Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: saitou catcher    31/01/2021    0 recensioni
Grisha Jaeger, il figlio che ha abbandonato e quello che ha perduto.
[Grisha!centric- per la maggior parte pre-canon- character study- spoiler per chi segue solo l'anime- Grisha è un pessimo padre e questi sono i risultati- storia di Catcher]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Grisha Jaeger
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"Noi siamo solo marionette che ballano appese ai fili di coloro
che ci hanno preceduto.
E un giorno, i nostri figli saranno costretti a ballare al nostro posto, appesi ai nostri fili."
George R.R. Martin, Tempesta di Spade

 


Nella piccola sala c’è odore di sangue.
Lo sente anche da attraverso la porta, sotto l’afrore spesso dei sigari che vengono fumati dagli uomini accanto a lui e che riempiono l’aria di una nube densa e grigiastra. Lo sente premergli contro i denti, le narici, saturargli la bocca, come se ce l’avesse a raggrumarsi sulle dita e fra i capelli, come se ci fosse lui in quella stanza- e si sorprende a pensare, con un senso di stupore morboso, che la nascita è in fondo una faccenda più violenta della morte. C’è chi è abbastanza fortunato da morire sprofondato in un letto caldo, circondato da volti amici, accompagnato da parole dolci- ma quando nasciamo è sempre lottando, sempre strillando e spingendo e il primo suono che gli altri udranno da noi è il lamento di una ribellione rabbiosa.
“Rilassati” il vecchio signor Arlert, uno dei suoi pazienti, lo guarda con un’aria a metà tra la tenerezza e il divertimento, mentre gli spinge in mano l’ennesimo sigaro non acceso che Grisha non fumerà. “Quando nascono i bambini è sempre una cosa lunga. La mia povera moglie ci mise quasi due giorni e li passò strepitando come un’aquila. Ma non credo che il tuo ci metterà così tanto” aggiunge, quando uno strillo acuto raggiunge le loro orecchie. “È una ragazza forte, la tua Carla. E quel piccoletto sembra aver fretta di vedere il mondo.”
Grisha risponde con un sorriso che non significa niente e, per un attimo, la sua mente è in un altro tempo e in un altro luogo, dietro un altro muro, in una stanza che però non è questa. C’è una mano esile e sudata stretta nella sua, in quel ricordo- occhi grigi e acquosi che si serrano e riallargano a ritmo delle spinte che le squassano il corpo. Dina non ha gridato quanto fa ora Carla. O forse sono io a non ricordarlo.
“Andrà tutto bene” ripete il signor Arlert, scambiando il suo sguardo svagato per l’ansia di un padre novello. Quante cose ignorano, tutti loro- e la piccola e sporca storia di Grisha non ne è che una briciola.
“So come funziona” replica Grisha. Questo non è il mio primo figlio. “Sono un dottore.”
L’incombenza di dover replicare gli è risparmata da un altro grido prolungato- un ruggito, quasi, perché Carla ha la forza morbida e feroce di una leonessa, e lui ama quella donna piena di certezze come ha fatto con poche altro cose al mondo- e poi ne segue un altro, ma questo è diverso, più acuto e selvaggio e il cuore di Grisha gli si blocca nel petto così repentinamente da impedirgli di respirare. Il sigaro abbandonato tra le sue dita è pesante come un macigno e lui è in un’altra stanza, in un altro mondo e dietro altre mura.
“Dottor Jaeger?” la levatrice esce dalla saletta scostandosi ruvidamente dalla fronte i capelli umidi di sudore, il sorriso largo e colmo di una stanchezza soddisfatta. “Può entrare, suo figlio la sta aspettando. È un bel maschietto e anche con dei bei polmoni, a giudicare dalle grida che lancia.”
Qualcuno gli dà una pacca sulla spalla, qualcuno gli fa le congratulazioni- Grisha non avverte né una cosa né l’altra, perché in questo momento, per lui, non esiste nient’altro al mondo che non sia la porta che si spalanca come una bocca aperta a divorarlo e la famiglia che lo attende aldilà di essa, la possibilità che ha rubato e sa di non meritare. Ma sapeva che questo momento avrebbe dovuto affrontarlo, l’ha saputo prima ancora di vedere il ventre di Carla cominciare ad arrotondarsi, e adesso esitare non serve a niente.
Si spinge nella camera da letto che qualcuno ha riempito di lavanda per rinfrescare l’aria pesante di sudore e sangue. Carla è lì, una figura avvolta nella luce ramata del primo pomeriggio che penetra a fiotti dalla finestra, bella e vitale come la primavera che pulsa al di fuori. Grisha la guarda- Carla e i suoi occhi dorati come quelli di una leonessa, Carla e le sue mani morbide che gli hanno ricordato cosa volesse dire avere una casa- e sa che non dovrebbe averla, sa che non lo merita, e lo stesso ringrazia.
“Carla” mormora e si fa avanti fino a portarsi ai piedi del letto. Adagiato tra le braccia di sua moglie, la bocca che succhia vigorosamente al suo seno, c’è un fagottino di cui Grisha scorge soltanto un ciuffo di capelli neri e una minuscola mano stretta a pugno. Per un secondo di totale codardia, si trova a sperare che quel fagotto non venga mai svolto, che suo figlio non debba mai lasciare la protezione di quelle braccia, ma è solo una speranza e non sarà mai nient’altro.
“Grisha” lei solleva il volto verso il suo ed è così luminosa, nonostante le occhiaie profonde e l’aria spossata, che si potrebbe pensare che sia lei ad emanare la luce che riempie la stanza. “Oh, Grisha, guarda cos’abbiamo qui. Avevi mai immaginato che sarebbe stato così bello?”
No. Ho immaginato che sarebbe stato forte. Ho immaginato che non mi avrebbe mai tradito.
“Speriamo solo che abbia preso da te” commenta invece e si china a porre un bacio sulla fronte inumidita di sua moglie. Lei ride di nuovo, forte, e il bambino si agita fra le sue braccia, i piedini che scalciano l’aria impetuosamente, forse per esprimere partecipazione a quel suono di gioia, forse perché lo stanno disturbando durante il suo pasto. Grisha non lo sa. La verità è che in questo momento gli sembra di non sapere niente di bambini.
“Fammelo vedere” si decide a dire, tendendo le mani, e il mondo nel suo ricordo è piatto e scolorito come la foto che tiene chiusa in un cassetto in fondo alla cantina che non vedrà mai nessuno, ricordi di un’altra vita che si fanno color seppia col passare degli anni. Le sue dita tremano, nell’afferrare quell’esserino minuscolo e scalciante, nel portarselo al petto per guardarlo negli occhi, ma è soltanto l’emozione di un padre e se ci crede Carla, allora può farlo anche Grisha.
“Guardalo” mormora sua moglie, adorante. “Non è perfetto?”
Grisha guarda il suo secondo- no, unico; se vuole sopravvivere a questa missione, a questo momento, non può permettersi di pensare a Zeke- figlio in viso e prende nota delle guance rotonde e morbide, delle mani paffute che si agitano forse cercando di raggiungere i suoi occhiali, il ciuffo di capelli nerissimi che si arriccia sulla fronte e dentro si sta spaccando in due, dentro sta tremando e crollando come le Mura non potranno mai fare. È forte questo bambino, Grisha può percepirlo nella fissità con cui quegli occhi acquosi sostengono il suo sguardo, nell’irrequietezza con cui si dimena nella sua stretta e muove la testa di qua e di là cercando di vedersi attorno il più possibile. La storia ricomincia, il ciclo si ripete- ma forse adesso può scrivere un altro finale. Forse, se sarà abbastanza forte, riuscirà a non ripetere gli stessi errori, anche se è troppo tardi per rimediare a quelli che ha già fatto.
“Allora?” la domanda di Carla lo riscuote dalla sua muta contemplazione e l’amore con cui lei gli accarezza il volto rischia di portargli le lacrime agli occhi. “Come vogliamo chiamarlo?”
Grisha ripensa ad un porto, ad un lampo dorato che annerisce il cielo e squarcia la terra. Ripensa a navi da guerra che si spezzano come gusci di noce nelle mani di un Gigante. A un viso striato da linee rossastre, il sangue che cade a piccole gocce sulla pietra, e a alla puntura fredda di una siringa che penetra nella pelle. Ama qualcuno dentro le mura.
“Eren” risponde alla fine. Se sarà in grado di fare ciò che deve, suo figlio non conoscerà mai l’orrore che suo padre ha lasciato al di là del mare. “Si chiamerà Eren.”
(Da qualche parte, nel confine delle grate di Liberio, forse Zeke sta piangendo.)
 
 
Gli anni passano. Grisha se li sente scorrere nel sangue come i rintocchi di un orologio, la maledizione di Ymir gli sussurra tra le ossa che ogni secondo che passa è un granello di sabbia in più che scivola tra le pareti trasparenti della clessidra e lo porta un passo più vicino alla morte. Gli anni passano, due dal giorno in cui ha messo piede su quella che a Marley è ritenuta l’Isola dei Demoni e Grisha non ha tempo.
Ma a volte, riesce quasi a scordarlo. Quando vaga tra le strade di Shiganshina e nessuno sbarra gli occhi al vederlo passare, quando passano ore e poi giorni e poi settimane senza che nessuno gli sibili mai in faccia figlio del demonio, quando Carla sorride e Eren inizia a muovere i primi, testardi passetti sulle gambe ancora incerte- allora riesce quasi a scordarsi chi è e da dove proviene, riesce a dimenticare il dolore delle dita mozzate e il morso gelido della siringa, il rumore secco e disgustoso che hanno emesso le ossa di Grice sbriciolandosi sotto i denti di un Gigante che era stato loro amico. A volte ci sono giorni in cui Grisha si sveglia e il cielo terso non è macchiato dal sangue che ha versato, che dovrà ancora versare perché Eldia possa essere libera.
Ma sono soltanto momenti, soltanto briciole sottratte ad una vita che non esiste e che svanisce come fumo non appena mette piede nella cantina; il Re delle Mura ha benedetto i suoi sudditi con la condanna dell’oblio, ma a lui non è stato concesso un tale privilegio e così deve andare avanti e cercare ed indagare, mentre la clessidra si svuota inesorabile e il cappio invisibile che ha attorno al collo si fa così stretto da minacciare di soffocarlo.
“Non mi dirai mai cosa fai quando vai lì sotto, vero?” Carla poggia la testa sul suo petto e i capelli che gli solleticano il viso odorano di zucchero e pane. “Ora che siamo sposati, potresti anche smettere di essere così misterioso.”
Grisha sorride, una smorfia che dice tutto e nulla, e se la stringe più vicino, seguendo con le dita la curva morbida dei suoi fianchi. “C’è soltanto polvere, in quella cantina” risponde e mentire è diventato così facile che ormai quasi non ne sente il sapore. Una parte di lui ricorda le notti trascorse allacciato ad un altro corpo, sui palmi il sapore di un’altra pelle. “Niente di così interessante.”
Carla sbuffa. “Sappiamo entrambi che non è vero” rigira il viso in modo da guardarlo negli occhi, il bagliore della candela che dipinge sui suoi lineamenti una danza di luci e di ombre. “Eren lo saprà un giorno, non è vero?”
Grisha trattiene il respiro. Si chiede, non per la prima volta, quanto Carla sappia e non capisca dei silenzi in cui a volte suo marito si rifugia e da cui riemerge con lo sguardo velato da ricordi che lei non conosce. Si chiede cosa vedrebbe nei suoi occhi, se mai le rivelasse tutta la verità.
“Forse” sussurra e non dice di più perché non ha la forza di farlo. Per il momento, Eren è soltanto un bambino, soltanto guance vellutate e l’odore del bagnetto e se potesse, Grisha lo terrebbe così per sempre. “Forse.”
Sua moglie sospira e lascia ricadere la testa sul suo torace, l’orecchio premuto contro il battito del suo cuore. “A me non importa” mormora “qualunque cosa tu sappia che non puoi rivelarmi, io mi fido di te. Mi basta questo. Solo… cerca di far sì che basti anche a te.”
Se gli avesse riempito la gola di ghiaccio, Grisha avrebbe meno freddo. Dovrebbe risponderle, ma sarebbe solo un’altra menzogna e per stasera ha già ingoiato la sua dose di bugie.
(Qualche ora dopo, si rizza a sedere di scatto nell’oscurità, le orecchie lacerate dal pianto di un bambino. Per un lungo, terribile attimo, è quasi convinto che si tratti di Zeke.)
 
Certe notti, sogna di essere di nuovo a Liberio e i volti dei suoi amici perduti si confondono e si scolorano contro le sue palpebre, indefiniti come schizzi di colore su una tela.
Certe notti, sogna di ergersi al di sopra delle Mura e di vederle crollare, il mondo che trema e si spacca sotto i suoi piedi come un guscio di noce e la vista non gli procura gioia alcuna.
Certe notti sogna zanne giallastre grondanti di bava che si chiudono fameliche su una bambola ormai sgualcita, ma la bambola è carne e sangue e occhi terrorizzati che gridano aiuto e le sue strilla sono coperte dal motore di un’areonave.
Certe notti sogna Dina, il suo viso affilato e i suoi occhi grigi e scintillanti, Dina che sorride mentre lo bacia, mentre cade, Dina che sorride e sorride fino a che di lei non rimane nient’altro che questo, una chiostra marcia di denti aperta nel più folle dei ghigni.
Certe notti sogna e i suoi sogni non sono altro che una sfilza di rancori e rimpianti, ma questo Grisha può sopportarlo. Ha passato una vita intera ad affrontare incubi e sa che non basterà questo a fermarlo. Non sono gli spettri del suo passato che teme; le speranze tagliano molto più a fondo.
(C’è un sogno che fa, certe notti, ed è il più dolce e il peggiore di tutti. In quel sogno, non esistono mura e la sua sorellina corre ridendo a tuffarsi nel mare, chiamandolo con la sua voce acuta. In quel sogno, il fuoco che brucia nel cammino riempie di riflessi dorati i capelli di Zeke- Zeke che sorride, al sicuro come non è mai stato, felice come Grisha non l’ha mai reso e tra le sue braccia stringe la forma addormentata di Eren.)
 

La notte, fuori dalla finestra, è una distesa di buio denso bucata a tratti dal lucore argenteo delle costellazioni. In lontananza, vede ergersi il profilo del Wall Maria, una barriera silenziosa che sbarra l’accesso al mondo esterno e, per quest’altra notte, l’isola di Paradis può dirsi al sicuro.
Eren dorme nella sua culla, irrequieto persino nel sonno, la fronte che a tratti si riempie di piccole rughe, mentre scalcia via le coperte, e Grisha si domanda quali sogni informi si agitino nella sua testa. Si domanda se si senta al sicuro, se riesca a udire, sepolto nella pietra, il respiro di mille Colossali addormentati. Spera con tutto il cuore che non sia così.
Cosa devo fare, adesso?
La botola che conduce alla cappella sotterranea della famiglia Reiss si staglia in fondo alla sua mente, la nausea gli lacera lo stomaco con artigliate acide e fredde. Grisha si prende la testa fra le mani, chiude gli occhi, ma la sua testa non smette di urlare, e Grice verrà mangiato ogni notte davanti ai suoi occhi e Dina sorriderà per sempre in una caduta senza fine, e lui era arrivato così vicino, così vicino, ma non ha potuto- non può.
Non posso diventare un assassino di bambini. Non posso permettere alla mia missione di distruggere la mia famiglia una seconda volta. Ma se non lo faccio… se non ritorno là e non mi prendo il Fondatore…
Nel suo letto, Eren si dimena, inquieto, un lamento soffocato gli esce dalle labbra. Il cuore di Grisha si serra in una morsa brutale e questa, si dice mentre lo solleva e se lo stringe al petto, mentre preme le labbra contro i suoi capelli e inala a pieni polmoni l’odore di bambino, questa è l’unica cosa reale rimasta al mondo; questo è tutto ciò che gli serve.
Non posso deludere anche lui.
“Grisha?”
Non si volta nel sentire Carla entrare e nemmeno quando la mano di lei gli posa sulla spalla, calda e solida nell’umidità notturna. Anche senza vederla in faccia, percepisce la preoccupazione di lei dal modo in cui pronuncia il suo nome. “Tutto bene? C’è qualche problema con il bambino?”
Grisha apre la bocca, per dirle che è tutto a posto, per mentire- e quello che ne esce è un sussurro strozzato, una preghiera detta per la prima volta ad alta voce.
“Voglio essere un buon padre.”
Con la coda dell’occhio, scorge Carla trasalire, una ruga perplessa formarsi tra le sue sopracciglia. “Cosa dici, tesoro? Tu sei un buon padre.”
“No, io…” Ho preso il mio bambino e l’ho torturato perché diventasse un’arma. E quando ci sono riuscito, il mondo che odiavo l’ha usato per distruggermi. “Tu non immagini gli errori che ho fatto- le persone che ho deluso. Stavo cercando di fare la cosa giusta, almeno l’ho sempre creduto. Ma non posso permettermi di rovinare anche Eren. Almeno con lui, devo riuscire a fare qualcosa di giusto.”
“Lo stai già facendo” Carla gli prende il viso tra le mani per girare verso di sé il suo sguardo. Lei sa sperare con una certezza che Grisha non ha mai conosciuto. “Ami Eren, e lui lo sa. Faremo dei passi falsi e a volte sembrerà che lui ci odi, ma a quale genitore non capita lo stesso? Non devi dimostrare niente a te stesso, Grisha. Devi soltanto esserci per tuo figlio.”
E, non per la prima volta, Grisha si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che lei veda più lontano di lui.
 
Tra le pagine in cui imprime la verità del mondo, ci sono delle lettere. Pezzi di carta ingialliti coperte di caratteri neri sbarrati con ferocia e poi lasciati ad accumularsi in fondo ad un cassetto pieno di polvere.
 
(Fuori di qui c’è il sole. Non lo diresti, ma l’Isola di Paradis è un posto splendido, se riesci a dimenticare cosa c’è al di fuori delle mura, al di là del mare. Un giorno, vorrei che tu potessi
 
Spero che l’addestramento non sia troppo duro. Spero che tu stia bene. Spero che tu non metta mai piede qui
 
Ieri hai compiuto dieci anni. È strano quanto in fretta passi il tempo
 
Tuo fratello oggi ha detto la sua prima parola. Sto cercando di ricordare quale sia stata la tua. Vorrei che potessi vederlo, Zeke, anche soltanto una volta. So che ti sarebbe piaciuto avere un fratello- forse ti saresti sentito meno solo
 
Il giorno in cui ti rivedrò, se ti rivedrò, voglio che tu sappia che mi dispiace e che la colpa è stata soltanto mia e non ho mai
 
Io ti volevo bene. Ho dovuto perdere la possibilità di dirtelo per capirlo davvero.
 
Eren cresce così in fretta. A volte ho quasi paura di
 
Dimmi soltanto che mi perdoni.)
 
Non ne completerà mai neanche una.
 
Eren non è come gli altri bambini.
Grisha se ne accorge a poco a poco, o forse l’ha sempre saputo e ha solo finto di non notarlo finché è stato possibile. Forse è l’impazienza con cui si getta in una rissa pur sapendo di non poter vincere o l’ostinazione con cui si rialza ogni volta, tremante e insanguinato, i denti snudati come quelli una belva; forse è la cupezza feroce che gli appare negli occhi ogni volta che guarda le Mura, e la cicatrice che Grisha si è aperto sul petto brucia come se stesse per rimettersi a sanguinare.
“Non puoi continuare a metterti nei guai in questo modo” sibila Carla, una volta che Eren è tornato a casa ancora più pesto del solito; nella rabbia con cui gli passa uno straccio imbevuto di acqua fredda sul viso, si rapprende un rivolo gelido di paura. Eren risponde con un cipiglio ostinato- o meglio, quella sarebbe la sua attenzione se il suo occhio sinistro non si fosse trasformato in un bozzo violaceo delle dimensioni di un uovo.
“Se la prendono sempre con Armin, mamma” sputa, e un brivido percorre la spina dorsale di Grisha, uno di cui non sa farsi una ragione. Perché il nome dell’unico amico di Eren gli suona così familiare? “Avrei dovuto lasciarli fare?”
“Avresti dovuto chiamare qualcuno” ribatte Carla. “Le guardie sono lì apposta.”
“Ma non fanno mai niente!”
Dal tavolo a cui è seduto, Grisha finge di essere troppo assorto nelle sue lettur e per badare a quello che succede dietro di lui. Non soltanto perché non vede motivo per intervenire (Carla sa cavarsela benissimo da sola), ma perché così è più facile ignorare il peso che sente crescere in fondo allo stomaco, ogni istante un po’ più freddo, ogni istante un po’ più affilato.
Cos’è che mi spaventa così tanto?
“Dovresti dirgli qualcosa” la voce di Carla vibra di collera trattenuta, più tardi, quando Eren è finalmente riuscito a scivolarle via dalle mani e loro due sono soli nella luce luce aranciata del pomeriggio. Sapendo di non poterlo evitare, Grisha alza lo sguardo dai propri appunti. “È soltanto un ragazzino” commenta cauto, sorseggiando una tazza di the. “È normale che si metta nei guai, di tanto in tanto. È normale che si faccia male.”
“Lui si mette sempre nei guai” la ceramica dei piatti scricchiola minacciosamente nella stretta di Carla. “Si fa sempre male. Di questo passo…”
“Di questo passo, un giorno ne prenderà abbastanza da capire quali sono i suoi limiti” Grisha si alza dalla sedia e prende le mani di sua moglie tra le sue, quelle mani un po’ ruvide che tanto ama, col loro profumo di zucchero e pane. “Il mondo è quello che è, Carla, e noi non potremmo proteggerlo per sempre. Meglio che impari a difendersi fintanto che può. Un giorno, saprà capire da solo quali battaglie non è in grado di affrontare.”
Carla china il capo e si morde il labbro, incerta come Grisha non l’ha mai vista. “È solo che… a volte mi fa paura” soffia. “Tutta quell’irrequietezza, tutta quella… rabbia, Grisha, è la sola parola che conosco per definirlo. Eren sembra sempre arrabbiato, da quando è nato, e a volte ho paura che-”
“È una cosa che ha preso da me, allora” la interrompe Grisha e lui per primo si sorprende di riuscire a pronunciare quelle parole senza tremare. “Alla sua età, anch’io trovavo sempre qualcosa per cui essere arrabbiato.”
Il cielo era terso, il giorno ha trascinato Faye fuori dai cancelli. Lo ricorda come se fosse ieri, ogni dettaglio si è scolpito nella sua memoria con precisione gelida e affilata, come le cicatrici scavate dal coltello di un chirurgo. Grisha ha portato rancore al mondo fin da quel giorno e adesso quella rabbia che gli fa ribollire le ossa ha trovato un nuovo rifugio nel sangue di suo figlio. Eren sembra sempre in lotta, sempre arrabbiato, e se fosse uomo da credere nel destino, Grisha quasi potrebbe ridere dello scherzo assurdo che gli è stato giocato- perché una mano maligna ha rimescolato le carte e gli ha dato il figlio di cui aveva bisogno quando ha compreso di non volerlo.
Se dicessi la verità a Eren, lui accetterebbe ciò che deve essere fatto? Saprei fare con lui ciò che non è mi è riuscito con Zeke?
Nel momento stesso in cui quel pensiero prende forma, Grisha vorrebbe soltanto dimenticarlo. Ma resterà, annidato in fondo alla sua mente come un viscido serpente, un groviglio cupo di rimpianti e speranze mai sopite, altre grida mute a tenerlo sveglio la notte.
“Stai tranquilla” mormora, premendo le labbra contro i capelli di Carla. “Andrà tutto bene, vedrai. Eren è al sicuro con noi.”
Se soltanto potesse crederci.
 
Gli anni passano e Grisha riscopre altri sogni.
Non sono ricordi. Non appartengono a lui. A volte, sono sprazzi della mente di Kruger- il mondo rinchiuso nello spiraglio di un armadio, il fetore della carne che brucia, il suono umido di falangi tagliate via. Altre, i suoi occhi si aprono su un mondo troppo antico per essere nominato nei libri di storia, su campi di battaglia e case e palazzi. Mentre il mondo tace, Grisha vaga in una nebbia di volti e nomi che non conosce e quando si risveglia non è sempre sicuro di ricordarsi chi è.
Se fosse soltanto questo, potrebbe ignorarlo. Kruger lo aveva avvertito che con il Gigante d’Atta cco avrebbe ereditato le memorie dei suoi predecessori e una parte di Grisha brama quella conoscenza, la possibilità di toccare con mano il passato glorioso di Eldia che ha tanto decantato e non ha mai visto. Ma c’è un’altra parte di lui- piccola e codarda, la parte che vorrebbe farsi bastare la sua famiglia, la vita pacifica conquistata tra le Mura- che si contorce e protesta, un guizzo freddo tra le costole, il sapore amaro di sangue che non hai mai versato a ricoprirgli la lingua.
(C’è una rabbia che non riconosce a bruciargli il cuore e l’anima e la mente- li sterminerà tutti, cancellerà il mondo intero- c’è una disperazione nera e senza fondo come è nero e senza fondo l’abisso, ma è il prezzo che deve pagare e prosegue per la sua strada senza esitare)
(capelli biondi come il grano, mani strette attorno a una conchiglia- amicizia, fiducia, saggezza, un sogno che non esisterà mai più- occhi scuri come cenere spenta, il calore di una sciarpa rossa intorno al collo- forza, protezione, vicinanza, ciò a cui ha rinunciato)
(non esiste un posto dove andare e allora l’unica scelta è continuare ad avanzare)
Sogna di vedere le Mura crollare. Di sentire la terra tremare sotto i passi dei giganti, la polvere che dalle macerie si solleva ad oscurare perfino il sole, di udire le grida che trafiggono l’aria, la disperazione, l’impotenza, il dolore- ed è un sogno così nitido da fargli credere che non riuscirà mai a svegliarsi e a volte si chiede persino se sia un sogno, se l’illusione non sia quella che lo accoglie quando apre gli occhi al risveglio.
Ogni notte, vede le Mura cadere e ogni mattina si sveglia, saluta Carla con un bacio, sorride ad Eren che corre per le strade in cerca di guai. Ogni mattina si risveglia pensando alla cappella sotterranea dei Reiss, al massacro che non potuto- voluto- compiere e non sa dirsi se sia stata saggezza o follia. Eren lo guarda a volte, con quegli occhi troppo verdi e troppo grandi, splendenti di un bagliore che farebbe apparire sbiadito persino un incendio, e c’è qualcosa, in quello sguardo, che fa desiderare a Grisha di poter guardare altrove, anche se non sa perché. Sai che cosa deve essere fatto, sembrano dirgli quegli occhi o forse è soltanto la sua coscienza. Quindi che cosa aspetti?
 
Un giorno o l’altro, Marley verrà a prendersi il Fondatore. Quando quel giorno arriverà, il Paradiso posticcio del Re delle Mura si rivelerà per l’inferno che è e sarà sangue e polvere, pianto e stridore di denti, saranno le case che si sbriciolano come se fossero fatte di polvere e le grida di dolore di chi paga per i peccati sconosciuti dei padri. È il rintocco di un orologio senza misericordia che rimbomba tra le viscere e le ossa di Grisha, insieme con gli anni che passano, con Eren che cresce insieme alla sua collera senza ragione, insieme ai lividi e ai graffi sul suo corpo di bambino. Al passaggio del Corpo di Ricerca, il suo volto si illumina come se fosse baciato dal sole ed Eren si tende sulle punte dei piedi come se avesse già a sollevarlo le Ali della Libertà. Se solo fosse nato quando ne avevo bisogno, si dice Grisha e quel pensiero gli pesa sulla lingua in un impasto di rimpianto e vergogna. Se solo potessi fare di lui il guerriero di cui Eldia ha bisogno.
(Ma ha già generato un figlio perché scontasse i suoi peccati ed è stato più che abbastanza. Non importa quanto Eren possa volerlo- suo padre non lo consegnerà alla guerra che cerca.)
 
“Credo che stia per succedere qualcosa.”
Lo dice a Carla in un giorno come tanti altri, immobile e senza increspature come tutti i giorni trascorsi dietro alle Mura, o almeno così sembrerebbe. Ma Grisha sa che non è così, perché ci sono sogni e ricordi a premergli contro le pareti del cranio come spuntoni affilati e quando respira, a riempirgli i polmoni è il fetore del sangue da un tempo futuro. Puoi fare quello che deve essere fatto? Mormora la voce nella sua testa e lui non riesce a ricordare dove l’abbia già sentita. Sei stato tu ad iniziare tutto questo.
Carla solleva la testa, il capo circonfuso di luce come in un’icona, e non per la prima volta, Grisha rimpiange di non avere modo di fermarla in un unico istante come ha fatto con Dina. Dovesse perderla, durerà per sempre. “Che cosa?”
“Io…” ancora una volta, non può dirle la verità. Non può dirle che ai suoi occhi le Mura sono piene di crepe, che sente riverberare nell’aria il respiro di mille Colossali pronti a scatenarsi, che oltre il mare sognato da Eren e Armin c’è solo sangue e distruzione e un figlio che non potrà salvare. Non può dirle della paura che gli esplode dentro a ogni sonno, viscida e feroce e violenta, del sangue sulle mani di Eren e del fuoco animale in quelle iridi verdi. Mikasa segue suo figlio come un’ombra, il viso perennemente affondato in uno scampolo di stoffa rossa, e Grisha trema perché sa cosa sarà di quella sciarpa. Io non lo so di chi sono questi ricordi.
“Io non lo so” risponde, sfinito, e la chiave attorno al suo collo è soffocante più di un cappio. “Ed è questo a spaventarmi.”
 
La botola è dove l’ha lasciata l’ultima volta. Grisha si inginocchia sull’erba umida, il cielo sopra di lui che inizia a scolorare nell’oscurità vellutata del tramonto, e preme una mano sul legno. Vorrebbe riuscire a svuotarsi la mente, non avere nulla a riempirlo che la calma fredda e controllata che guida le sue mani durante un’operazione, ma il cuore gli batte nelle orecchie come il rombo di un cannone e se chiude gli occhi, può quasi illudersi di essere tornato nell’altro tempo e nell’altro mondo, ad agitarlo solo la prospettiva di diventare padre. Può illudersi che nulla di tutto questo sia mai successo, che Dina non sia mai caduta sorridendo dall’alto di un muro, che i suoi amici non siano mai morti, che Faye lo tiri sorridendo per la manica, pregando di vedere l’aeroplano.
Ma tutto questo è successo. L’altro tempo è solo una memoria sbiadita nei contorni di una foto color seppia e Grisha non può più permettersi di aspettare. La clessidra è stata girata e della vita che ha vissuto rimangono solo granelli di sabbia.
Per Eldia, pensa e tira un respiro profondo. E per salvare i miei figli.
Scende nel buio senza voltarsi indietro.
 
Benvenuti, signore, signori e comunque vogliate essere apostrofati!
Chi bazzica il mio account anche solo un po' avrà capito che, avendone il destro, sarei disposta a fare l'introspezione anche di un centrino da tavola (e pensandoci...). E AoT, da questo punto di vista, è pane per i miei denti. Stavolta il malcapitato è un personaggio che non ho mai amato in sé per sé, ma che ha una delle storie e delle caratterizzazioni più interessanti che Isayama ha da offrire, ovvero Grisha Jaeger, padre di entrambi i grandi villain di AoT. Ho cercato di esplorare la sua psiche sopratutto nel periodo tra il suo arrivo a Paradis e la sua incursione finale nella cappella dei Reiss, dove succede il bordello che tutti sappiamo, e spero di non aver combinato troppi pasticci. Le relazioni tra genitori e figli sono tra quelle che più mi piace esplorare, narrativamente parlando, e Grisha come genitore ha dato prova di una disfunzionalità più unica che rara, quindi devo dire di essermi molto divertita e spero che apprezziate il risultato finale.

Alla prossima!
Catcher

 
 
  
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