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Autore: NPC_Stories    05/02/2021    4 recensioni
Un Danzatore del Crepuscolo è una creatura fatata che ama viaggiare alla scoperta del mondo, ma ogni tanto perfino un vagabondo come Dùghall può tornare sui propri passi, visitare luoghi che ha già visto e che ricorda con affetto. E questa volta lo aspetta una sorpresa: una ragazza con cui ha avuto un breve incontro amoroso ha avuto un bambino.
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Questa storia partecipa alla Challenge del Superfluo indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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Questa storia partecipa alla Challenge del Superfluo indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Prompt utilizzato: 45) Violino

Questa storia è un sequel lasco di Festivity, ma può essere letta anche da sola.


1336 DR: Pegni e promesse


Un giorno d’autunno, in una locanda vicino a Secomber

Dùghall amava le feste. Una creatura come lui, che apparteneva al popolo fatato, non poteva resistere al richiamo dell’estasi e del divertimento. C’erano però anche dei momenti che lui chiamava periodi morti, i mesi che intercorrevano fra una festività e l’altra. I periodi di noia.
Il fatato apparteneva alla razza dei danzatori del crepuscolo, creature abbastanza simili agli umani da potersi confondere fra quelle genti dalla vita breve. E amava farlo. Oh, se amava farlo. Meglio degli umani forse c’erano solo gli halfling, che avevano un’indole ancora più festaiola. Erano come umani in miniatura, gli halfling, e a Dùghall sembrava che le migliori caratteristiche degli uomini fossero condensate e valorizzate in quei piccoletti.
Non era strano quindi il suo amore per la cittadina di Secomber, che aveva tutto quello che piaceva a uno come lui: era una città, cosa che lui trovava irresistibile, ed era abitata da umani e halfling. Persone che magari si potevano convincere, con un po’ di persuasione, a festeggiare anche senza un’occasione ufficiale per farlo. Ma non era solo questo il motivo che lo portava a Secomber. Nei pressi della cittadina c’era una locanda particolare, dove Dùghall aveva trovato rifugio e divertimento un anno e mezzo prima. Lì c’era una donna che il cantore ci teneva molto a rivedere. Venendo da nord la locanda era di strada, quindi decise di passare a rinverdire i suoi rapporti con la padrona di casa prima di riprendere il viaggio verso la città.

Krystel era stanca. Era sempre stanca in quei mesi, dalla nascita del suo ultimo figlio non aveva più avuto un attimo di pace. Il bambino aveva sette mesi e ormai gattonava. Andava ovunque, non stava fermo un maledetto momento. Non dormiva. Non voleva mai stare solo. Era la cosa più simile a una forma di tortura che Krystel avesse mai sperimentato.
I suoi altri figli l’aiutavano, ma per la maggior parte del tempo la responsabilità di Luel ricadeva comunque su di lei. E dopotutto me la sono cercata, si diceva spesso.
La cosa peggiore era che non importava quanto il bimbo la privasse del sonno e del riposo, non importava quanto interferisse con le sue attività quotidiane: quando la strega guardava il musetto imbronciato del suo piccolo, i suoi enormi occhioni neri, semplicemente non riusciva a buttarlo fuori dalla finestra. L’amore che le suscitava era troppo grande.
“Ma ma ma!” Chiamò Luel, tirandole i capelli. Krystel lo teneva con un braccio mentre con l’altro rimestava il contenuto di una pentola. Temeva proprio che lo stufato si sarebbe attaccato al fondo, nonostante i suoi sforzi, perché con una mano sola non si poteva fare granché.
“Luel sta’ buono. Mamma è qui.” Rispose in automatico, con la stessa verve di uno zombi.
Perché non bastava che lo tenesse in braccio. Il piccolo voleva anche che lei lo guardasse, che gli parlasse, che gli desse attenzioni.
Tutto. Il. Tempo.
“Maaaa!” Il piccolo aveva una vocetta acuta e non aveva paura di usarla. I suoi trilli all’inizio deliziavano Krystel, ma presto aveva imparato ad odiarli. Il fine udito elfico a volte era una maledizione. Luel si aggrappò ai suoi capelli e si tirò su, per stamparle un umido bacio sulla guancia. Il suo concetto di bacio era appoggiare la bocca aperta sulla guancia della madre e lasciarla lì finché non aveva sbavato abbastanza.
“Amore, sto lavorando” mormorò lei, sentendo che Luel si stava sbilanciando in avanti. Portò indietro l’anca sinistra per allontanare il bambino dalla pentola. Ci mancava solo che cadesse dentro.
Per fortuna sua figlia Amber entrò in cucina proprio in quel momento, vide la madre in difficoltà e si fece passare il cucchiaio. Krystel la ringraziò con uno sguardo per essersi presa l’incombenza di cucinare, anche se in cuor suo avrebbe preferito che Amber si prendesse Luel anziché il mestolo.
Con un sospiro stanco, uscì dalla cucina. Doveva ancora occuparsi del bambino, ma sarebbe stato più facile farlo senza altre faccende che si sovrapponevano. L’aria fresca del cortile contribuì a svegliarla un po’. E prima di rendersene conto, si trovò davanti un visitatore.

Dùghall non vedeva Krystel dalla festa di Pratoverde dell’anno prima. Era stata un’occasione memorabile. Un amante delle tradizioni come lui non poteva esimersi dal rispettare quella che per la strega era una ricorrenza importante, la festa della fertilità. E per onorare la tradizione, ci avevano dato dentro come… quegli animali piccoli con la coda tonda che gli umani amavano tanto. Ponigli. Qualcosa del genere.
Adesso però la drow non sembrava la stessa. I suoi capelli candidi avevano perso lucentezza, sotto i suoi occhi castani si intravedevano occhiaie di stanchezza, il suo corpo rivelava forme più morbide, più femminili, ma sembrava meno agile e meno scattante. La sua espressione era esausta, e in definitiva lei non sembrava pronta a festeggiare né in pubblico né in privato.
Che delusione.
Solo a quel punto Dùghall notò il cosetto che Krystel teneva in braccio. Fu come vedere la propria versione in miniatura.
“Krystel” la salutò, con espressione indecifrabile. Era confuso, e molto. “Dove hai trovato quello?

La donna entrò in tensione. Nonostante la stanchezza il suo corpo reagì come davanti a un pericolo. Dùghall era il padre di suo figlio, e se avesse cercato di accampare diritti?
“Non l’ho trovato, Dùg. L’ho fatto io. L’abbiamo… fatto noi.”
“Come? Noi due?”
Con gesti esitanti, Krystel afferrò bene il bambino sotto le ascelle e lo sporse davanti a sé, perché Dùghall lo potesse studiare. Il piccolo mezzo-fatato aveva preso molto da suo padre: stessi occhi neri senza sclera né iride, che erano il primo segno della sua natura fatata. Stessi capelli altrettanto neri. La forma del viso era chiaramente quella di Dùghall, mentre i tratti erano più simili a quelli di Krystel. Anche la pelle era più scura di quella del padre, ma era normale, con una madre drow. Era avvolto in quello che sembrava un minuscolo mantello blu, ma quando Dùghall provò a scostarne un lembo per studiare il fisico del piccolo, si accorse che non era tessuto ma qualcos’altro.
“Ha le ali!” Osservò con stupore. “Come mai? Io non le ho!”
“A volte la natura caotica della magia delle fate induce dei cambiamenti fisici nei mezzi-fatati. Il più comune sono le ali” spiegò Krystel, che aveva fatto ricerche “perfino se il genitore fatato non le ha.”[1]
Dùghall sembrava davvero affascinato dalla cosa.
“Bellissimo! Lo hai fatto proprio carino” si complimentò. “Penso che me lo prenderò.”
La strega ritirò subito il bambino, stringendolo al suo petto. “No che non lo farai.”
Il danzatore del crepuscolo rimase senza parole davanti al suo rifiuto.
“Ma… come? Che vuol dire? Certo che lo farò, sono una fata, rientra fra le mie prerogative rapire tutti i bambini che voglio! E specialmente se questo è mio figlio, penso che non sia nemmeno un vero rapimento.”
“Dùghall” Krystel rifletté velocemente. Forse c’era qualcosa che poteva usare a suo vantaggio. “Tu sai che ti considero un amico.”
“Sì?”
“E quindi voglio solo il tuo bene” continuò la strega.
“Uh… grazie?”
“È per il tuo bene che lo dico. Lascialo a me. La tua vita non è vita per un bambino. Ti sei mai preso cura di un bambino?”
Lui corrugò la fronte, vagliando con la memoria i lunghi decenni della sua vita. “Mi pare di no” ammise. “Ma questo cosetto è così carino! Un essere tanto adorabile non può essere problematico!”
Krystel si risistemò in braccio Luel, che stava cercando di arrampicarsi sulle sue spalle.
“Allora perché non fai un tentativo? Rimani qui alla locanda per un paio di giorni. Prova a prenderti cura di Luel. Vedi se la cosa fa per te. Se alla fine deciderai di prenderlo, non mi opporrò; sei suo padre, è un tuo diritto passare del tempo con tuo figlio. Ma ricorda: ogni qualche ora deve mangiare, altrimenti muore. Poi quello che è entrato deve uscire dall’altra parte, e gli devi cambiare le fasce, altrimenti si ammala. Se si ammala, poi muore. Devi sempre tenere d’occhio la sua salute; devi vestirlo bene altrimenti prende freddo, e se prende freddo si ammala e muore.” Cercò di spiegargli quei concetti come se Dùghall stesso fosse un bambino, perché la sua conoscenza dell'anatomia dei mortali era meno che elementare. “Poi vuole gattonare, e devi stargli dietro, curare che non si faccia male. Se ha un incidente, può morire, perché è fragile. A volte mentre gattona rigurgita e poi calpesta il suo stesso vomito, a quel punto devi lavare i suoi vestiti. Se gli lasci indossare vestiti sporchi, alla lunga si ammala…”
“E se si ammala muore” ricapitolò Dùghall, che iniziava ad afferrare il concetto.
Krystel annuì. “Oh, e poi piange spesso perché gli stanno uscendo i dentini e sente dolore. Piange anche quando si sente solo, e piange se si sente ignorato anche se tu sei proprio lì con lui. Non sa fare nient’altro che piangere, ridere e gattonare. Dice solo ‘ma’ e ‘io’, non sa ancora parlare come si deve. Non è di compagnia.” [2]
Man mano che raccontava, il colorito scuro di Dùghall si faceva sempre più pallido, fino ad arrivare a uno strano color grigio opaco.
“Ma a che serve allora?”
“Non serve a niente, è un bambino.”
“E perché è così carino? È ingannevole!” Indicò il bambino con un brusco gesto del braccio, come se fosse risentito.
“Certo che è ingannevole, i bambini sono impegnativi, sono un incubo. Se non fossero carini, gli adulti li abbandonerebbero sotto una foglia di cavolo.”
Dùghall rimase in silenzio a ponderare per un lungo momento.
“Ma poi crescerà, giusto?”
“Oh, sì. Prima o poi.”
“Posso rubarlo quando diventerà indipendente?”
Krystel fece un magnanimo cenno d’assenso con il capo. “Ma certo. Ti aspetteremo.”
“Quanto tempo ci mette un bambino a diventare indipendente?”
“Dipende dalla natura di ciascuno, sai. Un bambino elfo… circa cent’anni.”
“Ah. Cent’anni. Ma è un sacco di tempo.”
“Se lo vuoi subito...” lo tentò Krystel, allungando di nuovo il piccolo verso di lui.
Luel scelse proprio quel momento per iniziare a piagnucolare.
“No no” Dùghall fece un salto indietro. “Confido che tu sarai un’ottima madre.”
La strega lo ringraziò con un sorriso tirato.
“Grazie. La tua fiducia significa molto per me.”
“Ma… ma siccome è mio figlio, ecco, volevo lasciarti una cosa. Per il bambino.” Dùghall si sfilò il violino che portava a tracolla e lo tese a Krystel. Lei lo guardò basita.
“Il tuo violino? Dùghall, pensavo che questo strumento fosse tutto per te!” Mormorò, sinceramente stupita e commossa.
Il danzatore del crepuscolo spostò il peso da un piede all’altro, in imbarazzo.
“Diciamo che è un prestito, un pegno. Quando mio figlio sarà abbastanza grande, tornerò a prendere sia lui che il violino. Andremo in giro per il mondo e suoneremo insieme. Nessuno saprà resisterci! Specie se lui sarà ancora così carino.”
“Sarà sempre carino. Basta guardare suo padre” Krystel gli sorrise con dolcezza, prendendo il violino con una mano e infilando la cinghia a tracolla come la portava Dùghall. “Prometto che avrà il tuo strumento, e saprà che è di suo padre. Ma tu come farai senza?”
“Oh, me ne procurerò un altro” il cantore sorrise, sicuro di sé. “Gli oggetti sono superflui, quando c’è il fascino naturale, e questo bel faccino apre molte porte!” Si vantò, indicando se stesso.
Krystel sbuffò una mezza risata, ma fu comunque con sollievo che lo salutò mentre andava via. Dùghall era davvero troppo infantile per poter crescere un bambino.



********************
Note:
[1] In D&D 3.5, il sistema di regole su cui le mie storie sono basate, una creatura con l'archetipo half-fey ha le ali da farfalla. Anche se il genitore fey non le ha. Lo so, non sembra avere molto senso. La spiegazione che mi sono data è quella che Krystel fornisce a Dùghall in questa storia.
[2] Piccola curiosità: i bambini molto piccoli non hanno ben chiaro il concetto di "sé", e non sanno usare correttamente i pronomi come "io", "tu" ecc.
A volte anche da più grandini dicono convintamente "è tuo!" intendendo "è mio", abituati al fatto che quando la mamma gli porge un giocattolo dicendo "è tuo", significa che appartiene a loro.
In questa storia Krystel afferma che Luel sappia dire "ma" e "io", ma quando dice "io" in realtà non intende se stesso. Intende Amber o Tek'ryn, perché talvolta si occupano di lui annunciando "ci penso io" o "faccio io". Quindi per Luel "io" vuol dire "fratelli, datemi attenzioni".
   
 
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