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Autore: Hoel    23/01/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Ricordiamo che parte degli eventi di questa storia, in mancanza di descrizioni dettagliate nelle fonti, sono romanzati.

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.11.2021, buon San Martino!

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Capitolo Ventiquattresimo

22-24 settembre 1511

 

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.

(Gv 15,17)

 

 

 

Il valletto del conte Antonio di Collalto di Sotto annunciò il suo padrone, mentre apriva la porta, scansandosi poi onde permettergli d’entrare nella stanza offerta generosamente al maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice.

Il generalissimo giaceva ancora in letto, tuttavia seduto e con una piccola cappa di lana a tenergli calde le spalle, il viso provato dalla recente febbre già tinto del rosato di chi stava riguadagnando salute, grazie alle zelanti cure della sua garzona Belletta, la giovane modenese con cui l’uomo s’accompagnava.

“Vi sarò per sempre riconoscente per la vostra premurosa ospitalità”, dichiarò il francese, interrompendo la dettatura dei dispacci al duca di Foix-Nemours a Milano, all’ambasciatore francese a Bolzano e ai capitani e commissari imperiali nelle varie città friulane occupate. Belletta sottolineò il concetto sorridendo al conte, intanto che girava la zuppa destinata al convalescente.

“Dunque saprete anche che suo cugino, Jérôme Savorgnan, invece si è schierato dalla parte di Vénise, conservando saldamente le due fortezze di Marano e Osoppo.”

Dal modo in cui Antonio reclinò nervosamente il capo, no, non ne era a conoscenza. “Questione di tempo, prima che l’Imperatore lo persuada a giurargli fedeltà.”

“Non se il nuovo conte Savorgnan lo accusa di costringerlo alla fellonia con la sua richiesta di tradire il secolare vassallaggio, che lega il suo casato alla République”, ribatté La Palice, ammirando segretamente l’arguta risposta del nobile friulano, una velenosissima frecciatina alla vanità dell’Imperatore. “Les Allemands potranno anche espugnare Gradisca, tuttavia senza Marano ed Osoppo non saranno mai al sicuro nei loro nuovi territori e l’Empereur non ha mai goduto di buona fama nei territori da lui conquistati. Al che m’ha indotto a reiterare il mio ultimatum ai commissari imperiali, restringendo ad otto giorni la scadenza del rientro delle truppe al di qua della Piave”, aggiunse il maresciallo. “Hanno avuto il loro bottino; è tempo che anche noi perseguiamo i nostri interessi.”

“Una saggia decisione”, convenne il conte.

“Inoltre”, proseguì il maresciallo, “ho predisposto per domani un parziale spostamento del campo, trasferendoci all’Abbazia di Santa Maria di Pero. Da lì spedirò un contingente verso sud, con l’ordine di asportare dai mulini del Sile grano e farina.”

“Non dovrete faticare molto”, l’assicurò Antonio, “la popolazione rurale trevigiana della destra della Piave sta divenendo sempre più ostile alla Repubblica, ritenendola responsabile della perdita dei raccolti e delle distruzioni dei loro paesi. Invano il Podestà e il Provveditore mandano grida, acciocché rientrino a Treviso con le loro scorte: nei granai vi troverete tanto di quel grano, da poterne dare anche ai vostri cavalli!”, scherzò, trascinando nel suo buonumore anche La Palice, che s’appuntò mentalmente quell’informazione.

I due nobili trascorsero il resto della mattinata chiacchierando sulle ultime novità e potenziali strategie d’attacco, finché un servitore non venne a ricordare al conte di un suo impegno su alcune questioni riguardanti la recente vendemmia. Antonio di Collalto si scusò graziosamente con La Palice, augurandogli una pronta guarigione.

“Cosa stai facendo?”, inquisì d’un tratto l’uomo, notando il suo valletto scrivere velocemente e in disparte su di un pezzetto di carta.

Il ragazzo, imperturbabile, allungò il braccio, offrendogli il foglio da leggere. “Ea lista dil bucato da far ancuò, sior conte”, chiarì, sgranando confuso i grandi occhi nocciola. “Poxjo ndar dabasso a darghela a la massera?”

Il conte lo congedò tramite un infastidito svolazzo della mano. Il valletto s’inchinò e corse guardingo in lavanderia, là dove l’aspettava il giovane Vio. Una serva chiuse la porta e si pose a vedetta; le altre impiegarono doppia forza nello sbattere i panni, onde coprire ogni altro rumore sospetto.

Parola d’ordine: sfondare il fronte di Trevixo – v’era scritto su di un secondo biglietto abilmente celato dalla vera lista del bucato, più un veloce riassunto di quanto discusso tra il maresciallo La Palice e Antonio di Collalto.

La giovane spia veneziana lo piegò; toltosi uno stivaletto e sfilato il tallone dalla braga, pose la preziosissima nota sotto la pianta del piede e rindossò l’indumento. “El Gàmbara?”, s’informò.

Il valletto tirò indietro gli occhi, cacciò fuori la lingua e disegnò una finta linea sul collo: spacciato.

Parlando del diavolo, il conte Gianfrancesco di Gambara invero arrancava in un’altra stanza del castello di San Salvatore, il corpo sempre più debole: la cavalcata a Serravalle per il bresciano l’aveva sfinito, rubandogli le ultime energie concessagli dalla malattia. Il suo animo agitato, d’altronde, non favoriva la guarigione, semmai esacerbava quel senso d’ineluttabilità del suo destino così concisamente descrittogli da Fra’ Anselmo. Dapprincipio il nobiluomo aveva pensato ad uno crudele scherzo da parte del benedettino, una rivalsa per tutte le angherie subite dalle truppe franco-imperiali durante la loro occupazione di Nervesa. Invece, negli occhi scuri del monaco non vi aveva letto alcuna malizia né rancore, bensì una distaccata oggettività acquisita dalla sua previa professione di medico e quella attuale d’erborista e fisico del monastero.

State morendo, signor conte – gli aveva ripetuto pazientemente – ed ogni giorno di respiro concessovi, interpretatelo come la volontà di Dio a riconciliarsi con Lui. Meditate sulla vostra vita, sulle vostre parole, opere e omissioni. Invocate pietà laddove avete fallato e pregate per chi avete offeso e danneggiato. Il mondo andrà avanti anche senza di voi; lasciatelo scorrere via e preoccupatevi del destino eterno della vostra anima.

Le ultime parole avevano particolarmente colpito il conte Gianfrancesco, precipitandolo in un profondo stato di prostrazione che neanche le preghiere avevano potuto alleviare. Sicché, sentendosi quella mattina leggermente più in forze, aveva richiesto al suo segretario carta e penna: avrebbe scritto all’amatissima figlia Veronica e poi, alla prima occasione, sarebbe ritornato a Pralboino, là dove aveva intenzione di morire, non a Collalto, non lontano dal suo feudo ancestrale.

Vanitas vanitatum. Tanto affannarsi nelle terrene vicende, tante fatiche, guerre, intrighi, tradimenti e alla fine cosa di quanto guadagnato gli sarebbe rimasto? Cosa si sarebbe portato seco? La sua eredità, qualsiasi essa fosse stata, sarebbe caduta sulle spalle dei suoi figli e di suo fratello Nicolò. Il suo nome? Le future generazioni, indipendentemente dalle azioni o parole del Gambara a sua discolpa, l’avrebbero giudicato. Niente era più in suo controllo, sempre che lo fosse mai stato.

Il bresciano aveva seguito il consiglio di Fra’ Anselmo, sul serio scorrendo e analizzando la sua vita. Davanti al foglio bianco, in cerca delle parole per sua figlia, il conte Gianfrancesco ripensò alla sua prima condotta appena quindicenne, alla sua partecipazione alla Guerra del Sale, alla battaglia di Fornovo, all'assedio di Novara; alla spedizione nel Reame di Napoli per aiutare Re Ferrandino d'Aragona a riconquistare il suo regno dai francesi; rivisse la battaglia di Tai di Cadore e, alas, d’Agnadello, il punto di non ritorno, là dove la voglia di tutelarsi aveva vinto sull’onore.

In passato, Gianfrancesco ammetteva le sue passate intemperanze e acredini tra lui e la Serenissima: si era dovuto pubblicamente scusare per aver accolto a Pralboino i suoi parenti Sanseverino, nemici della Signoria; il suo diverbio e il conseguente schiaffo al podestà di Brescia, sier Andrea Loredan, gli erano equivalsi ad ulteriori grattacapi col Collegio dei Pregadi, fino al suo momentaneo allontanamento dalla città fintanto che il Gambara non avesse avuto l’umiltà di riconciliarsi non soltanto col podestà Loredan, ma anche e soprattutto con alcuni nobili locali, infastiditi dal suo comportamento a loro detta sprezzante. 

Eppure aveva combattuto ad Agnadello, ma la paura di perire in quella carneficina l’aveva persuaso a fuggire dal campo di battaglia assieme ai concittadini Luigi Avogadro e Taddeo della Motella, mitigando la sua sorte da morto stecchito a prigioniero di Galeazzo Sanseverino il quale, memore dell’antica parentela che li aveva uniti, lo aveva liberato dietro pagamento di un riscatto.

Ma quello era stato solo l’inizio dell’incubo, oh, solo l’inizio!

Sua moglie, Alda Pio da Carpi, energica militante del partito ghibellino e antiveneziano di Brescia, suo fratello Nicolò di Gambara e Marco Palatini da Martinengo, l’avevano convinto a lasciar perdere quell’antica alleanza e d’aprire invece immediatamente le trattative coi francesi e così di salvarsi dal naufragio, divenendo ufficialmente capo del partito filo-francese di Brescia. Eppure, contrariamente al loro parere, Gianfrancesco non aveva potuto sopportare di rendersi complice dell’ingiusta prigionia dell’allora podestà, sier Sebastian Zustignan, intercedendo per la sua libertà e per un salvacondotto fino a Venezia.

La nuova alleanza aveva fruttato alla sua famiglia numerosi vantaggi, privilegi e un grande potere a Brescia, almeno in apparenza, giacché il rivale e potente casato filo-veneziano degli Avogadro aveva colto al balzo l’occasione per inasprire i rapporti tra i Gambara, il resto dell’aristocrazia bresciana e la popolazione stessa, in una sottile guerra di faide e spionaggio, forti gli Avogadro dell’appoggio della Serenissima e delle altre famiglie nobiliari, gelose della nuova influenza dei Gambara. Il conte Gianfrancesco s’era inoltre reso ben presto conto di quanto si stesse peggio sotto il nuovo governo, trattati dai loro alleati francesi alla stregua di utili lacchè da sfruttare comodamente, disprezzati e derisi per il loro servilismo.  Di conseguenza, contro l’opinione di moglie e fratello, egli aveva ricontattato la Signoria e tramite il cardinale Francesco Alidosi aveva brigato onde riconsegnare Brescia ai veneziani, rimasto, in fin dei conti, il suo animo prevalentemente marchesco. Niente tuttavia sembrava seguire il processo dei suoi piani, il destino della Serenissima incerto quanto però l’esito della stessa guerra e questo l’aveva bloccato proprio nell’istante in cui la Signoria, per quanto perplessa e sospettosa, gli aveva conceduto un colloquio conclusosi con un nulla di fatto. Il Gambara voleva ritornare all’antico signore, mondarsi dell’infamia che sapeva avrebbe perseguitato perennemente il nome suo e del casato. Per questo motivo aveva ugualmente mantenuto i contatti con Francesco Contarini “dai Scrigni”, onde agevolare quanto possibile la Signoria, nonché di restituire alla sua famiglia il prigioniero di Mercurio Bua a mo’ di prova concreta della sua ritrovata lealtà.

Dio invece aveva disposto altrimenti, cogliendolo in pieno conflitto interiore, se la lealtà verso la famiglia o verso la patria. Come l’avrebbe giudicato, una volta al Suo cospetto? A che cos’era valsa la pena compromettere la sua reputazione? Il suo onore? Aveva salvato nell’immediato la sua casata dal disastro, ma non la sua coscienza. Aveva visto e ammesso il suo peccato più grande, il più disdicevole, ossia quello di mutare talmente spesso fazione da chiedersi il Gambara se il suo fosse un cuore o perverso o demente.

 “Signor conte?”, lo riportò bruscamente alla realtà il suo segretario, interrompendosi nel suo discorso non appena s’accorse della palese distrazione del padrone. “La lettera del cardinale Federico Sanseverino. Cosa gli rispondete?”

Invero, come replicare ad uno scomunicato, talmente ambizioso d’accettare di partecipare al Concilio di Pisa per deporre Papa Giulio II ed eleggere l’antipapa, il cardinale Carvajal?

“Che venga qui a Collalto, se proprio mi deve parlare”, gli comunicò incurante il conte Gianfrancesco, intingendo il pennino nell’inchiostro per incominciare invece la sua personale lettera a Veronica.

 Il mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui, gli aveva detto quel monaco benedettino; dunque, il bresciano si premurò di confortare gli unici che avrebbero faticato per un po’ ad accettare la sua assenza, prima di proseguire il lungo cammino della loro esistenza, relegando il suo ricordo alle preghiere serali o al Dì dei Morti.

 

***

 

“Ea question sta cussì: en la strada dil zimitèro di la Badia, te trovi on muro, el qual gh’ha no sbrego, indove pol passar on om par volta. Innanzitutto, ti procurerò un saio acciocché ti scambino per uno di noi; dopodiché, trasporteremo il puto avvolto in un lenzuolo, come facciamo per muovere i morti via da qui al cimitero. Di decessi ne abbiamo avuti così tanti, che nessun ci baderà più di tanto né si premurerà di far domande”, spiegava sottovoce Fra’ Anselmo il suo piano di fuga ad Hironimo e Thomà, sfruttando la scusa di tingere al patrizio le placche infiammate in gola.

Dominando il riflesso faringeo sia per la manipolazione dei muscoli involontari sia per il gusto atroce della tintura, il giovane Miani bofonchiò in un gutturali gargarismi: “E come la mettiamo col resto degli ammalati e delle guardie?”

“Niente che un ninìn de papaver somniferum non possa risolvere”, ribatté pragmatico il benedettino, cessando la tortura del suo paziente, il quale s’espresse in una serie di comiche smorfie e sputazzi, nauseato al limite dal sapore in bocca lasciatogli.

“Così vi divertite ad avvelenare la gente a destra e a manca? Xé squasi roba da Borja!”

Fra’ Anselmo s’imporporò, ironicamente, proprio d’un bel rosso papavero. “Se possiedi un piano migliore del mio, avanti, esponimelo!”

Hironimo scosse il capo, scusandosi per la battuta di pessimo gusto, la quale in altre circostanze avrebbe o provocato la risata o una frecciatina arguta da parte del monaco. Invece quel giorno l’umore di quest’ultimo trasudava di stizza, colpa la rampognata da parte dell’Abate, il quale aveva preso in disparte Fra’ Anselmo, ma non abbastanza da impedire al veneziano d’ascoltare. In breve, gli si rimproverava d’aver accolto due donne in infermeria - una perfino travestita da uomo! -  incurante di ogni conseguenza, specie se le due erano manifeste ribelli, fuggitive e mancate assassine ed eviratrici dell’altrui virilità.

“La colpa ricade sul soldato, Padre Abate. Poteva applicare il mai disprezzabile principio di castità e rispettare la persona e, probabilmente, il vincolo matrimoniale di quelle poverette.”

“Su questo punto non le biasimo; ciononostante, non dovevate dar loro rifugio nell’Abbazia. La neutralità è l’unica difesa rimastaci, se vogliamo evitare rappresaglie da parte dei soldati francesi.”

“Non potevo certo rimandarle indietro, Padre Abate. Non dopo aver scoperto quale destino le attendeva.”

“Comprendo la vostra crisi di coscienza, però non vi dovevate sbilanciare così apertamente. Voi appartenete ad una comunità e come tale siete responsabile della sua tutela …”

“… ma anche dei miei pazienti e degli sfortunati che m’invocano soccorso!”

“… e dovete obbedienza al vostro Padre Abate.”

Poi il Signore dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. Deus absconditus est, Padre Abate, Dio è nascosto, tra di noi, non siede su di un trono dorato a guardare e basta! Il nostro dovere è d’aiutare il prossimo, la Carità! Cos’è la Fede, a cosa serve pregare tutto il giorno inginocchiati all’altare, fustigarci e indossare cilici se poi quando un nostro fratello in difficoltà ci supplica aiuto, lo scacciamo rimproverandolo: “Vattene da me, peccatore, questo è il tuo giusto castigo!” Con quale coraggio avrei potuto pregare dinanzi all’Eucarestia, dopo aver negato il mio sostegno a due mie sorelle in Cristo, vittime della cattiveria umana? In quale modo, ditemi, avrei potuto considerarmi migliore dei loro aguzzini?”

“Siete sconvolto, Fra’ Anselmo. Per stavolta fingerò di non aver udito le vostre disobbedienti parole. Badate a comportarvi conformemente alla Regola e al volere del vostro Padre Abate.”

Hironimo, origliando quelle parole, aveva avvertito una stretta al cuore, ammirando lo schietto coraggio di Fra’ Anselmo e la sua coerenza morale, virtù assai rara in quei giorni di sfacciato trasformismo. Inoltre, gli avevano riportato alla mente alcuni ricordi d’infanzia, alle visite, quand’era bambino, agli ospedali dei derelitti assieme a sua madre madona Leonora e le sue parenti e amiche, opere caritatevoli da lui abbandonate alla prima occasione, divenutegli infatti una noiosa incombenza rispetto ad altre attività più divertenti e stimolanti, ma al confronto aride e fini a se stesse. S’era ricordato delle parole della genitrice, quando di sua mano assieme alle fantesche impastava ed infornava il pane destinato ai poveri: Il mondo è tanto orfano di carità e amore, Momolin mio.  Quanto poco ci chiede Cristo di fare verso il nostro prossimo, a confronto di quanto Lui ha fatto per noi.

Cosa aveva fatto lui per il suo prossimo, se non sfruttarlo per i propri scopi? Se aveva aiutato qualcuno in difficoltà, era stato soltanto per ottenere un utile debitore nei suoi confronti, oppure perché il suo gesto l’avrebbe distinto dalla massa, esaltando le sue qualità. Da un favore accordato s’aspettava puntualmente un guadagno – do ut des – e quelle poche volte ch’aveva ceduto a quell’oscuro istinto d’essere caritatevole, se n’era o subito vergognato manco avesse commesso un turpe delitto, oppure aveva minimizzato la cosa, presentandolo ai suoi amici come uno scherzo, una stravaganza da parte sua. Il suo prossimo, in verità, l’aveva ignorato bellamente, talvolta biasimato e disprezzato, considerandosi l’unico al centro del mondo, l’unico con delle esigenze, problemi, sogni e speranze.

Come avrebbe reagito, fossero stati i ruoli invertiti, nei panni di Fra’ Anselmo? Avrebbe posto la sua vita in gioco per salvare le due contadine? A Castelnuovo di Quero non s’era arreso per motivi di gloria e onore, per tornaconto personale: avrebbe messo a repentaglio la vita per quelle sconosciute, che nulla avevano da offrirgli in cambio, se non la possibilità di finire impiccato assieme a loro?

“Zò, sveja, indormensà!”, gli schioccò le dita sotto il naso Fra’ Anselmo, scocciato da cotanta distrazione. “Donca, come ti stavo spiegando …”

“Domani mattina all’alba”, lo interruppe Hironimo, massaggiandosi gli occhi d’un tratto brucianti.

“Cosa?”

“La fuga. Domani mattina all’alba.”

“Matto!”, sibilò il monaco, scrutando circospetto dietro di sé. “Sei ancora ammalato! A malapena ti reggi in piedi, figurarsi correre fino a Trevixo?!”

“Posso e voglio!”, replicò testardo il giovane Miani. “Domani una parte delle truppe si sposterà alla Badia del Pero, mentre l’altra cavalcherà a sud, per un attacco. L’intero accampamento sarà pertanto in subbuglio, un’occasione perfetta per scappar via da qua!”

Il benedettino si grattò il mento, in profonda meditazione. Era rischioso, però rinviare all’infinito non poteva ugualmente corrispondere ad un’opzione. Una volta mobilitato il campo, forse lui poteva dichiararsi sollevato dalla penosa convivenza coi franco-imperiali, ma il giovane patrizio? Il bambino? A quale destino sarebbero andati incontro? No, in sua fede, non poteva abbandonarli, né continuare a soffrire la fame e la mala compagnia di quei giannizzeri travestiti da cristiani.

“Sta ben”, gli diede l’uomo una pacca sulla spalla, sennonché la sua mano venne trattenuta da quella d’Hironimo.

“Mi dispiace averti provocato tutte queste rogne per causa mia. Ti sono debitore per l’aiuto offertomi, soprattutto per aver guarito il mio bambino”, lo ringraziò sincero, sorridendogli timidamente. Poi, avvicinandosi all’orecchio del frate, gli sussurrò energico: “Dovesse questa fuga fallire, giurami di portare Thomà a Trevixo, anche a costo di lasciarmi indietro. Compredestu?”

Lo stomaco di Fra’ Anselmo sobbalzò a disagio dinanzi a quell’inflessibile richiesta.

“Comprendestu?!”

“Sì, ho capito. Te lo prometto”, lo rassicurò in fretta il benedettino, scoccando una fugace occhiata all’ignaro Thomà. “Ora, però, per davvero dormi: avrai bisogno domani di tutte le tue forze”, si raccomandò, chiudendo la tendina.

Hironimo s’accoccolò sotto le coperte, i crampi allo stomaco passati, figli del pugno dell’altro giorno da parte di Mercurio Bua, nella speranza che non gli avesse incrinato qualche costola o provocato danni interni. Allungò il braccio per accarezzare la testa bionda di Thomà, il quale si girò con fare interrogativo, la bocca piena di una fetta di pane, cortesia del greco-albanese.

Avesse prestato più attenzione a chi lo circondava, non avrebbe permesso che un bambino di dieci anni e qualche mese militasse in una fortezza così pericolosa quale Castelnuovo di Quero. Avesse Hironimo posseduto abbastanza buonsenso e spirito di osservazione, avrebbe chiesto ad Andrea Trepin di spedire Thomà a Treviso o meglio ancora a Venezia, al sicuro, non in prima fila a combattere contro quei senzadio dei franco-imperiali. Non era quello il suo posto. Invece, tanto era stato assorbito in strategie militari rivelatesi alla fine inutili; dai suoi sogni di gloria miseramente infranti; dai suoi problemi col senno di poi assai stupidi da non accorgersi di nulla.

Pertanto, il Miani doveva questo favore a Thomà, per esser stato un pessimo comandante e una persona cieca ai suoi bisogni. Avrebbe lottato fino all’ultimo respiro per concedergli la possibilità di divenire un uomo migliore rispetto a lui.

 

***

 

Sul porticciolo di Treviso, davanti al bastione di San Polo, s’incrociavano in un intenso viavai burchi, burchielli, zattere, barche, ogni sorta d’imbarcazione disponibile nelle rimesse. I calafati e maestri d’ascia lavoravano alacremente onde riparare quelle danneggiate, spalmandole poi della tenace pece.

Sotto un portico poco distante, il capitano Andrea Vassallo ascoltava attento e ragionava assieme a paron Jacopo Cimavin il Vecchio, a suo figlio Donado e agli altri membri della Corporazione dei Mugnai, i quali sulla cartina della Marca gli stavano indicando con grande precisione ogni mulino sulle rive principalmente del Sile e degli altri fiumi e canali.

Appreso di una prossima incursione finalizzata a rubare la farina macinata per Treviso e la Signoria, il provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso di ritirarla tutta, trasportandola via acqua al sicuro nei magazzini cittadini. Al contempo, avrebbe trasformato i mulini in piccole torri fortificate, acciocché, per ripicca, i franco-imperiali non li distruggessero, sottraendo a Treviso una vitale fonte di sostentamento. Quanto ai contadini sulla destra della Piave, non ricevendo risposta ai suoi inviti se non netti rifiuti, sier Gradenigo aveva deciso infine di lavarsene le mani: che si difendessero pure da soli, se non volevano collaborare.

Sicché, sulle imbarcazioni venivano trasportati anche falconetti, archibugi, balestre, barili di polvere da sparo, mentre il capitano Vitello Vitelli raccoglieva dei cavalleggeri e stradioti acciò il nemico imparasse a saccheggiare altrove.

“Vegnarò anca mi”, concluse Donado Cimavin, sorprendendo suo padre, che infatti sobbalzò alla notizia. “Sior pare”, lo rassicurò prontamente il giovane uomo, “i gh’han besogno de zente forte, che savia el sòo mestier e soratuto che cognossa el Sil. Mi e li altri muneri e sbisai semo abituà a tirar suso staie; ajutando i soldà, ze manedarem (sbrigheremo, ndr.) avanti l’attaco.”

Jacopo il Vecchio non poté negare una certa ansia nel sapere suo figlio invischiato in un’operazione sì rischiosa; ciononostante, avendo vissuto anch’egli avventure pericolose in gioventù, comprendeva l’allettante richiamo al cimento e la voglia di riscattarsi facendosi onore, specie dopo la magra figura di Donado ad Agnadello, la pellaccia sua salvata in extremis. “Badarò mi a Felicita e al bocia” (bambino, ndr.), anticipò la prevedibile raccomandazione di Donado, il quale, appoggiò riconoscente la mano sulla spalla del genitore.

Intanto che il giovane Cimavin radunava i suoi operai e li smistava sulle varie imbarcazioni, Orlando da Bergamo e altri maestri bombardieri aiutavano alcuni fanti a trasportare l’artiglieria leggera e ad imbarcarla.

“Oué, presidente”, fischiò giovale Giorgio da Otranto, attirando l’attenzione del bergamasco, “v’unite alla brigata?”

“Salveregina! Vi pare che manchi alla gita, mastro Zorzi?”, replicò Orlando, scandendo bene le parole acciocché il pugliese comprendesse. “Lì sul campanél si muore di noia, almanco fazz un po’ d’speriènsa ad ammazzare franzosi!”, ridacchiò, grato al provveditore d’avergli concesso d’accompagnare la piccola guarnigione ai mulini, più per sistemare l’artiglieria in maniera efficace e strategica che per combattere, necessitando Gradenigo del suo capo dei bombardieri a Treviso, vivo e illeso. Un’ottima distrazione, altrimenti al bergamasco sarebbe cresciuta la muffa sotto le chiappe a starsene lì inattivo a San Nicolò in compagnia dei piccioni e del campanaro.

Orlando stava giusto terminando di legare l’ultimo falconetto assieme al bombardiere Paolo da Corfù, quando i suoi occhi di falco isolarono, nel concitato viavai di donne sulla riva del fiume, la gonnella che da qualche giorno intrigava la sua curiosità. L’aveva scorta tra le volontarie a servire i pasti e ad aiutare madona Maria Malipiero Gradenigo, trasportando in testa, come in quell’esatto momento, gonfi fagotti di coperte o ceste o secchi d’acqua. Una bella morettina, soda e al contempo pastosa, visetto dolce d’angelo e braccia robuste da rematore. Orlando aveva in progetto di parlarle, peccato che quella non guardasse nessuno in faccia, un’espressione selvatica perennemente dipinta su quel suo visetto vispo, che neppure l’ombra dei lividi e dei graffi avevano scalfito.

Il bergamasco aggrottò la fronte dinanzi ai fischi di alcuni soldati e alle moine d’apprezzamento, sebbene ignorati sdegnosamente dalla ragazza, la quale proseguiva impettita per la sua strada. Il bombardiere balzò giù sul pontile, azzoppando per poco il suo compaesano Zuan Antonio e Thadio da Vicenza, non appena uno dei fanti prese a tallonare la giovane, parlottandole forse nella speranza di persuaderla a fermarsi. Osservati gli scarsi risultati, l’uomo decise allora di ghermirla per una spalla e così costringerla a voltarsi, sennonché, per la somma sorpresa sua e di Orlando, la moretta estrasse rapidissima un coltello, puntandoglielo bellicosa sotto la gola.

“Tocame de novo e te tajo i cojoni e te li fazzo magnar!”, lo minacciò senza tanti giri di parole, fissandolo arcigna.

“Ohi, zentilhomo!”, le venne in soccorso il bergamasco, conoscendo la permalosità dei soldati, che sì potevano all’inizio spaventarsi dinanzi a tale audacia, ma poi, ripresisi, non avrebbero reagito certo galantemente se provocati. Raggiuntili, si portò in mezzo ai due improbabili innamorati. “La s-cèta (ragazza, ndr.) l’è meco, sót la mia protessiù”, mentì il capo dei bombardieri, tranne quando appoggiò allusivamente la mano dietro la schiena, là dove alla cintura teneva il pugnale. “Cavat d’i ballis”, intimò spiccio al soldato che, levando in alto le mani, ammise il suo torto e lasciò il campo libero al bergamasco, credendo il territorio già marcato.

Soddisfatto, Orlando si girò trionfante verso la giovane e magari aspettandosi pure un sorrisone d’estasiata ammirazione, invece quella girava sui tacchi, rimettendosi in testa la cesta e filando via in direzione dell’ospedale.

“Hé-oh! Torna qua indietro: neanche un ringrassiamènt?”, le corse subito dietro il presidente dell’artiglierie, decisamente preso di contropiede da tal atteggiamento burbero. “No set chi so'?”

“On bergamasco che co’l verze ea boca, mi no capisso na maladeta!”, replicò secca la giovane donna, senza neppure degnarlo d’uno sguardo.

Orlando rise a quella che lui accettò come una battuta, riconoscendo la difficoltà di comprensione da parte della ragazza, proveniente di sicuro dalla campagna e poco avvezza a qualsiasi realtà oltre a quella dei suoi campi. “Volevo soltanto un grassie, bela pötela”, ripeté più lentamente e mescolando veneto e bergamasco. In un balzo la sorpassò, aprendole cavallerescamente una defilata porticina di servizio dell’ospedale. “Perché set, ch’a t’è bela, no?”

“Sì, sì, con sta fazza pittufada!”, s’indicò scettica la ragazza i lividi e i graffi, meno gonfi certo, ma comunque visibili. Dopodiché appoggiò la cesta per terra, ponendosi le mani sui fianchi e sistemandosi scocciata lo zendale, affatto impressionata da quella cortesia e quei complimenti. “Co’ on om dise a ‘na puta: quanto te sé bea, a vol dir ch’el vol infilarghele le man tra le cosse (coscie, ndr.)!” e riafferrato il suo fardello, passò oltre lo scioccato Orlando, rimasto comicamente a bocca aperta dinanzi a tal prosaica schiettezza.

“D’accordo, seguirò il tuo consiglio: dimmi il tuo nome!”, si riprese però in fretta, “Così non ti chiamo bela pötela! E per quanto riguarda quelli”, e indicò più serio le ecchimosi al volto, “passano in fretta e ne ho collezionati anche io, dappertutto.”

La moretta esitò, arricciando pensosa la bocca e valutando da capo a piedi la figura del bombardiere, in paziente attesa sullo stipite d’ingresso, sporto in avanti. Sì, il suo atteggiamento da galletto tradiva la tipica tracotanza dovuta al suo rango di presidente delle artiglierie, tuttavia il bergamasco possedeva una faccia da buono che la rassicurava. Inoltre, fattore non trascurabile, si presentava generalmente un bell’omo. “Anzola di Bapi”, gli concesse, entrando tuttavia svelta dentro il cortile interno dell’ospedale. “Zanze.”

“Zanze”, assaporò quasi il bergamasco il nome, memorizzandolo bene. “Zanze, tesoro, ‘scoltami: co’ torno, possiamo ciacular, tu ed io?”, le propose galante, indeciso però s’accarezzarle o meno il braccio. Quand’ecco, che s’accorse di alcune macchioline rosse sul selciato. “Ti sè fag’mal?”, esclamò preoccupato.

La contadina sobbalzò all’indietro, fissando sbalordita per terra; dopodiché s’alzò di qualche spanna la sottana, strabuzzando gli occhi alla vista di un rivoletto di sangue scenderle dalla gamba fino al tallone.

“No! No vojo ciacolar teco!”, rifiutò imbarazza Zanze la richiesta del bergamasco, anguillando via lesta e sbattendogli poco cerimoniosamente la porta in faccia. Per poco mancò di spaccargli il naso, che comunque il capo bombardiere si massaggiò, deluso da quel due di bastoni ricevuto. Ecco però che la porta si riaprì e la testa scura di Zanze riapparve. “Forse”, si corresse, rientrando dentro tanto rapidamente quant’era comparsa. “Tra sinque zorni: cussì la sarò ancor pì bela per ti, senza macature!” e fu la terza ed ultima correzione.

Un sorrisone da gatto pasciuto illuminò il volto d’Orlando, felice dell’incoraggiante esito di quell’incontro; corse rapido al porticciolo e lavorò più di tre uomini messi insieme, avendo ora infatti un ottimo motivo per terminare quanto prima la missione dei mulini sul Sile.

 

***

 

Fra’ Anselmo deambulava in punta dei piedi lungo l’intero perimetro dell’infermeria, i nervi a fior di pelle, levando la bugia sui volti dei suoi pazienti e sospirando sollevato ogniqualvolta li trovava rilassati, le membra docili sotto il giogo del succo di papavero mischiato al loro mosto serale. Anche i due assistenti dormivano contro il muro, uno appoggiato all’altro, mentre il suo confratello s’era recato alle Lodi, il suo turno finito. L’ampio salone giaceva in assoluto silenzio, l’eco del gran trambusto dovuto al parziale smantellamento del campo un lontano ricordo. Fuori il cielo s’andava gradualmente a schiarire, preparando la terra all’alba.

L’ora dei ladri e dei fuggitivi.

Guardandosi incessantemente alle spalle, il benedettino si recò al letto d’Hironimo, appoggiandogli lievemente la mano sulla spalla e destandolo. Il giovane patrizio non manifestava una cera migliore del giorno addietro né ad esso precedenti, sicché il monaco l’aveva lasciato dormire fino all’ultimo, sobbarcandosi lui e Thomà dei preparativi. Il fantolino, agile e scaltro, non aveva avuto alcuna difficoltà a reperire dalla lavanderia un saio per il suo padrone (anzi conosceva sospettosamente anche fin troppo bene la strada) e per sé una casacca, un paio di braghe e scarpe destinate agli oblati. Dalle ceste accanto al forno del monastero egli aveva in aggiunta rubato una grossa pagnotta di pane e riempito di mosto una borraccia in cuoio, non potendo calcolare nell’esattezza la durata di quella loro fuga. Se tutto fosse andato per il meglio, aveva ipotizzato Fra’ Anselmo, in giornata sarebbero giunti a Treviso, specie in caso si fossero imbattuti negli esploratori veneziani. Altrimenti, l’indomani.

Hironimo sussultò, guardandosi confusamente attorno, la testa dolorante dalle ormai famigliari fitte. Ricacciò indietro la nausea e si stropicciò gli occhi, obbligandosi a regolarizzare il respiro, deglutendo in continuazione dell’acida saliva. Accanto a lui, Fra’ Anselmo lo scrutava attento, i muscoli del viso contratti dall’ansia e dalla pressione.

“Stetu ben?”, s’informò in un sussurro.

Il giovane Miani annuì, pur ansimando, avvertendo sulle guance un bizzarro connubio di caldo e freddo. Si massaggiò il collo irrigidito, roteandolo onde scrocchiarne e scioglierne in muscoli, peggiorando al contrario la situazione, acuiti infatti gli spasimi alle tempie.

“Demo, donca”, l’incoraggiò il monaco, gettandogli sul letto un fagotto ben stretto – saio, scapolare e sandali. Dopo quasi un mese trascorso indossando la sola camicia, al veneziano pareva quasi strano il contatto d’altro tessuto sulla pelle e una piacevole sensazione di calore l’avvolse, specie le gambe perennemente infreddolite. “Bevi”, non si scordò certo il frate del suo decotto, che il patrizio ingollò in un sol sorso tra grandi smorfie, tappandosi il naso.

Thomà, nel frattanto, aveva sistemato uno spesso telo in mezzo alla stanza, avvolgendosi poi in un secondo lenzuolo. Un po’ titubante, si stese per terra e incrociò le braccia al petto, non senza aver dato una furtiva grattatina sotto l’inguine.

“Ma cossa fastu, porzeo?”, lo rimbeccò Fra’ Anselmo, raggiungendolo assieme ad Hironimo, travestitosi alla perfezione e già col cappuccio calato in testa.

“Contr’ea scarògna!” (sfortuna, ndr.), si giustificò impunito il fantolino, scrollando le spallucce manco il suo si trattasse dell’atteggiamento più naturale del mondo. “Mi fazzo el morto, ma no ghe vojo mica serlo per dasseno, zò!”

Il monaco scosse il capo, borbottando un pagan! rivolto al bambino; lui ed Hironimo si piegarono uno di fronte all’altro e pigliate l’estremità del telo, lo sollevarono e lo chiusero come se volessero piegarlo, dirigendosi lentamente verso l’uscita dell’infermeria, il cuore in gola e il sangue fischiante nelle orecchie.

“Dove andate?”, vennero immediatamente bloccati dai due stradioti posti di guardia.

Ineffabile, Fra’ Anselmo rispose loro, acciocché l’attenzione fosse rivolta totalmente su di sé: “A seppellirlo: la cancrena se l’è portato via, i suoi umori puzzano da nauseare!” e si sventolò enfaticamente sotto il naso. Potere della suggestione, anche i due mercenari credettero annusare tale lezzo, facendo rapido cenno ai due monaci di proseguire verso il camposanto, abituati oramai all’andirivieni di cadaveri dall’infermeria.

Il benedettino ne approfittò per accelerare il passo, non giudicando sicuro sprecare un solo istante: le Lodi non sarebbero durate in eterno e un conto era ingannare qualche soldato ignorante o ingenuo confratello, un conto un’intera congregazione. O peggio ancora, d’incrociare in corridoio o nel chiostro Mercurio Bua, il quale non mancava occasione di venir spessissimo a controllare il suo prigioniero, non appena si ricavava qualche ora buca tra un impegno e l’altro. Fortunatamente il suo complice aveva afferrato al volo questa sua fretta, camminando anche lui speditamente finché imbroccarono l’agognato sentiero verso il cimitero, liberi infine dal labirinto interno dell’Abbazia. 

“Ecco, ecco!”, virò Fra’ Anselmo verso un angolo piuttosto defilato del muro perimetrale, seminascosto dalle edere rampicanti, dagli irti cespugli e qualche ramo degli alti alberi al di là della recinzione. Appoggiato il cargo per terra, il monaco scostò via la verzura, tirando e rompendo alcuni rami piuttosto ostinati, finché non comparve in mezzo al biancore delle pietre una piccola breccia, a malapena sufficiente per un uomo d’infilarsi dentro una spalla alla volta. “Dove vastu?”, sibilò agitato ad Hironimo, il quale, aiutato Thomà a srotolarsi dai lenzuoli, era corso alla fossa comune a cielo aperto, dove gettò i teli, ricoprendoli con numerosi strati della calce lì disponibile.

“Per non lasciare una traccia ai cani”, fu la concisa spiegazione del veneziano e il monaco si batté la mano sulla fronte, avendo scordato quel dettaglio malgrado avessero, nel forno comune, bruciato ogni oggetto venuto a contatto coi due prigionieri e il benedettino stesso aveva ripulito e passato sui suoi strumenti, scrivania e sedia un liquido particolarmente urticante alle sensibili nari dei cani.

Thomà scivolò tranquillamente per primo attraverso lo stretto varco, atterrando in basso il dislivello della collinetta in un sordo tonfo fangoso, unito al fruscio delle foglie secche. Fra’ Anselmo, invece, dovette trattenere il fiato e stringere gli addominali, incontrando un fiero attrito tra pancia e pietre che soltanto una decisa spinta da parte d’Hironimo lo disincastrò, permettendogli di passare oltre. Venne infine il turno del patrizio, il quale ricoprì il passaggio segreto alla bell’e meglio con edere e rami, per poi rotolare giù dove l’attendevano il monaco e il bambino, altrettanto infangati.

“Tutto ben?”

Hironimo fece cenno di sì, mascherando al contrario una smorfia di dolore non appena appoggiò il piede previamente slogato per terra; issandosi su, esso aumentò, non realizzando d’aver battuto anche il ginocchio. “Tutto ben”, rispose e i tre in un sol uomo presero a correre lungo un sentiero scosceso del bosco, verso la sua parte più interna e buia, là dove cresceva il sottobosco e dove i cavalli avrebbero faticato ad inseguirli.

Essendo piovuto in gran abbondanza, il terreno rossastro creava uno strato molle in cui i loro piedi affondavano, insinuandosi il fango tra i sandali del monaco e del veneziano, il quale teneva sollevato il saio, non avvezzo a correre sì intralciato da cottole. I rametti talvolta spinosi dei cespugli li ferivano, stracciando pezzi di tessuto;  le punte delle ortiche li pizzicavano arrossando quello sfortunato lembo di pelle cui erano venute a contatto.

Un retrogusto ferroso iniziò a riempire la bocca d’Hironimo, il petto stretto e in affanno dal crescente debito d’ossigeno. In altre circostanze, correre a perdifiato su qualsiasi sentiero non l’avrebbe certo stancato così presto; la malattia e un mese d’inattività forzata s’erano congiunte in uno scellerato patto, rallentandolo ad ogni falcata. Più volte dovette appoggiarsi ad un albero, ansimando in cerca d’un’aria sempre più difficile da respirare, la milza in fiamme che lo malediva. Il sudore gli rigava il volto e sapeva bene quanto non fosse figlio dello sforzo; infatti si sentiva bruciare da dentro e gelava al contempo, la vista appannata da macchie nere e gialle, quando ovviamente non gli deformava ogni contorno davanti a sé.

Strinse i denti, rifiutandosi di cedere proprio in quel momento, di compromettere la fuga con la sua debolezza e soprattutto di mettere a repentaglio la vita dei suoi complici. Hironimo ignorò la rigidità dei muscoli, la morsa alla milza e ai polmoni; avanti, avanti, soltanto una volta giunto a Treviso si sarebbe lasciato stramazzare al suolo.

Un acuto gridolino spaventò lui e Fra’ Anselmo: Thomà, che li correva straordinariamente avanti, era sprofondato in apparenza nel sottobosco, neanche la terra l’avesse inghiottito. Hironimo si portò rapidissimo sul posto, temendo il fantolino ferito o peggio.

Tirò un sospiro di sollievo.“Ahia-ahia-ahia!”, si massaggiava il sedere il bambino, non avendo notato la discesa a picco ben camuffata dalla verzura e rotolato quindi ai piedi della collinetta. “Patron?”, inquisì perplesso Thomà, notando l’improvviso colorito cinereo sul volto del patrizio.

Un brivido dolorosissimo colse il decenne, nel captare dietro di sé lo schiocco di una balestra a leva appena caricata.

 

A onor del vero, Mercurio Bua non era molto entusiasta all’idea di quella cavalcata a saccheggiare i mulini sul Sile: tale operazione l’avrebbe allontanato per l’intera giornata dall’Abbazia, se non di più se doveva dare adito ai piani di La Palice che bisognava spingersi fin quasi a Musestre e figurarsi se il greco-albanese avesse poi voglia di pernottare al ritorno nell’Abbazia di Santa Maria di Pero. Il suo prigioniero sicuramente non versava nelle migliori condizioni di salute per cimentarsi in futili imprese e il monastero pullulava di soldati, nondimeno la prudenza non era mai troppa, il tradimento serpeggiante in ogni corridoio e lui non voleva rischiare brutte sorprese. Il Gambara, primo nella sua personale lista dei sospettati, poteva anche languire fuori gioco nel Castello di San Salvatore, ma ciò non escludeva eventuali complici, specie nella sua compagnia.

Di conseguenza, il capitano di ventura aveva discusso l’affare con Leka Busicchio, chiedendogli di sostituirlo; lui poi si sarebbe inventato una scusa da rifilare a La Palice. Inoltre, che il suo collega rimanesse rassicurato, il Bua gli cedeva volentieri il comando di parte dei suoi stradioti, Zilio Madalo compreso. Busicchio aveva accettato di buon grado, non approvando però comprendendo la circospezione dell’altro capitano.

Mercurio s’era quindi appena congedato da Leka, quando si diresse verso l’infermeria, trovandola stranamente in subbuglio: il solito benedettino – com’accidenti si chiamava? Fra’ Guglielmo? Fra’ Antonio? – mancava dalla sua scrivania o accanto ai letti degli ammalati, rimanendo solo il suo confratello e gli assistenti, quest’ultimi indossanti in viso un’espressione assai intontita non dissimile da quella d’un ubriaco. L’altro monaco stava spiegando qualcosa all’Abate, dalla sua faccia sgomenta sicuramente grave e di fatti trasalì terrorizzato alla vista del Bua, il quale gli si piazzò imperioso davanti.

“Cos’è successo?”, domandò, leggermente inquieto da quella bizzarra scenetta. I pazienti ricoverati in infermeria gli apparivano stranamente quieti, così come l’intero ambiente troppo in ordine, conferendogli un non so che d’abbandonato, alternandosi nell’aria un odore pungente e uno di tessuto bruciato proveniente dal forno, a malapena mitigato dalle finestre aperte per far circolare via tal fastidioso lezzo.

“Un … un nostro frate, Fra’ Anselmo, parrebbe essere fuggito …”, gli spiegò vago l’Abate, evitando di guardare il condottiero dritto negli occhi, “a quanto pare s’è servito assai scaltramente delle sue erbe, per addormentare …”, ma non riuscì a terminare il discorso, essendo Mercurio volato verso il letto d’Hironimo, scostando veemente le tendine, il cuore martellante in petto e presagendo il peggiore dei suoi timori.

Vuoto. 

Il materasso nudo ai suoi occhi – senza lenzuolo, senza federa il cuscino, senza il suo prigioniero – lo derideva inclemente, schiaffandogli in faccia il suo fallimento e stupidità per aver arrogantemente creduto quel dannato veneziano incapace di reagire, sconfitto e soggiogato. Alla stregua di una vipera, gli aveva sputato il suo veleno per poi scivolargli via agile tra le dita e per di più – massimo scorno! – s’era portato seco il suo preziosissimo nanerottolo, sottraendo così al Bua l’unica arma di ricatto in suo possesso, rompendo l’accerchiamento cui era stato costretto.

Si fosse trattato dell’altrui ostaggio, Mercurio si sarebbe complimentato in cuor suo per l’astuzia del patrizio e biasimato la cecità del suo guardiano; siccome però il gabbato era lui, un’ondata di rabbia mista a vergogna per la sua stoltezza gli provocò violenti spasimi, costringendolo a digrignare i denti quasi a spaccarsi mascella e mandibola, le nocche che potevano squarciare i guanti di cuoio da quanto stringeva i pugni. Come aveva potuto lasciarsi ingannare da quel teatrino? Come aveva potuto peccare di tale stupida ingenuità? La mansuetudine, l’arrendevolezza, perfino la fottuta malattia, tutta una manfrina, un abile piano atto a fargli abbassare la guardia e piantargli il simbolico pugnale tra le scapole. Perché? Perché proprio adesso doveva fuggire? Quale figura ci avrebbe fatto con lo zio di quel maledetto, con l’intera Signoria? Esigere presuntuosamente uno scambio, quando in realtà non possedeva ora nulla da cedere? Quei vecchi volponi in Senato gli avrebbero riso in faccia, non pigliandolo in futuro mai più sul serio! Un buffone, un millantatore, un miles gloriosus, ecco a quale considerazione l’avrebbero relegato! E Caterina? Cos’avrebbe pensato di lui, della sua debacle? Del modo da scolaretto in cui s’era fatto abbindolare? Quando l’avrebbe potuta riabbracciare? Quando sarebbe riuscito a catturare nuovamente qualcuno di sì gran rango per giustificare lo scambio?

A Mercurio sorse una gran voglia d’urlare, di stracciare a morsi il materasso, di spaccare a pugni il letto e d’infilzare, uno alla volta, tutti i presenti in infermeria, complici forse ignari ma non per questo ai suoi occhi meno colpevoli. Invece, una strana atarassia l’avvolse, una lucidità imparata in sedici anni di servizio militare. Alla fine della fiera, anche quella era una guerra: il veneziano aveva fatto la sua mossa, ora spettava al Bua reagire di conseguenza.

In predatorio silenzio uscì dalla sala, pigliando i suoi due stradioti per la gola e sbattendoli contemporaneamente contro il muro, li intimò di raccontargli dettagliatamente quanto visto e udito quella fatidica mattina. Dunque i due fuggitivi avevano finto di seppellire qualcuno – il moccioso, indubbio – e costì sgattaiolare fuori? Perfetto, quindi dovevano essersi recati al camposanto. Ma da lì com’erano usciti? I furbastri avevano bruciato o ripulito qualsiasi oggetto toccato, impedendo ai cani di fiutare una traccia. Come localizzarli nel bosco? A meno che …

“Voi due sellate i cavalli e seguitimi”, ringhiò Mercurio ai suoi negligenti sottoposti, i quali si massaggiavano il collo scuritosi di ecchimosi. “E pregate Agios Georgios che riesca a catturare almeno il veneziano, altrimenti v’impiccherò al primo albero disponibile!”, che in un bosco significava immediatamente.

E mentre i due stradioti correvano via in direzione della stalla, il Bua ritornò alla sua cella, rovesciando collerico il cassone contenente la sua roba. Rovistò disordinatamente, lanciando di qua e di là capi d’abbigliamento e chincaglierie, calciò qualsiasi cosa lo ingamberasse e imprecò nel non reperire subito ciò che stava cercando.

Fischiò vittorioso nel trovare, ben nascosto in fondo all’ultimo cassone, il farsetto ch’aveva sottratto, il giorno della cattura, al veneziano, quando l’aveva spogliato dell’armatura e di ogni altra sua possessione. Un capo d’abbigliamento d’un bel rosso accesso, d’eccellente e robusta lana inglese follata in modo da rendere il tessuto impermeabile all’acqua e al sudore. Conoscitore della qualità, Mercurio se n’era appropriato allo scopo di disfarlo e di ricucirselo addosso, adattandolo alla sua taglia. Grazie a Dio aveva posticipato tale decisione, giacché, se fortunato, l’odore del fuggitivo poteva aver indugiato nell’indumento.

Il condottiero corse in cortile, portando il farsetto ai cani e mordendosi in ansiosa attesa all’interno della guancia dinanzi alla confusione degli animali, i quali sniffavano esagitati ma al contempo confusi, girando in cerchi, annusando, scodinzolando per ripetere in seguito tale operazione. Quand’ecco, che i loro corpi muscolosi e snelli s’irrigidirono, la coda fendette con maggior vigore l’aria e un lungo ululato riecheggiò nel monastero, intanto che i cani partivano entusiasti all’inseguimento, la traccia localizzata.

L’unico inghippo rimaneva che Mercurio non poteva transitare a cavallo lungo la fessura nel muro perimetrale del camposanto – disgraziato lui che non aveva controllato a sufficienza ogni pertugio in quella stramaledetta Abbazia! – sicché dovette frenare l’esuberanza dei suoi cani e reindirizzarli lungo il sentiero, soltanto dopo aver girato attorno al monastero per una via più agevole agli zoccoli della sua cavalcatura.

Il greco-albanese, affiancato dai suoi due stradioti, batté quindi furiosamente gli speroni contro i fianchi del suo turcomanno, il quale guizzò in possente galoppo e i suoi sbuffi per l’inaspettato sforzo si mescolarono al tintinnare delle catene, con le quali Mercurio aveva intenzione di legare la sua ribelle preda.

 

Il balestriere dinanzi ai tre impietriti fuggiaschi rimase altrettanto immobile, reclinando il capo interdetto. Lentamente, dalla boscaglia apparvero e gli si affiancarono altri due uomini armati di picche, i cui abiti grezzi e le pellicce pezzate tradivano la loro rusticità ed esclusione da uno specifico esercito. Il che rassicurò Hironimo, rilassatosi, pur avanzando a mani in alto e a passo deciso verso il soldato alle spalle di Thomà, malgrado i preoccupati richiami di Fra’ Anselmo.

“Semo zente in fede di Sen Marcho!”, dichiarò a voce ben alta, scandendo ciascuna parola e mantenendo un solido contatto visivo col balestriere, il quale, malfidente, replicò aspro, il dito accarezzante la molla per far scattare la freccia:

“Provalo!”

Il giovane Miani guadagnò ancora qualche passo, portando il tiro su di sé così da permettere al bambino di scivolare dietro la sua schiena. “In due parole mi sbrigo: sono Hironimo Miani, figlio del fu magnifico senatore Anzolo Miani di Sen Vidal, castellano di Castel Novo di Quer; costui”, ed indicò col capo il fantolino dietro di lui, “è Thomà figlio del fu Vetor, falegname di Feltre, e assistente del fu bombardiere Andrea Trepin da Cividal di Belluno. Quest’ultimo invece si chiama Fra’ Anselmo dalla Badia di Sen Stae, medico ed erborista. E tu”, aggiunse all’ultimo, piazzandosi ad una risibile distanza dal soldato. “Tu sei Cabriel Jermin, fio del fu Piero e fradelo dil Bastian Jermin, morti virilmente a Castel Novo!”

O quel frate – o presunto tale – apparteneva alla miglior categoria di spie mai esistite sulla faccia della terra, oppure egli affermava il vero sulla sua identità. In ogni modo, Cabriel abbassò ciondoloni la balestra, la bocca aperta dallo stupore e la contentezza di rivedere il suo ex-comandante vivo e in un sol pezzo.

“Sior castelan! … Lustrissimo! … La perdonança, mi … mi no savevo … no …”, balbettò in affanno il balestriere, arrossendo quasi quanto una matura fragola selvatica. “Mi ve credea prexom dil Bua … Ve seu vestito frate?”, domandò confuso, strabuzzando comicamente gli occhi.

“Rilassati, hai fatto soltanto il tuo dovere, anzi, nei tuoi panni mi sarei comportato esattamente come te. Quanto al saio, fa parte del piano di fuga, figurarse se io mi vesto frate, prete, cardinale!”, lo rassicurò Hironimo, afferrandogli il braccio a mo’ di saluto fino al gomito. “Però adesso dimmi: cosa ci fai qua? Quali nuove da Trevixo?”

“Trevixo xè tanto fortifichato che s’il fosse do exerciti chome quello de’ inimici no xè da dubitar: sarà la pì brava forteza de tutta Italia!”, iniziò Cabriel a rispondere l’ultima domanda, onde rasserenare il suo superiore circa la preparazione della città dinanzi alla costante minaccia d’assedio. “Prima, ve confesso, non valea gnente e c’on lanzon si haria potuto saltar le mura, ma horra a xé stà slargate cuatro volte pì, dal pe’ dil fosso fin suso con do man di lote tirade per linea, chome fosse un muro, che mai fo visto sì ben lavorato e tuto con frasche e teren, de quello cavano, e xé molto mejo di repari di Padoa. Tutti li fossi xéi desfati, e parte di cavalieri, per slargar i fossi, se gh’ha convenuto a tajar. Xé stà ruinà tante caxe e giese, gerano fino su li fossi, e tutavia si disfa, che xé ‘na compassion, e potrà andar parechij cavalli a par. In summa, sta terra no xé da robar e manco di ser tolta per forza. El provedador sier Zuam Paulo Gradenigo vol mandar Zigante Corso a la Mota per tegnirla e sier Zuam Vituri, horra provedador di la Patria, al castello di domino Hironimo Savorgnan, per far tremar i todeschi e quei lochi rebelli a la Signoria. ”

I tre fuggitivi si scambiarono dei sorrisi pieni di sollievo, rispecchiati da quelli di Cabriel e dei suoi due compari. “Par mi, sun qua per tegnir en osservation el campo”, proseguì il balestriere nel suo racconto, dirigendoli intanto verso un anfratto ben nascosto all’interno di una collinetta, là dove potevano discorrere indisturbati e al riparo da occhi indiscreti. “Da Colalto ghemo inteso chome ancuò la Peliza feve spostar parte dil campo a la Badia dil Pero, pì atachar, per sachizar, i molini sul Sil che masenano per Trevixo e Veniexia. Sti do”, ed indicò i suoi compagni, “xéi villani scampolai dil massacro. Di solito mi sto qua a tegnir stimulati i franzosi, perhò ancuò i xéi ussiti con arme et artellaria e nuialtri non ghemo possibilità di scaramuzzar sì desvantajai.”

“Donca ve ne tornerete a Trevixo?”

“Ancuò sì. Depo’, s’avedarà. Sti valenti homeni no gh’aleli alcun scopo qui, mejo ch’i ajuden a custodir la città”, chiarì Cabriel la situazione ad Hironimo. Lo scontro e il conseguente massacro di parte dei contadini ribelli sul Montello aveva sortito l’effetto prefissatosi da Mercurio Bua: molti dei superstiti s’erano rintanati negli angoli più inaccessibili del bosco e da lì più non volevano uscire, sordi ad ogni richiamo; altri, quelli invece rimasti nelle campagne della bassa, si rifiutavano d’obbedire alle ordinanze del Podestà e del Provveditore che li comandavano di riparare a Treviso coi loro carri e bestiame, preferendo o morire a guardia delle loro proprietà oppure cederle senza combattere al nemico, piuttosto d’abbandonarle definitivamente.

“Puoah!”, commentò disgustato Thomà a fine discorso, avendo ascoltato tutto attentamente dietro il suo padrone. “Ghe xé chi xé nato libero e chi s-ciavo!” e sia Hironimo, Fra’ Anselmo sia Cabriel rimasero stupiti dalla saggezza contenuta in quelle parole pronunciate da un decenne.

“Cabriel”, ruppe il silenzio il giovane Miani, sorgendogli all’improvviso un dubbio. “Stamane, hai per caso scorto il Bua tra gli stradioti?”

Il ragazzo strinse gli occhi e aggrottò la fronte, sforzando intensamente la sua memoria visiva e scorrendo ciascuna faccia individuata a capo delle colonne di soldati. “No”, schioccò infine la lingua, “nol gh’ho visto. E manco tra li cavali lizieri e stratioti alla volta di molini. Ghe gera el sòo compare, Leka Busichio, ma no el Bua.”

Una coltellata dritta allo stomaco gli avrebbe doluto di meno, rispetto ai crampi generati al Miani nell’apprendere quella notizia. Merda, merda e ancora merda! Aveva deciso di fuggire proprio quella mattina, confidando nella presenza di Mercurio Bua alla spedizione a sud, ai mulini, la quale l’avrebbe allontanato dall’Abbazia almeno per l’intera giornata, concedendogli così un notevole vantaggio di tempo. La gola gli si serrò dal panico e le sue mani presero impercettibilmente a tremare, terrorizzato all’idea di cosa quel satanasso avrebbe potuto fare, in caso li avessero catturati. Il patrizio spiò di sottecchi Thomà, che lo ricambiava altrettanto ansioso e così anche Fra’ Anselmo.

Se invero Mercurio Bua era rimasto a Nervesa, sarebbe dunque stata questione di qualche ora prima di scoprire l’inganno e partire alla loro ricerca. Lui e Fra’ Anselmo avevano eliminato ogni possibile traccia per i cani, tuttavia non si poteva escludere che il condottiero avesse conservato un oggetto appartenuto ad Hironimo, vanificando ogni loro scrupoloso accorgimento. E conoscendo la bestiale tenacia dell’uomo, il veneziano non dubitava che li avrebbe scovati.

Calma! Calmati! Ancora non ci ha raggiunti, possiamo uscirne vincitori!, si massaggiò il giovane in maniera circolare lo stomaco, respirando a profonde boccate d’aria onde riequilibrare il suo spirito sconvolto e riacquistare la freddezza necessaria per la contromossa.

“Sior castelano?”

“Dove avete lasciato i cavalli?”

“Do o tre milia pì en basso de qua, col resto di la mia compagnia.”

Hironimo congiunse le mani sotto il mento, calcolando mentalmente i tempi e la velocità con la quale potevano ricongiungersi al resto degli esploratori veneziani. Non era una distanza impossibile, ciononostante considerò il suo precario stato di salute e il gonfiore alla caviglia e al ginocchio;, nonché l’età non molto fresca del benedettino e le gambette corte di Thomà. Troppo rischioso azzardarsi a viaggiare uniti. “C’è un’altra uscita dal bosco del Montelo?”

Cabriel, solerte, gliel’indicò, in direzione più a sud rispetto al loro nascondiglio. “M’a xé pì longa”, l’avvertì, non comprendendo il ragionamento del conterraneo.

“Tu, i tuoi uomini e i miei compagni percorrerete la vostra solita via. Io prenderò quest’altra.”

“No!”, esclamò veemente Thomà, afferrando al volo l’intenzione d’Hironimo e abbracciandolo stretto, quasi ad impedirgli fisicamente di separarsi da lui. “No me lassé solo, patron! M’avé zurà de senpre starme meco! Nol podé farlo, nol podé! Se quel cancaro dil Bua ve copasse, cossa fassjo?”

Afferrandogli i piccoli e magri polsi, il Miani si staccò bruscamente di dosso il fantolino, allontanandolo da sé. “Thomà”, l’apostrofò sì duramente, che il pargolo trasalì, non più abituato a quel tono autoritario. “Sono il tuo comandante e mi devi obbedienza. Compredestu?”

Il labbro inferiore di Thomà incominciò a tremare violentemente, i suoi occhi velati da grasse lacrime. Deglutì un forte singhiozzo, asciugandosi via il pianto a stento trattenuto, il suo cuoricino straziato di nuovo dal medesimo dolore provato all’epoca dell’uccisione della sua intera famiglia.

“Ci separeremo solo per qualche tempo”, lo consolò Hironimo, afferrandogli il mento ad invito a guardarlo. “E ti prometto che ci ricongiungeremo tutti a Trevixo!”

“Dasseno?”, pigolò affranto il fantolino. “Me lo zurate-vuj?”

“Lo giuro. Adesso smettila di piangere: non sei il mio ometto coraggioso?”, l’abbracciò forte Miani, ricambiato con altrettanta intensità dal piccolo, il quale gli artigliava i capelli e il saio neanche desiderasse fondersi in un unico corpo. Il suo istinto di fanciullo, così simile a quella animale, aveva fiutato un che di mortifero e definitivo in quel congedo e la sua animuccia agonizzava all’idea di rinunciare a quell’ultimo appiglio di famiglia rimastogli. Allo stesso tempo la sua fiducia nel patrizio rimaneva talmente salda da credergli in tutto, anche di riuscire, come il biblico Giosuè, a fermare il sole in cielo per favorirli nella fuga.

“Ve vojo tanto ben, sior pare”, gli sussurrò Thomà all’orecchio quelle tenere parole, che avrebbe tanto voluto pronunciare più spesso al suo vero padre, privato però dalla guerra di ogni futura possibilità. Sicché, incerto di un futuro troppo mutevole da prevedere, compì quell’atto d’amore verso chi come un padre s’era comportato nei suoi confronti, verso chi l’aveva difeso contro ogni incognita, senza guadagno personale, assumendosi volontariamente un ruolo cui nessuno l’aveva obbligato.

Hironimo non rispose, stordito dal peso di sì grande privilegio e stima, non sussistendo al mondo fiducia più grande di quella che un bambino ripone in un adulto, il più indifeso e innocente degli affetti. Gli baciò la fronte e finse di sputargli in testa a mo’ di buon augurio, riponendosi in piedi e cedendo Thomà alla custodia di Cabriel. “Bada”, l’ammonì energico, “sto puto xé el cargo pì pretioso che te dago. Se gli accade qualcossa, mi te cato, te ciapo, te copo e l’inferno te parrà el Paradiso! Pulito?”

Il povero Cabriel annuì velocemente, pigliando protettivamente per mano l’infelice e rassegnato fanciullo e lo invitò silenzioso ad incamminarsi assieme a lui.

“Sarai anche un turco”, indugiò un ultimo istante Fra’ Anselmo, sistemandoglisi di fronte, “ma allo stesso tempo sei un valent’omo e d’onore”, gli confidò impressionato, posandogli la mano sulla testa. D’istinto Hironimo tentò di scostarsi – quando mai gli aveva richiesto una benedizione? – sennonché desistette, la pressione del monaco troppo forte. Provò uno strano brivido, unito ad un’improvvisa voglia di piangere, quando il pollice del benedettino gli segnò una croce sulla fronte. “Scoltame ben, razza de testòn: più di ogni peccato, Missier Domeneddio si ricorda d’ogni buona azione.”

“In tutta la mia vita, non ho mai fatto nulla di buono”, fu il massimo di confessione che il giovane Miani gli concesse, il petto stretto da quell’improvvisa afflizione. “Ho rifiutato Dio quindici anni fa, a questo punto sicuramente Egli si sarà dimenticato di me. Perché dovrebbe oggi incominciare ad ascoltarmi? Invece”, interruppe egli sul nascere la contro-argomentazione di Fra’ Anselmo, premendogli altro in quel pochissimo tempo rimastogli a disposizione, “per favore, porta quest’ambasciata a mio fratello Marco: digli, che mi dispiace tantissimo per ogni torto, ogni villania, ogni litigio. Digli, che mi dispiace d’essere stato così crudele ed ingiusto con lui. Digli che l’amo, lui e tutta la nostra famiglia. Digli che sto bene.”

Il monaco gli strinse la mano, accettando silente l’incarico, avvertendo un famigliare groppo in gola. Dopodiché si congedò dal patrizio, seguendo rapido il gruppetto fino a sparire nella fitta vegetazione, lasciando infine Hironimo solo, indietro.

Digli che sto bene, perché i morti stanno sempre bene, completò egli a mente la frase indirizzata a suo fratello Marco, ch’ormai non confidava più di rivederlo se non nella casa dell’Ade. Il giovane Miani si coprì il viso bollente di febbre tra le mani gelate dall’umido boschivo, i tremori ripresi con maggior vigore di prima. Un Mercurio Bua arrabbiato già era difficile da gestire; uno fuori di sé dall’ira corrispondeva ad un certo appuntamento con l’Oscuro Mietitore, o quasi. Il veneziano non escludeva la possibilità che, onde vendicare il suo orgoglio ferito, il greco-albanese l’avrebbe torturato, forse addirittura ucciso. S’augurò mille volte questa seconda opzione, non nascondendo la sua paura dinanzi al supplizio, non se il condottiero poteva aver appreso qualche utile lezione dai turchi.

D’altronde, si consolò, stringendo i denti e correndo in direzione sud, verso l’uscita del bosco, quale altra maniera per riscattarsi gli restava, se non d’aiutare i suoi compagni ed ergersi a scudo umano? Mercurio era lui che voleva, dunque se la pigliasse con lui.

Per la sua vanagloria e testardaggine Hironimo aveva sacrificato senza guadagno la vita di quei coraggiosi soldati rimastigli fedeli e dei suoi servitori, nonostante l’allettante promessa di La Palice di risparmiarli in caso di resa. Avrebbe dovuto congedarli da ogni vincolo, un bravo comandante riconosce quando ha perduto la partita e s’adegua in attesa del riscatto. Per difendere il suo onore s’era servito delle vite altrui, vite spezzate che mai più sarebbero ritornate, occasioni perdute, sogni infranti, futuri negati.

Il loro sangue macchiava le sue mani e se doveva versare il suo per far ammenda dei suoi errori, avrebbe più che volentieri offerto le vene alla lama nemica.

Hironimo aveva disonorato suo padre a Castelnuovo e a Feltre, la quale aveva esultato alla notizia di un Miani a comando di quelle zone, ricordando ancora piena d’ammirazione l’antico podestà e capitano, malgrado i ventitre anni trascorsi dalla fine del suo mandato. Quale magro guadagno! Uno stolto figlio ch’aveva invece annullato ogni benemerenza del fu sier Anzolo Miani, vittorioso contro il tentativo di Sigmund von Habsburg d’occupare il feltrino e la stessa città.

Sicché il giovane patrizio era pronto a qualsiasi sacrificio pur di dimostrare al mondo, quanto lui non fosse da meno; di dimostrare a Padre, ovunque egli si trovasse, ch’egli non era una delusione, un incapace, un figlio che sarebbe stato meglio seppellire in culla.

Se invero vi dovrò raggiungere presto, sior Pare, non voglio farlo vergognandomi alla vostra presenza.

 

***

 

 

Mulino dopo mulino, senza trovare niente tranne polvere e qualche chicco di grano, la compagnia di Leka Busicchio si era spinta fin quasi a Musestre, in territorio nemico, tentando la sorte giusto per non tornare indietro a mani vuote al campo.

Il capitano degli stradioti fece cenno ai suoi di fermarsi, allungando il collo e stringendo gli occhi onde accertarsi della natura dell’edificio davanti a sé e seminascosto dai salici piangenti ed altre fronde. Due piani, un pergolato e un muretto perimetrale ed infine il familiare scroscio dell’acqua manipolata dalle pale della ruota d’acqua.

Sì, decisamente un mulino e con un burchio legato ai pali in colonna del pontile, ergo i preziosi sacchi di grano e farina ancora rimasti nel magazzino. Le finestre erano aperte, un sottile filo di fumo serpeggiante fuori il camino, segno che il mugnaio probabilmente si trovava lì dentro.

Il greco scrutò bene lo scenario, in cerca di elementi ch’avrebbero potuto tradire una presenza militare nemica; la vegetazione fitta, sia degli alberi che delle canne, fornivano un eccellente nascondiglio. Il mugnaio, i suoi operai e la sua famiglia non avrebbero corrisposto ad un grande ostacolo, ciononostante Busicchio ugualmente comandò ai suoi stradioti di non uccidere se non necessario, già satollo di sangue dal recente scontro del Montello. Il loro obiettivo era di rubare il macinato e rientrare al campo prima che i marciani potessero reagire, quindi niente spreco di tempo prezioso per infierire, specie sulle donne.

Leka estrasse la spada dal fodero, mai troppa la circospezione, intanto che i balestrieri caricavano le loro armi a leva. Battendo i talloni sul cavallo, il capitano incitò i suoi uomini ad occupare velocemente il terreno, cogliendo di sorpresa la gente nel mulino senza concedere alcuna possibilità di difendersi. Man mano che si avvicinavano però all’edificio, un odore acre e familiare colpì le nari del capitano di ventura, un odore che la legna bruciata, in lontananza, aveva ben camuffato.

Polvere da sparo.

All’improvviso, il muretto perimetrale al mulino cedette in una piccola valanga di mattoni e la bocca di un falconetto apparve e il suo ruggito bloccò la cavalcata degli stradioti, i cui cavalli s’impennarono spaventati, nitrendo e ribellandosi al comando dei loro padroni. Le balote, atterrando nel terreno fangoso, sollevavano terra e l’urto scoordinava e sbilanciava la colonna nemica, facendo cadere a terra molti cavalleggeri, morti o feriti sia dal colpo sia dalle rovinose fratture alla colonna vertebrale. Da un altro angolo del muro sparò un secondo falconetto e ben presto anche dalle finestre s’unirono, in un concerto di zolfo, gli schioppi degli archibugi.

“È un’imboscata!”, gridò Leka ai superstiti rimasti della prima linea, tirando le redini onde bloccare l’avanzata del suo cavallo e costringerlo a rinculare. La melma tuttavia rallentava l’animale, gli zoccoli sprofondanti su di un terreno instabile e scivoloso. I balestrieri tentavano di mirare dentro alle finestre, ma l’incalzare dei falconetti allontanavano troppo il tiro, rendendo le frecce inefficaci.

“Ritirarsi! Artiglieria!”, fece eco Zilio Madalo al capitano, segnalando ai compagni di zigzagare e disperdersi, così da confondere i tiratori e limitare i danni delle cannonate.

Dal piano alto del mulino, il capitano Vitello Vitelli osservava la confusione nel gruppo degli stradioti, i quali cozzavano in due movimenti contraddittori, d’offensiva e ritirata. A onor del vero, il laziale non s’era atteso quell’attacco, giudicando Musestre al di fuori dal raggio d’azione del nemico e per questo aveva lasciato i suoi mulini per ultimi nell’evacuazione. Fortuna che già da quella mattina stavano brigando a convertire l’edificio a piccola torre di vedetta, sicché non li avevano pigliati impreparati.

“Signor Orlando!”, urlò dabasso al capo bombardiere, il quale strisciava nascosto dietro al muretto onde dirigere i suoi uomini. “Costringeteli in un unico blocco, che non si disperdano!”

Il bergamasco levò in alto il pugno, segno ch’aveva compreso. “Puntate ai fianchi!”, tradusse l’ordine del Vitelli ai suoi colleghi Paolo da Corfù, Giorgio da Otranto, Zuan Antonio da Bergamo e Thadio da Vicenza, i quali calibrarono il tiro, puntando i falconetti in modo da non concedere via di salvezza al nemico, specie laterale, la quale avrebbe portato ad un possibile accerchiamento del mulino da dietro. Se i Collegati volevano arrendersi e scappare, sarebbe stato solo ritornando sui propri passi. “Fuoco! Fuoco!”

Al pianoterra, un archibugiere chiamò Donado Cimavin, rimasto lì imbambolato senza alcunché da fare, gli ultimi sacchi rimasti da trasportare ai suoi piedi. “Sistu bon a sparar?”, gli allungò un archibugio rimasto orfano di padrone.

Il giovane mugnaio guardò incerto l’arma da fuoco, specie quando il soldato, impaziente di una risposta, gliela cedette di peso. Donado era un pochino familiare con la balestra, più che altro come svago nelle competizioni della domenica, ma quel lungo pezzo di legno e metallo lo percepiva alieno tra le sue mani. Una freccia piantatasi contro lo scure della finestra lo costrinse in ginocchio accanto all’archibugiere, ogni indugio gettato alle spine.

“Movete, t’eo gh’ho zà cargà!”, lo spronò impaziente il suo compagno, sparando all’anonimo temerario che l’aveva scambiato per un’anatra selvatica.

Allora, Donado imitò la posizione del soldato, appoggiando la canna sulla finestra e puntò ad uno a caso dei cavalleggeri nemici. Un altro archibugiere gli accese la miccia da dietro, la quale sfrigolò avida, creando un enorme tensione nel mugnaio, meditando questi sulla prossima mossa da fare. Scoccò una seconda occhiata all’uomo accanto a sé, poi agli stradioti, poi nuovamente agli archibugieri.

“Co’ te gh’ha puntà l’arma, serra i ocij e scansa ea testa, sennò t’i brusi di polvare!”

Donado deglutì e seguì immediatamente il consiglio: prese la mira, chiuse le palpebre e reclinò il volto quel giusto per non riempirseli dei pericolosi rimasugli di polvere e lo schiocco roboante dell’archibugio fece il resto. “Bravo! Bravo!”, udì dal buio, persuadendolo a riaprire gli occhi. “Te ne gh’ha ciapà on! An, la fortuna dil prinzipiante!”, si congratulò il suo vicino, offrendogli la mano per rialzarsi in piedi, non avendo Donado calcolato il rinculo del colpo appena sparato e puntualmente finito a gambe all’aria.

In alto, Vitello Vitelli diede alla vedetta nascosta tra i rami il segnale convenuto e questa fischiò ai cavalleggeri marciani, nascosti ad arte nella boscaglia e lo stesso ai fanti tra i canneti.

Il nuovo impeto scombussolò gli stradioti nemici, i quali si videro insediati sui fianchi dal fuoco nemico e adesso dalle sue zagaglie, impegnandoli in furiosi corpo a corpo onde salvarsi la vita in quella rovinosa ritirata. Dal basso sbucavano inattese le picche, disarcionando i cavalleggeri e trascinandoli nel fango o direttamente in fiume. Uno di questi fanti addirittura seguì in acqua uno stradiota caduto, cacciandogli la testa sott’acqua e tenendolo fermo mentre questi si dimenava esagitato, finché le ultime bolle risalirono e un’immobilità mortale segnalò il decesso dell’avversario.

“Zilio!”, richiamò Leka l’attenzione del luogotenente di Mercurio, il quale era riuscito a respingere numerosi assalti dal suo lato. “Dobbiamo aprirci un varco e ritirarci. Raggruppa i tuoi abbastanza da sfondare la linea destra! Dobbiamo evitare il fiume!”

Lo stradiota annuì concitatamente, nettandosi il viso coperto di sangue e mulinando la spada, costrinse il cavallo a roteare in direzione opposta, cavandosi due o tre avversari già pronti a sbarrargli la strada. “Avanti! Compattatevi! Compattatevi!”, incoraggiò i suoi uomini. “Sfondate a cuneo la lin- …” e le parole gli morirono in gola, mollando la sua presa all’elsa.

“Zilio!”, ruggì Busicchio alla vista del compagno inarcarsi e poi irrigidirsi, colpito alla spalla da un colpo d’archibugio. Il cavallo del Madalo s'impennò all’indietro e questi abbandonò la presa alle redini, balzato via di sella e cadendo in un gran tonfo in acqua, sparendo tra i canneti. Una rabbia figlia del dolore conferì nuove energie a Leka, il quale non si scoraggiò, semmai infuse maggior vigore a salvare ciò che rimaneva dei suoi soldati.

Frustando i cavalli alla stregua di ciuchi e premendo allo spasimo sul fianco destro, gli stradioti riuscirono ad aprirsi un varco ed evitarono così il massacro e la cattura di chi rimasto ancora vivo, ma non necessariamente illeso.

Dalla sua postazione, il capitano Vitelli fece cenno d’interrompere ai bombardieri i loro tiri, concedendo ancora qualche schioppettata ammonitrice agli archibugieri, in modo da permettere ai fanti e ai cavalleggeri di rientrare in tutta tranquillità nella fortezza improvvisata.

“Xé finia?”, domandò confuso Donando al soldato accanto a lui, il quale sogghignò affermativamente. Un alto ululato di vittoria s’elevò nell’aria, levando ben in alto i marciani qualsiasi arma avessero in mano, dalle picche ai bastoni caricapolvere.

D’umore più cauto restava invece Vitello Vitelli, che, concesso qualche istante di liberatorio giubilo, riportò immediatamente l’ordine e comandò ai soldati ed operai di terminare il carico del burchio, intanto che i bombardieri riparavano rapidi il muretto.

“E anche oggi, l’è andata!”, raschiava via Paolo da Corfù gli eccessi di calcestruzzo. “Stasera però voglio ubriacarmi di grappa friulana fino ad andar in letto cantando, soprattutto accompagnato da una bella donna!”

“Uagnon, azzardati a presentarti domani sbronzo al bastione”, l’ammonì ridendo Giorgio da Otranto, “e ti spacco il muso!”

“O ti lanciamo direttamente contro i francesi!”, rincarò la dose Thadio da Vicenza, al che un piccato Paolo, maledicendo lo scarso senso dell’umorismo dei suoi colleghi, si rivolse ad Orlando:

“E voi presidente? Che fate stasera?”

Il bergamasco ripose gli attrezzi, caricandoseli in spalla. “Io?”, gli rifilò un sorriso lascivamente furbetto. “Io ci provo stasera con la Zanze!”, con la scusa d’evacuare i mulini, non erano rientrati a Treviso la sera del 22 settembre e chissà se lei si stesse chiedendo o meno che fine avesse fatto Orlando. Per quel che lo concerneva, la contadinella gli allietava assai i sogni ed egli sentiva una voglia matta di concretizzarli.

Un boato di grasse risate lo sfotté inclemente. “Sì e fu così che doman mattina vedremo il signor presidente coi segni rossi di due ceffoni stampati uno per guancia …”

“… nonché zoppicare per la pedata in culo ricevuta!”

“Chigasang! Maledetti!”, lanciò loro del fango un offesissimo Orlando, “un’altra parola e v’affogo quanti che siete!”

I bombardieri se la risero ancora più forte.

 

 

***

 

Se Mercurio Bua aveva tentennato sullo specifico modo d’agire, una volta ritrovatosi a tu per tu col suo prigioniero, a seguito del racconto di Leka Busicchio non possedeva più alcun dubbio a riguardo.

Il veneziano non s’era fatto scovare né ricatturare tanto facilmente: invece di spaventarsi alla vista dei cani da traccia, il fuggitivo li aveva attesi in agguato e bastonati dritto sul collo, tramortendoli o paralizzandoli. In aggiunta, aveva costretto i loro conduttori ad inseguirlo per sentieri accidentati, ora in salita e ora in discesa, in un groviglio doloroso di rami, spine e piante urticanti e a piedi Mercurio s’era ritrovato separato dalla sua scorta, non agile né pratico in quel terreno irregolare e infido, avvolto nei suoi punti più oscuri da una sottile nebbia, la luce respinta da fronde fittissime. Ad un certo punto in lui s’era formulata l’idea d’abbandonare l’impresa, rendendosi conto di rischiare di perdersi in quell’antro d’inferno o di rotolare giù lungo qualche dislivello.

Quando il Bua s’era imbattuto nella sua preda, non l’aveva dapprincipio riconosciuta, non subito, intabarrata com’era in quel largo saio. I due s’erano ritrovati quasi per caso l’uno di fronte all’altro, inzaccherati di fango e foglie, dei fili appiccicosi delle ragnatele e delle bave spumose e biancastre delle sputacchine. Il veneziano s’era bloccato, sgomento, ma non abbastanza da impedire di girare rapidamente sui tacchi e salire sul pendio in direzione opposta a quella del condottiero, il quale arrancava, scivolando in continuazione. Nondimeno, Mercurio non aveva per un solo istante perduto di vista il patrizio, balzandogli addosso alla prima occasione favorevole e placcandolo in un ultimo frustrato tentativo d’impedire a quella lepre antropomorfa di scappargli. Il fuggitivo s’era allora aggrappato disperatamente ad un ramo, graffiandosi i palmi delle mani quando questi, flessuosi, si torcevano agli strattoni del Bua onde staccarlo. Ogni volta che mollava la presa, ecco che il veneziano ne afferrava un altro, incurante dei rivoletti di sangue scivolanti dentro le maniche, issandosi per calciare in faccia o al petto il capitano di ventura, che grugniva e sputava dallo sforzo e dal dolore quando il tiro colpiva a segno. Mercurio agguantava il giovane ad ogni appiglio disponibile, tirando e strappando pezzi del saio, elargendogli pugni sulla schiena, sulle spalle, sulle braccia tese e avutolo finalmente per terra, onde chiudere in fretta la questione, gli aveva sbattuto la testa contro il tronco d’un albero -  doveva riportarlo vivo alla Signoria e non necessariamente col cervello ancora funzionate. Dallo sforzo dell’inseguimento Mercurio si era poi accasciato per terra, accanto allo svenuto prigioniero, ansimando pesantemente e contemplando il complesso intreccio di rami che impediva di scrutare il cielo. Purtroppo, ricongiuntosi in seguito ad uno dei suoi uomini e affidatogli il patrizio, il greco-albanese aveva dovuto desistere dalla sua ricerca del moccioso e del benedettino per invece localizzare e riportare indietro l’altro suo sottoposto, prima che calasse la notte e gli esploratori veneziani lo catturassero o i contadini se lo mangiassero alla brace.  

E il condottiero avrebbe anche potuto dichiararsi soddisfatto, se non fosse rientrato all’Abbazia proprio durante il ritorno improvviso di Leka, il quale gli aveva dolorosamente spiegato come mai Mercurio non fosse riuscito a scorgere Zilio in nessun luogo. “È morto coraggiosamente, degno erede delle genti di Megas Alexandros!”, aveva commentato Busicchio, come se la cosa avesse potuto consolarlo o riportare in vita una delle persone più oneste e leali, che l’epirota avesse mai conosciuto in tanti anni di servizio. D’accordo, nulla assicurava al militare di vivere una lunga vita, però crepare così stupidamente, senza la presenza e la guida del suo capitano, perché quello stramaledetto veneziano aveva deciso di scappare via, forzando Mercurio a scegliere tra lo scambio e la missione … No, quel dannato avrebbe pagato anche per la morte di Zilio.

La cella sotterranea puzzava di muffa e di chiuso, senza luce e senza un refolo d’aria, una vera e propria prigione ideata per punire i monaci ribelli. Lì il Bua aveva ordinato al suo sottoposto di gettare il suo prigioniero, in attesa di reperire il bambino ed attuare la promessa fattagli tempo addietro. Sfortuna invece aveva decretato che, almeno quel giorno, egli fosse ritornato a mani vuote, ma ciò non garantiva che lo stradiota avrebbe smesso di cercare il fanciullo.

Udito lo scatto della serratura e le sottili strisce di luce squarciare le dense e soffocanti tenebre, Hironimo stringendo i denti si pose in piedi, appoggiandosi contro il muro umido in fondo alla cella, il cuore impazzito battente la chamade in petto. Una volta divisosi dal gruppo, s’era rassegnato alla possibilità di venir ricatturato, tuttavia sperava ardentemente che tale sorte Thomà non la condividesse, crogiolandosi angosciato lì nel buio in continui incubi, laddove quell’uscio d’inferno s’apriva e gli appariva la figuretta del bambino, spintonato dal mercenario pronto a trasformarlo in un agnellino pasquale. Artigliando le ginocchia, il giovane patrizio aveva pregato neanche lui sapeva chi acciocché il Bua non reperisse mai il suo piccoletto; aveva supplicato di pigliare su di sé l’intero impatto della collera del greco-albanese, a patto che la vita di quel pargolo fosse risparmiata, che raggiungesse Treviso sano e salvo. Non chiedeva altro.  

Mercurio appoggiò la lanterna sul pavimento in terra battuta, la sua figura ingigantita dal chiaroscuro, malgrado si fosse levato la pesante e lunga casacca, e ogni curva del suo viso s’ombreggiava e si distorceva in una maschera luciferina di pura rabbia, pareva uscito da quei paurosi racconti sul Barababao, il divoratore di bambini. A passi lenti, misurati e predatori egli occupò l’intero spazio della cella, sbattendo la porta in un roboante tonfo il cui eco fece fischiare le orecchie del giovane patrizio, per poi ammutolirsi l’aria istessa di quel fetido sepolcro.

“Ti ho malgiudicato”, esordì il condottiero, la voce vibrante di una gelida ira a malapena imbrigliata, “ti credevo un gentiluomo, una persona d’onore di cui fidarsi e soprattutto abbastanza intelligente da capire la propria situazione. Sbagliavo: sei un infido, un empio, un egoista che preferisce sacrificare gli altri al proprio tornaconto!”, scandì egli ogni parola con l’accuratezza di una frustata e di fatti al medesimo modo le percepiva anche il suo prigioniero, concordando mentalmente con l’altro, sebbene non gli avrebbe mai concesso la soddisfazione di saperlo sconfitto.

“Tu vivi nel mondo dei poemi cavallereschi”, lo derise velenoso Hironimo, artigliando i mattoni pregni di muffa per infondersi coraggio. “Gente come te è nata per farsi coglionare dal prossimo!”

Uno schiocco l’ammutolì, rubandogli il fiato e costringendolo per terra, la mano corsa al braccio bruciante da sotto il saio strappato. Incredulo, il giovane guardò il flagello tenuto in mano da Mercurio, le cui code arrotolava e allungava nervosamente, forse per l’impazienza d’usarlo di nuovo.

“In tutta onestà”, riprese quegli, afferrando per i capelli Hironimo e trascinandolo al centro della cella, “non ho mai compreso questa sciocca usanza dei monaci di flagellarsi. Per cosa? Per punirsi dei propri peccati? Per disciplinarsi? La vita già ti flagella a sufficienza, senza dover rincarare la dose per mano tua. Ma” e le strisce di cuoio frusciarono voluttuose nell’aria assieme al tintinnio delle palline metalliche, scivolandogli lungo la gamba quando il Bua aprì la mano, “se mi si dovesse chiedere d’usare il flagello  contro qualcun altro, mi trovi in prima fila a consigliarne l’uso!”

Il patrizio reclinò il capo, i muscoli tesi fino allo spasimo. “Che t’aspettavi da me? I tuoi comodi? Che rimanessi buono e docile a subire le tue prepotenze? Tu parli” e cercò le parole che gli avrebbero guadagnato la sferzata meno dolorosa, “alla stregua d’un amico tradito, quando amici non lo siamo mai stati. Soltanto perché mi costringevi ad ascoltare i tuoi vaneggiamenti, perché ti degnavi d’accordarmi da mangiare gli avanzi degli avanzi della tua tavola,  sul serio avevi creduto d’aver acquistato la mia lealtà?”, balzò in piedi, levando il mento a mo’ di sfida. “Tu sei quello che per due anni ha massacrato la mia gente, che ha espugnato la mia fortezza, che ha passato a fil di spada i miei soldati, i miei servitori, che mi ha umiliato, affamato, costretto in catene, trattato alla stregua d’un giocattolo da calciare via non appena si stufava! Tu hai minacciato mio fratello, la mia famiglia, il mio bambino di morte; per causa tua ho beccato il malanno e rischiato un’infezione! Pertanto come hai potuto pensare ch’io non contemplassi la fuga?! Che io considerassi te un uomo d’onore? Un camerata? Ma neanche in mille anni, neanche se ti fossi messo in ginocchio a supplicarmi!”

Il flagello sibilò nell’aria, colpendo tuttavia a vuoto; anticipato, pur nella penombra, da Hironimo, che indietreggiando evitò la frustata.

“Arrogante figlio di puttana”, lo braccò Mercurio, tentando di costringerlo in continui cerchi in un angolo. “Chi ti credi d’essere? Bartolomeo d’Alviano? Quale altro trattamento s’aspettava un bambinetto viziato, sconfitto al suo primo assedio?”

Scrocchiando le nocche al sentire così vituperata l’amata madre, Hironimo sogghignò però sghembo, mostrandogli i denti. “Chi mi credo d’essere? Un patrizio veneziano, qualcuno per la cui custodia hai lottato con le unghie e coi denti, coprendoti di ridicolo dinanzi a la Palissa e a tutto il campo!”

Il Bua balzò in avanti e il giovane di riflesso indietro. “Non sei l’unico patrizio che posso catturare e usare a mo’ d’ostaggio. A Treviso ne troverò di ben più altolocati e importanti di te!”

Hironimo gli rise in faccia, crudele. “Puoi anche catturare il Provveditore in persona, ma non otterrai mai ciò per cui mi hai tenuto presso te per quasi un mese!” e schivò un’altra sferzata, abbassandosi come ai tempi in cui imparava al ginnasio i primi rudimenti del pugilato, sfruttando la statura più bassa per anguillare via, in un continuo balletto di cerchi concentrici.

“Tu non sai niente”, ringhiò il Bua, i cui occhi guizzavano in cerca di un punto stabile dove colpire l’avversario, perennemente in movimento. “Tu non mi puoi fare niente; io sì al contrario. E sappi che continuerò a cercare quel tuo moccioso di merda, finché non l’avrò trovato e non t’avrò dipinto il muso del suo sangue!”

“Tu parli nel sonno”, preparò il Miani la sua contromossa, il cui labbro inferiore tremava all’orribile immagine di Thomà sgozzato, il corpicino scosso da mortifere convulsioni mentre il prezioso liquido vitale zampillava via a gran fiotti. Il giovane scacciò via forzosamente quel pensiero e si concentrò sulle sue prossime parole, le quali sarebbero sicuramente corrisposte ai proverbiali chiodi sulla sua bara, nondimeno Hironimo non accettava di sapere minimamente trionfante il condottiero e se poteva ferirlo e fino all’ultimo rigirargli il coltello nella piaga, ben venisse! Specie dopo aver minacciato per l’ennesima volta Thomà. “Aikaterinī … Caterina, giusto?”, e Mercurio ammutolì all’improvviso, perdendo ogni baldanza, il volto ridotto ad una maschera di cera, le spalle d’un tratto curve, flaccide. “Ti ha lasciato, poverino”, cinguettò beffardo.

Occhio per occhio, dente per dente, persona amata per persona amata.

“Caterina … è stata rapita dai suoi fratelli”, ansimò l’epirota, il sangue infiammatosi e ribollente nelle vene. Quella era la sua verità, un tiro barbino di quei cani di Manoli e Costantino Boccali, di quello spergiuro di suo fratello Teodoro. Ché il condottiero non conosceva la sua compagna, adesso? Da quando in qua fuggiva una moglie da suo marito? Per passare tra le fila nemiche, poi! Inconcepibile, assurdo!

“Ti ha lasciato”, reiterò inflessibile Hironimo, adocchiando il flagello. “Una donna che ama il suo uomo neanche sotto tortura lo abbandona. Ti ha rinnegato, se n’è scappata via: evidentemente come hai stufato me, hai stufato anche lei con la tua cecità, vanagloria, egoismo ed ambizione. Non ti vuole più, Mercurio, che vita le hai offerto? A sua figlia? Con che coraggio può quella poveraccia raccontare alla bimba: tuo padre è un traditore, un assassino, uno stupratore?”

Gli occhi neri di Caterina luccicavano di lacrime, il bel viso rigato di lacrime. “Ti prego, concedimi di tornare a Venezia, da mia madre, acciocché io cresca la nostra piccina lontana da quest’orrore! Morti, feriti, torture, malattie, stupri … quale colpa ha tua figlia commesso per meritarsi quest’inferno in terra?”

“Ogni passo da me intrapreso è stato per loro! Per elevarle dalla miseria, dall’eterno status di fuoriuscite!”

“Non m’importa delle vostre guerre, del tuo onore venduto al migliore offerente! Mio padre sta morendo, colui che m’ha dato la vita sta per congedarsi per sempre dalla sua! Almeno le sue ultime parole abbi la bontà di farmi sentire! Capisco le vostre divergenze, i vostri rancori … Ma tu già nei sei uscito vincitore, non ti pare? Io rimarrò tua moglie fino alla fine dei miei giorni, ma sua figlia io lo sarò ancora per poco!”

“No, agivi per te stesso e per il tuo amor proprio, ch’è così grande e ingombrante da considerare Caterina un sovrappiù, un ornamento, un corpo da fottere quanto ti sorgeva il prurito! Di lei, dei suoi pensieri, delle sue preoccupazioni, dei suoi desideri, non te n’è mai fregato alcunché! Scommetto anzi che tenevi più in considerazione il tuo cavallo! Non le sei mai stato un vero marito e giustamente lei t’ha abbandonato, dimenticato!”

“Aikaterinī?”

La giovane donna, pallidissima, gli cedette la missiva, nella quale Mercurio lesse e apprese della morte di Nicolò Boccali. “Vedi, è come ti avevo detto: non l’avresti raggiunto mai in tempo, specie se tuo padre si trovava nella Patria del Friuli … Avresti affrontato un viaggio inutile e …”

“Tu m’hai detto un sacco di cose, Maurikos”, mormorò atona Caterina, dirigendosi in stato pressoché sonnambolico verso il lettuccio di Maria. Sistemò la copertina sulle esili spallucce della bimba, fissando trasognata un punto indefinito davanti a sé. “Ma mai quelle giuste.”

“Lei è mia moglie, è mia! …”

“Secondo te, ho torto se mi recassi dall’Imperatore e reclamassi finalmente i mancati pagamenti?”

Caterina levò brevemente gli occhi dalla casacca che stava rammendando, riconcentrandosi poi sul suo lavoro. “Perché mai dovrei darti un consiglio?”, scrollò incurante le spalle, spezzando il filo coi denti. “Alla fine agisci sempre e soltanto di testa tua, quindi …  Non vedi che ho anch’io da fare? Se non ti serve sul serio aiuto, non distrarmi ché perdo tempo!”

Mercurio le si sedette accanto, perplesso. “Non è vero, all’occasione ho ascoltato la tua opinione.”

“Uhm, può darsi … ai tempi che mai furono …”, replicò scettica Caterina, intrecciando le dita sull’indumento. Sospirò profondamente. “Vai dall’Imperatore, fatti valere. Vuole i tuoi servigi? È ricco, che paghi. Niente a questo mondo è dovuto, tutto va guadagnato.”

“Esattamente quel che stavo pensando anch’io.”

“Già, che strano.”

“Sicura che non t’incomoda rimanere sola a Verona?”

“Tranquillo: ho la mia Maria da badare e poi … e poi i miei fratelli a tenermi compagnia. Non sono mai stata sola, io.”

“Spero per loro che ti trattino bene!”

“Non è tua, non l’è mai stata né lo sarà! Caterina appartiene a se stessa, non spetta a te decidere della sua esistenza. Lei ti odia, ti ha dimenticato, probabilmente pure rimpiazzato e tu ti sei sbattuto per niente, perché anche se pagassi staie su staie d’oro puro alla Signoria, non otterrai mai indietro Caterina, perché lei non ti vuole! Tu l’hai delusa e lei ti ha ripudiato e per di più sei un coglione perché tutto il mondo se n’è accorto, tranne te!”

Il sorriso di Caterina si deformò in una smorfia sghemba, ambigua. “Non dubitare, caro marito: Manoli e Kostantinos obbediscono ad ogni mio cenno.”

E Mercurio capì.

Capì infine il perché avesse provato quel scellerato connubio di repulsione e fascinazione verso Hironimo. Capì il motivo per cui non tollerava le sue mordaci risposte. Capì come mai lo infastidisse quel suo impertinente sorriso sibillino, di chi celava abilmente i propri pensieri dietro una maschera impenetrabile.

Quello sguardo … lo  aveva visto in Caterina, l’ultima sera prima della sua scomparsa. Della sua fuga da Verona. Da lui. Un’espressione implacabile e tremenda, d’odio e condanna, che lui di sua mano aveva nutrito, giorno dopo giorno.

Mercurio aveva sempre avuto la verità dritta e brillante davanti a sé, soltanto che lui s’era rifiutato d’accettarla, orgoglioso e testardo, addossando colpe ad altri quando in realtà doveva deplorare se stesso ed i suoi errori. Quel disgraziato affermava il vero: Caterina l’aveva considerata roba sua, un premio, la figlia di una principessa di Durazzo e di un condottiero famoso; una moglie, una madre, un’ombra onnipresente ognora a disposizione. S’era giudicato un bravo consorte perché provvedeva per lei e ogni tanto magnanimo le chiedeva opinioni e consigli che manco ascoltava - figurarsi implementarli -  non la consultava mai veramente. Non la prendeva sul serio, non le aveva mai dato la possibilità di distinguersi, credendola incapace di una qualsivoglia iniziativa senza il supporto e la guida di suo marito. Ignorava il suo spirito, le sue passioni, le sue angosce. L’aveva sin dal principio considerata sua, fisicamente sua, non concependo che sua moglie potesse un giorno finire per ribellarsi, odiandolo al punto da prendere la decisione d’allontanarsi in via definitiva da lui. Con chi aveva vissuto per tutti quegli anni? Chi era Caterina? Aveva amato lei o l’immagine ideale che lui aveva di sua moglie? Quella cui per un anno intero egli s’era disperatamente aggrappato? Cos’era? Un’illusione? Una scusa?

Una donna mai esistita?

Ti strapperò di dosso quel sorriso, quello sguardo, quella tua condanna! Mercurio torse il busto all’indietro, caricando il flagello e le palline metalliche tintinnarono assieme al sibilo del cuoio, schioccando e mordendo la carne del braccio sinistro d’Hironimo, posto in alto a difesa e roteato rapido, nonostante il gemito di dolore strappatogli dall’impatto. Le code di gatto ghermirono la loro preda, avvinghiandosi ad essa, stracciando la veste candida, ma troppo avide rimasero prigioniere e fu Hironimo ora a torcerle, artigliando il manico e contendendosi al Bua il flagello.

Col pugno destro il giovane mirò allo zigomo del greco-albanese, il quel lo bloccò afferrandogli il polso e maldestramente provò a piegargli il braccio, non pratico con la sinistra. Sennonché, Hironimo gli si buttò contro, elargendogli una forte spallata in pieno petto, girandosi di schiena su di lui in un grottesco abbraccio. Gli pestò il piede, finché il Bua non lo liberò dalla presa e il patrizio rinculò veloce, strattonando in sua direzione il flagello che gli solcava la carne in una sgradita morsa.

Mercurio piantò bene i piedi per terra e tirò forte, sicuro della miglior prestazione fisica rispetto al malconcio opponente, che appunto cadde, trascinato in avanti. Gli elargì un pugno tra le scapole; sputando saliva e forse anche sangue, Hironimo s’issò sul ginocchio sano e ricambiò con una gomitata al basso ventre e più Mercurio infieriva più lui rispondeva a tono. Quand’ecco che il veneziano afferrò il polso del Bua, mordendogli la mano che reggeva il flagello e un grido indiavolato riecheggiò tra i muri colmi di muffa.

Entrambi sapevano che non sarebbe stata una lotta tra gentiluomini.

Afferratolo per il bavero del saio, l’epirota si staccò via di peso dal Miani, il quale pur rotolando calciò lontano il flagello, adesso libero da ogni padrone. Il giovane si riprese in fretta e scattò in piedi, correndo in sua direzione, ma il condottiero gli face lo sgambetto, sicché s’ingamberò e cadde sfortunatamente sul ginocchio dolorante. Mercurio lo ghermì per le spalle, lo girò e Hironimo mirò di tallone alla virilità dell’opponente, sennonché questi gli bloccò la caviglia, torcendola neanche volesse spezzargliela. Al che il veneziano, gridando di dolore e afferrata d’istinto della terra, gliela lanciò in faccia, calciandogli sullo stomaco non appena avvertì l’arto libero, sicché il Bua cadde all’indietro tra bestiali imprecazioni. Hironimo prese a strisciare verso il flagello, il ginocchio e la caviglia in fiamme che parevano volersi staccare dal suo corpo. Allungò il braccio, catturando il manico e trascinando lo strumento al petto, sotto di sé.

Ripresosi  e scuotendo furioso il capo onde levarsi ogni residuo d’intontimento, Mercurio si buttò di peso addosso ad Hironimo, coprendolo e infilando le mani onde costringerlo a staccarsi dal flagello, finendo i due per rotolarsi in un groviglio di calci, gomitate e testate, uno lottando per distruggere e l’altro per morire dignitosamente. D’un tratto il Bua cambiò strategia, balzando in piedi e sollevato per il saio il Miani lo sbatté contro il muro, mozzandogli il respiro, neanche l’avesse scambiato per un antico ariete d’assedio. Ogni osso del giovane tremò, i nervi guizzando in impazziti stimoli, tanto che credette aver sentito il movimento acquoso dei suoi medesimo organi, così crudelmente sballottati.

Ciononostante, Hironimo non cedeva, il flagello ben saldo tra le sue dita sanguinanti: non l’avrebbe assassinato peggio d’un somaro o un criminale, se il Bua voleva spedirlo da Padre, sarebbe stato per mano sua o di una lama. Non meritava tale ignominiosa fine. La sua schiena gli traballava contro il muro, lo scheletro supplicante di terminare quella tortura prima di finire disintegrato. I polmoni smisero di collaborare, respirava sempre peggio e la ferita alla fronte si riaprì e il viso s’inumidì di placido liquido vischioso, sicché all’odore di muffa s’aggiunse quello del sangue.

Agli spintoni si sostituirono i pugni, un’incessante grandinata, giù e giù e giù, senza ritmo tranne l’aumento d’intensità, colpendolo a caso, ora sullo stesso punto ora su di uno nuovo, finché Hironimo cedette al loro peso, scivolando lentamente contro il muro, la vista azzerata da ogni colore, ovattandosi ogni suono, perfino il dolore alla fine gli divenne sopportabile. Il mondo vorticò sconclusionato e una voragine nero bestemmia spalancò le sue fauci  e lo inghiotti in una graduale incoscienza, trasformandolo in uno spettatore inerme. Capiva quanto stesse accadendo, ma non lo percepiva più su di sé, non gli apparteneva.

Madre mia, soccorso! Madre ho paura!

Si stava spegnendo, eppure Hironimo non provava un dolce torpore bensì una paura indescrivibile, mentre un mortifero gelo s’impossessava dei suoi arti, ribelli ad ogni suo ordine. Soltanto le sue mani seguitavano a serbare al petto il flagello, neanche l’avesse eletto a palma del suo martirio. Niente però di eroico c’era in quel suo progressivo commiato alla vita, niente di santo. Solo orrore e disperazione per terminare lì la sua esistenza, la sua giovinezza rubata in una puzzolente cella di un remoto monastero. Nessuno avrebbe saputo della sua morte, nessuno l’avrebbe pianto, né seppellito nella sua città natale, accanto ai suoi avi, condannato ad un’eterna solitudine.

Aiutami, Madre! M’uccide! Madre! Madre! Mater! Mater perdono! Mater salvami! Salvami! Salvami, Mater! Mater! Mater! Salvami …

“… Mater!”, invocò Hironimo con l’ultimo fiato rimastogli, piegandosi su se stesso nel disperato tentativo di proteggere la testa dai colpi. Cadde in un tonfo sul fianco, il corpo insensibile ai pugni del condottiero, inerme, quasi rilassato. Non si muoveva più, ogni funzione annullata. Le dita gli si schiusero e il manico del flagello rotolò per terra.

… nunc et in hora mortis nostrae …

Era quella dunque l’ora della sua morte? Perché il patrizio non si sentiva né leggero né bruciare, piuttosto pesante e goffo, un sacco di farina gettato malamente in un angolo, informe e sbatacchiato. Freddo e vuoto, un limbo senza via d’uscita, nonostante il suo spirito graffiasse contro la porta della sua stesse mente, incapace d’arrendersi, ostinato a vivere ad ogni costo.

Non aver mai paura, sei nato per lottare.

Morire sarebbe stato ammettere la sua sconfitta contro il Bua.

Mater! Aiutami! Aiutami a tirarmi su!

No, morire significava non poter più proteggere Thomà. Suo fratello. La sua famiglia. La sua patria.

Homo morto no fa guerra.

Hironimo artigliò la terra cruda, alla cieca, impresse le ultime forze sulle mani sbucciate e sanguinanti, impose ai muscoli delle braccia d’obbedirgli, di sollevarlo dal pavimento. Immediatamente, una violenta frustata gli martoriò la schiena e cadde prono, sbattendo il mento e mordendosi la lingua.

Mater, aiuto! Ti supplico! Cocciuto, il giovane si tirò su e nuovamente venne rispedito per terra, stavolta battendo la fronte. Spostò il peso su di un avambraccio, inarcandosi, cercando stabilità sui ginocchi. Niente. L’ennesima frustata lo tramortì.

Forse era meglio così. Se nulla di buono poteva combinare, forse era meglio che Hironimo morisse, cavandosi dalle spese di un mondo che non necessitava di lui, che sarebbe andato avanti benissimo senza il suo contributo. Gente più importante, più meritevole di lui sicuramente aveva la precedenza. Cosa poteva sperare d’ottenere? Cosa reclamare per sé? Senza castello, senza spada, senza famiglia, senza amici, senza più alcuna dignità, non era più nessuno, tanto valeva che anche il suo corpo si disfacesse e di lui si perdesse ogni ricordo.

Padre era morto, Madre non poteva aiutarlo, i suoi fratelli l’avevano rinnegato. Era solo dinanzi al grande abisso, destino adeguato: aveva voluto la libertà d’agire a suo piacere, di scegliere da sé. Da solo dunque avrebbe affrontato il suo destino, inutile invocare vanamente soccorso, dopo averlo per anni schifato.

D’altronde, non ho compiuto alcunché di degno e non mi merito né aiuto né salvezza.

Il patrizio avvertì all’improvviso una corrente d’aria sulle ferite, un fastidioso luccichio, l’eco di concitati passi sulla terra e due corpi che cozzavano contro, urla in greco, spintoni, il flagello gettato lontano, contro il muro, rotolante in un qualche angolo.

“Sei impazzito?! Vuoi uccidere l’ostaggio? Ti rendi conti che da morto non vale niente?”

“E’ il mio prigioniero e ne faccio quel che voglio!”

“Sbagliato! Noi abbiamo espugnato Castelnuovo, noi tutti assieme! Non tu da solo! Senza di noi, tu non avresti combinato alcunché! E’ la nostra preda di guerra e soltanto perché t’abbiamo assecondato nelle tue eccentricità, non significa che di conseguenza tu ne possa disporre a tuo piacimento!”

“Leka …”

“Leka, un cazzo! Tutte le magagne affrontante per tenerlo in vita, tutti quegli imbrogli e fastidi … e poi tu butti alle ortiche ogni nostro sforzo, così? All’ultimo? Proprio adesso che ci serve per liberare i nostri compagni?”

“Lui non mi serve per quello!”

“Cosa?”

“Non lo voglio scambiare!”

“D’accordo, d’accordo … Per denaro, allora! Infatti, giusto in questo momento avremmo bisogno …”

“Neppure!”

“Kyrie Eleison! Mi vuoi far imprecare peggio d’un turco? Non per denaro, non per uno scambio … Per quale motivo lo tieni teco, sentiamo?!”

“Per mia moglie.”

“Eh?”

Silenzio.

“Lo voglio barattare in cambio di Aikaterinī.”

“Tu stai scherzando, Maurikos … No, no tu stai scherzando …”

“Ho già inviato una richiesta alla Signoria. Mi dispiace non avertelo rivelato prima, però sono state settimane piuttosto intense e … e può darsi che mi sia passato di mente. In ogni modo, fin dall’inizio avevo ideato questo piano, altrimenti avrei chiesto subito il suo riscatto assieme a quello dei due capitani bellunesi, no?”

“Ah, così te l’eri scordato? Complimenti, mi sento davvero lusingato nell’apprendere, quanto tu mi consideri alla pari del figlio della serva!”

“Leka … mi stai fraintendendo …”

“Ma vaffanculo te e chi t’ha fatto, che siete in tre! Frainteso? Frainteso cosa?! Cazzo c’è da fraintendere, quando invece sei stato chiarissimo, porco diavolo d’un cane! Fino ad oggi ci hai convenientemente nascosto di come intendevi usare quel veneziano non per riscattare i nostri compagni o per riscuotere una taglia – Theos solo sa quanto necessitiamo di soldi in questo momento! – bensì per ripigliarti quella fuggitiva di tua moglie, la quale manco si cura di te e questo per appagare un semplice tuo capriccio?! E poi tu mi dici che fraintendo?! Oltre a fregarmi, pure mi dai dell’imbecille?!”

“Mia moglie non è scappata via! L’hanno rapita! E comunque non lo chiamerei un capriccio, insomma non credi che …”

“Oggi – anzi, ieri ormai – dovevi cavalcare con noi fino ai mulini sul Sile. Dov’eri? Perché non c’eri a capitanare la compagnia, uh? Me lo spieghi? Cos’avevi di meglio da fare? T’era stata affidata una missione e tu, tu l’hai rifiutata per startene accanto al prigioniero. Io te l’ho lasciato fare, mi sono lasciato persuadere nella sciocca illusione, che questo veneziano avrebbe potuto giovare l’intera compagnia. Avessi saputo …  e ora Zilio è morto, Maurikos, è morto per servire il tuo egoismo.”

“Leka, forse tu hai trascurato il piccolo dettaglio, che questo pezzo di merda è sul serio scappato e dunque neanche tu puoi negare la bontà delle mie decisioni! Mi fossi unito a voi all’impresa, a quest’ora si trovava questo qua bell’e allegro a Treviso ed io con un pugno di mosche!”

“E allora? Tanto a noi che ce ne veniva? Tu solo avresti goduto dei vantaggi, non noi. Ci avresti perduto, lo ammetto. Però è anche vero che se tu avessi deciso di seguirci e di dirigere l’operazione come ordinatoti, Zilio non sarebbe caduto in battaglia. Risolvimi, Maurikos: che guadagno c’è a perdere un compagno fedele e capace, per un prigioniero? N’è valsa la pena, questo scambio?”

“Leka … ascolta … sei sconvolto, lo capisco, lo sono anch’io, però … ”

“Stammi lontano per oggi, non mi parlare. Forse domani mi passa, ma non oggi. Non costringermi alla tua compagnia, Maurikos, a meno che tu non voglia un pugno sul naso.”

I passi s’allontanarono e così anche i due condottieri, segnata la loro uscita dallo snervato sbattere della porta del greco-albanese e il secco schiocco della serratura, come se Hironimo avesse potuto fuggire, paralizzato com’era nella medesima posizione, in cui Leka Busicchio l’aveva trovato al momento della sua irruzione nella cella.

Il corpo intero vibrava dolorante, un liuto dalle corde spezzate. Il giovane Miani riuscì a malapena a rigirarsi supino, gemendo al contatto della pelle lacera contro la pastosità del terreno, accecato da un pugno all’occhio che manco si ricordava d’aver incassato e da un buio atroce, dentro cui ticchettavano gocce d’umidità condensata e altri rumori sconnessi, lontani e al contempo vicini. Non trasse alcun conforto in essi, suoni alle sue orecchie di morte annunciata e non di consolazione per essere sopravvissuto ad un altro giorno.

In quelle tenebre Hironimo si sentiva schiacciare dalla forzosa stasi, dal desiderio mancato di riscatto; nella solitudine i suoi fallimenti si moltiplicavano e soffocavano qualsiasi suo pregio. A onor del vero, non ne trovava alcuno, di pregio. In che modo si sarebbe presentato a Padre?

Plick. Plock. Plick. Plock.

Sulle grandi finestre batteva feroce la pioggia, la precoce notte illuminata dall’improvviso lampo cui faceva eco il suo sposo, il possente tuono che scuoteva impercettibilmente il vetro, aiutato dalla bellicosa bora. Incominciava il Dì dei Morti, la fiammella accesa in mezzo al tavolo e lì accanto un bicchiere d’acqua e qualche fetta di pane acciocché le anime, vagando per la terra, potessero ristorarsi e proseguire il cammino fino all’alba.

“Sen Piero aveva una suocera [1], la quale in vita era stata tanto avara e cattiva, che quando morì, ahimè, precipitò dritta giù all’inferno”, narrava Madre seduta accanto al caminetto, i suoi figlioli simil pulcini che l’attorniavano, ascoltandola attenti e sgranocchiando le deliziose Fave dei Morti ai pinoli e le caldarroste. “Sen Piero se ne dolse moltissimo e pregò Nostro Signore di risparmiarle quegli atroci tormenti, pensando e ripensando ad una buon’azione da parte di sua suocera, che avrebbe potuto riscattarla. La vecchia però in tutta la sua vita non ne aveva compiuta alcuna, vivendo per i fatti suoi e senza aiutare nessuno. Quand’ecco, che Sen Piero si ricordò di una foglia di radicchio che sua suocera aveva donato ad un orfanello mendicante. Nostro Signore allora gli disse: “Benissimo: che un mio angelo cali quella foglia di radicchio all’inferno, acciocché lei vi s’aggrappi e venga issata su, nel mio Regno.” L’angelo eseguì l’ordine e la vecchia quando vide quella foglia di radicchio si commosse e prontamente l’afferrò, mentre l’angelo la tirava su per trasportarla in Paradiso. Le altre anime, però, se ne accorsero e prontamente ghermirono le gambe della donna, nella speranza d’essere anche loro salvati da quel pozzo infinito di gelide fiamme. “Portaci con te! Aiutaci, sorella!”, la supplicavano in lacrime. Accortasi di quegli intrusi, la vecchia invece incominciò a dimenarsi e a scalciare: “Via da me!”, gridava. “Questa foglia di radicchio m’appartiene! Sono io quella che Nostro Signore vuole liberare dall’inferno, non voi, anime dannate! Via da me!” Ed ecco che la foglia si spezzò e la donna ricadde nella voragine, da dove non risalì mai più.”

“Non capisco”, aggrottò la fronte Carlino, esibendo un’espressione assai scettica: “Nei Vangeli la suocera di Sen Piero invece s’era messa a preparare il pranzo a Jesus e gli Apostoli, dopo esser stata guarita. Non m’è sembrata proprio una tal carogna da meritare addirittura l’inferno!”

“E che ne sai, Carlino? Forse avrà cucinato da schifo!”

“Non sei divertente, Marchetto!”

Madre non si scompose, semmai ridacchiò indulgente dinanzi alla preparazione di quel suo figliolo, che divorava più libri che pane. “Lo so, Carlino, ma non è questo il punto del mio racconto.”

“E qual è?”

“Esatto, qual è? Luchin …?”

“An … perché … perché la suocera non è stata generosa con le altre anime? La foglia di radicchio rappresentava quell’unico atto di carità, che, in mancanza di altri a rinforzarlo, s’è spezzato per via del suo egoismo!”

“Più che altro non ha avuto pietà delle altre anime, pur trovandosi tutti insieme nella medesima situazione!”, disse invece Carlino. “Pur peccatrice, s’è considerata superiore e privilegiata rispetto a loro. E arrogante, perché diceva di conoscere cosa volesse o non volesse Nostro Signore. Non aveva capito che l’aveva messa alla prova!”

Madre annuì, sorridente. “E tu Momolin? Cos’hai imparato dalla storia?”

Il bambino s’ingobbì imbarazzato, non trovando nulla d’intelligente d’aggiungere alle osservazioni dei fratelli. “Non lo so …”, bofonchiò, “Luchin e Carlino hanno già detto tutto …”

“Sì, ma tu personalmente cos’hai capito del racconto?”, lo incoraggiò Madre, ponendosi il piccino sulle ginocchia.

Momolo piegò ingiù la bocca, il cuore che gli batteva in petto dall’ansia e le gote vermiglie dalla vergogna per la sua tardezza di spirito. “Ecco … ecco io … io penso che … che a Nostro Signore basti una foglia di radicchio per salvare una persona, perché anche la più cattiva-cattiva possiede la sua foglia di radicchio … però dopo bisogna continuare ad essere buoni-buoni e non è facile … ”, s’impappinò, giocherellando nervoso coi laccetti del suo farsetto, arrossendo dinanzi ai risolini sfottitori del fratelli. “Ma a Nostro Signore basta quella piccola foglia di radicchio ...”

Plick. Plock.

“Na fòja de radécio …”, mormorò tremante Hironimo, due gemelle lacrime che gli scendevano lungo le tempie. “Basta ‘na fòja de radécio …”

All’improvviso urlò a pieni polmoni tutta la sua angoscia, quel grido represso da quindici anni che non era mai riuscito ad esprimere, quell’invocazione d’aiuto cui aveva disperatamente anelato e che per troppi anni aveva taciuto, imprigionato dalle catene dell’orgoglio e della rabbia e che ora lo serravano fameliche, strangolandolo e ritorcendosi malvagie contro di lui.

Di scatto Hironimo si morse i polsi, ignaro se per aprirsi le vene o per soffocare quei sconquassanti singhiozzi.

 

***

 

La gola gli bruciava a tal punto, che il soldato giudicò aver inghiottito per ore della ruvida sabbia, la lingua impastata di saliva secca. Un improvviso conato di vomito lo soffocò, portandolo a girarsi sul fianco e a liberarsi dell’acida bile sul primo catino disponibile. Ansimando, l’uomo s’abbandonò esausto sul materasso, guaendo all’artigliante dolore sulla spalla.

“Stai fermo, deficiente! Ti si riapre la ferita ed io non te la ricucio di certo!”

Il soldato aprì gli occhi, sobbalzando non appena riconobbe quella voce assai scocciata. Vide dinanzi a sé, chino su di lui tipo l’Oscuro Mietitore, Fra’ Anselmo che gli stava risistemando le bende.

Si rilassò. Un incubo o forse un’allucinazione frutto del delirio della febbre. “Sono ancora all’Abbazia”, si consolò, socchiudendo le palpebre e lasciandosi cullare dal torpore degli oppiacei e della convalescenza.

Uno schiaffo al braccio lo riportò bruscamente alla realtà, costringendolo a guardarsi meglio attorno ed in effetti l’uomo non riconobbe l’ambiente a lui famigliare dell’infermeria, bensì un ampio salone più spartano e colmo di letti per la maggior parte ancora vuoti.

“Vorresti, stronzo!”, gli apparvero i suoi fratelli Giorgio e Teodoro Madalo, le braccia incrociate al petto. Le guance di Giorgio avevano assunto un colorito porporino dallo sforzo di non ridere, mentre Teodoro lo fissava accigliato quanto la loro madre, quando s’apprestava a percuoterlo cogli zoccoli.  “Altro che Abbazia, ti trovi a Treviso!”, scosse il capo Teodoro, chiedendosi perché Dio lo punisse tramite un fratello così scemo.

“La pallottola t’ha colpito alla spalla, ma come si suol dire, l’erba cattiva non muore mai”, scherzò Giorgio, beccandosi uno scappellotto dietro la nuca da parte del maggiore, che seguitò severo:

“Ringrazia Theos che ci trovavamo lì, sennò chi ti rancurava dai canneti, mezzo affogato?”

Zilio Madalo, redivivo e novello Mosè, proprio non sapeva cosa rispondere, avendo fermamente giudicata finita la partita una volta cascato in acqua. Nondimeno, il suo cuore si scaldò al pensiero che i suoi fratelli, malgrado gli schieramenti opposti, si fossero premurati di salvarlo, al posto di lasciarlo crepare per conto suo o d’elargirgli il colpo di grazia.

“Cosa ne sarà di me?”, s’informò, ringraziandoli cogli occhi e i due stradioti compresero e accettarono quella sua esitazione a proferirlo ad alta voce, sedendosi invece ai bordi del letto, sul viso un’espressione più conciliante.

“Sei prigioniero della Signoria”, gli delucidò conciso Teodoro. “Il capitano Paleologo ha interceduto presso il Provveditore, acciocché tu rimanga qui all’ospedale fintanto che sarai convalescente. Il che significa …”

… che Zilio era legato al letto, impossibilitato a fuggire e sorvegliato a vista dai due cavalleggeri e, in loro assenza, d’un soldato.

“Dopodiché, ti trasferiranno alle stinche.”

“Se vuoi un consiglio spassionato, ti conviene cantare prima che lo facciano!”

“Non sono una spia! Non spiffererò niente!”, s’impuntò testardo Zilio, subito rimesso al suo posto da una sberla da parte di Teodoro.

“Ti spacco il muso, se non lo fai! Ingrato! Il capitano Paleologo poteva consegnarti al Provveditore e lasciare che t’interrogasse o ti torturasse così com’eri, invece t’ha fatto curare. E’ così che ripaghi la sua cortesia nei confronti della tua indegna carcassa? Vergogna! Pensavo che Pateras e Miteras t’avessero inculcato un po’ di creanza!”

Fra’ Anselmo scosse il capo, ridacchiando tuttavia a quel giocondo quadretto famigliare. Riacquistò la sobrietà di spirito invece alla vista di Thomà, seduto per terra contro il muro, le mani sulle ginocchia e un’espressione vuota sul visetto sporco e rigato di lacrime.

Quel terremoto di bambino, così ciarliero e indocile, dal loro arrivo a Treviso non aveva proferito alcuna parola, la mente rimasta dentro il bosco del Montello, assieme al suo padrone. Il fanciullo s’era sistemato in quel cantuccio dell’ospedale e lì se n’era stato per tutto il tempo, ignorando perfino la chiamata al refettorio per il desinare.

Thomà scoppiò improvvisamente a piangere, quando madona Maria Malipiero Gradenigo lo raggiunse, chiedendogli gentilmente di seguirla per lavarlo e spulciarlo dai pidocchi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ebbene sì: La Palice aveva la garzona (o fidanzatina) modenese! XD D’altronde, la moglie era in Francia e l’uomo si sentiva un po’ solo …

Riprenderemo il punto di vista di Fra’ Anselmo e Thomà nei prossimi capitoli, per adesso tiriamo un sospiro di sollievo che almeno loro si sono salvati. Il Nostro, invece, ha toccato letteralmente il fondo del barile. O forse no? In ogni modo, c’attendono ancora un paio di giorni di pura depressione. Per questo, terrò vicino il barattolo di cioccolato fondente spalmabile, non si sa mai nella vita.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! E sul serio, fatemi sapere la vostra opinione riguardo l’annuncio.

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 [1] Questo racconto popolare si presenta in diverse varianti, a seconda del paese. Ne “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, è una cipolla quella che usa l’angelo e la protagonista è una qualsiasi donna anziana; nella versione veneziana invece si parla di una foglia di radicchio e la vecchia è addirittura la suocera di San Pietro (chissà perché, poi); in altri parti d’Italia, pur conservando la suocera come protagonista, l’angelo invece intreccia una corda fatta di bucce di patate.

Sinceramente non so quanto sia vecchia questa novellina, però per la storia mi pareva assai adatta.  

 

  
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