Ricordiamo
che parte degli eventi di questa storia, in mancanza di
descrizioni dettagliate nelle fonti, sono romanzati.
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.11.2021, buon San Martino!
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Capitolo
Ventiquattresimo
22-24
settembre 1511
Nessuno
ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici.
(Gv 15,17)
Il
valletto del conte Antonio di Collalto di Sotto
annunciò
il suo padrone, mentre apriva la porta, scansandosi poi onde
permettergli
d’entrare nella stanza offerta generosamente al maresciallo
Jacques de
Chabannes de la Palice.
Il
generalissimo giaceva ancora in letto, tuttavia seduto e con
una piccola cappa di lana a tenergli calde le spalle, il viso provato
dalla
recente febbre già tinto del rosato di chi stava
riguadagnando salute, grazie
alle zelanti cure della sua garzona Belletta, la giovane modenese con
cui
l’uomo s’accompagnava.
“Vi
sarò per sempre riconoscente per la vostra premurosa
ospitalità”, dichiarò il francese,
interrompendo la dettatura dei dispacci al
duca di Foix-Nemours a Milano, all’ambasciatore francese a
Bolzano e ai
capitani e commissari imperiali nelle varie città friulane
occupate. Belletta
sottolineò il concetto sorridendo al conte, intanto che
girava la zuppa
destinata al convalescente.
“Dunque
saprete anche che suo cugino, Jérôme Savorgnan,
invece si
è schierato dalla parte di Vénise, conservando
saldamente le due fortezze di
Marano e Osoppo.”
Dal modo
in cui Antonio reclinò nervosamente il capo, no,
non ne era a conoscenza. “Questione di tempo, prima che
l’Imperatore lo
persuada a giurargli fedeltà.”
“Non
se il nuovo conte Savorgnan lo accusa di costringerlo alla
fellonia con la sua richiesta di tradire il secolare vassallaggio, che
lega il
suo casato alla République”, ribatté La
Palice, ammirando segretamente l’arguta
risposta del nobile friulano, una velenosissima frecciatina alla
vanità
dell’Imperatore. “Les Allemands potranno anche
espugnare Gradisca, tuttavia
senza Marano ed Osoppo non saranno mai al sicuro nei loro nuovi
territori e
l’Empereur non ha mai goduto di buona fama nei territori da
lui conquistati. Al
che m’ha indotto a reiterare il mio ultimatum ai commissari
imperiali,
restringendo ad otto giorni la scadenza del rientro delle truppe al di
qua della
Piave”, aggiunse il maresciallo. “Hanno avuto il
loro bottino; è tempo che
anche noi perseguiamo i nostri interessi.”
“Una
saggia decisione”, convenne il conte.
“Inoltre”,
proseguì il maresciallo, “ho predisposto per
domani un
parziale spostamento del campo, trasferendoci all’Abbazia di
Santa Maria di
Pero. Da lì spedirò un contingente verso sud, con
l’ordine di asportare dai
mulini del Sile grano e farina.”
“Non
dovrete faticare molto”, l’assicurò
Antonio, “la
popolazione rurale trevigiana della destra della Piave sta divenendo
sempre più
ostile alla Repubblica, ritenendola responsabile della perdita dei
raccolti e
delle distruzioni dei loro paesi. Invano il Podestà e il
Provveditore mandano
grida, acciocché rientrino a Treviso con le loro scorte: nei
granai vi
troverete tanto di quel grano, da poterne dare anche ai vostri
cavalli!”,
scherzò, trascinando nel suo buonumore anche La Palice, che
s’appuntò
mentalmente quell’informazione.
I due
nobili trascorsero il resto della mattinata chiacchierando
sulle ultime novità e potenziali strategie
d’attacco, finché un servitore non
venne a ricordare al conte di un suo impegno su alcune questioni
riguardanti la
recente vendemmia. Antonio di Collalto si scusò
graziosamente con La
Palice, augurandogli una pronta guarigione.
“Cosa
stai facendo?”, inquisì d’un tratto
l’uomo, notando il suo
valletto scrivere velocemente e in disparte su di un pezzetto di carta.
Il
ragazzo, imperturbabile, allungò il braccio, offrendogli il
foglio da leggere. “Ea lista dil bucato da far
ancuò, sior conte”, chiarì,
sgranando confuso i grandi occhi nocciola. “Poxjo ndar
dabasso a darghela a la
massera?”
Il conte
lo congedò tramite un infastidito svolazzo della mano. Il
valletto s’inchinò e corse guardingo in
lavanderia, là dove l’aspettava il
giovane Vio. Una serva chiuse la porta e si pose a vedetta; le altre
impiegarono doppia forza nello sbattere i panni, onde coprire ogni
altro rumore
sospetto.
Parola
d’ordine: sfondare il fronte di Trevixo –
v’era scritto su di un secondo biglietto abilmente celato
dalla vera lista del
bucato, più un veloce riassunto di quanto discusso tra il
maresciallo La Palice
e Antonio di Collalto.
La
giovane spia veneziana lo piegò; toltosi uno stivaletto e
sfilato il tallone dalla braga, pose la preziosissima nota sotto la
pianta del
piede e rindossò l’indumento. “El
Gàmbara?”, s’informò.
Il
valletto tirò indietro gli occhi, cacciò fuori la
lingua e
disegnò una finta linea sul collo: spacciato.
Parlando
del diavolo, il conte Gianfrancesco di Gambara invero
arrancava in un’altra stanza del castello di San Salvatore,
il corpo sempre più
debole: la cavalcata a Serravalle per il bresciano l’aveva
sfinito, rubandogli
le ultime energie concessagli dalla malattia. Il suo animo agitato,
d’altronde,
non favoriva la guarigione, semmai esacerbava quel senso
d’ineluttabilità del
suo destino così concisamente descrittogli da Fra’
Anselmo. Dapprincipio il
nobiluomo aveva pensato ad uno crudele scherzo da parte del
benedettino, una
rivalsa per tutte le angherie subite dalle truppe franco-imperiali
durante la
loro occupazione di Nervesa. Invece, negli occhi scuri del monaco non
vi aveva
letto alcuna malizia né rancore, bensì una
distaccata oggettività acquisita
dalla sua previa professione di medico e quella attuale
d’erborista e fisico del
monastero.
State
morendo, signor conte –
gli
aveva ripetuto pazientemente – ed ogni
giorno di respiro concessovi,
interpretatelo come la volontà di Dio a riconciliarsi con
Lui. Meditate sulla
vostra vita, sulle vostre parole, opere e omissioni. Invocate
pietà laddove
avete fallato e pregate per chi avete offeso e danneggiato. Il mondo
andrà
avanti anche senza di voi; lasciatelo scorrere via e preoccupatevi del
destino
eterno della vostra anima.
Le ultime
parole avevano particolarmente colpito il conte
Gianfrancesco, precipitandolo in un profondo stato di prostrazione che
neanche
le preghiere avevano potuto alleviare. Sicché, sentendosi
quella mattina
leggermente più in forze, aveva richiesto al suo segretario
carta e penna:
avrebbe scritto all’amatissima figlia Veronica e poi, alla
prima occasione,
sarebbe ritornato a Pralboino, là dove aveva intenzione di
morire, non a
Collalto, non lontano dal suo feudo ancestrale.
Vanitas
vanitatum. Tanto affannarsi nelle terrene vicende, tante
fatiche, guerre, intrighi, tradimenti e alla fine cosa di quanto
guadagnato gli
sarebbe rimasto? Cosa si sarebbe portato seco? La sua
eredità, qualsiasi essa
fosse stata, sarebbe caduta sulle spalle dei suoi figli e di suo
fratello
Nicolò. Il suo nome? Le future generazioni,
indipendentemente dalle azioni o
parole del Gambara a sua discolpa, l’avrebbero giudicato.
Niente era più in suo
controllo, sempre che lo fosse mai stato.
Il
bresciano aveva seguito il consiglio di Fra’ Anselmo, sul
serio
scorrendo e analizzando la sua vita. Davanti al foglio bianco, in cerca
delle
parole per sua figlia, il conte Gianfrancesco ripensò alla
sua prima condotta
appena quindicenne, alla sua partecipazione alla Guerra del Sale, alla
battaglia di Fornovo, all'assedio di Novara; alla spedizione nel Reame
di
Napoli per aiutare Re Ferrandino d'Aragona a riconquistare il suo regno
dai francesi;
rivisse la battaglia di Tai di Cadore e, alas, d’Agnadello,
il punto di non
ritorno, là dove la voglia di tutelarsi aveva vinto
sull’onore.
In
passato, Gianfrancesco ammetteva le sue passate intemperanze e
acredini tra lui e la Serenissima: si era dovuto pubblicamente scusare
per aver
accolto a Pralboino i suoi parenti Sanseverino, nemici della Signoria;
il suo
diverbio e il conseguente schiaffo al podestà di Brescia,
sier Andrea Loredan,
gli erano equivalsi ad ulteriori grattacapi col Collegio dei Pregadi,
fino al
suo momentaneo allontanamento dalla città fintanto che il
Gambara non avesse
avuto l’umiltà di riconciliarsi non soltanto col
podestà Loredan, ma anche e
soprattutto con alcuni nobili locali, infastiditi dal suo comportamento
a loro
detta sprezzante.
Eppure
aveva combattuto ad Agnadello, ma la paura di perire in
quella carneficina l’aveva persuaso a fuggire dal campo di
battaglia assieme ai
concittadini Luigi Avogadro e Taddeo della Motella, mitigando la sua
sorte da
morto stecchito a prigioniero di Galeazzo Sanseverino il quale, memore
dell’antica parentela che li aveva uniti, lo aveva liberato
dietro pagamento di
un riscatto.
Ma quello
era stato solo l’inizio dell’incubo, oh, solo
l’inizio!
Sua
moglie, Alda Pio da Carpi, energica militante del partito
ghibellino e antiveneziano di Brescia, suo fratello Nicolò
di Gambara e Marco
Palatini da Martinengo, l’avevano convinto a lasciar perdere
quell’antica
alleanza e d’aprire invece immediatamente le trattative coi
francesi e così di
salvarsi dal naufragio, divenendo ufficialmente capo del partito
filo-francese
di Brescia. Eppure, contrariamente al loro parere, Gianfrancesco non
aveva
potuto sopportare di rendersi complice dell’ingiusta
prigionia dell’allora
podestà, sier Sebastian Zustignan, intercedendo per la sua
libertà e per un
salvacondotto fino a Venezia.
La nuova
alleanza aveva fruttato alla sua famiglia numerosi
vantaggi, privilegi e un grande potere a Brescia, almeno in apparenza,
giacché
il rivale e potente casato filo-veneziano degli Avogadro aveva colto al
balzo
l’occasione per inasprire i rapporti tra i Gambara, il resto
dell’aristocrazia
bresciana e la popolazione stessa, in una sottile guerra di faide e
spionaggio,
forti gli Avogadro dell’appoggio della Serenissima e delle
altre famiglie
nobiliari, gelose della nuova influenza dei Gambara. Il conte
Gianfrancesco
s’era inoltre reso ben presto conto di quanto si stesse
peggio sotto il nuovo
governo, trattati dai loro alleati francesi alla stregua di utili
lacchè da
sfruttare comodamente, disprezzati e derisi per il loro
servilismo. Di conseguenza, contro
l’opinione di moglie e fratello,
egli aveva ricontattato la Signoria e tramite il cardinale Francesco
Alidosi
aveva brigato onde riconsegnare Brescia ai veneziani, rimasto, in fin
dei
conti, il suo animo prevalentemente marchesco. Niente tuttavia sembrava
seguire
il processo dei suoi piani, il destino della Serenissima incerto quanto
però
l’esito della stessa guerra e questo l’aveva
bloccato proprio nell’istante in
cui la Signoria, per quanto perplessa e sospettosa, gli aveva conceduto
un
colloquio conclusosi con un nulla di fatto. Il Gambara voleva ritornare
all’antico signore, mondarsi dell’infamia che
sapeva avrebbe perseguitato
perennemente il nome suo e del casato. Per questo motivo aveva
ugualmente
mantenuto i contatti con Francesco Contarini “dai
Scrigni”, onde agevolare
quanto possibile la Signoria, nonché di restituire alla sua
famiglia il
prigioniero di Mercurio Bua a mo’ di prova concreta della sua
ritrovata lealtà.
Dio
invece aveva disposto altrimenti, cogliendolo in pieno
conflitto interiore, se la lealtà verso la famiglia o verso
la patria. Come
l’avrebbe giudicato, una volta al Suo cospetto? A che
cos’era valsa la pena
compromettere la sua reputazione? Il suo onore? Aveva salvato
nell’immediato la
sua casata dal disastro, ma non la sua coscienza. Aveva
visto e ammesso il suo peccato più grande, il più
disdicevole,
ossia quello di mutare talmente spesso fazione da chiedersi il Gambara
se il
suo fosse un cuore o perverso o demente.
“Signor
conte?”, lo riportò
bruscamente alla realtà il suo segretario, interrompendosi
nel suo discorso non
appena s’accorse della palese distrazione del padrone.
“La lettera del
cardinale Federico Sanseverino. Cosa gli rispondete?”
Invero,
come replicare ad uno scomunicato, talmente ambizioso
d’accettare di partecipare al Concilio di Pisa per deporre
Papa Giulio II ed
eleggere l’antipapa, il cardinale Carvajal?
“Che
venga qui a Collalto, se proprio mi deve parlare”, gli
comunicò incurante il conte Gianfrancesco, intingendo il
pennino
nell’inchiostro per incominciare invece la sua personale
lettera a Veronica.
Il
mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui, gli aveva
detto quel monaco benedettino; dunque, il bresciano si
premurò di confortare gli
unici che avrebbero faticato per un po’ ad accettare la sua
assenza, prima di
proseguire il lungo cammino della loro esistenza, relegando il suo
ricordo alle
preghiere serali o al Dì dei Morti.
***
“Ea
question sta cussì: en la strada dil zimitèro di
la Badia, te
trovi on muro, el qual gh’ha no sbrego, indove pol passar on
om par volta. Innanzitutto,
ti procurerò un saio acciocché ti scambino per
uno di noi; dopodiché,
trasporteremo il puto avvolto in un lenzuolo, come facciamo per muovere
i morti
via da qui al cimitero. Di decessi ne abbiamo avuti così
tanti, che nessun ci
baderà più di tanto né si
premurerà di far domande”, spiegava sottovoce
Fra’
Anselmo il suo piano di fuga ad Hironimo e Thomà, sfruttando
la scusa di
tingere al patrizio le placche infiammate in gola.
Dominando
il riflesso faringeo sia per la manipolazione dei
muscoli involontari sia per il gusto atroce della tintura, il giovane
Miani
bofonchiò in un gutturali gargarismi: “E come la
mettiamo col resto degli
ammalati e delle guardie?”
“Niente
che un ninìn de papaver somniferum non possa
risolvere”,
ribatté pragmatico il benedettino, cessando la tortura del
suo paziente, il
quale s’espresse in una serie di comiche smorfie e sputazzi,
nauseato al limite
dal sapore in bocca lasciatogli.
“Così
vi divertite ad avvelenare la gente a destra e a manca? Xé
squasi roba da Borja!”
Fra’
Anselmo s’imporporò, ironicamente, proprio
d’un bel rosso
papavero. “Se possiedi un piano migliore del mio, avanti,
esponimelo!”
Hironimo
scosse il capo, scusandosi per la battuta di pessimo
gusto, la quale in altre circostanze avrebbe o provocato la risata o
una
frecciatina arguta da parte del monaco. Invece quel giorno
l’umore di
quest’ultimo trasudava di stizza, colpa la rampognata da
parte dell’Abate, il
quale aveva preso in disparte Fra’ Anselmo, ma non abbastanza
da impedire al
veneziano d’ascoltare. In breve, gli si rimproverava
d’aver accolto due donne
in infermeria - una perfino travestita da uomo! - incurante
di ogni conseguenza, specie se le
due erano manifeste ribelli, fuggitive e mancate assassine ed
eviratrici
dell’altrui virilità.
“La
colpa ricade sul soldato, Padre Abate. Poteva applicare il mai
disprezzabile principio di castità e rispettare la persona
e, probabilmente, il
vincolo matrimoniale di quelle poverette.”
“Su
questo punto non le biasimo; ciononostante, non dovevate dar
loro rifugio nell’Abbazia. La neutralità
è l’unica difesa rimastaci, se
vogliamo evitare rappresaglie da parte dei soldati francesi.”
“Non
potevo certo rimandarle indietro, Padre Abate. Non dopo aver
scoperto quale destino le attendeva.”
“Comprendo
la vostra crisi di coscienza, però non vi dovevate
sbilanciare così apertamente. Voi appartenete ad una
comunità e come tale siete
responsabile della sua tutela …”
“…
ma anche dei miei pazienti e degli sfortunati che m’invocano
soccorso!”
“…
e dovete obbedienza al vostro Padre Abate.”
“Poi il Signore dirà a quelli alla sua
sinistra: Via, lontano da
me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi
angeli.
Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho
avuto sete e non mi
avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non
mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. In
verità vi dico: ogni
volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli
più
piccoli, non l'avete fatto a me. Deus absconditus
est, Padre Abate, Dio
è nascosto, tra di noi, non siede su di un trono dorato a
guardare e basta! Il
nostro dovere è d’aiutare il prossimo, la
Carità! Cos’è la Fede, a cosa serve
pregare tutto il giorno inginocchiati all’altare, fustigarci
e indossare cilici
se poi quando un nostro fratello in difficoltà ci supplica
aiuto, lo scacciamo
rimproverandolo: “Vattene da me, peccatore, questo
è il tuo giusto castigo!” Con
quale coraggio avrei potuto pregare dinanzi all’Eucarestia,
dopo aver negato il
mio sostegno a due mie sorelle in Cristo, vittime della cattiveria
umana? In
quale modo, ditemi, avrei potuto considerarmi migliore dei loro
aguzzini?”
“Siete
sconvolto, Fra’ Anselmo. Per stavolta fingerò di
non aver
udito le vostre disobbedienti parole. Badate a comportarvi
conformemente alla
Regola e al volere del vostro Padre Abate.”
Hironimo,
origliando quelle parole, aveva avvertito una stretta al
cuore, ammirando lo schietto coraggio di Fra’ Anselmo e la
sua coerenza morale,
virtù assai rara in quei giorni di sfacciato trasformismo.
Inoltre, gli avevano
riportato alla mente alcuni ricordi d’infanzia, alle visite,
quand’era bambino,
agli ospedali dei derelitti assieme a sua madre madona Leonora e le sue
parenti
e amiche, opere caritatevoli da lui abbandonate alla prima occasione,
divenutegli infatti una noiosa incombenza rispetto ad altre
attività più
divertenti e stimolanti, ma al confronto aride e fini a se stesse.
S’era ricordato
delle parole della genitrice, quando di sua mano assieme alle fantesche
impastava ed infornava il pane destinato ai poveri: Il
mondo è tanto
orfano di carità e amore, Momolin
mio. Quanto poco ci chiede Cristo
di fare verso il nostro prossimo, a confronto di quanto Lui ha fatto
per noi.
Cosa
aveva fatto lui per il suo prossimo, se non sfruttarlo per i
propri scopi? Se aveva aiutato qualcuno in difficoltà, era
stato soltanto per
ottenere un utile debitore nei suoi confronti, oppure perché
il suo gesto
l’avrebbe distinto dalla massa, esaltando le sue
qualità. Da un favore
accordato s’aspettava puntualmente un guadagno – do
ut des – e quelle poche
volte ch’aveva ceduto a quell’oscuro istinto
d’essere caritatevole, se n’era o
subito vergognato manco avesse commesso un turpe delitto, oppure aveva
minimizzato la cosa, presentandolo ai suoi amici come uno scherzo, una
stravaganza da parte sua. Il suo prossimo, in verità,
l’aveva ignorato
bellamente, talvolta biasimato e disprezzato, considerandosi
l’unico al centro
del mondo, l’unico con delle esigenze, problemi, sogni e
speranze.
Come
avrebbe reagito, fossero stati i ruoli invertiti, nei panni
di Fra’ Anselmo? Avrebbe posto la sua vita in gioco per
salvare le due
contadine? A Castelnuovo di Quero non s’era arreso per motivi
di gloria e
onore, per tornaconto personale: avrebbe messo a repentaglio la vita
per quelle
sconosciute, che nulla avevano da offrirgli in cambio, se non la
possibilità di
finire impiccato assieme a loro?
“Zò,
sveja, indormensà!”, gli schioccò le
dita sotto il naso Fra’
Anselmo, scocciato da cotanta distrazione. “Donca, come ti
stavo spiegando …”
“Domani
mattina all’alba”, lo interruppe Hironimo,
massaggiandosi
gli occhi d’un tratto brucianti.
“Cosa?”
“La
fuga. Domani mattina all’alba.”
“Matto!”,
sibilò il monaco, scrutando circospetto dietro di
sé. “Sei
ancora ammalato! A malapena ti reggi in piedi, figurarsi correre fino a
Trevixo?!”
“Posso
e voglio!”, replicò testardo il giovane Miani.
“Domani una
parte delle truppe si sposterà alla Badia del Pero, mentre
l’altra cavalcherà a
sud, per un attacco. L’intero accampamento sarà
pertanto in subbuglio,
un’occasione perfetta per scappar via da qua!”
Il
benedettino si grattò il mento, in profonda meditazione. Era
rischioso, però rinviare all’infinito non poteva
ugualmente corrispondere ad
un’opzione. Una volta mobilitato il campo, forse lui poteva
dichiararsi
sollevato dalla penosa convivenza coi franco-imperiali, ma il giovane
patrizio?
Il bambino? A quale destino sarebbero andati incontro? No, in sua fede,
non
poteva abbandonarli, né continuare a soffrire la fame e la
mala compagnia di
quei giannizzeri travestiti da cristiani.
“Sta
ben”, gli diede l’uomo una pacca sulla spalla,
sennonché la
sua mano venne trattenuta da quella d’Hironimo.
“Mi
dispiace averti provocato tutte queste rogne per causa mia. Ti
sono debitore per l’aiuto offertomi, soprattutto per aver
guarito il mio
bambino”, lo ringraziò sincero, sorridendogli
timidamente. Poi, avvicinandosi
all’orecchio del frate, gli sussurrò energico:
“Dovesse questa fuga fallire,
giurami di portare Thomà a Trevixo, anche a costo di
lasciarmi indietro. Compredestu?”
Lo
stomaco di Fra’ Anselmo sobbalzò a disagio dinanzi
a
quell’inflessibile richiesta.
“Comprendestu?!”
“Sì,
ho capito. Te lo prometto”, lo rassicurò in fretta
il
benedettino, scoccando una fugace occhiata all’ignaro
Thomà. “Ora, però, per davvero
dormi: avrai bisogno domani di tutte le tue forze”, si
raccomandò, chiudendo la
tendina.
Hironimo
s’accoccolò sotto le coperte, i crampi allo
stomaco
passati, figli del pugno dell’altro giorno da parte di
Mercurio Bua, nella
speranza che non gli avesse incrinato qualche costola o provocato danni
interni. Allungò il braccio per accarezzare la testa bionda
di Thomà, il quale
si girò con fare interrogativo, la bocca piena di una fetta
di pane, cortesia
del greco-albanese.
Avesse
prestato più attenzione a chi lo circondava, non avrebbe
permesso che un bambino di dieci anni e qualche mese militasse in una
fortezza
così pericolosa quale Castelnuovo di Quero. Avesse Hironimo
posseduto
abbastanza buonsenso e spirito di osservazione, avrebbe chiesto ad
Andrea
Trepin di spedire Thomà a Treviso o meglio ancora a Venezia,
al sicuro, non in
prima fila a combattere contro quei senzadio dei franco-imperiali. Non
era quello
il suo posto. Invece, tanto era stato assorbito in strategie militari
rivelatesi alla fine inutili; dai suoi sogni di gloria miseramente
infranti;
dai suoi problemi col senno di poi assai stupidi da non accorgersi di
nulla.
Pertanto,
il Miani doveva questo favore a Thomà, per esser stato
un pessimo comandante e una persona cieca ai suoi bisogni. Avrebbe
lottato fino
all’ultimo respiro per concedergli la possibilità
di divenire un uomo migliore
rispetto a lui.
***
Sul
porticciolo di Treviso, davanti al bastione di San Polo,
s’incrociavano in un intenso viavai burchi, burchielli,
zattere, barche, ogni
sorta d’imbarcazione disponibile nelle rimesse. I calafati e
maestri d’ascia
lavoravano alacremente onde riparare quelle danneggiate, spalmandole
poi della
tenace pece.
Sotto un
portico poco distante, il capitano Andrea Vassallo
ascoltava attento e ragionava assieme a paron Jacopo Cimavin il
Vecchio, a suo
figlio Donado e agli altri membri della Corporazione dei Mugnai, i
quali sulla
cartina della Marca gli stavano indicando con grande precisione ogni
mulino
sulle rive principalmente del Sile e degli altri fiumi e canali.
Appreso
di una prossima incursione finalizzata a rubare la farina
macinata per Treviso e la Signoria, il provveditore Zuam Paulo
Gradenigo aveva
deciso di ritirarla tutta, trasportandola via acqua al sicuro nei
magazzini
cittadini. Al contempo, avrebbe trasformato i mulini in piccole torri
fortificate, acciocché, per ripicca, i franco-imperiali non
li distruggessero,
sottraendo a Treviso una vitale fonte di sostentamento. Quanto ai
contadini
sulla destra della Piave, non ricevendo risposta ai suoi inviti se non
netti
rifiuti, sier Gradenigo aveva deciso infine di lavarsene le mani: che
si
difendessero pure da soli, se non volevano collaborare.
Sicché,
sulle imbarcazioni venivano trasportati anche falconetti,
archibugi, balestre, barili di polvere da sparo, mentre il capitano
Vitello
Vitelli raccoglieva dei cavalleggeri e stradioti acciò il
nemico imparasse a
saccheggiare altrove.
“Vegnarò
anca mi”, concluse Donado Cimavin, sorprendendo suo
padre, che infatti sobbalzò alla notizia. “Sior
pare”, lo rassicurò prontamente
il giovane uomo, “i gh’han besogno de zente forte,
che savia el sòo mestier e
soratuto che cognossa el Sil. Mi e li altri muneri e sbisai semo
abituà a tirar
suso staie; ajutando i soldà, ze manedarem (sbrigheremo,
ndr.) avanti
l’attaco.”
Jacopo il
Vecchio non poté negare una certa ansia nel sapere suo
figlio invischiato in un’operazione sì rischiosa;
ciononostante, avendo vissuto
anch’egli avventure pericolose in gioventù,
comprendeva l’allettante richiamo
al cimento e la voglia di riscattarsi facendosi onore, specie dopo la
magra
figura di Donado ad Agnadello, la pellaccia sua salvata in extremis.
“Badarò mi
a Felicita e al bocia” (bambino, ndr.), anticipò
la prevedibile raccomandazione
di Donado, il quale, appoggiò riconoscente la mano sulla
spalla del genitore.
Intanto
che il giovane Cimavin radunava i suoi operai e li
smistava sulle varie imbarcazioni, Orlando da Bergamo e altri maestri
bombardieri aiutavano alcuni fanti a trasportare
l’artiglieria leggera e ad
imbarcarla.
“Oué,
presidente”, fischiò giovale Giorgio da Otranto,
attirando
l’attenzione del bergamasco, “v’unite
alla brigata?”
“Salveregina!
Vi pare che manchi alla gita, mastro Zorzi?”,
replicò Orlando, scandendo bene le parole
acciocché il pugliese comprendesse.
“Lì sul campanél si muore di noia,
almanco fazz un po’ d’speriènsa ad
ammazzare
franzosi!”, ridacchiò, grato al provveditore
d’avergli concesso d’accompagnare
la piccola guarnigione ai mulini, più per sistemare
l’artiglieria in maniera
efficace e strategica che per combattere, necessitando Gradenigo del
suo capo
dei bombardieri a Treviso, vivo e illeso. Un’ottima
distrazione, altrimenti al
bergamasco sarebbe cresciuta la muffa sotto le chiappe a starsene
lì inattivo a
San Nicolò in compagnia dei piccioni e del campanaro.
Orlando
stava giusto terminando di legare l’ultimo falconetto
assieme al bombardiere Paolo da Corfù, quando i suoi occhi
di falco isolarono,
nel concitato viavai di donne sulla riva del fiume, la gonnella che da
qualche
giorno intrigava la sua curiosità. L’aveva scorta
tra le volontarie a servire i
pasti e ad aiutare madona Maria Malipiero Gradenigo, trasportando in
testa,
come in quell’esatto momento, gonfi fagotti di coperte o
ceste o secchi
d’acqua. Una bella morettina, soda e al contempo pastosa,
visetto dolce
d’angelo e braccia robuste da rematore. Orlando aveva in
progetto di parlarle,
peccato che quella non guardasse nessuno in faccia,
un’espressione selvatica
perennemente dipinta su quel suo visetto vispo, che neppure
l’ombra dei lividi
e dei graffi avevano scalfito.
Il
bergamasco aggrottò la fronte dinanzi ai fischi di alcuni
soldati e alle moine d’apprezzamento, sebbene ignorati
sdegnosamente dalla
ragazza, la quale proseguiva impettita per la sua strada. Il
bombardiere balzò
giù sul pontile, azzoppando per poco il suo compaesano Zuan
Antonio e Thadio da
Vicenza, non appena uno dei fanti prese a tallonare la giovane,
parlottandole
forse nella speranza di persuaderla a fermarsi. Osservati gli scarsi
risultati,
l’uomo decise allora di ghermirla per una spalla e
così costringerla a
voltarsi, sennonché, per la somma sorpresa sua e di Orlando,
la moretta
estrasse rapidissima un coltello, puntandoglielo bellicosa sotto la
gola.
“Tocame
de novo e te tajo i cojoni e te li fazzo magnar!”, lo
minacciò senza tanti giri di parole, fissandolo arcigna.
“Ohi,
zentilhomo!”, le venne in soccorso il bergamasco, conoscendo
la permalosità dei soldati, che sì potevano
all’inizio spaventarsi dinanzi a
tale audacia, ma poi, ripresisi, non avrebbero reagito certo
galantemente se
provocati. Raggiuntili, si portò in mezzo ai due improbabili
innamorati. “La
s-cèta (ragazza, ndr.) l’è meco,
sót la mia protessiù”, mentì
il capo dei
bombardieri, tranne quando appoggiò allusivamente la mano
dietro la schiena, là
dove alla cintura teneva il pugnale. “Cavat d’i
ballis”, intimò spiccio al
soldato che, levando in alto le mani, ammise il suo torto e
lasciò il campo
libero al bergamasco, credendo il territorio già marcato.
Soddisfatto,
Orlando si girò trionfante verso la giovane e magari
aspettandosi pure un sorrisone d’estasiata ammirazione,
invece quella girava
sui tacchi, rimettendosi in testa la cesta e filando via in direzione
dell’ospedale.
“Hé-oh!
Torna qua indietro: neanche un ringrassiamènt?”,
le corse
subito dietro il presidente dell’artiglierie, decisamente
preso di contropiede
da tal atteggiamento burbero. “No set chi so'?”
“On
bergamasco che co’l verze ea boca, mi no capisso na
maladeta!”, replicò secca la giovane donna, senza
neppure degnarlo d’uno
sguardo.
Orlando
rise a quella che lui accettò come una battuta,
riconoscendo la difficoltà di comprensione da parte della
ragazza, proveniente
di sicuro dalla campagna e poco avvezza a qualsiasi realtà
oltre a quella dei
suoi campi. “Volevo soltanto un grassie, bela
pötela”, ripeté più lentamente
e
mescolando veneto e bergamasco. In un balzo la sorpassò,
aprendole
cavallerescamente una defilata porticina di servizio
dell’ospedale. “Perché
set, ch’a t’è bela, no?”
“Sì,
sì, con sta fazza pittufada!”,
s’indicò scettica la ragazza i
lividi e i graffi, meno gonfi certo, ma comunque visibili.
Dopodiché appoggiò
la cesta per terra, ponendosi le mani sui fianchi e sistemandosi
scocciata lo
zendale, affatto impressionata da quella cortesia e quei complimenti.
“Co’ on
om dise a ‘na puta: quanto te sé
bea, a vol dir ch’el vol infilarghele
le man tra le cosse (coscie, ndr.)!” e riafferrato il suo
fardello, passò oltre
lo scioccato Orlando, rimasto comicamente a bocca aperta dinanzi a tal
prosaica
schiettezza.
“D’accordo,
seguirò il tuo consiglio: dimmi il tuo nome!”, si
riprese però in fretta, “Così non ti
chiamo bela pötela! E per quanto riguarda
quelli”, e indicò più serio le
ecchimosi al volto, “passano in fretta e ne ho
collezionati anche io, dappertutto.”
La
moretta esitò, arricciando pensosa la bocca e valutando da
capo
a piedi la figura del bombardiere, in paziente attesa sullo stipite
d’ingresso,
sporto in avanti. Sì, il suo atteggiamento da galletto
tradiva la tipica
tracotanza dovuta al suo rango di presidente delle artiglierie,
tuttavia il
bergamasco possedeva una faccia da buono che la rassicurava. Inoltre,
fattore
non trascurabile, si presentava generalmente un bell’omo.
“Anzola di Bapi”, gli
concesse, entrando tuttavia svelta dentro il cortile interno
dell’ospedale.
“Zanze.”
“Zanze”,
assaporò quasi il bergamasco il nome, memorizzandolo
bene. “Zanze, tesoro, ‘scoltami: co’
torno, possiamo ciacular, tu ed io?”, le
propose galante, indeciso però s’accarezzarle o
meno il braccio. Quand’ecco,
che s’accorse di alcune macchioline rosse sul selciato.
“Ti sè fag’mal?”,
esclamò preoccupato.
La
contadina sobbalzò all’indietro, fissando
sbalordita per terra;
dopodiché s’alzò di qualche spanna la
sottana, strabuzzando gli occhi alla
vista di un rivoletto di sangue scenderle dalla gamba fino al tallone.
“No!
No vojo ciacolar teco!”, rifiutò imbarazza Zanze
la richiesta
del bergamasco, anguillando via lesta e sbattendogli poco
cerimoniosamente la
porta in faccia. Per poco mancò di spaccargli il naso, che
comunque il capo
bombardiere si massaggiò, deluso da quel due di bastoni
ricevuto. Ecco però che
la porta si riaprì e la testa scura di Zanze riapparve.
“Forse”, si corresse,
rientrando dentro tanto rapidamente quant’era comparsa.
“Tra sinque zorni:
cussì la sarò ancor pì bela per ti,
senza macature!” e fu la terza ed ultima
correzione.
Un
sorrisone da gatto pasciuto illuminò il volto
d’Orlando, felice
dell’incoraggiante esito di quell’incontro; corse
rapido al porticciolo e
lavorò più di tre uomini messi insieme, avendo
ora infatti un ottimo motivo per
terminare quanto prima la missione dei mulini sul Sile.
***
Fra’
Anselmo deambulava in punta dei piedi lungo l’intero
perimetro dell’infermeria, i nervi a fior di pelle, levando
la bugia sui volti
dei suoi pazienti e sospirando sollevato ogniqualvolta li trovava
rilassati, le
membra docili sotto il giogo del succo di papavero mischiato al loro
mosto
serale. Anche i due assistenti dormivano contro il muro, uno appoggiato
all’altro, mentre il suo confratello s’era recato
alle Lodi, il suo turno
finito. L’ampio salone giaceva in assoluto silenzio,
l’eco del gran trambusto
dovuto al parziale smantellamento del campo un lontano ricordo. Fuori
il cielo
s’andava gradualmente a schiarire, preparando la terra
all’alba.
L’ora
dei ladri e dei fuggitivi.
Guardandosi
incessantemente alle spalle, il benedettino si recò al
letto d’Hironimo, appoggiandogli lievemente la mano sulla
spalla e destandolo.
Il giovane patrizio non manifestava una cera migliore del giorno
addietro né ad
esso precedenti, sicché il monaco l’aveva lasciato
dormire fino all’ultimo,
sobbarcandosi lui e Thomà dei preparativi. Il fantolino,
agile e scaltro, non
aveva avuto alcuna difficoltà a reperire dalla lavanderia un
saio per il suo
padrone (anzi conosceva sospettosamente anche fin troppo bene la
strada) e per
sé una casacca, un paio di braghe e scarpe destinate agli
oblati. Dalle ceste
accanto al forno del monastero egli aveva in aggiunta rubato una grossa
pagnotta di pane e riempito di mosto una borraccia in cuoio, non
potendo
calcolare nell’esattezza la durata di quella loro fuga. Se
tutto fosse andato
per il meglio, aveva ipotizzato Fra’ Anselmo, in giornata
sarebbero giunti a
Treviso, specie in caso si fossero imbattuti negli esploratori
veneziani.
Altrimenti, l’indomani.
Hironimo
sussultò, guardandosi confusamente attorno, la testa
dolorante dalle ormai famigliari fitte. Ricacciò indietro la
nausea e si
stropicciò gli occhi, obbligandosi a regolarizzare il
respiro, deglutendo in
continuazione dell’acida saliva. Accanto a lui,
Fra’ Anselmo lo scrutava
attento, i muscoli del viso contratti dall’ansia e dalla
pressione.
“Stetu
ben?”, s’informò in un sussurro.
Il
giovane Miani annuì, pur ansimando, avvertendo sulle guance
un
bizzarro connubio di caldo e freddo. Si massaggiò il collo
irrigidito,
roteandolo onde scrocchiarne e scioglierne in muscoli, peggiorando al
contrario
la situazione, acuiti infatti gli spasimi alle tempie.
“Demo,
donca”, l’incoraggiò il monaco,
gettandogli sul letto un
fagotto ben stretto – saio, scapolare e sandali. Dopo quasi
un mese trascorso
indossando la sola camicia, al veneziano pareva quasi strano il
contatto
d’altro tessuto sulla pelle e una piacevole sensazione di
calore l’avvolse,
specie le gambe perennemente infreddolite. “Bevi”,
non si scordò certo il frate
del suo decotto, che il patrizio ingollò in un sol sorso tra
grandi smorfie,
tappandosi il naso.
Thomà,
nel frattanto, aveva sistemato uno spesso telo in mezzo
alla stanza, avvolgendosi poi in un secondo lenzuolo. Un po’
titubante, si
stese per terra e incrociò le braccia al petto, non senza
aver dato una furtiva
grattatina sotto l’inguine.
“Ma
cossa fastu, porzeo?”, lo rimbeccò Fra’
Anselmo,
raggiungendolo assieme ad Hironimo, travestitosi alla perfezione e
già col
cappuccio calato in testa.
“Contr’ea
scarògna!” (sfortuna, ndr.), si
giustificò impunito il
fantolino, scrollando le spallucce manco il suo si trattasse
dell’atteggiamento
più naturale del mondo. “Mi fazzo el morto, ma no
ghe vojo mica serlo per
dasseno, zò!”
Il monaco
scosse il capo, borbottando un pagan! rivolto al
bambino; lui ed Hironimo si piegarono uno di fronte all’altro
e pigliate
l’estremità del telo, lo sollevarono e lo chiusero
come se volessero piegarlo,
dirigendosi lentamente verso l’uscita
dell’infermeria, il cuore in gola e il
sangue fischiante nelle orecchie.
“Dove
andate?”, vennero immediatamente bloccati dai due stradioti
posti di guardia.
Ineffabile,
Fra’ Anselmo rispose loro, acciocché
l’attenzione
fosse rivolta totalmente su di sé: “A seppellirlo:
la cancrena se l’è portato
via, i suoi umori puzzano da nauseare!” e si
sventolò enfaticamente sotto il
naso. Potere della suggestione, anche i due mercenari credettero
annusare tale
lezzo, facendo rapido cenno ai due monaci di proseguire verso il
camposanto,
abituati oramai all’andirivieni di cadaveri
dall’infermeria.
Il
benedettino ne approfittò per accelerare il passo, non
giudicando sicuro sprecare un solo istante: le Lodi non sarebbero
durate in
eterno e un conto era ingannare qualche soldato ignorante o ingenuo
confratello, un conto un’intera congregazione. O peggio
ancora, d’incrociare in
corridoio o nel chiostro Mercurio Bua, il quale non mancava occasione
di venir
spessissimo a controllare il suo prigioniero, non appena si ricavava
qualche
ora buca tra un impegno e l’altro. Fortunatamente il suo
complice aveva
afferrato al volo questa sua fretta, camminando anche lui speditamente
finché
imbroccarono l’agognato sentiero verso il cimitero, liberi
infine dal labirinto
interno dell’Abbazia.
“Ecco,
ecco!”, virò Fra’ Anselmo verso un
angolo piuttosto
defilato del muro perimetrale, seminascosto dalle edere rampicanti,
dagli irti
cespugli e qualche ramo degli alti alberi al di là della
recinzione. Appoggiato
il cargo per terra, il monaco scostò via la verzura, tirando
e rompendo alcuni
rami piuttosto ostinati, finché non comparve in mezzo al
biancore delle pietre
una piccola breccia, a malapena sufficiente per un uomo
d’infilarsi dentro una
spalla alla volta. “Dove vastu?”, sibilò
agitato ad Hironimo, il quale, aiutato
Thomà a srotolarsi dai lenzuoli, era corso alla fossa comune
a cielo aperto,
dove gettò i teli, ricoprendoli con numerosi strati della
calce lì disponibile.
“Per
non lasciare una traccia ai cani”, fu la concisa spiegazione
del veneziano e il monaco si batté la mano sulla fronte,
avendo scordato quel
dettaglio malgrado avessero, nel forno comune, bruciato ogni oggetto
venuto a
contatto coi due prigionieri e il benedettino stesso aveva ripulito e
passato
sui suoi strumenti, scrivania e sedia un liquido particolarmente
urticante alle
sensibili nari dei cani.
Thomà
scivolò tranquillamente per primo attraverso lo stretto
varco, atterrando in basso il dislivello della collinetta in un sordo
tonfo
fangoso, unito al fruscio delle foglie secche. Fra’ Anselmo,
invece, dovette
trattenere il fiato e stringere gli addominali, incontrando un fiero
attrito
tra pancia e pietre che soltanto una decisa spinta da parte
d’Hironimo lo
disincastrò, permettendogli di passare oltre. Venne infine
il turno del
patrizio, il quale ricoprì il passaggio segreto alla
bell’e meglio con edere e
rami, per poi rotolare giù dove l’attendevano il
monaco e il bambino,
altrettanto infangati.
“Tutto
ben?”
Hironimo
fece cenno di sì, mascherando al contrario una smorfia di
dolore non appena appoggiò il piede previamente slogato per
terra; issandosi
su, esso aumentò, non realizzando d’aver battuto
anche il ginocchio. “Tutto
ben”, rispose e i tre in un sol uomo presero a correre lungo
un sentiero
scosceso del bosco, verso la sua parte più interna e buia,
là dove cresceva il
sottobosco e dove i cavalli avrebbero faticato ad inseguirli.
Essendo
piovuto in gran abbondanza, il terreno rossastro creava
uno strato molle in cui i loro piedi affondavano, insinuandosi il fango
tra i
sandali del monaco e del veneziano, il quale teneva sollevato il saio,
non
avvezzo a correre sì intralciato da cottole. I rametti
talvolta spinosi dei
cespugli li ferivano, stracciando pezzi di
tessuto; le punte delle
ortiche li pizzicavano arrossando quello sfortunato lembo di pelle cui
erano
venute a contatto.
Un
retrogusto ferroso iniziò a riempire la bocca
d’Hironimo, il
petto stretto e in affanno dal crescente debito d’ossigeno.
In altre
circostanze, correre a perdifiato su qualsiasi sentiero non
l’avrebbe certo
stancato così presto; la malattia e un mese
d’inattività forzata s’erano
congiunte in uno scellerato patto, rallentandolo ad ogni falcata.
Più volte
dovette appoggiarsi ad un albero, ansimando in cerca
d’un’aria sempre più
difficile da respirare, la milza in fiamme che lo malediva. Il sudore
gli
rigava il volto e sapeva bene quanto non fosse figlio dello sforzo;
infatti si
sentiva bruciare da dentro e gelava al contempo, la vista appannata da
macchie
nere e gialle, quando ovviamente non gli deformava ogni contorno
davanti a sé.
Strinse i
denti, rifiutandosi di cedere proprio in quel momento,
di compromettere la fuga con la sua debolezza e soprattutto di mettere
a
repentaglio la vita dei suoi complici. Hironimo ignorò la
rigidità dei muscoli,
la morsa alla milza e ai polmoni; avanti, avanti, soltanto una volta
giunto a
Treviso si sarebbe lasciato stramazzare al suolo.
Un acuto
gridolino spaventò lui e Fra’ Anselmo:
Thomà, che li
correva straordinariamente avanti, era sprofondato in apparenza nel
sottobosco,
neanche la terra l’avesse inghiottito. Hironimo si
portò rapidissimo sul posto,
temendo il fantolino ferito o peggio.
Tirò
un sospiro di sollievo.“Ahia-ahia-ahia!”, si
massaggiava il
sedere il bambino, non avendo notato la discesa a picco ben camuffata
dalla
verzura e rotolato quindi ai piedi della collinetta.
“Patron?”, inquisì
perplesso Thomà, notando l’improvviso colorito
cinereo sul volto del patrizio.
Un
brivido dolorosissimo colse il decenne, nel captare dietro di
sé lo schiocco di una balestra a leva appena caricata.
A onor
del vero, Mercurio Bua non era molto entusiasta all’idea di
quella cavalcata a saccheggiare i mulini sul Sile: tale operazione
l’avrebbe
allontanato per l’intera giornata dall’Abbazia, se
non di più se doveva dare
adito ai piani di La Palice che bisognava spingersi fin quasi a
Musestre e
figurarsi se il greco-albanese avesse poi voglia di pernottare al
ritorno nell’Abbazia
di Santa Maria di Pero. Il suo prigioniero sicuramente non versava
nelle
migliori condizioni di salute per cimentarsi in futili imprese e il
monastero
pullulava di soldati, nondimeno la prudenza non era mai troppa, il
tradimento
serpeggiante in ogni corridoio e lui non voleva rischiare brutte
sorprese. Il
Gambara, primo nella sua personale lista dei sospettati, poteva anche
languire
fuori gioco nel Castello di San Salvatore, ma ciò non
escludeva eventuali
complici, specie nella sua compagnia.
Di
conseguenza, il capitano di ventura aveva discusso l’affare
con
Leka Busicchio, chiedendogli di sostituirlo; lui poi si sarebbe
inventato una
scusa da rifilare a La Palice. Inoltre, che il suo collega rimanesse
rassicurato, il Bua gli cedeva volentieri il comando di parte dei suoi
stradioti, Zilio Madalo compreso. Busicchio aveva accettato di buon
grado, non
approvando però comprendendo la circospezione
dell’altro capitano.
Mercurio
s’era quindi appena congedato da Leka, quando si diresse
verso l’infermeria, trovandola stranamente in subbuglio: il
solito benedettino
– com’accidenti si chiamava? Fra’
Guglielmo? Fra’ Antonio? – mancava dalla sua
scrivania o accanto ai letti degli ammalati, rimanendo solo il suo
confratello
e gli assistenti, quest’ultimi indossanti in viso
un’espressione assai
intontita non dissimile da quella d’un ubriaco.
L’altro monaco stava spiegando
qualcosa all’Abate, dalla sua faccia sgomenta sicuramente
grave e di fatti
trasalì terrorizzato alla vista del Bua, il quale gli si
piazzò imperioso
davanti.
“Cos’è
successo?”, domandò, leggermente inquieto da
quella
bizzarra scenetta. I pazienti ricoverati in infermeria gli apparivano
stranamente quieti, così come l’intero ambiente
troppo in ordine, conferendogli
un non so che d’abbandonato, alternandosi nell’aria
un odore pungente e uno di
tessuto bruciato proveniente dal forno, a malapena mitigato dalle
finestre
aperte per far circolare via tal fastidioso lezzo.
“Un
… un nostro frate, Fra’ Anselmo, parrebbe essere
fuggito …”,
gli spiegò vago l’Abate, evitando di guardare il
condottiero dritto negli occhi,
“a quanto pare s’è servito assai
scaltramente delle sue erbe, per addormentare
…”, ma non riuscì a terminare il
discorso, essendo Mercurio volato verso il
letto d’Hironimo, scostando veemente le tendine, il cuore
martellante in petto
e presagendo il peggiore dei suoi timori.
Vuoto.
Il
materasso nudo ai suoi occhi – senza lenzuolo, senza federa
il
cuscino, senza il suo prigioniero – lo derideva inclemente,
schiaffandogli in
faccia il suo fallimento e stupidità per aver arrogantemente
creduto quel
dannato veneziano incapace di reagire, sconfitto e soggiogato. Alla
stregua di
una vipera, gli aveva sputato il suo veleno per poi scivolargli via
agile tra
le dita e per di più – massimo scorno! –
s’era portato seco il suo
preziosissimo nanerottolo, sottraendo così al Bua
l’unica arma di ricatto in
suo possesso, rompendo l’accerchiamento cui era stato
costretto.
Si fosse
trattato dell’altrui ostaggio, Mercurio si sarebbe
complimentato in cuor suo per l’astuzia del patrizio e
biasimato la cecità del
suo guardiano; siccome però il gabbato era lui,
un’ondata di rabbia mista a
vergogna per la sua stoltezza gli provocò violenti spasimi,
costringendolo a
digrignare i denti quasi a spaccarsi mascella e mandibola, le nocche
che
potevano squarciare i guanti di cuoio da quanto stringeva i pugni. Come
aveva
potuto lasciarsi ingannare da quel teatrino? Come aveva potuto peccare
di tale
stupida ingenuità? La mansuetudine,
l’arrendevolezza, perfino la fottuta
malattia, tutta una manfrina, un abile piano atto a fargli abbassare la
guardia
e piantargli il simbolico pugnale tra le scapole. Perché?
Perché proprio adesso
doveva fuggire? Quale figura ci avrebbe fatto con lo zio di quel
maledetto, con
l’intera Signoria? Esigere presuntuosamente uno scambio,
quando in realtà non
possedeva ora nulla da cedere? Quei vecchi volponi in Senato gli
avrebbero riso
in faccia, non pigliandolo in futuro mai più sul serio! Un
buffone, un
millantatore, un miles gloriosus, ecco a quale considerazione
l’avrebbero
relegato! E Caterina? Cos’avrebbe pensato di lui, della sua
debacle? Del modo
da scolaretto in cui s’era fatto abbindolare? Quando
l’avrebbe potuta
riabbracciare? Quando sarebbe riuscito a catturare nuovamente qualcuno
di sì
gran rango per giustificare lo scambio?
A
Mercurio sorse una gran voglia d’urlare, di stracciare a
morsi
il materasso, di spaccare a pugni il letto e d’infilzare, uno
alla volta, tutti
i presenti in infermeria, complici forse ignari ma non per questo ai
suoi occhi
meno colpevoli. Invece, una strana atarassia l’avvolse, una
lucidità imparata
in sedici anni di servizio militare. Alla fine della fiera, anche
quella era
una guerra: il veneziano aveva fatto la sua mossa, ora spettava al Bua
reagire
di conseguenza.
In
predatorio silenzio uscì dalla sala, pigliando i suoi due
stradioti per la gola e sbattendoli contemporaneamente contro il muro,
li
intimò di raccontargli dettagliatamente quanto visto e udito
quella fatidica
mattina. Dunque i due fuggitivi avevano finto di seppellire qualcuno
– il
moccioso, indubbio – e costì sgattaiolare fuori?
Perfetto, quindi dovevano
essersi recati al camposanto. Ma da lì com’erano
usciti? I furbastri avevano
bruciato o ripulito qualsiasi oggetto toccato, impedendo ai cani di
fiutare una
traccia. Come localizzarli nel bosco? A meno che …
“Voi
due sellate i cavalli e seguitimi”, ringhiò
Mercurio ai suoi
negligenti sottoposti, i quali si massaggiavano il collo scuritosi di
ecchimosi. “E pregate Agios Georgios che riesca a catturare
almeno il
veneziano, altrimenti v’impiccherò al primo albero
disponibile!”, che in un
bosco significava immediatamente.
E mentre
i due stradioti correvano via in direzione della stalla,
il Bua ritornò alla sua cella, rovesciando collerico il
cassone contenente la
sua roba. Rovistò disordinatamente, lanciando di qua e di
là capi
d’abbigliamento e chincaglierie, calciò qualsiasi
cosa lo ingamberasse e
imprecò nel non reperire subito ciò che stava
cercando.
Fischiò
vittorioso nel trovare, ben nascosto in fondo all’ultimo
cassone, il farsetto ch’aveva sottratto, il giorno della
cattura, al veneziano,
quando l’aveva spogliato dell’armatura e di ogni
altra sua possessione. Un capo
d’abbigliamento d’un bel rosso accesso,
d’eccellente e robusta lana inglese
follata in modo da rendere il tessuto impermeabile all’acqua
e al sudore. Conoscitore
della qualità, Mercurio se n’era appropriato allo
scopo di disfarlo e di
ricucirselo addosso, adattandolo alla sua taglia. Grazie a Dio aveva
posticipato tale decisione, giacché, se fortunato,
l’odore del fuggitivo poteva
aver indugiato nell’indumento.
Il
condottiero corse in cortile, portando il farsetto ai cani e
mordendosi in ansiosa attesa all’interno della guancia
dinanzi alla confusione
degli animali, i quali sniffavano esagitati ma al contempo confusi,
girando in
cerchi, annusando, scodinzolando per ripetere in seguito tale
operazione.
Quand’ecco, che i loro corpi muscolosi e snelli
s’irrigidirono, la coda
fendette con maggior vigore l’aria e un lungo ululato
riecheggiò nel monastero,
intanto che i cani partivano entusiasti all’inseguimento, la
traccia
localizzata.
L’unico
inghippo rimaneva che Mercurio non poteva transitare a
cavallo lungo la fessura nel muro perimetrale del camposanto
– disgraziato lui
che non aveva controllato a sufficienza ogni pertugio in quella
stramaledetta
Abbazia! – sicché dovette frenare
l’esuberanza dei suoi cani e reindirizzarli
lungo il sentiero, soltanto dopo aver girato attorno al monastero per
una via
più agevole agli zoccoli della sua cavalcatura.
Il
greco-albanese, affiancato dai suoi due stradioti, batté
quindi
furiosamente gli speroni contro i fianchi del suo turcomanno, il quale
guizzò
in possente galoppo e i suoi sbuffi per l’inaspettato sforzo
si mescolarono al
tintinnare delle catene, con le quali Mercurio aveva intenzione di
legare la
sua ribelle preda.
Il
balestriere dinanzi ai tre impietriti fuggiaschi rimase
altrettanto immobile, reclinando il capo interdetto. Lentamente, dalla
boscaglia apparvero e gli si affiancarono altri due uomini armati di
picche, i
cui abiti grezzi e le pellicce pezzate tradivano la loro
rusticità ed
esclusione da uno specifico esercito. Il che rassicurò
Hironimo, rilassatosi,
pur avanzando a mani in alto e a passo deciso verso il soldato alle
spalle di
Thomà, malgrado i preoccupati richiami di Fra’
Anselmo.
“Semo
zente in fede di Sen Marcho!”, dichiarò a voce ben
alta,
scandendo ciascuna parola e mantenendo un solido contatto visivo col
balestriere, il quale, malfidente, replicò aspro, il dito
accarezzante la molla
per far scattare la freccia:
“Provalo!”
Il
giovane Miani guadagnò ancora qualche passo, portando il
tiro
su di sé così da permettere al bambino di
scivolare dietro la sua schiena. “In due
parole mi sbrigo: sono Hironimo Miani, figlio del fu magnifico senatore
Anzolo
Miani di Sen Vidal, castellano di Castel Novo di Quer;
costui”, ed indicò col
capo il fantolino dietro di lui, “è
Thomà figlio del fu Vetor, falegname di
Feltre, e assistente del fu bombardiere Andrea Trepin da Cividal di
Belluno.
Quest’ultimo invece si chiama Fra’ Anselmo dalla
Badia di Sen Stae, medico ed erborista.
E tu”, aggiunse all’ultimo, piazzandosi ad una
risibile distanza dal soldato. “Tu
sei Cabriel Jermin, fio del fu Piero e fradelo dil Bastian Jermin, morti
virilmente a
Castel Novo!”
O quel
frate – o presunto tale – apparteneva alla miglior
categoria di spie mai esistite sulla faccia della terra, oppure egli
affermava
il vero sulla sua identità. In ogni modo, Cabriel
abbassò ciondoloni la
balestra, la bocca aperta dallo stupore e la contentezza di rivedere il
suo
ex-comandante vivo e in un sol pezzo.
“Sior
castelan! … Lustrissimo! … La
perdonança, mi … mi no savevo
… no …”, balbettò in affanno
il balestriere, arrossendo quasi quanto una matura
fragola selvatica. “Mi ve credea prexom dil Bua …
Ve seu vestito frate?”,
domandò confuso, strabuzzando comicamente gli occhi.
“Rilassati,
hai fatto soltanto il tuo dovere, anzi, nei tuoi panni
mi sarei comportato esattamente come te. Quanto al saio, fa parte del
piano di
fuga, figurarse se io mi vesto
frate,
prete, cardinale!”, lo rassicurò Hironimo,
afferrandogli il braccio a mo’ di
saluto fino al gomito. “Però adesso dimmi: cosa ci
fai qua? Quali nuove da
Trevixo?”
“Trevixo
xè tanto fortifichato che s’il fosse do exerciti
chome
quello de’ inimici no xè da dubitar:
sarà la pì brava forteza de tutta
Italia!”, iniziò Cabriel a rispondere
l’ultima domanda, onde rasserenare il suo
superiore circa la preparazione della città dinanzi alla
costante minaccia
d’assedio. “Prima, ve confesso, non valea gnente e
c’on lanzon si haria potuto
saltar le mura, ma horra a xé stà slargate cuatro
volte pì, dal pe’ dil fosso
fin suso con do man di lote tirade per linea, chome fosse un muro, che
mai fo
visto sì ben lavorato e tuto con frasche e teren, de quello
cavano, e xé molto
mejo di repari di Padoa. Tutti li fossi xéi desfati, e parte
di cavalieri, per
slargar i fossi, se gh’ha convenuto a tajar. Xé
stà ruinà tante caxe e giese,
gerano fino su li fossi, e tutavia si disfa, che xé
‘na compassion, e potrà
andar parechij cavalli a par. In summa, sta terra no xé da
robar e manco di ser
tolta per forza. El provedador sier Zuam Paulo Gradenigo vol mandar
Zigante
Corso a la Mota per tegnirla e sier Zuam Vituri, horra provedador di la
Patria,
al castello di domino Hironimo Savorgnan, per far tremar i todeschi e
quei
lochi rebelli a la Signoria. ”
I tre
fuggitivi si scambiarono dei sorrisi pieni di sollievo,
rispecchiati da quelli di Cabriel e dei suoi due compari.
“Par mi, sun qua per
tegnir en osservation el campo”, proseguì il
balestriere nel suo racconto,
dirigendoli intanto verso un anfratto ben nascosto
all’interno di una
collinetta, là dove potevano discorrere indisturbati e al
riparo da occhi
indiscreti. “Da Colalto ghemo inteso chome ancuò
la Peliza feve spostar parte
dil campo a la Badia dil Pero, pì atachar, per sachizar, i
molini sul Sil che
masenano per Trevixo e Veniexia. Sti do”, ed
indicò i suoi compagni, “xéi
villani scampolai dil massacro. Di solito mi sto qua a tegnir stimulati
i
franzosi, perhò ancuò i xéi ussiti con
arme et artellaria e nuialtri non ghemo
possibilità di scaramuzzar sì
desvantajai.”
“Donca
ve ne tornerete a Trevixo?”
“Ancuò
sì. Depo’, s’avedarà. Sti
valenti homeni no gh’aleli alcun
scopo qui, mejo ch’i ajuden a custodir la
città”, chiarì Cabriel la situazione
ad Hironimo. Lo scontro e il conseguente massacro di parte dei
contadini
ribelli sul Montello aveva sortito l’effetto prefissatosi da
Mercurio Bua:
molti dei superstiti s’erano rintanati negli angoli
più inaccessibili del bosco
e da lì più non volevano uscire, sordi ad ogni
richiamo; altri, quelli invece
rimasti nelle campagne della bassa, si rifiutavano d’obbedire
alle ordinanze
del Podestà e del Provveditore che li comandavano di
riparare a Treviso coi
loro carri e bestiame, preferendo o morire a guardia delle loro
proprietà
oppure cederle senza combattere al nemico, piuttosto
d’abbandonarle
definitivamente.
“Puoah!”,
commentò disgustato Thomà a fine discorso, avendo
ascoltato tutto attentamente dietro il suo padrone. “Ghe
xé chi xé nato libero e
chi s-ciavo!” e sia Hironimo, Fra’ Anselmo sia
Cabriel rimasero stupiti dalla
saggezza contenuta in quelle parole pronunciate da un decenne.
“Cabriel”,
ruppe il silenzio il giovane Miani, sorgendogli
all’improvviso un dubbio. “Stamane, hai per caso
scorto il Bua tra gli
stradioti?”
Il
ragazzo strinse gli occhi e aggrottò la fronte, sforzando
intensamente la sua memoria visiva e scorrendo ciascuna faccia
individuata a
capo delle colonne di soldati. “No”,
schioccò infine la lingua, “nol gh’ho
visto. E manco tra li cavali lizieri e stratioti alla volta di molini.
Ghe gera
el sòo compare, Leka Busichio, ma no el Bua.”
Una
coltellata dritta allo stomaco gli avrebbe doluto di meno,
rispetto ai crampi generati al Miani nell’apprendere quella
notizia. Merda,
merda e ancora merda! Aveva deciso di fuggire proprio quella mattina,
confidando
nella presenza di Mercurio Bua alla spedizione a sud, ai mulini, la
quale
l’avrebbe allontanato dall’Abbazia almeno per
l’intera giornata, concedendogli
così un notevole vantaggio di tempo. La gola gli si
serrò dal panico e le sue
mani presero impercettibilmente a tremare, terrorizzato
all’idea di cosa quel
satanasso avrebbe potuto fare, in caso li avessero catturati. Il
patrizio spiò
di sottecchi Thomà, che lo ricambiava altrettanto ansioso e
così anche Fra’
Anselmo.
Se invero
Mercurio Bua era rimasto a Nervesa, sarebbe dunque stata
questione di qualche ora prima di scoprire l’inganno e
partire alla loro
ricerca. Lui e Fra’ Anselmo avevano eliminato ogni possibile
traccia per i
cani, tuttavia non si poteva escludere che il condottiero avesse
conservato un
oggetto appartenuto ad Hironimo, vanificando ogni loro scrupoloso
accorgimento.
E conoscendo la bestiale tenacia dell’uomo, il veneziano non
dubitava che li
avrebbe scovati.
Calma!
Calmati! Ancora non ci ha raggiunti, possiamo uscirne
vincitori!, si
massaggiò il giovane in maniera circolare
lo stomaco, respirando a profonde boccate d’aria onde
riequilibrare il suo
spirito sconvolto e riacquistare la freddezza necessaria per la
contromossa.
“Sior
castelano?”
“Dove
avete lasciato i cavalli?”
“Do
o tre milia pì en basso de qua, col resto di la mia
compagnia.”
Hironimo
congiunse le mani sotto il mento, calcolando mentalmente
i tempi e la velocità con la quale potevano ricongiungersi
al resto degli
esploratori veneziani. Non era una distanza impossibile, ciononostante
considerò il suo precario stato di salute e il gonfiore alla
caviglia e al
ginocchio;, nonché l’età non molto
fresca del benedettino e le gambette corte
di Thomà. Troppo rischioso azzardarsi a viaggiare uniti.
“C’è un’altra uscita
dal bosco del Montelo?”
Cabriel,
solerte, gliel’indicò, in direzione più
a sud rispetto al
loro nascondiglio. “M’a xé pì
longa”, l’avvertì, non comprendendo il
ragionamento del conterraneo.
“Tu,
i tuoi uomini e i miei compagni percorrerete la vostra solita
via. Io prenderò quest’altra.”
“No!”,
esclamò veemente Thomà, afferrando al volo
l’intenzione
d’Hironimo e abbracciandolo stretto, quasi ad impedirgli
fisicamente di
separarsi da lui. “No me lassé solo, patron!
M’avé zurà de senpre starme meco!
Nol podé farlo, nol podé! Se quel cancaro dil Bua
ve copasse, cossa fassjo?”
Afferrandogli
i piccoli e magri polsi, il Miani si staccò
bruscamente di dosso il fantolino, allontanandolo da sé.
“Thomà”,
l’apostrofò
sì duramente, che il pargolo trasalì, non
più abituato a quel tono autoritario.
“Sono il tuo comandante e mi devi obbedienza.
Compredestu?”
Il labbro
inferiore di Thomà incominciò a tremare
violentemente, i
suoi occhi velati da grasse lacrime. Deglutì un forte
singhiozzo, asciugandosi
via il pianto a stento trattenuto, il suo cuoricino straziato di nuovo
dal
medesimo dolore provato all’epoca dell’uccisione
della sua intera famiglia.
“Ci
separeremo solo per qualche tempo”, lo consolò
Hironimo,
afferrandogli il mento ad invito a guardarlo. “E ti prometto
che ci ricongiungeremo
tutti a Trevixo!”
“Dasseno?”,
pigolò affranto il fantolino. “Me lo
zurate-vuj?”
“Lo
giuro. Adesso smettila di piangere: non sei il mio ometto
coraggioso?”, l’abbracciò forte Miani,
ricambiato con altrettanta intensità dal
piccolo, il quale gli artigliava i capelli e il saio neanche
desiderasse
fondersi in un unico corpo. Il suo istinto di fanciullo,
così simile a quella
animale, aveva fiutato un che di mortifero e definitivo in quel congedo
e la
sua animuccia agonizzava all’idea di rinunciare a
quell’ultimo appiglio di
famiglia rimastogli. Allo stesso tempo la sua fiducia nel patrizio
rimaneva
talmente salda da credergli in tutto, anche di riuscire, come il
biblico
Giosuè, a fermare il sole in cielo per favorirli nella fuga.
“Ve
vojo tanto ben, sior pare”, gli sussurrò
Thomà all’orecchio
quelle tenere parole, che avrebbe tanto voluto pronunciare
più spesso al suo
vero padre, privato però dalla guerra di ogni futura
possibilità. Sicché,
incerto di un futuro troppo mutevole da prevedere, compì
quell’atto d’amore
verso chi come un padre s’era comportato nei suoi confronti,
verso chi l’aveva
difeso contro ogni incognita, senza guadagno personale, assumendosi
volontariamente un ruolo cui nessuno l’aveva obbligato.
Hironimo
non rispose, stordito dal peso di sì grande privilegio e
stima, non sussistendo al mondo fiducia più grande di quella
che un bambino
ripone in un adulto, il più indifeso e innocente degli
affetti. Gli baciò la
fronte e finse di sputargli in testa a mo’ di buon augurio,
riponendosi in piedi
e cedendo Thomà alla custodia di Cabriel.
“Bada”, l’ammonì energico,
“sto puto
xé el cargo pì pretioso che te dago. Se gli
accade qualcossa, mi te cato, te
ciapo, te copo e l’inferno te parrà el Paradiso!
Pulito?”
Il povero
Cabriel annuì velocemente, pigliando protettivamente per
mano l’infelice e rassegnato fanciullo e lo invitò
silenzioso ad incamminarsi
assieme a lui.
“Sarai
anche un turco”, indugiò un ultimo istante
Fra’ Anselmo,
sistemandoglisi di fronte, “ma allo stesso tempo sei un
valent’omo e d’onore”,
gli confidò impressionato, posandogli la mano sulla testa.
D’istinto Hironimo
tentò di scostarsi – quando mai gli aveva
richiesto una benedizione? –
sennonché desistette, la pressione del monaco troppo forte.
Provò uno strano
brivido, unito ad un’improvvisa voglia di piangere, quando il
pollice del
benedettino gli segnò una croce sulla fronte.
“Scoltame ben, razza de testòn: più
di ogni peccato, Missier Domeneddio si ricorda d’ogni buona
azione.”
“In
tutta la mia vita, non ho mai fatto nulla di buono”, fu il
massimo di confessione che il giovane Miani gli concesse, il petto
stretto da
quell’improvvisa afflizione. “Ho rifiutato Dio
quindici anni fa, a questo punto
sicuramente Egli si sarà dimenticato di me.
Perché dovrebbe oggi incominciare
ad ascoltarmi? Invece”, interruppe egli sul nascere la
contro-argomentazione di
Fra’ Anselmo, premendogli altro in quel pochissimo tempo
rimastogli a
disposizione, “per favore, porta quest’ambasciata a
mio fratello Marco: digli,
che mi dispiace tantissimo per ogni torto, ogni villania, ogni litigio.
Digli,
che mi dispiace d’essere stato così crudele ed
ingiusto con lui. Digli che
l’amo, lui e tutta la nostra famiglia. Digli che sto
bene.”
Il monaco
gli strinse la mano, accettando silente l’incarico,
avvertendo un famigliare groppo in gola. Dopodiché si
congedò dal patrizio,
seguendo rapido il gruppetto fino a sparire nella fitta vegetazione,
lasciando
infine Hironimo solo, indietro.
Digli
che sto bene, perché i morti stanno sempre bene, completò
egli a mente la frase indirizzata a suo fratello Marco,
ch’ormai non confidava
più di rivederlo se non nella casa dell’Ade. Il
giovane Miani si coprì il viso
bollente di febbre tra le mani gelate dall’umido boschivo, i
tremori ripresi
con maggior vigore di prima. Un Mercurio Bua arrabbiato già
era difficile da
gestire; uno fuori di sé dall’ira corrispondeva ad
un certo appuntamento con
l’Oscuro Mietitore, o quasi. Il veneziano non escludeva la
possibilità che,
onde vendicare il suo orgoglio ferito, il greco-albanese
l’avrebbe torturato,
forse addirittura ucciso. S’augurò mille volte
questa seconda opzione, non
nascondendo la sua paura dinanzi al supplizio, non se il condottiero
poteva
aver appreso qualche utile lezione dai turchi.
D’altronde,
si consolò, stringendo i denti e correndo in direzione
sud, verso l’uscita del bosco, quale altra maniera per
riscattarsi gli restava,
se non d’aiutare i suoi compagni ed ergersi a scudo umano?
Mercurio era lui che
voleva, dunque se la pigliasse con lui.
Per la
sua vanagloria e testardaggine Hironimo aveva sacrificato
senza guadagno la vita di quei coraggiosi soldati rimastigli fedeli e
dei suoi
servitori, nonostante l’allettante promessa di La Palice di
risparmiarli in
caso di resa. Avrebbe dovuto congedarli da ogni vincolo, un bravo
comandante
riconosce quando ha perduto la partita e s’adegua in attesa
del riscatto. Per
difendere il suo onore s’era servito delle vite altrui, vite
spezzate che mai
più sarebbero ritornate, occasioni perdute, sogni infranti,
futuri negati.
Il loro
sangue macchiava le sue mani e se doveva versare il suo
per far ammenda dei suoi errori, avrebbe più che volentieri
offerto le vene
alla lama nemica.
Hironimo
aveva disonorato suo padre a Castelnuovo e a Feltre, la
quale aveva esultato alla notizia di un Miani a comando di quelle zone,
ricordando ancora piena d’ammirazione l’antico
podestà e capitano, malgrado i ventitre
anni trascorsi dalla fine del suo mandato. Quale magro guadagno! Uno
stolto
figlio ch’aveva invece annullato ogni benemerenza del fu sier
Anzolo Miani, vittorioso
contro il tentativo di Sigmund von Habsburg d’occupare il
feltrino e la stessa
città.
Sicché
il giovane patrizio era pronto a qualsiasi sacrificio pur
di dimostrare al mondo, quanto lui non fosse da meno; di dimostrare a
Padre,
ovunque egli si trovasse, ch’egli non era una delusione, un
incapace, un figlio
che sarebbe stato meglio seppellire in culla.
Se
invero vi dovrò raggiungere presto, sior Pare, non voglio
farlo
vergognandomi alla vostra presenza.
***
Mulino
dopo mulino, senza trovare niente tranne polvere e qualche
chicco di grano, la compagnia di Leka Busicchio si era spinta fin quasi
a
Musestre, in territorio nemico, tentando la sorte giusto per non
tornare
indietro a mani vuote al campo.
Il
capitano degli stradioti fece cenno ai suoi di fermarsi,
allungando il collo e stringendo gli occhi onde accertarsi della natura
dell’edificio davanti a sé e seminascosto dai
salici piangenti ed altre fronde.
Due piani, un pergolato e un muretto perimetrale ed infine il familiare
scroscio dell’acqua manipolata dalle pale della ruota
d’acqua.
Sì,
decisamente un mulino e con un burchio legato ai pali in
colonna del pontile, ergo i preziosi sacchi di grano e farina ancora
rimasti
nel magazzino. Le finestre erano aperte, un sottile filo di fumo
serpeggiante
fuori il camino, segno che il mugnaio probabilmente si trovava
lì dentro.
Il greco
scrutò bene lo scenario, in cerca di elementi
ch’avrebbero potuto tradire una presenza militare nemica; la
vegetazione fitta,
sia degli alberi che delle canne, fornivano un eccellente nascondiglio.
Il
mugnaio, i suoi operai e la sua famiglia non avrebbero corrisposto ad
un grande
ostacolo, ciononostante Busicchio ugualmente comandò ai suoi
stradioti di non
uccidere se non necessario, già satollo di sangue dal
recente scontro del
Montello. Il loro obiettivo era di rubare il macinato e rientrare al
campo
prima che i marciani potessero reagire, quindi niente spreco di tempo
prezioso
per infierire, specie sulle donne.
Leka
estrasse la spada dal fodero, mai troppa la circospezione,
intanto che i balestrieri caricavano le loro armi a leva. Battendo i
talloni
sul cavallo, il capitano incitò i suoi uomini ad occupare
velocemente il
terreno, cogliendo di sorpresa la gente nel mulino senza concedere
alcuna
possibilità di difendersi. Man mano che si avvicinavano
però all’edificio, un
odore acre e familiare colpì le nari del capitano di
ventura, un odore che la
legna bruciata, in lontananza, aveva ben camuffato.
Polvere
da sparo.
All’improvviso,
il muretto perimetrale al mulino cedette in una
piccola valanga di mattoni e la bocca di un falconetto apparve e il suo
ruggito
bloccò la cavalcata degli stradioti, i cui cavalli
s’impennarono spaventati,
nitrendo e ribellandosi al comando dei loro padroni. Le balote,
atterrando nel
terreno fangoso, sollevavano terra e l’urto scoordinava e
sbilanciava la
colonna nemica, facendo cadere a terra molti cavalleggeri, morti o
feriti sia
dal colpo sia dalle rovinose fratture alla colonna vertebrale. Da un
altro
angolo del muro sparò un secondo falconetto e ben presto
anche dalle finestre
s’unirono, in un concerto di zolfo, gli schioppi degli
archibugi.
“È
un’imboscata!”, gridò Leka ai superstiti
rimasti della prima
linea, tirando le redini onde bloccare l’avanzata del suo
cavallo e
costringerlo a rinculare. La melma tuttavia rallentava
l’animale, gli zoccoli
sprofondanti su di un terreno instabile e scivoloso. I balestrieri
tentavano di
mirare dentro alle finestre, ma l’incalzare dei falconetti
allontanavano troppo
il tiro, rendendo le frecce inefficaci.
“Ritirarsi!
Artiglieria!”, fece eco Zilio Madalo al capitano,
segnalando ai compagni di zigzagare e disperdersi, così da
confondere i
tiratori e limitare i danni delle cannonate.
Dal piano
alto del mulino, il capitano Vitello Vitelli osservava
la confusione nel gruppo degli stradioti, i quali cozzavano in due
movimenti
contraddittori, d’offensiva e ritirata. A onor del vero, il
laziale non s’era
atteso quell’attacco, giudicando Musestre al di fuori dal
raggio d’azione del
nemico e per questo aveva lasciato i suoi mulini per ultimi
nell’evacuazione.
Fortuna che già da quella mattina stavano brigando a
convertire l’edificio a
piccola torre di vedetta, sicché non li avevano pigliati
impreparati.
“Signor
Orlando!”, urlò dabasso al capo bombardiere, il
quale strisciava
nascosto dietro al muretto onde dirigere i suoi uomini.
“Costringeteli in un
unico blocco, che non si disperdano!”
Il
bergamasco levò in alto il pugno, segno ch’aveva
compreso.
“Puntate ai fianchi!”, tradusse l’ordine
del Vitelli ai suoi colleghi Paolo da
Corfù, Giorgio da Otranto, Zuan Antonio da Bergamo e Thadio
da Vicenza, i quali
calibrarono il tiro, puntando i falconetti in modo da non concedere via
di
salvezza al nemico, specie laterale, la quale avrebbe portato ad un
possibile
accerchiamento del mulino da dietro. Se i Collegati volevano arrendersi
e
scappare, sarebbe stato solo ritornando sui propri passi.
“Fuoco! Fuoco!”
Al
pianoterra, un archibugiere chiamò Donado Cimavin, rimasto
lì
imbambolato senza alcunché da fare, gli ultimi sacchi
rimasti da trasportare ai
suoi piedi. “Sistu bon a sparar?”, gli
allungò un archibugio rimasto orfano di
padrone.
Il
giovane mugnaio guardò incerto l’arma da fuoco,
specie quando
il soldato, impaziente di una risposta, gliela cedette di peso. Donado
era un
pochino familiare con la balestra, più che altro come svago
nelle competizioni
della domenica, ma quel lungo pezzo di legno e metallo lo percepiva
alieno tra
le sue mani. Una freccia piantatasi contro lo scure della finestra lo
costrinse
in ginocchio accanto all’archibugiere, ogni indugio gettato
alle spine.
“Movete,
t’eo gh’ho zà
cargà!”, lo spronò impaziente il suo
compagno, sparando all’anonimo temerario che
l’aveva scambiato per un’anatra
selvatica.
Allora,
Donado imitò la posizione del soldato, appoggiando la
canna sulla finestra e puntò ad uno a caso dei cavalleggeri
nemici. Un altro
archibugiere gli accese la miccia da dietro, la quale
sfrigolò avida, creando
un enorme tensione nel mugnaio, meditando questi sulla prossima mossa
da fare.
Scoccò una seconda occhiata all’uomo accanto a
sé, poi agli stradioti, poi
nuovamente agli archibugieri.
“Co’
te gh’ha puntà l’arma, serra i ocij e
scansa ea testa, sennò
t’i brusi di polvare!”
Donado
deglutì e seguì immediatamente il consiglio:
prese la mira,
chiuse le palpebre e reclinò il volto quel giusto per non
riempirseli dei
pericolosi rimasugli di polvere e lo schiocco roboante
dell’archibugio fece il
resto. “Bravo! Bravo!”, udì dal buio,
persuadendolo a riaprire gli occhi. “Te
ne gh’ha ciapà on! An, la fortuna dil
prinzipiante!”, si congratulò il suo
vicino, offrendogli la mano per rialzarsi in piedi, non avendo Donado
calcolato
il rinculo del colpo appena sparato e puntualmente finito a gambe
all’aria.
In alto,
Vitello Vitelli diede alla vedetta nascosta tra i rami il
segnale convenuto e questa fischiò ai cavalleggeri marciani,
nascosti ad arte
nella boscaglia e lo stesso ai fanti tra i canneti.
Il nuovo
impeto scombussolò gli stradioti nemici, i quali si
videro insediati sui fianchi dal fuoco nemico e adesso dalle sue
zagaglie,
impegnandoli in furiosi corpo a corpo onde salvarsi la vita in quella
rovinosa
ritirata. Dal basso sbucavano inattese le picche, disarcionando i
cavalleggeri
e trascinandoli nel fango o direttamente in fiume. Uno di questi fanti
addirittura seguì in acqua uno stradiota caduto,
cacciandogli la testa
sott’acqua e tenendolo fermo mentre questi si dimenava
esagitato, finché le
ultime bolle risalirono e un’immobilità mortale
segnalò il decesso
dell’avversario.
“Zilio!”,
richiamò Leka l’attenzione del luogotenente di
Mercurio,
il quale era riuscito a respingere numerosi assalti dal suo lato.
“Dobbiamo
aprirci un varco e ritirarci. Raggruppa i tuoi abbastanza da sfondare
la linea
destra! Dobbiamo evitare il fiume!”
Lo
stradiota annuì concitatamente, nettandosi il viso coperto
di
sangue e mulinando la spada, costrinse il cavallo a roteare in
direzione
opposta, cavandosi due o tre avversari già pronti a
sbarrargli la strada.
“Avanti! Compattatevi! Compattatevi!”,
incoraggiò i suoi uomini. “Sfondate a cuneo
la lin- …” e le parole gli morirono in gola,
mollando la sua presa all’elsa.
“Zilio!”,
ruggì Busicchio alla vista del compagno inarcarsi e poi
irrigidirsi, colpito alla spalla da un colpo d’archibugio. Il
cavallo del
Madalo s'impennò all’indietro e questi
abbandonò la presa alle redini, balzato
via di sella e cadendo in un gran tonfo in acqua, sparendo tra i
canneti. Una
rabbia figlia del dolore conferì nuove energie a Leka, il
quale non si
scoraggiò, semmai infuse maggior vigore a salvare
ciò che rimaneva dei suoi
soldati.
Frustando
i cavalli alla stregua di ciuchi e premendo allo spasimo
sul fianco destro, gli stradioti riuscirono ad aprirsi un varco ed
evitarono
così il massacro e la cattura di chi rimasto ancora vivo, ma
non
necessariamente illeso.
Dalla sua
postazione, il capitano Vitelli fece cenno
d’interrompere ai bombardieri i loro tiri, concedendo ancora
qualche
schioppettata ammonitrice agli archibugieri, in modo da permettere ai
fanti e
ai cavalleggeri di rientrare in tutta tranquillità nella
fortezza improvvisata.
“Xé
finia?”, domandò confuso Donando al soldato
accanto a lui, il
quale sogghignò affermativamente. Un alto ululato di
vittoria s’elevò
nell’aria, levando ben in alto i marciani qualsiasi arma
avessero in mano,
dalle picche ai bastoni caricapolvere.
D’umore
più cauto restava invece Vitello Vitelli, che, concesso
qualche istante di liberatorio giubilo, riportò
immediatamente l’ordine e
comandò ai soldati ed operai di terminare il carico del
burchio, intanto che i
bombardieri riparavano rapidi il muretto.
“E
anche oggi, l’è andata!”, raschiava via
Paolo da Corfù gli
eccessi di calcestruzzo. “Stasera però voglio
ubriacarmi di grappa friulana
fino ad andar in letto cantando, soprattutto accompagnato da una bella
donna!”
“Uagnon,
azzardati a presentarti domani sbronzo al bastione”,
l’ammonì ridendo Giorgio da Otranto, “e
ti spacco il muso!”
“O
ti lanciamo direttamente contro i francesi!”,
rincarò la dose
Thadio da Vicenza, al che un piccato Paolo, maledicendo lo scarso senso
dell’umorismo dei suoi colleghi, si rivolse ad Orlando:
“E
voi presidente? Che fate stasera?”
Il
bergamasco ripose gli attrezzi, caricandoseli in spalla.
“Io?”,
gli rifilò un sorriso lascivamente furbetto. “Io
ci provo stasera con la
Zanze!”, con la scusa d’evacuare i mulini, non
erano rientrati a Treviso la
sera del 22 settembre e chissà se lei si stesse chiedendo o
meno che fine
avesse fatto Orlando. Per quel che lo concerneva, la contadinella gli
allietava
assai i sogni ed egli sentiva una voglia matta di concretizzarli.
Un boato
di grasse risate lo sfotté inclemente.
“Sì e fu così che
doman mattina vedremo il signor presidente coi segni rossi di due
ceffoni
stampati uno per guancia …”
“…
nonché zoppicare per la pedata in culo ricevuta!”
“Chigasang!
Maledetti!”, lanciò loro del fango un offesissimo
Orlando, “un’altra parola e v’affogo
quanti che siete!”
I
bombardieri se la risero ancora più forte.
***
Se
Mercurio Bua aveva tentennato sullo specifico modo d’agire,
una
volta ritrovatosi a tu per tu col suo prigioniero, a seguito del
racconto di Leka
Busicchio non possedeva più alcun dubbio a riguardo.
Il
veneziano non s’era fatto scovare né ricatturare
tanto
facilmente: invece di spaventarsi alla vista dei cani da traccia, il
fuggitivo
li aveva attesi in agguato e bastonati dritto sul collo, tramortendoli
o
paralizzandoli. In aggiunta, aveva costretto i loro conduttori ad
inseguirlo
per sentieri accidentati, ora in salita e ora in discesa, in un
groviglio
doloroso di rami, spine e piante urticanti e a piedi Mercurio
s’era ritrovato
separato dalla sua scorta, non agile né pratico in quel
terreno irregolare e
infido, avvolto nei suoi punti più oscuri da una sottile
nebbia, la luce
respinta da fronde fittissime. Ad un certo punto in lui s’era
formulata l’idea
d’abbandonare l’impresa, rendendosi conto di
rischiare di perdersi in
quell’antro d’inferno o di rotolare giù
lungo qualche dislivello.
Quando il
Bua s’era imbattuto nella sua preda, non l’aveva
dapprincipio riconosciuta, non subito, intabarrata com’era in
quel largo saio.
I due s’erano ritrovati quasi per caso l’uno di
fronte all’altro, inzaccherati
di fango e foglie, dei fili appiccicosi delle ragnatele e delle bave
spumose e
biancastre delle sputacchine. Il veneziano s’era bloccato,
sgomento, ma non
abbastanza da impedire di girare rapidamente sui tacchi e salire sul
pendio in
direzione opposta a quella del condottiero, il quale arrancava,
scivolando in
continuazione. Nondimeno, Mercurio non aveva per un solo istante
perduto di
vista il patrizio, balzandogli addosso alla prima occasione favorevole
e
placcandolo in un ultimo frustrato tentativo d’impedire a
quella lepre
antropomorfa di scappargli. Il fuggitivo s’era allora
aggrappato disperatamente
ad un ramo, graffiandosi i palmi delle mani quando questi, flessuosi,
si torcevano
agli strattoni del Bua onde staccarlo. Ogni volta che mollava la presa,
ecco
che il veneziano ne afferrava un altro, incurante dei rivoletti di
sangue
scivolanti dentro le maniche, issandosi per calciare in faccia o al
petto il
capitano di ventura, che grugniva e sputava dallo sforzo e dal dolore
quando il
tiro colpiva a segno. Mercurio agguantava il giovane ad ogni appiglio
disponibile, tirando e strappando pezzi del saio, elargendogli pugni
sulla
schiena, sulle spalle, sulle braccia tese e avutolo finalmente per
terra, onde
chiudere in fretta la questione, gli aveva sbattuto la testa contro il
tronco
d’un albero - doveva riportarlo vivo alla
Signoria e non
necessariamente col cervello ancora funzionate. Dallo sforzo
dell’inseguimento Mercurio
si era poi accasciato per terra, accanto allo svenuto prigioniero,
ansimando
pesantemente e contemplando il complesso intreccio di rami che impediva
di
scrutare il cielo. Purtroppo, ricongiuntosi in seguito ad uno dei suoi
uomini e
affidatogli il patrizio, il greco-albanese aveva dovuto desistere dalla
sua
ricerca del moccioso e del benedettino per invece localizzare e
riportare
indietro l’altro suo sottoposto, prima che calasse la notte e
gli esploratori
veneziani lo catturassero o i contadini se lo mangiassero alla
brace.
E il
condottiero avrebbe anche potuto dichiararsi soddisfatto, se
non fosse rientrato all’Abbazia proprio durante il ritorno
improvviso di Leka,
il quale gli aveva dolorosamente spiegato come mai Mercurio non fosse
riuscito
a scorgere Zilio in nessun luogo. “È
morto coraggiosamente, degno erede
delle genti di Megas Alexandros!”, aveva
commentato Busicchio, come se
la cosa avesse potuto consolarlo o riportare in vita una delle persone
più
oneste e leali, che l’epirota avesse mai conosciuto in tanti
anni di servizio.
D’accordo, nulla assicurava al militare di vivere una lunga
vita, però crepare
così stupidamente, senza la presenza e la guida del suo
capitano, perché quello
stramaledetto veneziano aveva deciso di scappare via, forzando Mercurio
a
scegliere tra lo scambio e la missione … No, quel dannato
avrebbe pagato anche
per la morte di Zilio.
La cella
sotterranea puzzava di muffa e di chiuso, senza luce e
senza un refolo d’aria, una vera e propria prigione ideata
per punire i monaci
ribelli. Lì il Bua aveva ordinato al suo sottoposto di
gettare il suo
prigioniero, in attesa di reperire il bambino ed attuare la promessa
fattagli
tempo addietro. Sfortuna invece aveva decretato che, almeno quel
giorno, egli
fosse ritornato a mani vuote, ma ciò non garantiva che lo
stradiota avrebbe
smesso di cercare il fanciullo.
Udito lo
scatto della serratura e le sottili strisce di luce
squarciare le dense e soffocanti tenebre, Hironimo stringendo i denti
si pose
in piedi, appoggiandosi contro il muro umido in fondo alla cella, il
cuore
impazzito battente la chamade in petto. Una volta divisosi dal gruppo,
s’era
rassegnato alla possibilità di venir ricatturato, tuttavia
sperava ardentemente
che tale sorte Thomà non la condividesse, crogiolandosi
angosciato lì nel buio
in continui incubi, laddove quell’uscio d’inferno
s’apriva e gli appariva la
figuretta del bambino, spintonato dal mercenario pronto a trasformarlo
in un
agnellino pasquale. Artigliando le ginocchia, il giovane patrizio aveva
pregato
neanche lui sapeva chi acciocché il Bua non reperisse mai il
suo piccoletto;
aveva supplicato di pigliare su di sé l’intero
impatto della collera del greco-albanese,
a patto che la vita di quel pargolo fosse risparmiata, che raggiungesse
Treviso
sano e salvo. Non chiedeva altro.
Mercurio
appoggiò la lanterna sul pavimento in terra battuta, la
sua figura ingigantita dal chiaroscuro, malgrado si fosse levato la
pesante e
lunga casacca, e ogni curva del suo viso s’ombreggiava e si
distorceva in una
maschera luciferina di pura rabbia, pareva uscito da quei paurosi
racconti sul
Barababao, il divoratore di bambini. A passi lenti, misurati e
predatori egli
occupò l’intero spazio della cella, sbattendo la
porta in un roboante tonfo il
cui eco fece fischiare le orecchie del giovane patrizio, per poi
ammutolirsi
l’aria istessa di quel fetido sepolcro.
“Ti
ho malgiudicato”, esordì il condottiero, la voce
vibrante di
una gelida ira a malapena imbrigliata, “ti credevo un
gentiluomo, una persona
d’onore di cui fidarsi e soprattutto abbastanza intelligente
da capire la
propria situazione. Sbagliavo: sei un infido, un empio, un egoista che
preferisce sacrificare gli altri al proprio tornaconto!”,
scandì egli ogni
parola con l’accuratezza di una frustata e di fatti al
medesimo modo le percepiva
anche il suo prigioniero, concordando mentalmente con
l’altro, sebbene non gli
avrebbe mai concesso la soddisfazione di saperlo sconfitto.
“Tu
vivi nel mondo dei poemi cavallereschi”, lo derise velenoso
Hironimo, artigliando i mattoni pregni di muffa per infondersi
coraggio. “Gente
come te è nata per farsi coglionare dal prossimo!”
Uno
schiocco l’ammutolì, rubandogli il fiato e
costringendolo per
terra, la mano corsa al braccio bruciante da sotto il saio strappato.
Incredulo, il giovane guardò il flagello tenuto in mano da
Mercurio, le cui
code arrotolava e allungava nervosamente, forse per
l’impazienza d’usarlo di
nuovo.
“In
tutta onestà”, riprese quegli, afferrando per i
capelli
Hironimo e trascinandolo al centro della cella, “non ho mai
compreso questa
sciocca usanza dei monaci di flagellarsi. Per cosa? Per punirsi dei
propri
peccati? Per disciplinarsi? La vita già ti flagella a
sufficienza, senza dover
rincarare la dose per mano tua. Ma” e le strisce di cuoio
frusciarono
voluttuose nell’aria assieme al tintinnio delle palline
metalliche,
scivolandogli lungo la gamba quando il Bua aprì la mano,
“se mi si dovesse
chiedere d’usare il flagello contro
qualcun altro, mi trovi in prima
fila a consigliarne l’uso!”
Il
patrizio reclinò il capo, i muscoli tesi fino allo spasimo.
“Che t’aspettavi da me? I tuoi comodi? Che
rimanessi buono e docile a subire le
tue prepotenze? Tu parli” e cercò le parole che
gli avrebbero guadagnato la
sferzata meno dolorosa, “alla stregua d’un amico
tradito, quando amici non lo siamo
mai stati. Soltanto perché mi costringevi ad ascoltare i
tuoi vaneggiamenti,
perché ti degnavi d’accordarmi da mangiare gli
avanzi degli avanzi della tua
tavola, sul serio avevi creduto d’aver
acquistato la mia lealtà?”,
balzò in piedi, levando il mento a mo’ di sfida.
“Tu sei quello che per due
anni ha massacrato la mia gente, che ha espugnato la mia fortezza, che
ha
passato a fil di spada i miei soldati, i miei servitori, che mi ha
umiliato,
affamato, costretto in catene, trattato alla stregua d’un
giocattolo da
calciare via non appena si stufava! Tu hai minacciato mio fratello, la
mia
famiglia, il mio bambino di morte; per causa tua ho beccato il malanno
e
rischiato un’infezione! Pertanto come hai potuto pensare
ch’io non contemplassi
la fuga?! Che io considerassi te un
uomo
d’onore? Un camerata? Ma neanche in mille anni, neanche se ti
fossi messo in
ginocchio a supplicarmi!”
Il
flagello sibilò nell’aria, colpendo tuttavia a
vuoto;
anticipato, pur nella penombra, da Hironimo, che indietreggiando
evitò la
frustata.
“Arrogante
figlio di puttana”, lo braccò Mercurio, tentando
di
costringerlo in continui cerchi in un angolo. “Chi ti credi
d’essere?
Bartolomeo d’Alviano? Quale altro trattamento
s’aspettava un bambinetto
viziato, sconfitto al suo primo assedio?”
Scrocchiando
le nocche al sentire così vituperata l’amata
madre,
Hironimo sogghignò però sghembo, mostrandogli i
denti. “Chi mi credo d’essere?
Un patrizio veneziano, qualcuno per la cui custodia hai lottato con le
unghie e
coi denti, coprendoti di ridicolo dinanzi a la Palissa e a tutto il
campo!”
Il Bua
balzò in avanti e il giovane di riflesso indietro.
“Non sei
l’unico patrizio che posso catturare e usare a mo’
d’ostaggio. A Treviso ne
troverò di ben più altolocati e importanti di
te!”
Hironimo
gli rise in faccia, crudele. “Puoi anche catturare il
Provveditore in persona, ma non otterrai mai ciò per cui mi
hai tenuto presso
te per quasi un mese!” e schivò un’altra
sferzata, abbassandosi come ai tempi
in cui imparava al ginnasio i primi rudimenti del pugilato, sfruttando
la
statura più bassa per anguillare via, in un continuo
balletto di cerchi
concentrici.
“Tu
non sai niente”, ringhiò il Bua, i cui occhi
guizzavano in
cerca di un punto stabile dove colpire l’avversario,
perennemente in movimento.
“Tu non mi puoi fare niente; io sì al contrario. E
sappi che continuerò a
cercare quel tuo moccioso di merda, finché non
l’avrò trovato e non t’avrò
dipinto il muso del suo sangue!”
“Tu
parli nel sonno”, preparò il Miani la sua
contromossa, il cui
labbro inferiore tremava all’orribile immagine di
Thomà sgozzato, il corpicino
scosso da mortifere convulsioni mentre il prezioso liquido vitale
zampillava
via a gran fiotti. Il giovane scacciò via forzosamente quel
pensiero e si
concentrò sulle sue prossime parole, le quali sarebbero
sicuramente corrisposte
ai proverbiali chiodi sulla sua bara, nondimeno Hironimo non accettava
di
sapere minimamente trionfante il condottiero e se poteva ferirlo e fino
all’ultimo rigirargli il coltello nella piaga, ben venisse!
Specie dopo aver
minacciato per l’ennesima volta Thomà.
“Aikaterinī … Caterina, giusto?”, e
Mercurio ammutolì all’improvviso, perdendo ogni
baldanza, il volto ridotto ad
una maschera di cera, le spalle d’un tratto curve, flaccide.
“Ti ha lasciato,
poverino”, cinguettò beffardo.
Occhio
per occhio, dente per dente, persona amata per persona
amata.
“Caterina
… è stata rapita dai suoi fratelli”,
ansimò l’epirota,
il sangue infiammatosi e ribollente nelle vene. Quella era la sua
verità, un
tiro barbino di quei cani di Manoli e Costantino Boccali, di quello
spergiuro
di suo fratello Teodoro. Ché il condottiero non conosceva la
sua compagna,
adesso? Da quando in qua fuggiva una moglie da suo marito? Per passare
tra le
fila nemiche, poi! Inconcepibile, assurdo!
“Ti
ha lasciato”, reiterò inflessibile Hironimo,
adocchiando il
flagello. “Una donna che ama il suo uomo neanche sotto
tortura lo abbandona. Ti
ha rinnegato, se n’è scappata via: evidentemente
come hai stufato me, hai
stufato anche lei con la tua cecità, vanagloria, egoismo ed
ambizione. Non ti
vuole più, Mercurio, che vita le hai offerto? A sua figlia?
Con che coraggio
può quella poveraccia raccontare alla bimba: tuo padre
è un traditore, un
assassino, uno stupratore?”
Gli
occhi neri di Caterina luccicavano di lacrime, il bel viso
rigato di lacrime. “Ti prego, concedimi di tornare a Venezia,
da mia madre,
acciocché io cresca la nostra piccina lontana da
quest’orrore! Morti, feriti,
torture, malattie, stupri … quale colpa ha tua figlia
commesso per meritarsi
quest’inferno in terra?”
“Ogni
passo da me intrapreso è stato per loro! Per elevarle dalla
miseria, dall’eterno status di fuoriuscite!”
“Non
m’importa delle vostre guerre, del tuo onore venduto al
migliore offerente! Mio padre sta morendo, colui che m’ha
dato la vita sta per
congedarsi per sempre dalla sua! Almeno le sue ultime parole abbi la
bontà di
farmi sentire! Capisco le vostre divergenze, i vostri rancori
… Ma tu già nei
sei uscito vincitore, non ti pare? Io rimarrò tua moglie
fino alla fine dei
miei giorni, ma sua figlia io lo sarò ancora per
poco!”
“No,
agivi per te stesso e per il tuo amor proprio,
ch’è così
grande e ingombrante da considerare Caterina un sovrappiù,
un ornamento, un
corpo da fottere quanto ti sorgeva il prurito! Di lei, dei suoi
pensieri, delle
sue preoccupazioni, dei suoi desideri, non te n’è
mai fregato alcunché!
Scommetto anzi che tenevi più in considerazione il tuo
cavallo! Non le sei mai
stato un vero marito e giustamente
lei t’ha abbandonato,
dimenticato!”
“Aikaterinī?”
La
giovane donna, pallidissima, gli cedette la missiva, nella
quale Mercurio lesse e apprese della morte di Nicolò
Boccali. “Vedi, è come ti
avevo detto: non l’avresti raggiunto mai in tempo, specie se
tuo padre si
trovava nella Patria del Friuli … Avresti affrontato un
viaggio inutile e …”
“Tu
m’hai detto un sacco di cose, Maurikos”,
mormorò atona
Caterina, dirigendosi in stato pressoché sonnambolico verso
il lettuccio di
Maria. Sistemò la copertina sulle esili spallucce della
bimba, fissando
trasognata un punto indefinito davanti a sé. “Ma
mai quelle giuste.”
“Lei
è mia moglie, è mia! …”
“Secondo
te, ho torto se mi recassi dall’Imperatore e reclamassi
finalmente i mancati pagamenti?”
Caterina
levò brevemente gli occhi dalla casacca che stava
rammendando, riconcentrandosi poi sul suo lavoro.
“Perché mai dovrei darti un
consiglio?”, scrollò incurante le spalle,
spezzando il filo coi denti. “Alla
fine agisci sempre e soltanto di testa tua, quindi
… Non vedi che ho
anch’io da fare? Se non ti serve sul serio aiuto, non
distrarmi ché perdo
tempo!”
Mercurio
le si sedette accanto, perplesso. “Non è vero,
all’occasione ho ascoltato la tua opinione.”
“Uhm,
può darsi … ai tempi che mai furono
…”, replicò scettica
Caterina, intrecciando le dita sull’indumento.
Sospirò profondamente. “Vai
dall’Imperatore, fatti valere. Vuole i tuoi servigi?
È ricco, che paghi. Niente
a questo mondo è dovuto, tutto va guadagnato.”
“Esattamente
quel che stavo pensando anch’io.”
“Già,
che strano.”
“Sicura
che non t’incomoda rimanere sola a Verona?”
“Tranquillo:
ho la mia Maria da badare e poi … e poi i miei
fratelli a tenermi compagnia. Non sono mai stata sola, io.”
“Spero
per loro che ti trattino bene!”
“Non
è tua, non
l’è mai stata né lo sarà!
Caterina
appartiene a se stessa, non spetta a te decidere della sua esistenza.
Lei ti
odia, ti ha dimenticato, probabilmente pure rimpiazzato e tu ti sei
sbattuto
per niente, perché anche se pagassi staie su staie
d’oro puro alla Signoria,
non otterrai mai indietro Caterina, perché lei non
ti vuole! Tu
l’hai delusa e lei ti ha ripudiato e per di più
sei un coglione perché tutto il
mondo se n’è accorto, tranne te!”
Il
sorriso di Caterina si deformò in una smorfia sghemba,
ambigua.
“Non dubitare, caro marito: Manoli e Kostantinos obbediscono
ad ogni mio
cenno.”
E
Mercurio capì.
Capì
infine il perché avesse provato quel scellerato connubio di
repulsione e fascinazione verso Hironimo. Capì il motivo per
cui non tollerava
le sue mordaci risposte. Capì come mai lo infastidisse quel
suo impertinente
sorriso sibillino, di chi celava abilmente i propri pensieri dietro una
maschera impenetrabile.
Quello
sguardo … lo aveva visto in Caterina,
l’ultima
sera prima della sua scomparsa. Della sua fuga da Verona. Da lui.
Un’espressione implacabile e tremenda, d’odio e
condanna, che lui di sua mano
aveva nutrito, giorno dopo giorno.
Mercurio
aveva sempre avuto la verità dritta e brillante davanti a
sé, soltanto che lui s’era rifiutato
d’accettarla, orgoglioso e testardo,
addossando colpe ad altri quando in realtà doveva deplorare
se stesso ed i suoi
errori. Quel disgraziato affermava il vero: Caterina l’aveva
considerata roba
sua, un premio, la figlia di una principessa di Durazzo e di un
condottiero
famoso; una moglie, una madre, un’ombra onnipresente ognora a
disposizione.
S’era giudicato un bravo consorte perché
provvedeva per lei e ogni tanto
magnanimo le chiedeva opinioni e consigli che manco ascoltava -
figurarsi
implementarli - non la consultava mai veramente. Non
la prendeva sul
serio, non le aveva mai dato la possibilità di distinguersi,
credendola
incapace di una qualsivoglia iniziativa senza il supporto e la guida di
suo
marito. Ignorava il suo spirito, le sue passioni, le sue angosce.
L’aveva sin
dal principio considerata sua,
fisicamente sua, non
concependo che sua moglie potesse
un giorno finire per
ribellarsi, odiandolo al punto da prendere la decisione
d’allontanarsi in via
definitiva da lui. Con chi aveva vissuto per tutti quegli anni? Chi era
Caterina? Aveva amato lei o l’immagine ideale che lui aveva
di sua moglie? Quella
cui per un anno intero egli s’era disperatamente aggrappato?
Cos’era?
Un’illusione? Una scusa?
Una donna
mai esistita?
Ti
strapperò di dosso quel sorriso, quello sguardo, quella tua
condanna! Mercurio
torse il busto all’indietro, caricando il flagello
e le palline metalliche tintinnarono assieme al sibilo del cuoio,
schioccando e
mordendo la carne del braccio sinistro d’Hironimo, posto in
alto a difesa e
roteato rapido, nonostante il gemito di dolore strappatogli
dall’impatto. Le
code di gatto ghermirono la loro preda, avvinghiandosi ad essa,
stracciando la
veste candida, ma troppo avide rimasero prigioniere e fu Hironimo ora a
torcerle, artigliando il manico e contendendosi al Bua il flagello.
Col pugno
destro il giovane mirò allo zigomo del greco-albanese,
il quel lo bloccò afferrandogli il polso e maldestramente
provò a piegargli il
braccio, non pratico con la sinistra. Sennonché, Hironimo
gli si buttò contro,
elargendogli una forte spallata in pieno petto, girandosi di schiena su
di lui
in un grottesco abbraccio. Gli pestò il piede,
finché il Bua non lo liberò
dalla presa e il patrizio rinculò veloce, strattonando in
sua direzione il
flagello che gli solcava la carne in una sgradita morsa.
Mercurio
piantò bene i piedi per terra e tirò forte,
sicuro della miglior
prestazione fisica rispetto al malconcio opponente, che appunto cadde,
trascinato in avanti. Gli elargì un pugno tra le scapole;
sputando saliva e
forse anche sangue, Hironimo s’issò sul ginocchio
sano e ricambiò con una
gomitata al basso ventre e più Mercurio infieriva
più lui rispondeva a tono.
Quand’ecco che il veneziano afferrò il polso del
Bua, mordendogli la mano che
reggeva il flagello e un grido indiavolato riecheggiò tra i
muri colmi di
muffa.
Entrambi
sapevano che non sarebbe stata una lotta tra
gentiluomini.
Afferratolo
per il bavero del saio, l’epirota si staccò via di
peso dal Miani, il quale pur rotolando calciò lontano il
flagello, adesso
libero da ogni padrone. Il giovane si riprese in fretta e
scattò in piedi,
correndo in sua direzione, ma il condottiero gli face lo sgambetto,
sicché
s’ingamberò e cadde sfortunatamente sul ginocchio
dolorante. Mercurio lo ghermì
per le spalle, lo girò e Hironimo mirò di tallone
alla virilità dell’opponente,
sennonché questi gli bloccò la caviglia,
torcendola neanche volesse
spezzargliela. Al che il veneziano, gridando di dolore e afferrata
d’istinto
della terra, gliela lanciò in faccia, calciandogli sullo
stomaco non appena
avvertì l’arto libero, sicché il Bua
cadde all’indietro tra bestiali imprecazioni.
Hironimo prese a strisciare verso il flagello, il ginocchio e la
caviglia in
fiamme che parevano volersi staccare dal suo corpo. Allungò
il braccio,
catturando il manico e trascinando lo strumento al petto, sotto di
sé.
Ripresosi e
scuotendo furioso il capo onde levarsi ogni
residuo d’intontimento, Mercurio si buttò di peso
addosso ad Hironimo,
coprendolo e infilando le mani onde costringerlo a staccarsi dal
flagello,
finendo i due per rotolarsi in un groviglio di calci, gomitate e
testate, uno
lottando per distruggere e l’altro per morire dignitosamente.
D’un tratto il
Bua cambiò strategia, balzando in piedi e sollevato per il
saio il Miani lo
sbatté contro il muro, mozzandogli il respiro, neanche
l’avesse scambiato per
un antico ariete d’assedio. Ogni osso del giovane
tremò, i nervi guizzando in
impazziti stimoli, tanto che credette aver sentito il movimento acquoso
dei
suoi medesimo organi, così crudelmente sballottati.
Ciononostante,
Hironimo non cedeva, il flagello ben saldo tra le
sue dita sanguinanti: non l’avrebbe assassinato peggio
d’un somaro o un
criminale, se il Bua voleva spedirlo da Padre, sarebbe stato per mano
sua o di
una lama. Non meritava tale ignominiosa fine. La sua schiena gli
traballava
contro il muro, lo scheletro supplicante di terminare quella tortura
prima di
finire disintegrato. I polmoni smisero di collaborare, respirava sempre
peggio
e la ferita alla fronte si riaprì e il viso
s’inumidì di placido liquido
vischioso, sicché all’odore di muffa
s’aggiunse quello del sangue.
Agli
spintoni si sostituirono i pugni, un’incessante grandinata,
giù e giù e giù, senza ritmo tranne
l’aumento d’intensità, colpendolo a
caso,
ora sullo stesso punto ora su di uno nuovo, finché Hironimo
cedette al loro
peso, scivolando lentamente contro il muro, la vista azzerata da ogni
colore,
ovattandosi ogni suono, perfino il dolore alla fine gli divenne
sopportabile.
Il mondo vorticò sconclusionato e una voragine nero
bestemmia spalancò le sue
fauci e lo inghiotti in una graduale incoscienza,
trasformandolo in
uno spettatore inerme. Capiva quanto stesse accadendo, ma non lo
percepiva più
su di sé, non gli apparteneva.
Madre
mia, soccorso! Madre ho paura!
Si stava
spegnendo, eppure Hironimo non provava un dolce torpore
bensì una paura indescrivibile, mentre un mortifero gelo
s’impossessava dei
suoi arti, ribelli ad ogni suo ordine. Soltanto le sue mani seguitavano
a
serbare al petto il flagello, neanche l’avesse eletto a palma
del suo martirio.
Niente però di eroico c’era in quel suo
progressivo commiato alla vita, niente
di santo. Solo orrore e disperazione per terminare lì la sua
esistenza, la sua
giovinezza rubata in una puzzolente cella di un remoto monastero.
Nessuno
avrebbe saputo della sua morte, nessuno l’avrebbe pianto,
né seppellito nella
sua città natale, accanto ai suoi avi, condannato ad
un’eterna solitudine.
Aiutami,
Madre! M’uccide! Madre! Madre! Mater! Mater perdono!
Mater salvami! Salvami! Salvami, Mater! Mater! Mater! Salvami
…
“…
Mater!”, invocò Hironimo con l’ultimo
fiato rimastogli, piegandosi
su se stesso nel disperato tentativo di proteggere la testa dai colpi.
Cadde in
un tonfo sul fianco, il corpo insensibile ai pugni del condottiero,
inerme,
quasi rilassato. Non si muoveva più, ogni funzione
annullata. Le dita gli si
schiusero e il manico del flagello rotolò per terra.
…
nunc et in hora mortis nostrae …
Era
quella dunque l’ora della sua morte? Perché il
patrizio non si
sentiva né leggero né bruciare, piuttosto pesante
e goffo, un sacco di farina
gettato malamente in un angolo, informe e sbatacchiato. Freddo e vuoto,
un
limbo senza via d’uscita, nonostante il suo spirito
graffiasse contro la porta
della sua stesse mente, incapace d’arrendersi, ostinato a
vivere ad ogni costo.
Non
aver mai paura, sei nato per lottare.
Morire
sarebbe stato ammettere la sua sconfitta contro il Bua.
Mater!
Aiutami! Aiutami a tirarmi su!
No,
morire significava non poter più proteggere
Thomà. Suo
fratello. La sua famiglia. La sua patria.
Homo
morto no fa guerra.
Hironimo
artigliò la terra cruda, alla cieca, impresse le ultime
forze sulle mani sbucciate e sanguinanti, impose ai muscoli delle
braccia
d’obbedirgli, di sollevarlo dal pavimento. Immediatamente,
una violenta
frustata gli martoriò la schiena e cadde prono, sbattendo il
mento e mordendosi
la lingua.
Mater,
aiuto! Ti supplico! Cocciuto,
il giovane si tirò su e
nuovamente venne rispedito per terra, stavolta battendo la fronte.
Spostò il
peso su di un avambraccio, inarcandosi, cercando stabilità
sui ginocchi.
Niente. L’ennesima frustata lo tramortì.
Forse era
meglio così. Se nulla di buono poteva combinare, forse
era meglio che Hironimo morisse, cavandosi dalle spese di un mondo che
non
necessitava di lui, che sarebbe andato avanti benissimo senza il suo
contributo. Gente più importante, più meritevole
di lui sicuramente aveva la
precedenza. Cosa poteva sperare d’ottenere? Cosa reclamare
per sé? Senza
castello, senza spada, senza famiglia, senza amici, senza
più alcuna dignità,
non era più nessuno, tanto valeva che anche il suo corpo si
disfacesse e di lui
si perdesse ogni ricordo.
Padre era
morto, Madre non poteva aiutarlo, i suoi fratelli
l’avevano rinnegato. Era solo dinanzi al grande abisso,
destino adeguato: aveva
voluto la libertà d’agire a suo piacere, di
scegliere da sé. Da solo dunque
avrebbe affrontato il suo destino, inutile invocare vanamente soccorso,
dopo
averlo per anni schifato.
D’altronde,
non ho compiuto alcunché di degno e non mi merito
né
aiuto né salvezza.
Il
patrizio avvertì all’improvviso una corrente
d’aria sulle
ferite, un fastidioso luccichio, l’eco di concitati passi
sulla terra e due
corpi che cozzavano contro, urla in greco, spintoni, il flagello
gettato
lontano, contro il muro, rotolante in un qualche angolo.
“Sei
impazzito?! Vuoi uccidere l’ostaggio? Ti rendi conti che da
morto non vale niente?”
“E’
il mio prigioniero e ne faccio quel che voglio!”
“Sbagliato! Noi abbiamo
espugnato Castelnuovo,
noi tutti assieme! Non tu da solo! Senza di noi, tu non avresti
combinato
alcunché! E’ la nostra preda di guerra e soltanto
perché t’abbiamo assecondato
nelle tue eccentricità, non significa che di conseguenza tu
ne possa disporre a
tuo piacimento!”
“Leka
…”
“Leka,
un cazzo! Tutte le magagne affrontante per tenerlo in vita,
tutti quegli imbrogli e fastidi … e poi tu butti alle
ortiche ogni nostro
sforzo, così? All’ultimo? Proprio adesso che ci
serve per liberare i nostri
compagni?”
“Lui
non mi serve per quello!”
“Cosa?”
“Non
lo voglio scambiare!”
“D’accordo,
d’accordo … Per denaro, allora! Infatti, giusto in
questo momento avremmo bisogno …”
“Neppure!”
“Kyrie
Eleison! Mi vuoi far imprecare peggio d’un turco? Non per
denaro, non per uno scambio … Per quale motivo lo tieni
teco, sentiamo?!”
“Per
mia moglie.”
“Eh?”
Silenzio.
“Lo
voglio barattare in cambio di Aikaterinī.”
“Tu
stai scherzando, Maurikos … No, no tu stai scherzando
…”
“Ho
già inviato una richiesta alla Signoria. Mi dispiace non
avertelo rivelato prima, però sono state settimane piuttosto
intense e … e può
darsi che mi sia passato di mente. In ogni modo, fin
dall’inizio avevo ideato
questo piano, altrimenti avrei chiesto subito il suo riscatto assieme a
quello
dei due capitani bellunesi, no?”
“Ah,
così te l’eri scordato? Complimenti, mi sento
davvero
lusingato nell’apprendere, quanto tu mi consideri alla pari
del figlio della
serva!”
“Leka
… mi stai fraintendendo …”
“Ma
vaffanculo te e chi t’ha fatto, che siete in tre! Frainteso?
Frainteso cosa?! Cazzo c’è da fraintendere, quando
invece sei stato
chiarissimo, porco diavolo d’un cane! Fino ad oggi ci hai
convenientemente
nascosto di come intendevi usare quel veneziano non per riscattare i
nostri
compagni o per riscuotere una taglia – Theos solo sa quanto
necessitiamo di
soldi in questo momento! – bensì per ripigliarti
quella fuggitiva di tua
moglie, la quale manco si cura di te e questo per appagare un semplice
tuo
capriccio?! E poi tu mi dici che fraintendo?! Oltre a fregarmi, pure mi
dai
dell’imbecille?!”
“Mia
moglie non è scappata via! L’hanno rapita! E
comunque non lo
chiamerei un capriccio, insomma non credi che …”
“Oggi
– anzi, ieri ormai – dovevi cavalcare con noi fino
ai mulini
sul Sile. Dov’eri? Perché non c’eri a
capitanare la compagnia, uh? Me lo
spieghi? Cos’avevi di meglio da fare? T’era stata
affidata una missione e tu,
tu l’hai rifiutata per startene accanto al prigioniero. Io te
l’ho lasciato
fare, mi sono lasciato persuadere nella sciocca illusione, che questo
veneziano
avrebbe potuto giovare l’intera compagnia. Avessi saputo
… e ora
Zilio è morto, Maurikos, è morto per servire il
tuo egoismo.”
“Leka,
forse tu hai trascurato il piccolo dettaglio, che questo
pezzo di merda è sul serio scappato e dunque neanche tu puoi
negare la bontà
delle mie decisioni! Mi fossi unito a voi all’impresa, a
quest’ora si trovava
questo qua bell’e allegro a Treviso ed io con un pugno di
mosche!”
“E
allora? Tanto a noi che ce ne veniva? Tu solo avresti goduto
dei vantaggi, non noi. Ci avresti perduto, lo ammetto. Però
è anche vero che se
tu avessi deciso di seguirci e di dirigere l’operazione come
ordinatoti, Zilio
non sarebbe caduto in battaglia. Risolvimi, Maurikos: che guadagno
c’è a
perdere un compagno fedele e capace, per un prigioniero?
N’è valsa la
pena, questo scambio?”
“Leka
… ascolta … sei sconvolto, lo capisco, lo sono
anch’io, però
… ”
“Stammi
lontano per oggi, non mi parlare. Forse domani mi passa,
ma non oggi. Non costringermi alla tua compagnia, Maurikos, a meno che
tu non
voglia un pugno sul naso.”
I passi
s’allontanarono e così anche i due condottieri,
segnata la
loro uscita dallo snervato sbattere della porta del greco-albanese e il
secco
schiocco della serratura, come se Hironimo avesse potuto fuggire,
paralizzato
com’era nella medesima posizione, in cui Leka Busicchio
l’aveva trovato al
momento della sua irruzione nella cella.
Il corpo
intero vibrava dolorante, un liuto dalle corde spezzate.
Il giovane Miani riuscì a malapena a rigirarsi supino,
gemendo al contatto
della pelle lacera contro la pastosità del terreno, accecato
da un pugno
all’occhio che manco si ricordava d’aver incassato
e da un buio atroce, dentro
cui ticchettavano gocce d’umidità condensata e
altri rumori sconnessi, lontani
e al contempo vicini. Non trasse alcun conforto in essi, suoni alle sue
orecchie di morte annunciata e non di consolazione per essere
sopravvissuto ad
un altro giorno.
In quelle
tenebre Hironimo si sentiva schiacciare dalla forzosa
stasi, dal desiderio mancato di riscatto; nella solitudine i suoi
fallimenti si
moltiplicavano e soffocavano qualsiasi suo pregio. A onor del vero, non
ne
trovava alcuno, di pregio. In che modo si sarebbe presentato a Padre?
Plick.
Plock. Plick. Plock.
Sulle
grandi finestre batteva feroce la pioggia, la precoce notte
illuminata dall’improvviso lampo cui faceva eco il suo sposo,
il possente tuono
che scuoteva impercettibilmente il vetro, aiutato dalla bellicosa bora.
Incominciava il Dì dei Morti, la fiammella accesa in mezzo
al tavolo e lì
accanto un bicchiere d’acqua e qualche fetta di pane
acciocché le anime,
vagando per la terra, potessero ristorarsi e proseguire il cammino fino
all’alba.
“Sen
Piero aveva una suocera [1], la
quale in vita era stata tanto avara e cattiva, che quando
morì, ahimè,
precipitò dritta giù
all’inferno”, narrava Madre seduta accanto al
caminetto, i
suoi figlioli simil pulcini che l’attorniavano, ascoltandola
attenti e
sgranocchiando le deliziose Fave dei Morti ai pinoli e le caldarroste.
“Sen
Piero se ne dolse moltissimo e pregò Nostro Signore di
risparmiarle quegli
atroci tormenti, pensando e ripensando ad una buon’azione da
parte di sua
suocera, che avrebbe potuto riscattarla. La vecchia però in
tutta la sua vita
non ne aveva compiuta alcuna, vivendo per i fatti suoi e senza aiutare
nessuno.
Quand’ecco, che Sen Piero si ricordò di una foglia
di radicchio che sua suocera
aveva donato ad un orfanello mendicante. Nostro Signore allora gli
disse:
“Benissimo: che un mio angelo cali quella foglia di radicchio
all’inferno,
acciocché lei vi s’aggrappi e venga issata su, nel
mio Regno.” L’angelo eseguì
l’ordine e la vecchia quando vide quella foglia di radicchio
si commosse e prontamente
l’afferrò, mentre l’angelo la tirava su
per trasportarla in Paradiso. Le altre
anime, però, se ne accorsero e prontamente ghermirono le
gambe della donna,
nella speranza d’essere anche loro salvati da quel pozzo
infinito di gelide
fiamme. “Portaci con te! Aiutaci, sorella!”, la
supplicavano in lacrime.
Accortasi di quegli intrusi, la vecchia invece incominciò a
dimenarsi e a
scalciare: “Via da me!”, gridava. “Questa
foglia di radicchio m’appartiene!
Sono io quella che Nostro Signore vuole liberare
dall’inferno, non voi, anime
dannate! Via da me!” Ed ecco che la foglia si
spezzò e la donna ricadde nella
voragine, da dove non risalì mai più.”
“Non
capisco”, aggrottò la fronte Carlino, esibendo
un’espressione
assai scettica: “Nei Vangeli la suocera di Sen Piero invece
s’era messa a
preparare il pranzo a Jesus e gli Apostoli, dopo esser stata guarita.
Non m’è
sembrata proprio una tal carogna da meritare addirittura
l’inferno!”
“E
che ne sai, Carlino? Forse avrà cucinato da
schifo!”
“Non
sei divertente, Marchetto!”
Madre
non si scompose, semmai ridacchiò indulgente dinanzi alla
preparazione di quel suo figliolo, che divorava più libri
che pane. “Lo so,
Carlino, ma non è questo il punto del mio
racconto.”
“E
qual è?”
“Esatto,
qual è? Luchin …?”
“An
… perché … perché la
suocera non è stata generosa con le altre
anime? La foglia di radicchio rappresentava quell’unico atto
di carità, che, in
mancanza di altri a rinforzarlo, s’è spezzato per
via del suo egoismo!”
“Più
che altro non ha avuto pietà delle altre anime, pur
trovandosi tutti insieme nella medesima situazione!”, disse
invece Carlino.
“Pur peccatrice, s’è considerata
superiore e privilegiata rispetto a loro. E
arrogante, perché diceva di conoscere cosa volesse o non
volesse Nostro
Signore. Non aveva capito che l’aveva messa alla
prova!”
Madre
annuì, sorridente. “E tu Momolin?
Cos’hai imparato dalla
storia?”
Il
bambino s’ingobbì imbarazzato, non trovando nulla
d’intelligente d’aggiungere alle osservazioni dei
fratelli. “Non lo so …”,
bofonchiò, “Luchin e Carlino hanno già
detto tutto …”
“Sì,
ma tu personalmente cos’hai capito del racconto?”,
lo
incoraggiò Madre, ponendosi il piccino sulle ginocchia.
Momolo
piegò ingiù la bocca, il cuore che gli batteva in
petto
dall’ansia e le gote vermiglie dalla vergogna per la sua
tardezza di spirito.
“Ecco … ecco io … io penso che
… che a Nostro Signore basti una foglia di
radicchio per salvare una persona, perché anche la
più cattiva-cattiva possiede
la sua foglia di radicchio … però dopo bisogna
continuare ad essere buoni-buoni
e non è facile … ”,
s’impappinò, giocherellando nervoso coi laccetti
del suo
farsetto, arrossendo dinanzi ai risolini sfottitori del fratelli.
“Ma a Nostro
Signore basta quella piccola foglia di radicchio ...”
Plick.
Plock.
“Na
fòja de radécio …”,
mormorò tremante Hironimo, due gemelle
lacrime che gli scendevano lungo le tempie. “Basta
‘na fòja de radécio
…”
All’improvviso
urlò a pieni polmoni tutta la sua angoscia, quel
grido represso da quindici anni che non era mai riuscito ad esprimere,
quell’invocazione
d’aiuto cui aveva disperatamente anelato e che per troppi
anni aveva taciuto,
imprigionato dalle catene dell’orgoglio e della rabbia e che
ora lo serravano
fameliche, strangolandolo e ritorcendosi malvagie contro di lui.
Di scatto
Hironimo si morse i polsi, ignaro se per aprirsi le vene
o per soffocare quei sconquassanti singhiozzi.
***
La gola
gli bruciava a tal punto, che il soldato giudicò aver
inghiottito per ore della ruvida sabbia, la lingua impastata di saliva
secca.
Un improvviso conato di vomito lo soffocò, portandolo a
girarsi sul fianco e a
liberarsi dell’acida bile sul primo catino disponibile.
Ansimando, l’uomo
s’abbandonò esausto sul materasso, guaendo
all’artigliante dolore sulla spalla.
“Stai
fermo, deficiente! Ti si riapre la ferita ed io non te la
ricucio di certo!”
Il
soldato aprì gli occhi, sobbalzando non appena riconobbe
quella
voce assai scocciata. Vide dinanzi a sé, chino su di lui
tipo l’Oscuro
Mietitore, Fra’ Anselmo che gli stava risistemando le bende.
Si
rilassò. Un incubo o forse un’allucinazione frutto
del delirio
della febbre. “Sono ancora all’Abbazia”,
si consolò, socchiudendo le palpebre e
lasciandosi cullare dal torpore degli oppiacei e della convalescenza.
Uno
schiaffo al braccio lo riportò bruscamente alla
realtà,
costringendolo a guardarsi meglio attorno ed in effetti
l’uomo non riconobbe
l’ambiente a lui famigliare dell’infermeria,
bensì un ampio salone più spartano
e colmo di letti per la maggior parte ancora vuoti.
“Vorresti,
stronzo!”, gli apparvero i suoi fratelli Giorgio e
Teodoro Madalo, le braccia incrociate al petto. Le guance di Giorgio
avevano
assunto un colorito porporino dallo sforzo di non ridere, mentre
Teodoro lo
fissava accigliato quanto la loro madre, quando s’apprestava
a percuoterlo cogli
zoccoli. “Altro che Abbazia, ti trovi a
Treviso!”, scosse il capo
Teodoro, chiedendosi perché Dio lo punisse tramite un
fratello così scemo.
“La
pallottola t’ha colpito alla spalla, ma come si suol dire,
l’erba cattiva non muore mai”, scherzò
Giorgio, beccandosi uno scappellotto
dietro la nuca da parte del maggiore, che seguitò severo:
“Ringrazia
Theos che ci trovavamo lì, sennò chi ti rancurava
dai
canneti, mezzo affogato?”
Zilio
Madalo, redivivo e novello Mosè, proprio non sapeva cosa
rispondere, avendo fermamente giudicata finita la partita una volta
cascato in
acqua. Nondimeno, il suo cuore si scaldò al pensiero che i
suoi fratelli,
malgrado gli schieramenti opposti, si fossero premurati di salvarlo, al
posto
di lasciarlo crepare per conto suo o d’elargirgli il colpo di
grazia.
“Cosa
ne sarà di me?”, s’informò,
ringraziandoli cogli occhi e i
due stradioti compresero e accettarono quella sua esitazione a
proferirlo ad
alta voce, sedendosi invece ai bordi del letto, sul viso
un’espressione più
conciliante.
“Sei
prigioniero della Signoria”, gli delucidò conciso
Teodoro.
“Il capitano Paleologo ha interceduto presso il Provveditore,
acciocché tu
rimanga qui all’ospedale fintanto che sarai convalescente. Il
che significa …”
…
che Zilio era legato al letto, impossibilitato a fuggire e
sorvegliato a vista dai due cavalleggeri e, in loro assenza,
d’un soldato.
“Dopodiché,
ti trasferiranno alle stinche.”
“Se
vuoi un consiglio spassionato, ti conviene cantare prima che
lo facciano!”
“Non
sono una spia! Non spiffererò niente!”,
s’impuntò testardo
Zilio, subito rimesso al suo posto da una sberla da parte di Teodoro.
“Ti
spacco il muso, se non lo fai! Ingrato! Il capitano Paleologo
poteva consegnarti al Provveditore e lasciare che
t’interrogasse o ti
torturasse così com’eri, invece t’ha
fatto curare. E’ così che ripaghi la sua
cortesia nei confronti della tua indegna carcassa? Vergogna! Pensavo
che
Pateras e Miteras t’avessero inculcato un po’ di
creanza!”
Fra’
Anselmo scosse il capo, ridacchiando tuttavia a quel giocondo
quadretto famigliare. Riacquistò la sobrietà di
spirito invece alla vista di
Thomà, seduto per terra contro il muro, le mani sulle
ginocchia e
un’espressione vuota sul visetto sporco e rigato di lacrime.
Quel
terremoto di bambino, così ciarliero e indocile, dal loro
arrivo a Treviso non aveva proferito alcuna parola, la mente rimasta
dentro il
bosco del Montello, assieme al suo padrone. Il fanciullo
s’era sistemato in
quel cantuccio dell’ospedale e lì se
n’era stato per tutto il tempo, ignorando
perfino la chiamata al refettorio per il desinare.
Thomà
scoppiò improvvisamente a piangere, quando madona Maria
Malipiero Gradenigo lo raggiunse, chiedendogli gentilmente di seguirla
per
lavarlo e spulciarlo dai pidocchi.
Continua
…
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Ebbene
sì: La Palice aveva la garzona (o fidanzatina) modenese! XD
D’altronde, la moglie era in Francia e l’uomo si
sentiva un po’ solo …
Riprenderemo
il punto di vista di Fra’ Anselmo e Thomà nei
prossimi capitoli, per adesso tiriamo un sospiro di sollievo che almeno
loro si
sono salvati. Il Nostro, invece, ha toccato letteralmente il fondo del
barile.
O forse no? In ogni modo, c’attendono ancora un paio di
giorni di pura
depressione. Per questo, terrò vicino il barattolo di
cioccolato fondente
spalmabile, non si sa mai nella vita.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto! E sul serio, fatemi
sapere la vostra opinione riguardo l’annuncio.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Questo racconto popolare si presenta in
diverse varianti, a seconda del paese. Ne “I fratelli
Karamazov” di
Dostoevskij, è una cipolla quella che usa l’angelo
e la protagonista è una
qualsiasi donna anziana; nella versione veneziana invece si parla di
una foglia
di radicchio e la vecchia è addirittura la suocera di San
Pietro (chissà
perché, poi); in altri parti d’Italia, pur
conservando la suocera come
protagonista, l’angelo invece intreccia una corda fatta di
bucce di patate.
Sinceramente
non so quanto sia vecchia questa novellina, però per
la storia mi pareva assai adatta.