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Autore: Adeia Di Elferas    23/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Rodrigo ci aveva messo qualche giorno, per capire l'entità della macchina bellica che avrebbe potuto schiacciarlo, se non si fosse adeguato in fretta al ruotare dei suoi ingranaggi. L'esercito francese era entrato in Roma, in modo pacifico, ma la sua presenza era un monito che portava tafferugli ogni notte e problemi ogni mattina.

Il papa aveva finalmente inteso anche l'importanza della questione di Caterina Sforza e voleva a tutti i costi che quell'affare finisse bene.

Ormai i francesi avevano gettato la maschera, mostrando al mondo la loro alleanza con il re di Spagna. Il loro obiettivo era Napoli, ma il Borja sapeva che, se lui non avesse fatto esattamente quel che doveva fare, anche Roma sarebbe potuta finire nel mirino di quelle due potenze armate. Il resto del mondo non avrebbe di certo mosso un dito, eventualmente, per aiutarlo, perché – come lui stesso, a malincuore, ammetteva – non era un pontefice retto e privo di difetti, e dunque sarebbe stato facile, per i suoi oppositori, dimostrarsi sollevati da un attacco francese e spagnolo volto a sottrarre il trono di San Pietro a uno spergiuro come Alessandro VI.

Era dunque fondamentale, come in effetti stava facendo, assecondare ogni richiesta, accogliere con grandi onori tutti i condottieri francesi che sfilavano per i suoi appartamenti, dissimulare le proprie preoccupazioni e sorridere, sorridere, sorridere sempre, a costo di sembrare stupido.

Era stata una settimana molto complicata, specie perché trattenere Cesare dal commettere qualche sciocchezza aveva messo a dura prova i nervi di Rodrigo. Suo figlio, per quanto visibilmente spaventato dai francesi, non perdeva mai occasione per ribadire, anche pubblicamente, che liberare la Sforza era un errore e che sarebbe stato più sicuro per tutti trattenerla a Castel Sant'Angelo e basta. Per fortuna, l'unica volta, mentre erano a cena con dei comandante d'Oltralpe, in cui stava per osare il suggerimento peggiore di tutti – ossia quello di uccidere la prigioniera, tagliando la testa al toro – il Santo Padre se n'era accorto per tempo, e gli aveva pestato un piede, sotto al tavolo, con discrezione.

E così il 28 giugno, con un sollievo senza pari, il pontefice chiamò a sé il Duca Valentino, che stava alla sua destra, tutti i Cardinali e i Vescovi di Roma, e i baroni, e li costrinse a mettersi assieme a lui davanti a Castel Sant'Angelo, per veder sfilare l'esercito francese, in partenza per Napoli.

Solo l'Alégre e pochi altri sarebbero rimasti nell'Urbe ancora per qualche giorno – giusto il tempo, aveva spiegato Yves, di essere certi che i Borja rispettassero i patti riguardanti la Tigre – e poi Rodrigo avrebbe potuto tornare a respirare normalmente.

I fanti, l'artiglieria, i carri e i bagagli passarono per primi. A voler essere riduttivi, quella colonna da sola copriva almeno un miglio di strada. Era come un enorme serprente che si incuneava tra le strade strette e scure di Roma, defluendo poi oltre il ponte che stava davanti al castello.

Cesare sapeva che da una delle finestre di Castel Sant'Angelo Caterina Sforza stava assistendo a quello spettacolo. Chissà a cosa stava pensando. La impensieriva, veder andar via i suoi inattesi protettori, oppure, testarda e ostinata com'era, era felice di veder allontanarsi coloro che le avevano strappato con i cannoni la sua preziosa rocca a Forlì?

Il Valentino avrebbe voluto voltarsi, per cercare il suo viso da qualche parte, ma non lo fece. Suo padre lo teneva d'occhio e sapeva che un gesto simile sarebbe subito stato letto come qualcosa di imperdonabile. Gliel'aveva detto in tutti i modi: doveva dimenticarsi la Leonessa di Romagna, ormai non era più una sua proprietà.

Finiti i carriaggi, cominciarono a sfilare in bell'ordine gli armigeri a cavallo, quasi tutti con in testa il mezz'elmo, e la lancia in resta, quasi fossero pronti a una battaglia. Li accompagnavano pifferi, trombe, enormi tamburi svizzeri, e – a giudizio del Duca di Valentinois – un pestifero odore di stallatico, regalo dei tanti destrieri che al loro passaggio stavano lasciando la strada invasa di sterco.

Il rumore era così assordante che anche il papa, che pure sorrideva plasticamente fin dall'inizio, aveva assunto una smorfia infastidita, schiacciando gli occhi e resistendo a stento a portarsi le mani alle orecchie.

“Con questo frastuono – commentò a denti stretti, tra sé, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, in penultima fila davanti al castello – non si sentirebbe nemmeno il tuono...”

Man mano che i soldati sfilavano, però, Rodrigo si abituava al fracasso e, si nuovo sfigurato da un sorriso eccessivo e ipocrita, si fece passare l'acqua benedetta dal Vescovo che gli stava accanto e cominciò a impartire la benedizione alle truppe italiane, francesi e svizzere che gli stavano sfilando davanti.

Se le sue labbra, però, elargivano benedizioni e preghiere, nella sua testa si stavano affastellando solo bestemmie e auguri di una morte orrenda a tutti gli uomini che gli stavano passando dinnanzi, e nella conta dei maledetti dal papa entrarono a buon titolo anche il carissimo re di Spagna e il cristianissimo re di Francia.

 

Caterina aveva chiesto e ottenuto dai suoi carcerieri di uscire momentaneamente dalla sua stanza, affacciandosi al parapetto della cinta di Castel Sant'Angelo, a patto di non farsi notare. Era stato più facile del previsto avere il permesso di guardare l'esercito francese sfilare proprio sotto alla fortificazione. Quel dettaglio, per qualche minuto, aveva fatto capire alla donna quanto – a sua insaputa – l'Alégre dovesse aver fatto pressioni affinché venisse trattata, come da accordi, da sorvegliata e non da prigioniera.

Era ancora debole, ma dopo una settimana circa di cibo regolare – anche se non abbondante – e di condizioni igieniche migliori, il suo corpo cominciava già a riprendersi, dimostrandole come la sua fibra fosse, nel profondo, ancora robusta e tenace.

Aveva ancora qualche problema d'intestino, perché riabituarsi a mangiare quotidianamente era comunque una sfida per il suo organismo, e alcuni giorni dormiva più di quanto avrebbe voluto, ma non aveva quasi più avuto febbre, e tutti gli altri fastidi che provava erano irrisori, rispetto alla vita che tornava a scorrere nelle sue vene.

Era riuscita, quindi, a restare ritta in piedi per quasi tutta la sfilata delle truppe, anche se si era dovuta aggrappare alla pietra di Castel Sant'Angelo più di una volta, sia per mimetizzarsi meglio con il suo profilo, sia per sorreggersi come meglio poteva.

Il suono pervasivo dei pifferi, e quello rullante dei tamburi le avevano squassato l'anima. Se n'era riempita, li aveva sentiti nel petto, e l'avevano riportata indietro, a quando lei stessa aveva guidato il suo esercito in battaglia, sfidando un nemico più grande di lei e battendolo a ogni sortita, costretta a piegare la testa solo alla fine, solo quando le mura si erano dimostrate più cedevoli dello spirito dei suoi uomini.

Quando aveva scorto gli ultimi soldati francesi attraversare il ponte, si era scostata dal parapetto, e aveva fatto un cenno alle guardie, come a dire che era pronta a tornare in camera. Ciò a cui aveva appena assistito l'atterriva più di quanto volesse. Voleva uscire dal castello, ormai ogni ora d'attesa in più le toglieva il respiro. Cominciava a essere davvero irrequieta, perché adesso che le truppe stavano lasciando Roma, la sua posizione si indeboliva.

“Voglio uscire di qui.” disse piano, quando Fortunati arrivò nella sua stanza, nel tardo pomeriggio.

“Lo so.” annuì lui.

“Ho paura.” insistette lei, convinta che l'uomo avesse capito solo in parte l'entità della sua ansia.

Il piovano, allora, si fece più circospetto e, accigliandosi un po', domandò: “È cambiato qualcosa..?”

“I francesi stanno lasciando Roma.” sussurrò Caterina, chiedendosi se e quanto le guardie poste fuori dalla stanza potessero sentire le sue parole: “Finirà come l'altra volta: appena i francesi saranno abbastanza lontani, quei diavoli mi rimetteranno le catene.”

“Stavolta non oseranno.” tentò di tranquillizzarla Francesco, benché vedesse nei suoi occhi una luce che non gli piaceva affatto: “Davvero: adesso anche Firenze ti vuole libera.”

“A parole, mi volevano tutti libera anche prima.” gli ricordò la Leonessa, ritraendosi appena, quando lui provò a sfiorarle la spalla con la mano.

“Ah, ho una cosa da darvi...” borbottò il fiorentino, cercando nella bisaccia che portava a tracolla.

Caterina, che non riusciva a calmarsi, e che, anzi, si faceva di minuto in minuto più nervosa, senza capire come facesse, invece, Fortunati ad apparire tanto calmo, prese la lettera che l'uomo le stava porgendo quasi con rabbia. Il piovano non fece caso ai modi bruschi della Tigre, sia perché, in parte, gli sembravano più normali di quelli cauti e pacati dei giorni scorsi, sia perché poteva capire il suo straniamento, dopo tanti mesi passati isolata e al buio.

“Mi è arrivata questa mattina.” spiegò l'uomo, indicando la missiva: “Ti scrive Paolo Riario. Si occuperà lui di far arrivare sana e salva tua figlia a casa di Madonna Scali, e anche il piccolo Giovanni, ovviamente.”

La Sforza stava già leggendo attentamente le parole del figlio naturale del suo primo marito. Nelle sue frasi, dirette, ma cordiali, riconosceva i modi del giovane che aveva avuto modo di conoscere e apprezzare durante la guerra contro il Valentino. Le sembrava impossibile, che un uomo come Girolamo Riario potesse essere davvero il padre di un ragazzo tanto affidabile e coraggioso.

Nella sua lettera le spiegava che i figli stavano tutti bene e le faceva un breve riassunto della situazione dei suoi averi, accennando anche all'eredità di Giovanni. Era strano, ma in quel momento alla Leonessa, sembravano argomenti astratti, come qualcosa che apparteneva a un lontano passato e non un'urgenza del presente.

Ripiegò la missiva con lentezza, facendo del suo meglio per ritrovare il senso del reale, per recuperare la coscienza che la legava al mondo che la circondava e, solo dopo un paio di minuti di smarrimento, disse a Fortunati: “La mia posizione non cambia: voglio andarmene di qui il prima possibile.”

“Non volevo dirtelo per non farti agitare prima del tempo...” disse allora Francesco, riprendendo la missiva che la donna gli stava porgendo: “Ma forse mercoledì verrà organizzato un incontro con i notai, per farti firmare di nuovo la cessione degli Stati e...”

“Da quanto lo sai?” lo interruppe la Sforza, sedendosi sul letto, le forze che minacciavano di lasciarla di nuovo, come le accadeva costantemente ogni volta in cui si lasciava prendere troppo dall'agitazione.

“Io... Non so...” tergiversò il piovano, sapendo di aver sbagliato, in fondo, a tenere tutto per sé, per quanto il suo intento fosse nobile, ovvero risparmiare inutili tensioni alla donna che tanto gli stava a cuore: “Forse... Da venerdì...”

“E me lo dici solo adesso?” si risentì la Tigre, con tono spento: “Siamo già a lunedì e io avrei potuto...”

“Cosa?” la incalzò lui: “Prepararti..? Pensare a cosa dire o fare? Basta firmare il foglio che ti metteranno davanti e poi... Poi ci penseremo.”

Caterina, a quel punto, sospirò e si lasciò cadere con la schiena sul materasso. Era stanca e non aveva più voglia di parlare con Francesco, anche se, al momento, era l'unico volto amico che le fosse permesso vedere.

“Mercoledì farò quello che andrà fatto.” disse alla fine la donna, fissando il soffitto: “Ma voglio andarmene il prima possibile, o quel diavolo farà di nuovo quello che gli pare, e questa volta non mi lascerà sopravvivere.”

“C'è un'altra cosa.” fece, con una certa titubanza, Fortunati.

“Ossia?” la Tigre guardava sempre verso l'alto.

Il piovano, che si sentiva un codardo ad aver aspettato tanto a parlare anche di quella faccenda, fece fatica a trovare le parole, ma poi disse: “Appena dopo che sarò certo che ti abbiano fatta uscire di qui sana e salva, dovrò partire per Firenze.”

La Sforza si tirò immediatamente su a sedere: “Perché?”

“Devo preparare la strada.” disse innanzitutto: “Non è solo una tua idea, quella che sia meglio farti lasciare Roma il prima possibile, e poi... E poi vogliamo tirar fuori d'impiccio frate Lauro, giusto? Se vogliamo che venga lasciato libero come tuo confessore, io non devo esserci, perché è come tale che sono stato ammesso qui. Sarà lui ad aiutarti, quando me ne andrò.”

Caterina si sentiva persa. Come poteva accettare di privarsi del fiorentino? In quei giorni le era parso la sua unica ancora di salvezza. Senza di lui, come avrebbe fatto?

“Va bene.” disse, comunque, sentendo gli occhi pizzicare: “Va bene...”

 

 

Era la mattina del 30 giugno, e il sole era sorto da appena una mezz'ora. Caterina era stata svegliata molto prima, e le era stato messo un abito nuovo, pulito e abbastanza elegante.

La donna si innervosì, quando seppe che Fortunati non sarebbe arrivato, e che a scortarla sarebbero stati dei soldati pontifici, alcune guardie di un certo Juan Serra, uno spagnolo, Cardinale di San Clemente e Francisco Troches, cameriere personale di Alessandro VI.

Il nome di quell'ultimo accompagnatore non le era nuovo. Era abbastanza certa di non averlo mai visto con i suoi occhi, ma l'aveva sentito citare spesso. Anche se ufficialmente era stato un segretario e poi un domestico del papa, secondo molti era in realtà il sicario prediletto dal Duca Valentino, perché sapeva essere discreto e crudele in egual misura.

Quando fu tutto pronto, la Tigre venne accompagnata fino all'uscita del castello. L'aria era tersa, e la Sforza non poteva non apprezzare il suo profumo, mentre inspirava assorta la brezza del mattino.

Tuttavia, i suoi polmoni provati dai lunghi mesi di prigionia, la ripagarono con qualche accesso di tosse, tanto che si dovette aspettare qualche minuto, prima di farla uscire definitivamente.

La issarono con attenzione su un cavallo di media grandezza. Si trattava di un animale docile, eppure la Leonessa, nel momento stesso in cui lo montò, avvertì una sensazione di insicurezza che non ricordava di aver mai privato, in sella. Sentire il calore della bestia sotto di sé e i suoi muscoli scattanti muoversi a ogni passo, la rendeva guardinga. Era come se il contatto così diretto con la vita fosse per lei una novità assoluta.

“Un momento e andiamo.” disse, a voce bassa, un uomo vestito di scuro.

Aveva il volto coperto dal cappuccio del mantello, ma, quando salì in groppa al proprio cavallo, una folata di vento fresco lo svelò. La milanese lo osservò per qualche istante appena e poi, sentendolo parlare di nuovo, lo riconobbe come uno dei suoi carcerieri, anzi, come quello più sgradevole, volgare e manesco che avesse avuto modo di conoscere a Castel Sant'Angelo.

“Signor Francisco – lo apostrofò un soldato della scorta, abbastanza alto in grado da potersi prendere certe libertà – avete già scelto la via?”

“Certo, l'ho scelta.” rispose lui, con un mezzo ghigno.

Francisco: era dunque lui, il Troches, il sicario dei Borja. Adesso la Tigre cominciava a capire molte cose, e si rese conto, di colpo, di quanto in quell'anno e mezzo il papa e il Valentino l'avessero seguita a stretto giro, mettendole a guardia uno degli uomini che più ritenevano adatto a sorvegliare una preda importante.

Sapere quanto fosse stata vicina a un assassino del genere, probabilmente istruito a ucciderla, se fossero sorti problemi, le diede la nausea.

“Andiamo.” ordinò Francisco, dando di speroni al suo cavallo e mettendosi proprio accanto a Caterina: “Non fare scherzi – le disse, a mezza bocca – ricordati che gli incidenti possono accadere, a chi non sta attento...”

Il piccolo corteo, finalmente, uscì da Castel Sant'Angelo. Mentre gli zoccoli del suo destriero battevano sulla strada sui cui la fortificazione si affacciava, la Sforza si ricordò, come in un sogno, di quando, molti anni prima, era passata da quello stesso punto, giovane e incinta, pronta a prendere il castello e a minacciare il Sacro Collegio con le armi.

Cos'era rimasto, si chiese, di quella donna? Lei stessa percepiva i suoi movimenti più lenti e cauti, aveva ben visto, allo specchio, la sua figura ormai scarna e vecchia...

“Per di qua.” disse il Troches: “Non distrarti...”

La donna, docile, seguì il suo carceriere. Attraversarono il ponte, affiancati da pochi, confusi romani che guardavano la prigioniera con una sorta di sorpresa e curiosità. Probabilmente, pensava Caterina, la metà di loro non sapeva nemmeno più chi lei fosse, e l'altra metà, pur ricordandosi la sua storia, doveva esser convinta che lei fosse morta da tempo.

La Leonessa non fece commenti e non chiese nulla, limitandosi a seguire il lento avanzare della colonna di uomini che le faceva quadrato attorno. Passato il ponte dell'Angelo, si inoltrarono nella serpigine di stradine che era Roma.

Ogni volta in cui imboccavano un viottolo più buio e stretto del precedente, la Sforza si preparava a sentirsi stringere alla gola le mani del Troches, o a vedersi pugnalare alla schiena da qualcuno dei suoi uomini. Vedeva già il suo cadavere gettato nel Tevere, e il Troches, fintamente sconvolto, spiegare a Yves d'Alégre di come lei fosse fuggita e si fosse gettata nel fiume, assecondando un moto di follia... E, invece, ogni volta uscivano di nuovo alla luce del sole senza che le fosse successo nulla.

Ogni tanto riconosceva un palazzo in cui era stata a pranzo o a cena, quando ancora viveva a Roma con Girolamo Riario. Di quando in quando scorgeva lo stemma in pietra di qualche famiglia che era stata amica degli Sforza, ma sapeva che, se avesse chiesto loro asilo, nessuno le avrebbe aperto la propria porta.

Arrivarono ad affiancare le spoglie del Colosseo, un tripudio di erbacce e orti, e solo dopo un altro quarto d'ora di cavallo, finalmente raggiunsero la porta del palazzo del Cardinale di San Clemente.

Alla Tigre bastò osservare bene lo stemma di quel Juan Serra per capire che si trattava solo di un'altra creatura del papa, uno spagnolo, anzi, un valenciano, dedito ai Borja e pronto a tutto per loro.

Piegata su se stessa, molto provata dal lungo tragitto in sella, la donna lasciò che il Troches e un soldato l'aiutassero a smontare. Fece qualche passo incerto, e poi attese che fossero loro ad annunciarla e a farla entrare nel palazzo.

Per fortuna, non dovette salire scale, perché il notaio del papa, le dissero, l'attendeva al piano terra.

La Tigre si rincuorò appena, quando vide, nel salone, il volto serio dell'Alégre, ma quasi si mise a piangere dal sollievo, quando scorse, proprio accanto al notaio, Fortunati.

Il piovano le fece un cenno con il capo, come a consigliarle di non mostrarsi con lui troppo familiare, e la donna ne capì il motivo: dal modo in cui il fiorentino se ne stava accanto al legale, era probabile che avesse preso parte alla compilazione delle carte che lei avrebbe dovuto firmare e dunque sottolineare troppo un loro legame avrebbe rischiato di farli tacciare, in un secondo momento, di malafede.

“Sedetevi.” disse il notaio, indicandole uno scranno davanti al tavolone su cui aveva disposto i fogli e il necessario per scrivere: “Vi ricordo che le condizioni di Sua Santità non sono trattabili, e sono condizioni necessarie alla vostra scarcerazione.”

“Madonna Sforza lo sa benissimo.” si intromise Yves, con un tono che doveva far capire anche alla Leonessa l'importanza di firmare senza opporre resistenze.

“Posso leggere, prima di firmare?” chiese comunque la donna.

Gli uomini presenti, compreso Francesco, si scambiarono qualche occhiata sorpresa, ma alla fine il notaio le rispose: “Ovviamente potete.”

Caterina scorse le pagine in fretta, ma cercando di stare attenta a ogni sfumatura di quell'accordo capestro. In primo luogo si diceva che il papa, come rimborso per le ingenti spese sostenute in quell'anno e mezzo per tenerla in vita, chiedeva duemila ducati. Quella richiesta le sembrava un oltraggio, ma non volle sollevare nessuna polemica a riguardo. In secondo luogo, come si era aspettata, si ripeteva fino allo strazio che le terre di Imola e Forlì non erano più di sua proprietà e che né lei né i suoi figli avrebbero mai avanzato pretese su di esse per nessun motivo e a nessun titolo.

Infine, e questo fu il boccone per lei più amaro, si precisava che, per quanto libera, non avrebbe potuto lasciare Roma, fatto salvo un eventuale permesso speciale del papa. Se fosse venuta meno a questa clausola, avrebbe dovuto pagare venticinquemila ducati immediatamente, pena il ritorno a tutti gli effetti allo status di prigioniera.

La donna sentiva su di sé lo sguardo teso di Fortunati. Lui la conosceva bene e sapeva quanto le stesse costando, quel teatrino. La Caterina di qualche anno prima, quella che aveva vendicato con ferocia la morte di Giacomo Feo, quella che era andata, sola, a Firenze a picchiare i pugni davanti al Gonfaloniere di Giustizia, quella che aveva guidato il suo esercito in guerra, ecco, quella Caterina non avrebbe mai firmato una resa simile. Quella Caterina, però, non esisteva più.

Con un sospiro tremulo, la Sforza allungò una mano verso la penna e la intinse nell'inchiostro, e, dopo un solo attimo di esitazione, appose la sua firma, grattando la pagina con la punta e poi guardando il notaio con aria pacifica, chiedendo solo: “Mi è permesso scrivere qualche lettera? Ho bisogno di trovare qualcuno che mi aiuti a pagare il debito che ho con il papa.”

“Ma... Io non...” cominciò a dire il notaio.

“Potete ben immaginare che io non disponga di duemila ducati.” ribatté la Tigre, con voce ferma, ma senza aggressività: “Se il pontefice rivuole i suoi soldi, deve lasciare che io chieda aiuto.”

“Pensateci: il papa non sarà contento, se saprà che questo debito resterà tale per colpa di una vostra leggerezza.” si aggiunse Francesco.

Il notaio, suo malgrado, si morse il labbro e alla fine le concesse di scrivere tutte le missive che voleva.

“Ovviamente – sussurrò la donna, con noncuranza – ne scriverò una anche a frate Lauro Bossi, per informarlo della sua pronta liberazione e della sua nuova carica a mio cappellano personale e confessore.”

Nessuno osò dirle di no e, nascondendosi appena le labbra con una mano, con il pretesto di grattarsi il naso, Fortunati trattenne a stento un sorriso, nel vedere che, nel profondo, nascoste sotto le ceneri, le fiamme della Tigre ardevano ancora.

   
 
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