravano preoccupati: l’assenza di Emma pesava come un macigno. James immaginò che fosse ancora arrabbiata e turbata per via della convocazione di Theodore, e poi temeva che lo fosse anche per via di ciò che era successo tra loro in biblioteca, ma aveva evitato di dirlo ad Archie. Sperava tanto di rivederla il prima possibile. Voleva sapere come stava e, soprattutto, scusarsi per la sua stupida e insensata reazione, sempre se lei avesse voluto starlo a sentire. C’era la concreta possibilità che lo mandasse al diavolo senza nemmeno dargli il tempo di aprire bocca. 

 

[ARRIVA THEODORE]

 

In quel momento, la comparsa di Theodore Nott al fondo del lungo viale lo riscosse dai suoi turbinanti pensieri. Accantonò per un momento Emma e il ricordo del loro bacio e si sbracciò per fare segno a Theodore di raggiungerlo. L’uomo percorse la distanza che li separava a passo serrato e, quando James potè finalmente vederlo in viso, notò che era piuttosto teso e preoccupato, certamente per via dell’oggetto della sua convocazione lì a Heydon Hall.

«Bentornato, Theodore», lo salutò. 

«Avrei preferito farvi visita per una motivazione meno grave, Jamie, ragazzo mio», lo salutò a sua volta. 

James gli aveva teso una mano, ma l’uomo, oltre che stringergliela, lo tirò a sé in un abbraccio così paterno che James si rese conto improvvisamente quanto gli mancasse suo padre, il suo abbraccio che sapeva di sapone ed erba appena tagliata (quella del giardino, che Ginny lo costringeva sempre a sistemare a giorni alterni, cosa che lui in realtà faceva volentieri perché diceva che lo rilassava e lo teneva lontano dal “turbine di casa”) e, in generale, la sua caotica famiglia, compresi i cugini e gli zii e i nonni Weasley. Gli mancava casa

«Tutto bene? Come ta la cavi qui?»

«Benone, non mi posso lamentare», rispose quindi James quando si separarono. «Più che una punizione sembra una vacanza, Corner mi ha addirittura chiesto di insegnare Quidditch.»

«Oh, lo so bene, ovviamente il caro, vecchio Michael mi ha informato di tutto, e in realtà mi ha chiesto se fosse una buona idea, sai? Prima di dirtelo, intendo.»

James sbarrò gli occhi, sorpreso. 

«Oh, sì», reiterò Theodore. «Mi ha scritto e io sono stato più che entusiasta di fornirgli il mio positivo riscontro in merito. “Penso che sarà bravissimo”, gli ho scritto. “Un insegnante nato”. E così è stato, mi pare di capire, no?» Lo guardò da sotto gli occhiali che quella mattina aveva deciso di indossare e si mise a ridere. James si unì a lui, ma poi si ricordò del suo compito. «Meglio che ti porti da Corner, non vorrei che ti desse per disperso…»

«Un momento, James», lo trattenne l’altro afferrandolo per un braccio. Lui si voltò a guardarlo, interrogativo. «Come sta Emma?»

 

[«COME STA EMMA?»]

 

La domanda ovviamente lo spiazzò. Perché lo aveva chiesto proprio a lui?

«Perché lo chiedi proprio a me?»

Theodore sorrise sornione. «Mia figlia mi ha scritto più di qualche lettera, da quando è qui. Ti ha nominato parecchie volte. Ho solo pensato foste diventati amici. Ho sbagliato?»

James non riuscì a negare. Proprio non riusciva a non essere sincero, con Theodore Nott. «Siamo amici, sì.»

L’altro sembrò soddisfatto e annuì. «Quindi? Come sta? Sinceramente, Jamie.»

Lui sospirò, passandosi una mano dietro la nuca. Avrebbe potuto raccontargli tutto, era così facile aprirsi con il MagiAvvocato, e poi sembrava che fosse piombato lì proprio al momento giusto. Stava servendo a James la possibilità di sfogarsi su un piatto d’argento, ma lui non pensava che fosse il caso di accettare l’offerta, per quanto allettante fosse. 

«Non benissimo, visto ciò che è successo di recente», rispose quindi. «Prima la storia della festa, e poi quella della scritta… Penso che sia normale, che non stia propriamente bene, ecco.»

«Tu cosa ne pensi?»

Un’altra domanda spiazzante alla quale James avrebbe tanto voluto non rispondere, perché la risposta sarebbe stata troppo insensata, troppo piena di orrori, per poter anche solo essere compresa, o accettata, da Theodore: sì, tua figlia è turbata perché ha questa strana connessione con un fantasma, sai, il fantasma che aleggia nei corridoi di questa casa, e pensiamo anche che la voglia proteggere, infatti sta aggredendo chiunque si metta sulla strada di Emma, e la cosa la fa sentire doppiamente peggio. No, non avrebbe proprio potuto dire la verità su ciò che pensava. 

«Io penso che Emma si sia solo trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato, tutto qui. La sera della festa c’era un sacco di altra gente, in tanti sono scappati, altri sono stati puniti come lei, ma erano una minoranza. Alla fine, Emma si è presa la colpa anche di chi è fuggito, e ha scontato la sua punizione senza fiatare. Parlando invece della scritta… penso che in tanti l’abbiano presa di mira, o comunque in antipatia, non so bene per quale motivo, e che qualcuno abbia voluto farle un dispetto, e far ricadere la colpa su di lei.»

Theodore annuì, pensieroso, grattandosi il mento. James avrebbe voluto dirgli - a lui e a tutti - che anche lui aveva trovato una scritta, sul muro sopra il suo letto, ma semplicemente non poteva, ché si era arrovellato il cervello fino allo sfinimento, ma l’unica spiegazione che sarebbe stato in grado di fornire era quella in cui il fantasma di Heydon Hall ne era responsabile, ma quanto le autorità della scuola erano disposte a transigere su quella fantomatica presenza?, e addirittura giustificarne l’esistenza?, o decidere che sì, la colpa era sua e quindi Emma era libera di andare? E poi, qualcuno avrebbe potuto dirgli che lo diceva solo per scagionare la sua amica, o addirittura ritenerlo responsabile dell’intera faccenda, e non poteva proprio permettersi di essere sbattuto fuori e lasciare quindi Emma sola in quel casino. Infine, un po’ si vergognava del contenuto di quella scritta, del messaggio che la dama aveva voluto trasmettergli: stai vicino ad Emma… io non posso raggiungerla… Si vergognava anche solo all’idea di parlarne con Theodore, figuriamoci con Corner o altri. 

 

[THEODORE E JAMES PARLANO DEGLI INCIDENTI]

 

«Questa notte è successa una cosa», proseguì quindi James, e gli raccontò brevemente quello che era accaduto a Pansy, e anche della parte da lui ricoperta nell’aiutare la donna. 

«Sei stato davvero coraggioso, James», commentò Theodore poggiandogli una mano sulla spalla. «Spero che la signora Parkinson si rimetta presto…»

«Oh, James, eccoti qui!»

La voce di Lambert Pince interruppe la loro conversazione. Lamb veniva loro incontro dal corridoio del personale, l’andatura caracollante e il viso grigiastro. 

«Ti ho cercato dappertutto, sai?» aggiunse. Li raggiunse e salutò Theodore stringendogli una mano e poi tornò a guardare James. «Il preside Corner mi ha detto di dirti di passare dal dormitorio femminile, raccogliere la signorina Nott e scortare padre e figlia nel suo studio, per favore.»

James annuì. Allora il suo augurio di rivedere presto Emma si era prontamente avverato. Ora, però, la prospettiva di parlarle per la prima volta dopo ciò che era successo lo atterriva e gli faceva battere forte il cuore nel petto. Deglutì e osservò Lamb caracollare via. 

«Ho avuto modo di riflettere sugli incidenti che finora si sono succeduti», iniziò Theodore mentre James gli faceva strada verso il dormitorio femminile, le mani improvvisamente sudate. «Prima quella ragazza americana… poi il figlio dei Baker… e infine la Parkinson… Non era mai successo nulla di simile, qui a Heydon Hall, prima di quest’anno.»

Fosse giunta da un altro, a James quella puntualizzazione avrebbe puzzato di bruciato, come se si volesse mettere il dito nella piaga a rimarcare il fatto che quei tre incidenti erano occorsi proprio quell’anno, proprio l’anno in cui lui ed Emma erano giunti all’istituto, ma si trattava di Theodore, quindi pensò di non preoccuparsene eccessivamente. 

«Sì, ho saputo…»

«È strano, non trovi? Ed è strana la modalità in cui questi incidenti sono avvenuti, anche. La prima ragazza che rimane chiusa in bagno, e poi ne esce traumatizzata; quel ragazzino… Charles… che rischia di morire perché qualcosa lo voleva strangolare… E poi la tua collega, che come hai detto si ritrova su quel ballatoio e quasi cade e si rompe l’osso del collo… Insomma, sono cose che danno da pensare, queste.»

Ovviamente, Theodore doveva esserne stato informato, e anche piuttosto dettagliatamente, dal preside Corner, perché sembrava essere al corrente a menadito di ciò che era successo a Isabelle e Charles. A quanto pareva, i due uomini si tenevano in contatto più di quanto a James era sembrato di capire all’inizio. E il rimarcare la parola “qualcosa” gli diede da pensare: che Theodore fosse davvero conscio dell’esistenza del fantasma? O anche solo delle dicerie che gli correvano intorno?  

«Sì, ovviamente fa pensare», convenne quindi lui. Si fermò di fronte alla porta del dormitorio femminile e guardò Theodore in viso. «Stiamo ancora cercando una spiegazione razionale ai primi due incidenti, ma con Isabelle non abbiamo cavato un’acromantula dal buco, mentre con Charles non abbiamo neanche parlato…»

«Stiamo?, abbiamo?» gli chiese Theodore guardandolo da sotto gli occhiali, l’espressione furba che lo faceva assomigliare ad un gatto. 

James avrebbe tanto voluto sprofondare nel pavimento per non riemergerne più. Evitò di rispondere, però, schiarendosi la gola e bussando alla porta. Temporeggiò qualche secondo e poi la dischiuse leggermente. 

 

[JAMES RIVEDE EMMA DOPO IL BACIO]

 

Infilò la testa nella stanza e si ritrovò Emma a pochi centimetri, la mano sospesa in aria, probabilmente nell’atto di aprire la porta. Si paralizzarono entrambi, e James trattenne il respiro. Quella mattina Emma aveva raccolto i capelli in una coda bassa che le lasciava scoperta la mandibola e James si perse ad osservarne la linea, e scese sul collo, deglutendo. Pensare che solo il giorno prima l’aveva baciata lo mandava in paranoia. E pensare al fatto che aveva combinato un casino lo faceva vergognare. 

«Allora?» La voce di Emma lo riscosse dai suoi pensieri. La guardò in viso. 

«Allora cosa?»

«Ti ho chiesto permesso», chiarì lei, le braccia conserte, un sopracciglio alzato. «Ma a quanto pare eri troppo impegnato a fissare il mio corpo.»

James aggrottò le sopracciglia e si allontanò dalla porta per permetterle di uscire. 

 

[EMMA E THEODORE]

 

Emma non lo degnò di uno sguardo e gli passò accanto per poi rifugiarsi nel caldo abbraccio del padre. James non l’aveva mai vista così arrendevole, e vulnerabile, come in quel momento, piccola tra le braccia forti di Theodore, che la strinse a sé in silenzio, il mento poggiato sulla sua testa. James si sentì un intruso, un estraneo capitato per caso in casa d’altri, a disturbare uno spazio privato e intimo, a turbare un momento di debolezza, quasi come se fosse un ladro e stesse rubando loro qualcosa. Si passò una mano dietro la nuca e abbassò lo sguardo a terra, fissandosi le scarpe, lievemente imbarazzato. 

L’attimo passò quando sentì Theodore schiarirsi la voce. Alzò gli occhi. «Ci accompagni da Michael, James?»

Lui annuì soltanto, superandoli per fare loro strada. Procedettero in silenzio, James davanti e i due Nott dietro di lui. Si congedò una volta arrivati davanti alla porta del preside. «Ho fatto il mio dovere», disse quindi, le mani buttate nelle tasche. Sentì addosso lo sguardo di Emma, ora, ma non ebbe il coraggio di guardarla. «Vi lascio.»

 

[ANCORA RINGRAZIAMENTI]

 

«James», disse Theodore facendo un passo avanti e scostandosi dal fianco della figlia per un momento. «Ti voglio ringraziare. Stai facendo tantissimo per Emma», e James non potè fare a meno di guardarla, solo per un attimo, ed Emma si limitò ad alzare gli occhi al cielo e scuotere la testa, «le stai accanto e le hai dato la tua amicizia, e significa tanto, per me.»

Ora James era decisamente imbarazzato. “Le hai dato la tua amicizia”, sì, be’, il giorno prima le aveva dato più della sua amicizia, e deglutì al pensiero, e probabilmente arrossì anche. Si permise un’altra occhiata ad Emma e la vide fissarlo, solo fissarlo, senza occhi al cielo e smorfie e labbra strette. Lo guardava in un modo in cui non era mai stato guardato e si sentì vacillare dal desiderio lancinante di scostare Theodore e baciarla, lì davanti a lui. Ovviamente si trattenne, stringendo i denti.

«Non devi ringraziarmi, Theodore, davvero», rispose quindi sorridendo all’uomo di fronte a lui e sistemandosi gli occhiali sul naso per mascherare il suo imbarazzo. 

Theodore si limitò a sorridergli e James alzò una mano a mo’ di saluto, allontanandosi a passo svelto. Aveva caldo e aveva decisamente bisogno d’aria. 

 

🥀 

 

Emma alzò gli occhi ad osservare il cielo. Quel giorno era di un limpido azzurro, decisamente inusuale per la stagione, e i rami ormai spogli degli alberi erano protesi verso l’alto, come a volerne saggiare le profondità. 

 

[CHIACCHIERE CON THEODORE]
 

Sentì suo padre sospirare accanto a sé, mentre sedeva su una delle panchine di pietra del piccolo cimitero, situato nel parco posteriore di Heydon Hall. Emma non lo aveva mai notato, forse perché dalle finestre era nascosto alla vista, riparato e raccolto dietro una piccola macchia con parecchi alberi sempreverdi che lo celavano da occhi curiosi. Le venne in mente di raccontarlo a James, ma poi si ricordò, con una fitta lancinante all’altezza dello stomaco, che teoricamente si era ripromessa di non parlargli e non cercarlo, dopo quello che era successo. 

 

[PROPOSITI E RESPIRI]

 

La delusione per essere stata respinta le bruciava ancora dentro come un fuoco divampante che non sembrava volersi placare. Rivederlo le aveva smosso qualcosa dentro, anche se aveva cercato di non darlo a vedere, come faceva sempre quando c’era da affrontare i suoi sentimenti: ergeva un muro altissimo tutt’intorno, per impedire alle persone di raggiungerla, e di capirla, e indossava una maschera fatta di supponenza, orgoglio e sarcasmo, e quasi di aggressività. Graffiava per evitare di venire ferita a sua volta, tirava fuori le unghie prima che qualcun altro potesse coglierla di sorpresa, attaccava per difendersi. Ma ora, seduta accanto a suo padre, davanti a quelle vecchie lapidi ricoperte di licheni e muschio, con solo il cielo sopra di loro e l’immobilità di quella giornata di metà settembre che li circondava, sentiva di poter nuovamente respirare, come non faceva da giorni, probabilmente da quando era arrivata nel Norfolk, e se ne rese conto solo in quel momento. L’aria tagliente dell’autunno le penetrò nei polmoni e poggiò le mani aperte sulla nuda pietra, che era fredda, gelida come ghiaccio, ma quel gelo le fece bene, quel gelo le diede vita e coraggio. 

«Mi dispiace», disse quindi rompendo il silenzio. 

 

[LE RASSICURAZIONI DI CORNER]

 

Avevano parlato brevemente con Corner e il preside li aveva rassicurati sul fatto che non avrebbe preso nessuna contromisura ai danni di Emma, aveva già scontato una punizione in merito agli eventi della festa clandestina, e non gli sembrava il caso di rincarare la dose per un fatto che nessuno era stato in grado di comprovare a tutti gli effetti. C’erano due testimoni oculari, a quanto pareva, sì, ma c’era da dire che nessuna delle due sembrava in buoni rapporti con Emma, anzi, a Corner erano arrivate all’orecchio tutte le voci poco lusinghiere che circolavano sul conto della ragazza, e pensava che qualche studente l’avesse presa di mira per una serie di ragioni, tra le quali forse essere la figlia di Theodore, quindi vicina all’autorità; inoltre, la situazione corrente di Pansy Parkinson distraeva il preside da qualsiasi altra questione, ponendo la faccenda delle scritte in secondo piano. Insomma, Emma era libera di andare, ovviamente con riserva: la scuola avrebbe tenuto non un occhio, bensì due occhi aperti, nei suoi confronti. Emma aveva tirato un sospiro di sollievo e la prima cosa a cui aveva pensato appena uscita dallo studio di Corner era stata che non avrebbe lasciato solo James, non che così non avrebbe deluso i suoi genitori, che così non avrebbe deluso se stessa, no, che non avrebbe lasciato solo James. Stupida stupida stupida. 

«Mi dispiace avervi deluso», continuò quindi fissandosi le scarpe, un paio di vecchie Converse nere scolorite. «Non immagino quanto sia arrabbiata mamma…»

«Non ci hai deluso, Emma», rispose Theodore. «Non potresti deluderci mai, lo sai.»

Emma continuò a guardarsi le scarpe, improvvisamente imbarazzata. 

 

[PRINCÌPI DISATTESI]

 

Parole come quelle avevano sempre il potere di metterla quasi a disagio, come se non fosse particolarmente avvezza ai complimenti. Forse era dovuto al fatto che i suoi genitori avevano dato a lei e ai suoi fratelli un’educazione rigida, che non voleva dire che erano stati duri con loro, no, ma che avevano loro fatto capire la disciplina, il duro lavoro e i sacrifici, oltre la necessità di abbassare la testa, di tanto in tanto, quando proprio non c’era altra soluzione. Emma si rendeva sempre più conto di aver disatteso alla grande quei princìpi, di essere andata in qualche modo contro tutto ciò che le era stato insegnato sin da piccola: a Hogwarts infrangeva le regole, si comportava male, rispondeva agli insegnanti, litigava con alcuni compagni e, in generale, “cercava rogne”, mettendosi nei guai un giorno sì e l’altro pure, rischiando la sospensione per poi, alla fine, essere trasferita a Heydon Hall e al suo Istituto Correttivo. Comprendeva di essere stata una delusione cocente, anche se suo padre insisteva nel dirle il contrario. 

«Emma», iniziò Theodore girandosi a guardarla. «Mi puoi guardare, per favore?» Lei si voltò, seppur di malavoglia, ma cercando di non darlo a vedere. «Nonostante tutto quello che hai combinato in tutti questi anni, rimani sempre nostra figlia. Niente e nessuno potrà mai cambiare questo fatto, e niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea su di te. Non siamo delusi, Emma, bensì preoccupati. Temiamo che tu possa perderti, prendere una strada pericolosa senza possibilità di tornare indietro. Vogliamo che tu sia felice, capisci?»

Era davvero tanto, ciò che suo padre le aveva appena detto. Stranamente, sentiva le prime stille di lacrime premerle agli angoli degli occhi. Dopo tutti quei giorni di sconforto e buio e dubbi, quelle parole la ferirono più di qualsiasi altra cosa, ma la ferirono benevolmente, con quel calore e quell’affetto che solo suo padre aveva mai saputo infonderle. Annuì soltanto, incapace di replicare. 

 

[LE PREOCCUPAZIONI DI THEODORE]

 

«Prima il gufo con la notizia della festa clandestina, e poi la convocazione da parte della Parkinson, tutto nel giro di qualche giorno, ci siamo preoccupati», spiegò l’uomo. «Tua madre era intenzionata a piombare qui sul piede di guerra, “non è possibile che sia lì da venti giorni e sia già finita in qualche guaio, Theo”, mi ha detto, camminando su e giù per il salotto con una mano sul fianco e l’altra alla bocca, sai come fa quando è turbata.»

Emma si ritrovò malgrado tutto a sorridere. Sì, sapeva benissimo com’era sua madre da preoccupata, era come un leone in gabbia che si aggira in poco spazio, famelico e desideroso di uscire, solo per proteggere con i denti e le unghie ciò che era suo. 

«Le ho dovuto impedire di venire, sai? Era davvero intenzionata a “spaccare il culo di Corner”, così ha detto. È dannatamente americana quando fa così.»

«Immagino la scena», commentò Emma ritrovando la parola. Il nodo in gola si era sciolto leggermente e si sentiva meno male all’idea di aprire bocca, ora. 

«Sarebbe successo un finimondo, quindi ho pensato bene di venire da solo. So come parlare con Michael, ci conosciamo da una vita. E sapevo che sarebbe andata a finire bene, ma ciò non toglie che rimango, rimaniamo», specificò, «preoccupati per te, Emma.»

«Sicuro che la mamma non sia arrabbiata?» chiese lei. 

 

[PORTI E SPECCHI]

 

Sapeva che suo padre era il suo porto sicuro, la casa laddove sarebbe sempre potuta tornare e dove avrebbe sempre trovato due braccia pronte a stringerla, un bacio sui capelli prima di dormire, per scacciare gli incubi, e delle vecchie storie per farla addormentare, ma sua madre era il suo specchio, era il riflesso di tutte le sue insicurezze, e tutti i suoi dubbi, e tutte le sue paure; sua madre era come lei, era quel leone in gabbia, furente e furioso, pronto solo a irrompere; sua madre era il suo riflesso, aveva i suoi stessi occhi pieni di fantasmi e tempeste, aveva il suo stesso coraggio dirompente, così poco Serpeverde e così tanto Grifondoro da sconvolgerla sempre, aveva quella stessa luce nello sguardo, e lo stesso temperamento acceso di ribellione e sfida e libertà. Sua madre era anche tutto ciò che la frenava, ma che allo stesso tempo la inibiva, la spingeva a infrangere le regole e a cercare guai, solo per poter leggere nei suoi occhi il disappunto e la delusione, solo per assaporare quel brivido che la faceva sentire viva e accesa. Alla fine della giornata, era il giudizio di sua madre quello che temeva, e che anelava in egual misura.

«Lo sai com’è fatta», rispose suo padre alzando gli occhi al cielo. «Subito si è arrabbiata, ha sbattuto porte e rotto un vaso, che poi ho sistemato, e abbiamo discusso perché le ho detto di non metterti pressione, e lei ovviamente ha tirato fuori la solita storia dei vizi e delle debolezze, ecc ecc. Quella sera ho dormito sul divano», aggiunse ridendo, «ma la mattina dopo mi ha chiesto scusa e siamo riusciti a parlarne civilmente. Tua madre ti vuole così bene, Emma… È per questo che si arrabbia così tanto, con te… E siete così simili, voi due.»

«Me lo dici sempre», sbuffò lei. 

«E continuerò a dirtelo sempre. Avete la stessa luce negli occhi.»

Rimasero in silenzio per un attimo, durante il quale Emma spostò lo sguardo sulle lapidi poco lontano, e su una statua di una giovane donna che prima non aveva notato, eretta dietro una lapide a forma di croce, e parzialmente nascosta dall’edera rampicante che l’aveva ricoperta. 

 

[VICTORIA]

 

«Com’era la mamma da giovane?» chiese improvvisamente, d’istinto. Era una domanda che aveva sempre voluto porre al padre, ma che non era mai riuscita a formulare. «Non parla mai della sua giovinezza, e dell’America, e dei suoi genitori…»

Vide Theodore distogliere lo sguardo e guardare lontano, oltre le lapidi, e gli alberi, e verso l’orizzonte celato, come se, con quell’occhiata, potesse evocare vecchi ricordi e storie, direttamente da quel passato che entrambi, sia lui sia sua moglie, badavano bene a non dissotterrare.

«Era impetuosa», rispose quindi infine. «Per questo ti dico che era come te - che è come te. Quando l’ho conosciuta mi ha colpito con la forza di cento Bolidi, dritti nello stomaco e nel petto, mi ha folgorato. Non avevo mai conosciuto una ragazza come lei, e nemmeno ne avevo mai vista una uguale in quanto a bellezza, aggiungerei.» Emma ridacchiò. Ovviamente, come tutti i figli, sentire i genitori dilungarsi in complimenti reciproci la metteva a disagio. «Tua madre rappresentava una novità, per me, tutto ciò che c’era di diverso, e quasi esotico, nella mia piatta esistenza di allora. Eravamo reduci da una guerra che aveva sconvolto ogni equilibrio, Emma, e stavamo raccogliendo i cocci di una società divisa e spezzata, con famiglie piene di lutti e un sacco di funerali. L’aria era tesa, ma c’era voglia di ricostruzione. E di perdono.»

«Io sono stato perdonato. Sono riuscito a tornare a Hogwarts per completare la mia istruzione come si deve e quell’anno è stato forse il più duro di tutta la mia vita. Non avevo mai avuto molti amici, e tantomeno sinceri, e quell’anno ho capito cosa volesse dire veramente la solitudine. Solo lo zio Draco mi è stato accanto, ci siamo ritrovati dopo tanto tempo e ci siamo tesi una mano. Credo che sia diventato il mio migliore amico proprio allora. Il fratello che non ho mai avuto.»

Emma sapeva ovviamente quanto fosse radicato il rapporto tra suo padre e Draco Malfoy, ma Theodore non le aveva mai raccontato come tutto era nato, tra loro. 

«Tornando a noi, come ti dicevo ho finito i miei studi, ho preso dei buoni M.A.G.O. e ho deciso di intraprendere la carriera di MagiAvvocato1. Avevo ancora dei buoni agganci al Ministero, ma ovviamente alcuni di quelli si sono rivelati nulli, e ho preferito fare tutto da me, mi sono tirato su le maniche e ho abbassato la testa. Ho iniziato un tirocinio presso l’Ufficio Applicazione Legge Magica, e tutto il resto lo sai. Ho conosciuto tua madre il suo primo giorno al Ministero, era appena arrivata per iniziare anche lei il mio stesso tirocinio. È piombata nell’Atrium come un tornado. Ed è entrata nella mia vita senza più uscirne.»

«Eri proprio sotto un treno, eh, papà?» rise Emma spintonandolo, e prendendosi gioco di lui.

L’uomo si passò una mano dietro la nuca e le ricordò in modo lancinante James. Ricacciò via quel pensiero, però, non era il momento adatto per sentirsi patetica. 

«Sono sotto un treno per tua madre da esattamente ventiquattro anni, Emma. Non mi sono ancora mosso, da lì.» Emma annuì, sorridendo tra sé e sé. «Tornando a noi: mi vuoi dire cosa c’è che non va? Ha a che fare con quella vecchia storia del fantasma, vero?»

 

[IL FANTASMA?]

 

Emma alzò di scatto la testa e lo guardò negli occhi, trattenendo il respiro. Cosa sapeva suo padre del fantasma di Heydon Hall? Esitò per un momento, raccogliendo le idee, cercando di capire cosa potesse effettivamente dirgli e cosa no - e, soprattutto, fin dove potesse spingersi senza sembrare una pazza. Si rendeva conto che quel racconto aveva tutti i termini per suonare surreale, persino nel loro mondo. E poi, nel suo cervello aveva collegato i pezzi, e ciò che ne era uscito era un quadro per nulla allettante della situazione, con quel riferimento a Rosham Village che ancora le vorticava nella testa. Ciò nonostante, sentiva di non poterne fare parola, non ancora, e tantomeno con suo padre, anche se forse aveva davanti una delle poche persone in grado di aiutarla a dipanare quella matassa, ma proprio non poteva, e forse non voleva, ché scoprire tutta l’eventuale verità la spaventava a morte. 

«Sono successe delle cose inspiegabili, ultimamente», iniziò.

«Jamie me lo ha detto.»

«Jamie? Da quando è diventato solo Jamie?» chiese lei con una smorfia. 

Theodore agitò una mano e ridacchiò. «Mi sta simpatico, quel ragazzo. Ha la testa sulle spalle e un grande senso di responsabilità. Ed è anche molto intelligente.»

«Okay, basta così, mi viene da vomitare», lo fermò alzando le mani. 

«Non mi hai scritto che siete diventati amici? Problemi in paradiso?»

Emma guardò il padre ad occhi sbarrati. Da quando era così intenzionato a combinarle il matrimonio?

«Papà!» esclamò quindi. 

«Che c’è? Che ho detto? Mi siete sembrati tesi, prima, avete litigato?»

«Sì, abbiamo litigato, ma non sono affari tuoi, okay? Ora basta parlare di Jamie.»

«Jamie, eh? E da quando?» la scimmiottò Theodore, guardandola con dipinta in viso una strana espressione compiaciuta che non le piaceva per niente.

«Non usare le mie stesse carte contro di me, non ci sto», si difese. «Possiamo tornare al discorso principale, ora?»

«Sono successe delle cose inspiegabili, dicevi.»

Emma annuì. «Prima l’incidente di Isabelle, poi quello di Charles, e ieri Pansy. C’è un minimo comune denominatore, in tutto questo, però.»

Suo padre la guardava e, silenziosamente, la invitava a proseguire. 

«Il fantasma di Heydon Hall», snocciolò prima di pentirsene. 

«Il fantasma, dici?»

«Il fantasma. So che può sembrare assurdo, e forse lo è», aggiunse in fretta. «Isabelle ha più volte dichiarato che c’era una lei, chiusa in bagno mentre nessuno da fuori riusciva ad entrare, e non ci sono chiavi, a Heydon Hall; Charles levitava a mezz’aria mentre diventava tutto viola in faccia e rischiava di morire, io l’ho visto; e Pansy… non lo so, non so come siano andate esattamente le cose, ma non è casuale che si sia ritrovata in cima a quel ballatoio, nell’ala proibita, incapace di scendere e senza ricordare come ci sia finita», disse tutto d’un fiato. Non gli raccontò dell’escursione nell’ala ovest insieme a James, e delle lettere, e di ciò che lei aveva visto, più di una volta, e di ciò che anche James aveva visto, e dei vetri infranti in biblioteca, e della scritta trovata da James in camera sua, e della presenza poco rassicurante dei ragni. Omesse tutto questo, ché già si sentiva abbastanza cretina così, senza rischiare di essere trascinata al San Mungo d’urgenza e rinchiusa in qualche stanza con le pareti imbottite. 

Theodore distolse lo sguardo e nuovamente si perse all’orizzonte lontano, sospirando. «Tu e James state ficcando il naso in giro, vero?»

Dal suo tono, Emma capì che era una domanda retorica, la sua. Probabilmente, glielo aveva già detto James, oppure lo aveva capito e basta. In fondo, era uno dei MagiAvvocati più brillanti del Mondo Magico non senza una ragione. 

«Smettetela di ficcare il naso, Emma.»

Le parole di suo padre la riscossero, facendola quasi sobbalzare. Le aveva pronunciate con un tono diverso, quasi perentorio pur senza l’intenzione di intimorirla, anzi, più con la volontà di metterla in guardia. 

«Queste non sono quasi mai belle storie, di amori edificanti e vite piene di sole», continuò. «Se davvero c’è una presenza in questa casa, e si comporta in questo modo, allora vuol dire che è tutto tranne che benevola. Per questo voglio che la smettiate di curiosare in giro e pensiate solo a stare fuori dai guai, intesi?»

Come gli avrebbe mai potuto spiegare che il fantasma era pericoloso per tutti tranne che per lei? Come gli avrebbe mai potuto raccontare di come il fantasma attaccava chiunque la offendesse o la minacciasse o la infastidisse? Come gli avrebbe mai potuto raccontare di come si sentiva vicina a quella donna misteriosa, leggendo quelle vecchie lettere, e quanto anelasse a scoprire tutto quanto, di lei, tutto ciò che potesse finalmente portarla a svelare la verità? Poteva promettere a suo padre che si sarebbe tenuta lontana dai guai, ma sarebbe stata una promessa vana e vuota, ché in cuor suo sapeva che sarebbe andata fino in fondo a quella faccenda, a qualsiasi costo. Ora annuì, però, desiderosa solo di tranquillizzarlo.

«Niente più giocare agli Auror, voi due», aggiunse quindi Theodore ridendo. Era tornato quello di sempre, dopo averla guardata per un attimo con quegli occhi strani, intrisi di paura e sgomento. Si alzò in piedi, ed Emma lo imitò. 

 

[SALUTI E RACCOMANDAZIONI]

 

«Devo tornare in ufficio, temo. Mi aspettano per un consulto al Terzo Livello.»

Lei annuì. «Io rimango qui ancora un attimo.»

Suo padre tese le braccia ed Emma vi si rifugiò, aspirando ancora un momento il suo buon profumo - profumo di casa - e quel calore rassicurante che l’avrebbe scaldata anche in mezzo al gelo.

«Prenditi cura di te, d’accordo?»

«Saluta la mamma da parte mia. E i gemelli.»

«E tu fai pace con Jamie.»

Emma alzò gli occhi al cielo. «Papà…» borbottò.

Lui scoppiò a ridere e le pizzicò una guancia prima di avviarsi. Emma agitò una mano a mo’ di saluto quando lui si girò un’ultima volta a guardarla dalla soglia di Heydon Hall, per poi sparire all’interno. Lei attese ancora un attimo e poi si voltò verso le lapidi. 

 

[LA BEN NOTA CURIOSITÀ DI EMMA]

 

Aveva appena promesso a suo padre che si sarebbe tenuta lontana dai guai, e nonostante non fosse stata una vera promessa, infrangerla nel giro di pochi minuti la faceva sentire comunque in colpa, vagamente, così cercò di scacciare via quella sensazione di disagio e fece qualche passo in direzione del piccolo cimitero. Prima di dirigersi alla lapide che la incuriosiva, quella con la statua di una giovane donna, osservò quelle che la circondavano, e constatò che le scritte erano ormai tutte sbiadite e cancellate dal tempo e dall’incuria. 

 

[E.M.R.]

 

Chinatasi sull’ultima lapide, invece, e scostando un ramo d’edera che era sceso a ricoprirne la superficie, sentì il cuore accelerare e la sorpresa quasi la fece vacillare. Sulla pietra si poteva ancora leggere un’iscrizione, compresa di date e di alcune iniziali. 

 

E.M.R. 
3 gennaio 1953 — 16 marzo 1981

 

e il suo infante
16 marzo 1981 — 16 marzo 1981

“Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte.”

Qui giace la nostra amata Eliza 
e il di lei troppo presto perduto infante.

 

Emma si chinò poggiandosi sui talloni, le mani sulle ginocchia, il respiro corto. Quelle erano davvero troppe informazioni da elaborare e digerire, per lei, proprio quel giorno. 

 

[LA TOMBA DI ELIZA]

 

Quella che aveva davanti era, senz’ombra di dubbio, la tomba di E., il misterioso fantasma di Heydon Hall. Eliza. Ecco qual era il suo nome. Eliza. Senza neanche pensarci, Emma allungò una mano e sfiorò la nuda pietra ricoperta di umidità e muschio, sfiorò quella data di nascita e di morte, il 16 marzo 1981, quando il figlio di Eliza era venuto alla luce, ed era morto. Ecco cosa non le dava pace, ecco cosa la teneva ancorata a quei corridoi e a quelle stanze, senza pace e requie, ecco cosa non la faceva passare oltre: la morte del suo bambino. Le dita di Emma rimasero lì, su quella data maledetta, mentre un vento turbinoso scuoteva i rami degli alberi sopra di lei, facendola rabbrividire. Un suono di vetri rotti la riscosse: proveniva dalla casa. Alzò lo sguardo, ma non vide nulla di sospetto, almeno non da dove si trovava lei al momento. 

 

[IL TORMENTO DI EMMA]

 

Sentiva dentro lo stesso turbine sollevato dal vento tutt’intorno, sentiva uno scrociare rumoroso che era come un uragano, e la scuoteva e la strattonava, mentre il peso di mille pietre la trascinava verso il basso, su quella terra umida, su un tappeto di foglie secche e fangose, e non le importava di sporcarsi, non le importava di niente, adesso, non mentre la realtà di ciò che poteva essere davvero successo a Eliza la investiva in pieno, con la forza di mille treni. Una donna era morta dando alla luce il suo bambino, e il bambino era morto, e forse era da sola, spaventata, impaurita, terrorizzata, e quel pianto, quel pianto che aveva sentito in sogno, e che aveva sentito riecheggiare tra i muri di Heydon Hall, quel pianto era il suo, un pianto di un amore perduto, di un dolore raccolto e solo, di una vita spezzata. Qualcuno doveva averli trovati e almeno aveva dato loro una degna sepoltura, e quel qualcuno doveva essere stato vicino a Eliza, tanto vicino da scegliere la lapide, incidere quelle parole di dolore e disperazione e amore, sempre e ancora amore, e mettere lì quella statua. Emma alzò lo sguardo su quest’ultima e sentì un singhiozzo strattonarle la gola e, dal petto, risalire su, finché non eruppe fuori dalle sue labbra, scuotendola. Sprofondò la testa tra le ginocchia e si concesse il lusso delle lacrime, si concesse una pausa, si concesse di essere debole. Aveva trattenuto quel nodo nel petto per giorni e giorni, senza nemmeno saperlo, lo aveva trattenuto ché non amava sentirsi debole, ed esposta, anche se solo con se stessa. Tutto ciò che era successo le precipitò addosso: l’incidente di Izzy e la paura che aveva letto nei suoi occhi; ciò che era successo a Charles e la sua faccia viola mentre Eliza cercava di ucciderlo e il grido di Emma che l’aveva fermata; le lettere trovate nell’ala ovest e la prima volta in cui aveva visto il fantasma e la paura che l’aveva fatta sobbalzare; i pianti e i vetri rotti e le luci e i ragni e il vento e le scritte; il sangue, il dolore, la perdita; la morte.

 

[SUGGESTIONI]

 

Sentì un alito di vento caldo su una guancia e alzò la testa di scatto, guardandosi intorno allarmata, gli occhi sbarrati. Non c’era nessuno intorno a lei, o lì accanto, solo quella maledetta lapide e l’amara realtà dei fatti. Si asciugò via le lacrime e si schiarì la voce, dandosi mentalmente della stupida per tutte quelle suggestioni eccessive. Si alzò e si tolse via alcune foglie che erano rimaste attaccate ai pantaloni e poi lanciò un’ultima occhiata all’iscrizione sulla pietra. E.M.R.: non le diceva nulla, niente di niente. Non conosceva, e non aveva mai sentito, nessuno che portasse quelle iniziali. Non che si fosse mai immaginata di conoscere Eliza, ma forse quel contatto che sembrava essersi instaurato tra loro, seppur terrificante, sotto certi aspetti, le aveva forse fatto pensare a un qualche tipo di legame, tra lei e la dama di Heydon Hall. Eliza. Nemmeno sapere il suo nome per intero l’aiutò a dipanare quel mistero. La colse l’idea di consultare le lettere, magari rileggere quelle già lette in precedenza, e finire quelle che le rimanevano, che non erano poi molte, ché voleva scoprire se qualche indizio le fosse sfuggito, o se ci fosse ancora qualcosa da portare alla luce. Così si allontanò rapida dal cimitero, diretta al dormitorio. Il preside le aveva accordato la giornata libera per cercare di rifiatare, ed era certa che nessuno l’avrebbe disturbata.

 

🥀 

 

Emma aveva riletto tutte le lettere, le aveva analizzate nuovamente, ma senza scovarvi ulteriori indizi. 

 

[ANCORA LE LETTERE]

 

Era tornata a sedersi sulla panca dove aveva parlato con suo padre, da lì poteva vedere la tomba di Eliza e quella presenza, invece di spaventarla e inquietarla, le era stranamente di conforto. In quel momento avrebbe tanto voluto cercare James e raccontargli tutto, ma era decisa e ferma nel suo proposito di non parlargli, per cui avrebbe cercato di andare al fondo della faccenda da sola, per quanto le fosse possibile. Le rimanevano quattro lettere e le lesse tutte d’un fiato, ma erano solo lettere d’amore, come tante altre che E. - Eliza - si era scambiata con il suo misterioso amante. Qualcosa doveva essere cambiato, però, per loro, intorno al 1975, perché Eliza menzionò, per la prima volta, suo fratello, che però non chiamò mai per nome. A quanto pareva, tra i due uomini non scorreva buon sangue, ma Eliza ne parlò solo in una lettera e poi più nulla, come se quel fratello così astioso fosse stato cancellato con un colpo di bacchetta. La scoperta più sconcertante, ma che in qualche modo l’aiutò a ricomporre quel mosaico di ricordi e pezzi di vita, fu scoprire che i due amanti alla fine erano riusciti a sposarsi, nonostante le ritrosie della famiglia di lei. Eliza doveva essersi trasferita a casa del marito, perché ad un certo punto le missive facevano un consistente salto temporale, di ben tre anni, fino alla penultima lettera, datata marzo 1978, dove non erano riportati però dettagli significativi. L’ultima, invece, era datata novembre 1980, solo qualche mese prima della morte di Eliza, ma era spaiata: c’era solo la lettera del marito di lei, e non la sua risposta. Dov’era finita la lettera di Eliza? E perché non era insieme a tutte le altre? 

 

[L’ULTIMA LETTERA]

 

Emma accantonò per un momento quegli interrogativi e si accinse a leggere. 

 

Rosham Village, 17 novembre 1980

Amore mio,

innanzitutto come stai? Posso scriverti solo poche righe, Lui mi sta aspettando, e sai quanto poco ami aspettare. Stiamo partendo e sei ampiamente al corrente dell’importanza di questa missione per la nostra Causa. Mi preme sapere come stai, come ti senti e, ultimo ma non meno importante, come sta il nostro bambino. Il pensiero di te che attendi il mio ritorno, e del mio capo reclinato sul tuo ventre, accanto a te - accanto a voi - mi infonde la forza per combattere, ancora e ancora, fino alla fine. Un giorno tutto questo finirà, arriverà un nuovo tempo di ordine e rigore e potere, per tutti, e noi saremo insieme per sempre, mano nella mano, a costruire il nostro futuro e la nostra stirpe. Ad accudire il nostro amore. Scusa per queste poche righe, tesoro mio, le chiudo rinnovandoti il mio amore e le mie promesse.

Sempre tuo. 

 

Emma lasciò cadere la lettera sulle gambe. Finiva lì. Le lettere finivano lì. Non c’era più nulla oltre quella data, non c’era la risposta di Eliza, niente di niente. Controllò ancora una volta, ma solo per ottenere i medesimi risultati. 

 

[ALTRI INTERROGATIVI]

 

Cos’era successo nel novembre 1980? Qualcosa doveva essere andato storto, altrimenti nulla avrebbe spiegato la fine della loro corrispondenza. Dall’altra parte, Emma convenne però che non necessariamente doveva essere accaduto qualcosa di tragico: in fondo, l’amato di Eliza poteva anche essere tornato a casa, da sua moglie e il suo bambino non ancora nato, e aver vissuto con loro i mesi che li separavano dalla morte di lei, ma allora perché Eliza era morta a Heydon Hall?, perché lì e non a Rosham Village, dove presumibilmente si trovava la casa che divideva col marito? La sua mente era affollata di mille interrogativi, che si succedevano caotici e fulminei. Per ogni domanda si dava il doppio delle risposte, e dopo ogni risposta sorgeva il doppio delle domande. Emma capì che non ne sarebbe venuta a capo facilmente. In mano aveva qualche elemento in più, ora che aveva scoperto che Eliza aveva dato alla luce un bambino, già morto o che era morto subito dopo il parto, e che era stata sepolta nel parco di Heydon Hall, ma quegli elementi l’avevano portata unicamente ad una sola conclusione: non c’era nessun legame di sangue tra lei ed Eliza. Quell’eventualità l’aveva sfiorata tante volte, ma lei l’aveva ricacciata via. Ora, tornava a pensarci a mente lucida e quella era l’unica cosa certa di tutto quel caos: non era imparentata con il fantasma di Heydon Hall, la stirpe che il marito di lei sperava di portare avanti era perita insieme a quella moglie tanto amata ma perduta e al loro bambino. Tutto questo gettava un’ombra di ulteriore mistero sulle motivazioni che avevano spinto Eliza a proteggerla e a difenderla, anche se molto spesso con risultati disastrosi. Ancora una volta, Emma sentì urgente l’esigenza di cercare James, di raccontargli ogni cosa, da cima a fondo, di fargli vedere la lapide e leggere quell’ultima lettera, e magari di farsi abbracciare da lui, e confortare, e sentirsi protetta e al sicuro, come solo poche altre persone nella sua vita sapevano farla sentire. Ovviamente, l’orgoglio vinse ancora una volta. Si alzò in piedi e raccolse le lettere e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al cimitero, rientrò in casa.

 


 


Note.

1. Tutto l’headcanon di Theodore Nott è di mia invenzione. 

 

Intanto, chiedo umilmente scusa per il ritardo con il quale giunge questo aggiornamento. Come vi avevo accennato nelle note al precedente capitolo, ora non ho più nulla di pronto quindi gli aggiornamenti sono schiavi della mia ispirazione e del mio tempo, ma comunque mi pare doveroso chiedervi scusa per l’attesa. Diciamo che questi sono stati giorni un po’ così dove la scrittura mi ha un pochino lasciata a piedi, ecco. Però sono qui, con un capitolo veramente lungo (parliamo di 8k parole), e vi chiedo scusa anche per questo, ma come avete appena letto, si è trattato, a mio modesto parere, di un capitolONE, dove sono successe davvero un sacco di cose e se ne sono scoperte altrettante. Ritroviamo Theodore e so che vi era mancato molto; scopriamo qualcosa in più sulla mamma di Emma, che mi piacerebbe esplorare molto ma non è questa la giusta sede, quindi sto pensando ad una oneshot; Emma e James sono alle prese con le loro paturnie, che non dureranno a lungo, quindi non preoccupatevi 👀 ; infine, assistiamo alla sconcertante scoperta di Emma in merito alla dama di Heydon Hall, a Eliza, con il ritrovamento della lapide e di ciò che vi è inciso. Sono curiosissima di leggere le vostre opinioni e teorie in merito 🔮

 

Nel prossimo capitolo ritornerà Archie (visto che lo avete chiesto a gran voce), succederà una cosa piuttosto importante 👀 e, per finire, Emma prenderà una decisione drastica 🔮

 

Concludo con un “a presto”, spero di riuscire a sfruttare questo rush ispirato e a mettermi subito al lavoro con il capitolo 11. Vi informo che non manca molto alla fine di questa storia, i nodi arriveranno presto al pettine. 

 

Marti 🐍

   
 
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