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Autore: ShadeOfCool    24/01/2021    0 recensioni
C’era un particolare vento caldo, e tutto era bianco o blu-verde. lui rideva piacevolmente e talvolta camminava girato di spalle, in un flusso di passi che ormai nessuno dei due controllava. Procedevamo sospinti dal vento, senza che la nostra volontà interferisse. Sembrava che il nostro passo non si dovesse mai arrestare. E invece, si arrestò.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E’ da un giorno che giro tutt’intorno all’unica cosa che voglio veramente dire, al sogno di una notte che voglio raccontare. Dunque, ecco.

 

Era un lungo misterioso fiume sconosciuto, mai visto. Camminavo quietamente con chi non dovrebbe mai trovarsi nei miei sogni - per via dell’amore a cui sono votata.

 

Oh ma io amo, e parecchio. Solo non mi riesce - o per meglio dire, non riesce alla mia volontà - di essere fedele. E che brutta parola, tipica di cani e animali domestici che immaginiamo non abbiano coscienza! Io una coscienza ce l’ho eccome. Fedele come un fido cane non lo voglio essere. E a chi dovrei dimostrare che è vero, il mio amore? Forse a chi amo? Ma chi amo io, lo sa che amo senza rimpianto e intensamente, nonostante i periodi di secca che le mie dimostrazioni subiscono, di quei giorni in cui non mi va nemmeno di essere gentile con me stessa. E loro lo capiscono, davvero. Così comprensivo e disinteressato è il mio amore, che carpisce ogni stato della mia anima e lo decifra perfettamente, facendomi essere, sempre e immancabilmente, curata, amata e quieta, cosa davvero troppo importante.

 

Ma ecco che cerco di evadere dal mio dovere di nuovo, il dovere morale di raccontare, sinceramente e senza paura, quello che l’incontrollabile in me ha prodotto.

 

Ci si trovata su un fiume, dicevo. 

Chissà perché mi trovassi lì proprio con lui, chissà perché quella sensazione di salvezza: come se mi avessero rincorso per del tempo e sulle rive di quel fiume - io in un velato abito chiaro, lui nemmeno mi ricordo vestito di cosa - mi stesse conducendo - per mano come si fa con chi si percepisce figlio - verso la salvezza. 

 

Dunque, è ormai chiaro per me che il mio inconscio reclami un qualche uomo, che mi sia fratello o quantomeno padre, che abbia con me un rapporto non eccezionale, non commovente, solo che mi tolleri, ma lo faccia bene, con senso di appartenenza; ed è anche chiaro, mi permetto, che il suddetto inconscio lo interpreti male, che pensi io abbia bisogno di amare un uomo con la carne e con le mani, che io abbia l’inesaurita necessità che lui mi faccia sua senza pietà, che mi esaurisca, che spenga in me il desiderio di un padre, unico vero desiderio alla base di questa logica assurda.

Talvolta penso che potrei eliminare del tutto l’attrazione inutile che provo per gli uomini, che potrei decidere finalmente di aprire gli occhi alla verità, unica ed eterna verità: io non desidero un uomo perché io possa amarlo e prendermi cura di lui, io desiderio un uomo che mi sottometta e mi riordini l’esistenza così come avrebbe dovuto fare mio padre, se le cose fossero andate diversamente.

Lungi da me il vedermi come un mero oggetto di una qualche contesa, familiare o altro che sia. Ma è questa la verità, se proprio vogliamo dirla.

 

Dunque, sperando che questa fosse l’ultima intrusione di pensieri collaterali, eccoci tornare al sogno.

 

Camminavamo con i piedi a mollo. Io camminavo dalla parte dell’acqua, lui aveva ripiegato su se stessa la parte finale dei suoi pantaloni e a piedi nudi procedeva cautamente sulla riva. C’era un particolare vento caldo, e tutto era bianco o blu-verde. lui rideva piacevolmente e talvolta camminava girato di spalle, in un flusso di passi che ormai nessuno dei due controllava. Procedevamo sospinti dal vento, senza che la nostra volontà interferisse. Sembrava che il nostro passo non si dovesse mai arrestare. E invece, si arrestò. Lo fece ai piedi di un enorme castello, presso il quale sembrava si stesse tenendo una grande festa di altri tempi. Ad attenderci, abiti nuovi ma antichi - probabilmente ottocenteschi - e visi conosciuti, tra cui zii, parenti, conoscenti e qualche amico, tutti egualmente vistosi e pronti a festeggiare.

 

Ricordo con presente gioia la bellezza ma anche la comodità del mio elegante abito, che scivolava un po’ troppo sui fianchi e mi arrecava il continuo fastidio di aggiustarlo ricorrentemente. Intorno avevo, a momenti, compagnie indesiderate, sguardi che sembravano prendersi gioco di me e del mio aspetto. Ma io sapevo di essere bella, perché bella mi ero sentita su quel fiume e bella mi aveva decisa qualcuno che aveva affrontato quel fiume con me.

 

Una vita di ricerca del consenso, per essere bella, per esserlo nel modo giusto, per servire e riverire gli occhi di qualcuno. 

 

Ed ecco che per alcuni istanti lo avevo perso, come faccio sempre, o come credo di fare, a causa del mio modo morboso di cucirmi addosso le persone, come se mancando per qualche istante, loro mi dimenticassero irrimediabilmente. E invece eccolo lì, persino felice di vedermi. 

Questo mi riempiva se non altro di sorpresa: in sogno, i visi enigmatici - su cui nella realtà avremmo il dubbio se felici o no di vederci - non hanno segreti. Il sogno è produzione di un’unica coscienza: non possono esserci, per lei, misteri o incomprensioni.

Misterioso e sempre affascinante è invece il fatto che la nostra mente - la nostra e quella di nessun’altro - produca qualcosa di così sottinteso e metaforico, tanto simile alla realtà per personaggi, quanto lontano da essa per contesti e situazioni. Ma questo non importa, adesso.

 

Adesso ciò che so è che si sta spegnendo in me la chiarezza del ricordo e il sogno sta diventando una mia invenzione lucida. 

Non deve essere così. Il fantastico, lo straordinario devono rimanere inviolati e con coraggio devo affrontare la realtà: noiosa, solita, ricorrente, invariata, ordinaria realtà.

 

Ma che cos’è il sogno per il poeta? E ancora, cos’è la poesia per il poeta? Non sono forse entrambi argomenti di uno stesso discorso, di cui fa parte anche la vita - che se vogliamo possiamo chiamare, crudelmente - reale?

 

Provo una certa disperazione a pensare che non so come andrà a finire: se il padrone del castello si presenterà, se il gentile compagno di viaggio preferirà ripercorrere il fiume con qualche altra giovane donna dall’affascinante vestiario antico, o ancora, se sarà possibile, un giorno, per la me onirica e per quella reale, svelare al mondo che non a tutti è stato scritto lo stesso destino.

 

Diffidate da chi nuota in un unico grande mare, e vi dice che c’è un solo porto sicuro a cui approdare. Ciascuno sa quanto è stato difficile per lui nuotare, e se non lo è stato, ha comunque una storia diversa da quella degli altri, da raccontare, bella e dignitosa come le altre.

 

Dunque se non è il matrimonio il mio porto, o se lo è ma con varianti scandalose che fanno infuriare i benpensanti, allora nuoterò ancora, e cercherò chi mi aspetti in riva al fiume, per ballare con me in affascinanti abiti d’epoca: una mano a chi amo, e l’altra a chi probabilmente non amo, ma vorrei dormisse sul mio petto e piangesse con me il dramma di non essere, mai, al posto giusto.

   
 
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