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Autore: SafeAndSound_    30/01/2021    0 recensioni
Reinterpretazione del mito di Scilla e Cariddi ambientato durante il periodo della caccia alle streghe.
Dal testo:
«Non hai chiuso occhio, è così?», ma è più una constatazione che una domanda.
Scilla si limita a socchiudere gli occhi, cercando di moderare il respiro. Quando torna a guardare Cariddi, la vede sogghignare: «Saresti stata un’ottima mogliettina, apprensiva come sei.»
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NOTE: l'ispirazione per questa storia è data dal contest "olimpo&dintorni", indetto da Voorpret sul forum di EFP, che però è stato annullato.
Ho scelto il mito di Scilla e Cariddi, che a dire il vero non ho mai avuto modo di studiare approfonditamente, e non so se è trattato in altre opere al di fuori dell'Odissea. In ogni caso, io ho cercato di mantenere gli elementi che mi sembravano maggiormente propri dei personaggi (il bagno in mare per Scilla, il rifiuto di Glauco, la fame di Cariddi e così via) e li ho ambientati nel periodo della caccia alle streghe, basandomi anche su quello che ho visto come il loro ruolo di "escluse" dalla società.
Spero che il testo possa convincervi e come al solito mi scuso per gli eventuali errori.
Alla prossima!




 



Folklore
(Scilla e Cariddi)









Hiddensee, 1625
 
 


È quasi mattina, Scilla non ha alcun bisogno di guardare fuori dalla finestra per sapere che il sole sorgerà a breve. Un’altra notte è passata e, come ormai da due settimane, non è potuta scendere alla spiaggia e tuffarsi nel mare notturno, scuro ma tiepido e accogliente, come aveva imparato a fare da quando viveva da sola, e godersi la pace che tanto agognava durante il giorno. Ha perso la sua ultima occasione.
È quasi mattina, e non ha bisogno di scostare la coperta dalla testa e avvicinarsi alla porta di casa per sentire il coro di cittadini che avanza verso di lei. 
In qualche modo, sa che stanno arrivando.
Sente il respiro regolare di Cariddi, sdraiata al suo fianco. Non ha voluto coprirsi, ma il freddo non sembra svegliarla. Nemmeno la paura sembra disturbare il suo sonno: questo Scilla non se lo spiega. Riposa tranquilla, come se non stesse per essere condannata. Sono molto diverse, eppure sono legate da qualcosa che supera ogni possibile differenza.
Sapeva, quando l’aveva fatta entrare in casa sua una mattina di due settimane fa, che stava rischiando. Con la poca razionalità che le era rimasta aveva capito che stava mettendo a rischio una volta per tutte la sua reputazione, perché chiunque ci tenesse almeno un po’ evitava di avere contatti con Cariddi, il cui corpo, magro e scavato, contrastava con la fame malsana per cui era conosciuta.
Alcuni la reputavano una strega e, sebbene Scilla non credesse alla loro esistenza, quando l’aveva vista tirare fuori dal cestino di legno che si era portata dietro quella stessa mattina una boccetta di liquido giallognolo, quell’ipotesi non le era sembrata tanto improbabile. Ma non aveva avuto paura, perché le sue preoccupazioni e il suo terrore erano concentrati altrove. E poi non mangiava da giorni, non aveva potuto permettersi di rifiutare il suo aiuto. Quel liquido altro non era che un frullato di finocchi e zenzero che la vicina le aveva preparato avendo sentito dire al villaggio che era da giorni che non si faceva vedere – e in effetti Scilla aveva provato un certo sollievo, dopo averlo bevuto, sebbene l’angosciante malessere non l’avesse più abbandonata.
Non appena il gallo del vicino inizia a cantare sente il corpo di Cariddi muoversi, e a quel punto decide di uscire dal suo caldo nascondiglio.
Cariddi, con gli occhi scuri ancora assonnati, la osserva con il suo solito sguardo torvo. Scilla ha smesso di avvertire l’inquietudine generata dall’aspetto malsano della donna dal loro primo incontro; senza sapersi spiegare bene il perché, si era sentita tranquilla in sua presenza, senza niente da nascondere, e non le era mai accaduto prima. Si era perfino fatta preparare per scendere in paese, il giorno dopo. La nausea, che ormai la accompagna da più di due settimane, si fa più intensa a ripensare a quel giorno.
«Non hai chiuso occhio, è così?», ma è più una constatazione che una domanda.
Scilla si limita a socchiudere gli occhi, cercando di moderare il respiro. Quando torna a guardare Cariddi, la vede sogghignare: «Saresti stata un’ottima mogliettina, apprensiva come sei.»
Nessuno con un briciolo di empatia e sensibilità avrebbe osato scherzare su un argomento simile conoscendo le crisi di Scilla – era stata la prima testimone, a voler essere precisi – e soprattutto non in un momento simile. Ma Cariddi era stata allontanata da tutti da piccola, ancora prima del suo tentativo di rubare dal sindaco della loro piccola città, Gerione. Era cresciuta sola con la fame che la accompagnava in forma di voragine all’interno del suo stomaco, e che lei cercava di cacciare con il vomito e con le urla. Era pazza, una strega. La condanna è adatta a lei, ma non per questo si lascerà prendere.
Scilla infatti è impallidita, stringendosi subito il polso, proprio come aveva fatto lui quel giorno. Il malessere aumenta, è la stessa voragine che tormenta Cariddi da tutta la vita, ma nasce da cause opposte: Cariddi desidera – urla, si dimena, fino a cercare di ferirsi da sola per la frustrazione.
Scilla ripudia – si inarca all’indietro, cercando e allo stesso tempo temendo di perdere contatto con il proprio corpo. Lo aveva fatto anche quel giorno, al mercato. La bellissima treccia bionda che le aveva fatto Cariddi si era riempita di terreno per colpa della caduta.
Il suo sguardo vacuo incontra quello intenso di Cariddi. E poi una parola, scontata ma potente al tempo stesso, una condanna – la condanna che si è meritata quel giorno stesso, oppure prima ancora, quando era fuggita dal tocco di Glauco: «bruceremo.» 
Cariddi si alza, il volto scavato spezzato da una risata così stonata da risultare mostruosa. Le lancia il suo mantello: «scapperemo, signorina Scilla.»
Quelle parole la prendono alla sprovvista, come se la donna le avesse tirato uno schiaffo. Rimane in silenzio, con la mano sinistra ancora avvolta attorno al polso destro. Sente il coro di voci avvicinarsi – o forse le voci nella sua testa sono tornate?
Cerca di comprendere qualcosa dallo sguardo di Cariddi, ma lei sta riempendo il suo cestino di legno con oggetti che Scilla non riesce a mettere a fuoco. 
Scappare, non accettare la condanna? Ma quelle voci l’hanno accusata da subito, ancora prima che l’assemblea cittadina decretasse il verdetto. Glauco e Circe erano riusciti a convincere il resto degli abitanti, e di certo le visite sempre più frequenti di Cariddi a casa sua li avevano aiutati.
Dalla notte – l’ultima che aveva passato nel suo rifugio – di fine settembre in cui aveva rifiutato Glauco fuggendo da quell’abbraccio – che lui si era preso frantumando con arroganza le barriere che lei aveva costruito tra sé e gli altri – aveva sentito tutti gli occhi e le voci del paese puntati su di lei, e quella crisi dovuta alla vista di Glauco al mercato – o forse era stata solo un’allucinazione? – non aveva fatto che concentrare l’attenzione su di lei. Era una sfasciafamiglie? Una poco di buono? Una squilibrata? Una strega?
Li sentiva dire che meritava di bruciare all’inferno – ma lei era già all’inferno.
Inferno è stato fuggire da Glauco, lasciandolo sulla spiaggia a urlare il suo nome, inferno è stato permettergli di raccontare la sua versione a tutta la cittadina, inferno è il dolore costante che la perseguita da quel dannato giorno.
Ripercorre velocemente con lo sguardo la sua camera da letto. È molto piccola, c’è spazio solo per il letto e un piccolo tavolo rotondo con i suoi pochi effetti personali sopra. Non le mancherà troppo: il suo vero rifugio è il mare. Torna a guardare Cariddi, che ha già indossato il suo mantello e la sta aspettando. Scapperanno.
 
La brezza mattutina ferisce le loro guance e le caviglie rimaste scoperte, ma non se ne dispiacciono: è una ferita che anticipa la libertà che nessuna delle due giovani ha mai potuto provare veramente.
Iniziano a correre verso il mare, cercando di non graffiarsi troppo le gambe tra la boscaglia.
Il coro di voci ora è percepito anche da Cariddi, il popolo si è radunato, hanno raccolto i forconi e le corde. Urlano e intonano preghiere, invocazioni: chiedono – pretendono – che sia fatta giustizia.
Loro corrono veloci, non hanno il tempo di voltarsi a guardare, ma sanno che a guidare la fila sono Gerione, Glauco e Circe.
Scilla non ha mai assistito a una condanna per stregoneria, ma immagina che il rogo sia stato preparato sulla spiaggia, e quindi non è sorpresa quando, poco lontano dal punto in cui sbucano loro, vede un immenso ammasso di rami e legna di solito utilizzata per scaldare le case.
Anche Cariddi lo nota, e ghigna cattiva: «quest’inverno staranno al freddo.»
Scilla copia di riflesso la sua espressione, ma non riesce a distogliere lo sguardo da quella specie di collina terrificante. Sente i rami attorcigliarsi attorno alle sue gambe e spuntare dai fianchi come serpenti, e le urla mostruose di Cariddi, legata accanto a lei. Ma è solo un attimo e la vista torna normale, riprende coscienza. Il rogo è lontano, loro stanno scappando. Cariddi è veramente accanto a lei, e l’unica cosa che le lega è il dolore che hanno condiviso per tutta la vita, sebbene l’una inconsapevole della disperazione dell’altra, e la condanna da cui stanno fuggendo ora, insieme.
La sua compagna richiama la sua attenzione. Il volto scuro e appuntito stona con il delicato bagliore dell’alba, che per tutta l’estate Scilla aveva salutato dalla accogliente distesa di acqua.
«Da che parte?»
Stavolta è Scilla a ghignare, sicura: «Verso il mare.»
 
 
 
 

Mesi, anni, secoli dopo
 


Nessuno, nella piccola cittadina dell'isola tedesca, è più riuscito a trovare Scilla e Cariddi, scappate all’alba dell’ultima giornata d'estate del 1625.
C’è chi dice di averle viste correre verso il mare, e i più impavidi affermano di aver sentito delle grida molto simili a quelle notturne di Cariddi, familiari a tutti gli abitanti, provenire da una grotta situata a poche miglia dal porto della città. Ma nessuno di loro ha mai potuto portare delle prove a favore del loro racconto, e così, piano piano, hanno prima smesso di cercare, e poi di parlarne. Perfino Glauco, Gerione e Circe, infuriati perché nessuno era riuscito a riconsegnare le streghe, alla fine si erano rassegnati. Con estrema soddisfazione di Circe, poi, Glauco, dopo anni dalla scomparsa di Scilla, le propose di sposarsi.
C’era, però, nell’animo di ciascuno degli abitanti, uno strano senso di malessere che perdurava da quella notte. Quasi nessuno nominava più le due donne: solo qualche volta, quando uno straniero giungeva nel paesino, i più anziani raccontavano di quel mistero. Rendeva la loro cittadina interessante, e quindi era motivo di vanto; ciononostante il disagio non li abbandonava, e non risparmiò la nuova generazione, anzi, i più giovani ne furono ancora più colpiti. Era una sorta di eredità oscura, un ultimo lascito di quelle due strane e solitarie donne.
Non erano sicuri che fosse vero che Scilla – sempre descritta come una giovane bellissima, ma molto timida e scostante – avesse abbindolato Glauco al fine di fregarlo, e nei resoconti della vita di Cariddi – dei pochi che ci avevano avuto a che fare – vedevano una ragazza divorata dalla disperazione.
Nessuno poteva dimenticare e andare avanti, e forse proprio da questo derivava il malessere: non era stata fatta giustizia. 
 
Eppure, alcuni fortunati navigatori hanno raccontato, in porti ben più conosciuti e moderni, di aver sentito delle risate beffarde, quasi malevole, provenire da una delle grotte vicino a cui erano capitati, trovandosi nei dintorni di quel paesino sperduto. Non avevano però ottenuto nessuna risposta alle loro domande urlate alla grotta dalla quale credevano di aver sentito quei suoni, solo altre risate, forse pure più stridule e derisorie.





 
  
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