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Autore: Yunomi    05/02/2021    4 recensioni
"I pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette. L’amore. Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumata come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette. No. Non più"
Sequel assolutamente non richiesto di Big God. La lettura è fortemente consigliata per capirci qualcosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chloe Decker, Lucifer Morningstar, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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         Il Diavolo gioca a burraco
 
 
 
When did love begin?
What human being looked at another
And saw in their face the forests and the sea?
(Jeanette Winterson, Lighthousekeeping)
 
Mesi prima
Los Angeles
 
Per ovvie ragioni, Chloe Decker aveva smesso di credere nelle relazioni.
Non era mai stata particolarmente fortunata, si diceva. Oppure, senza rischiare di scomodare la signora Provvidenza, che aveva già ampiamente contribuito a colorare le loro vite di amabili sventure, si convinceva che evidentemente era una donna che non poneva la propria vita amorosa come priorità. Ognuno, d’altronde, mette l’etichetta priorità su cose diverse, nella vita, e lei si era sempre convinta di aver appicciato tutte quelle a sua disposizione sul dossier lavoro + figlia preadolescente. E in fondo, le era sempre andato bene così.
Le cose erano cambiate nell’arco di appena un quinquennio.
Di certo, non si sarebbe mai immaginata di trovarsi a condividere le lenzuola con quel pomposo spilungone inglese che vaneggiava di essere il Diavolo, un individuo che faceva prudere le mani anche ai santi e che squadrava qualsiasi cosa con le gambe come se potesse leggere la marca di biancheria che indossava.
La vita è strana.
Sdraiata sul letto come la Josephine Bonaparte del Canova, osservava il profilo appuntito di Lucifer dormiente: la prima, netta sensazione era che avrebbe sempre dovuto muoversi con circospezione intorno a tutti quegli spigoli, per non rischiare di caderci sopra e recidersi un nervo.
Lucifer era decisamente una persona contundente. Per quanto tentasse di coprire di gommapiuma gli angoli taglienti del suo essere, non cambiava il fatto che spesso avere a che fare con lui era come afferrare un coltello dalla parte della lama.
La cosiddetta honeymoon phase tra loro due era finita ben presto, e dopo essersi più e più volte levati vicendevolmente i vestiti, attorcigliati l’uno all’altra per ore sotto lenzuola di lino, non restava da sollevare che il velo più difficile.
Quello che ti permette finalmente di vedere la vera domanda che si staglia al di là di esso, di cui fino a quel momento non hai notato altro che la sagoma, ritenendola procrastinabile: è possibile far combaciare due vite così diverse? È fattibile che due persone così perfette per stare insieme facciano così fatica a capire i relativi incastri? Si può traslare una tale storia d’amore dalla potenza alla forma?
Questa era diventata la sua vita.
Un continuo, nevrastenico andirivieni tra il loft di Lucifer e il suo appartamento, un’organizzazione di vita che francamente si stava facendo sempre più onerosa, nel tentativo di far combaciare due pezzi che a Chloe non sembravano nemmeno appartenere allo stesso puzzle.
Il mercoledì e il giovedì a casa sua con Trixie, il week-end al loft solo loro due, il lunedì a prendere Trixie a scuola, il lavoro in centrale, i compiti di matematica – non era ancora nato il luminare che avrebbe trovato il metodo universalmente condiviso per spiegare ad una ragazzina di dodici anni le divisioni a due cifre.
E poi il martedì al ristorante, il venerdì le telefonate a Linda per cercare di rimanere sana, le mail a Molly per rispondere alle poesie, gli stralci di saggi e di libri che inviava a tutti, ritenendo la più alta e nobile forma di affetto il mandare parti di letture che colpiscono particolarmente.
E tutto si ripeteva a braccio circolare, sempre uguale a sé stesso nella versione borghese e vagamente sconfortante dell’uroboro, il serpente che si mangia la coda.
Forse Chloe si aspettava che l’amore avrebbe reso tutto più facile, più gestibile; ma evidentemente aveva fatto confusione, perché certamente l’amore non è una segretaria che ti divide le bollette secondo priorità, né un assistente che archivia i verbali e fa la spesa al posto tuo.
Di sesso, comunque, ne facevano in quantità sovrumane.
 
Dopo notti intere passate a fissare con malcelato timore il viso di Lucifer, temendo che da un momento all’altro la pelle si sfaldasse rivelando la materia magmatica soggiacente, quella notte in particolare Chloe si levò dalla sua consueta posizione da imperatrice pensosa e si sedette sul materasso.
Si infilò un maglioncino sopra la sottoveste di raso e si diresse in cucina.
Lo schermo del portatile, aperto sulla sua casella di posta elettronica, lampeggiava la sua luce blu negli occhi della donna.
Appoggiò le mani sulla tastiera.
Le ritrasse, scuotendo la testa.
Si alzò per farsi una camomilla.
Mentre il bollitore carburava, digitò l’indirizzo e-mail di Molly nella casella destinatario.
Scrisse di getto una lettera che grondava timore da ogni sillaba, ogni virgola come un piccolo proiettile che incrinava quello schermo di compostezza che aveva sempre frapposto tra sé e il mondo esterno. Il timore è ben peggio della paura: è infido, e si insinua tra le crepe che si ramificano sulla superficie della certezza come se qualcosa, dall’interno, desse violentemente segno di voler uscire.
Chloe tolse le mani dai tasti come se fossero improvvisamente diventati incandescenti.
Rimase parecchi minuti a fissare quella fiumana di parole che aveva come sputato sullo schermo, e trasalì violentemente quando il bollitore fischiò.
Improvvisamente, il timore venne spodestato dalla vergogna; premette con una forza innecessaria l’indice sul tasto canc, e osservò con sollievo tutte quelle parole scomparire nel vuoto, nel nulla. Come se avesse tolto il tappo della vasca da bagno e stesse osservando l’acqua ritirarsi nello scarico.
Bevve la sua tisana – stavolta si era ricordata di aggiungere la bustina – osservando il computer, ancora acceso sulla schermata della mail, ma stavolta a debita distanza; voleva proteggersi da qualsiasi tentazione.
Ritornò in camera da letto con un senso di disorientamento che non riusciva bene a classificare: Lucifer era avvolto nelle lenzuola e dormiva supino, con una mano mollemente poggiata sul cuscino, ben oltre la sua metà di letto; Chloe sorrise, davanti a quella scena.
Hai sempre cercato dove ormai io non c’ero più, le venne da pensare, sedendosi ai piedi del letto.
Si ravviò i capelli, e un pensiero la colpì in mezzo gli occhi come una pallina: lo amava. Lo amava visceralmente, nel senso vero del termine. Per sua stessa costituzione fisiologica era portata ad amarlo, nei sensi di una necessità filosofica, cioè che non avrebbe potuto non amarlo.
Un amore tutto corporeo, letteralmente, come una reazione biochimica assolutamente ineluttabile.
Spogliandosi della camicia da notte e del contegno che si portava sempre addosso, strisciò come un venticello estivo sul letto, arrampicandosi sul corpo di Lucifer e avvinghiandovisi come un’edera.
Lui aprì gli occhi.
“Ti amo.”, disse Chloe, intrecciando le dita alle sue. L’anello di fidanzamento rigò la pelle di Lucifer mentre la donna lo toccava, gustandolo con i polpastrelli, facendo il pieno della ruvidità di quel corpo come se stesse per abbandonarlo per sempre; un sottile graffio rosso affiorò sul petto di Lucifer come un ricordo.
“Ti amo.”, rispose lui di getto, di un riflesso involontario che lo faceva agire prima ancora di pensare, riducendo lo scarto degli ottanta secondi ad un misero mezzo istante di reazione.
Certi amori sono incisi sulle superfici ruvide dei cuori prima ancora che nei viluppi dei cervelli; e così anche Lucifer era portato fisiologicamente ad amarla. Era la sua unica certezza, e non poteva evitarlo; come decidere da un giorno all’altro di smettere di produrre succhi gastrici. Non dipendeva dalla sua volontà nemmeno se si fosse sforzato.
Il profumo di vaniglia dei capelli di Chloe lo stordivano, e la consistenza della sua carne soda gli facevano perdere contatto con la realtà, spedendolo in aria come il palloncino sfuggito al pugno grasso di un bambino.
Senza che effettivamente nessuno dei due se fosse reso conto, ora lui era dentro di lei, con le mani nei suoi capelli, i gemiti di lei sulle proprie labbra, come se i loro corpi agissero indipendentemente dalle menti e sapessero perfettamente come fare per muovere i meccanismi di quell’amore che sarebbe stato così semplice, così lineare, se solo le loro menti avessero smesso di infilare metodicamente le dita negli ingranaggi.
 
La mattina dopo Chloe si svegliò con un nuovo dubbio, germogliato tra i capelli biondi: bastava davvero quello?
Era sufficiente sapere di voler stare insieme per riuscire effettivamente a stare insieme?
La mano di Lucifer era sotto il cuscino, lontana dalla sua, e si muoveva in un sonno tranquillo, perso in una dimensione che aveva la consistenza della cenere e del rimpianto; un luogo, un cimitero della sua mente a cui Chloe voleva accedere, ma che si allontanava sempre di più dalla sua portata. Bastava davvero solo l’amore, per funzionare con una persona piena di zone d’ombra come Lucifer?
Quando Lucifer aprì gli occhi scuri su di lei, e le disse buongiorno, amore con la voce roca e i capelli che sembravano un quadro di Picasso, e il sorriso sensuale e stanco degli uomini che non riposano mai, nemmeno quando dormono profondamente, Chloe capì che lui la amava dello stesso amore che le increspava il petto, con la stessa inossidabile certezza con cui ci si sveglia e si sa di avere due occhi, un naso e cinque dita per mano.
Ma al di là di quella cortina di nebbia fuligginosa che gli copriva gli occhi c’era una terra inesplorata e selvatica, che sfuggiva dalle sue dita come sabbia e che non aveva alcuna intenzione di rabbonirsi al suo tocco delicato.
Nel cuore di Lucifer regnavano spettri cinerei ed era evidente che lui non volesse che Chloe ci avesse niente a che fare. E così si allontanava, giocava a ce l’hai con l’amore della sua vita, sfuggevole come un merluzzo, pensando ingenuamente che fosse bastato mostrarle la sua faccia diabolica per farla stare accanto a sé.
Mentre beveva un caffè amaro seduta al tavolo della cucina, Chloe aprì la casella di posta elettronica.
Un cerchietto rosso accanto all’indirizzo di Molly le notificò che anche quella volta non aveva rinunciato alla sua tenere consuetudine letteraria.
Cliccò sulla mail, aprendola sullo schermo.
La tazza le scivolò dalle dita, sfracellandosi sul parquet.
Ancora una volta, alla signora Provvidenza piacque giocare con le coincidenze.
Chloe si sentì investita di brividi d’inquietudine.
A grossi caratteri corsivi, la seguente poesia:
 
Non si può amare solo con la voglia di amare.
Con il voler amare.
Con il voler restare.
Con il crederci.
Con io lo amo.
Perché poi non basta.
Non regge.
L’amore non basta per amare.
Non bastano le parole, per amare.
Neanche quelle giuste, bastano.
Neanche le parole d’amore bastano per amare.
 
 
Chloe Decker sentì qualcosa frantumarsi all’altezza della gola. Un respiro che si era fatto di vetro, forse.
Si dimenticò come si respira.
Non si premurò nemmeno di raccogliere i frammenti  della defunta tazza, né tantomeno di pulire il caffè ivi contenuto dal pavimento, nella fretta di comporre a memoria un numero di telefono.
“Molly.”
“Buon pomeriggio.”, rispose la voce della ragazza dall’altro lato.
“Sono le otto del mattino.”
“Qui le sedici. Sono alla quinta tazza di Earl Grey. Non escludo l’imminente, ineluttabile assuefazione da teina, se continuo a vivere qui.”
“Perché mi hai inviato quella cosa.”, sputò Chloe.
Sentì un lungo sospiro dall’altro capo, e poi uno schioccò che riconobbe come quello di un accendino.
“Qualcosa nell’aria mi ha causato un forte pizzicore al naso, e ho pensato che fosse puzza di guai in arrivo ovest, trasportata dal vento e dalle ali dei gabbiani.”, disse Molly, esagerando un tono da poeta ermetico. “Come va con Lucifer?”
“Non fa ridere.”, ribattè Chloe. “Molly, va bene tutto. Ma questo no.”
“Che cosa, no?”
“Instilli dubbi nella mia vita sentimentale. Sei ad un oceano di distanza e riesci comunque farmi sentire inferiore. Smettila.”, disse la donna, passandosi una mano sul viso.
“Mi dispiace che ti abbia turbato così tanto.”, rispose Molly, sentitamente dispiaciuta. “Io volevo solo condividere una poesia.”
“No, ma lo fai apposta?”
“Non t’incazzare.”
“Sì che mi incazzo. Rispondi.”
Molly sospirò di nuovo. “Aspetta, la bambina sta masticando una pagina del mio saggio su Tertulliano.”
Chloe serrò gli occhi, fremendo, colpita da una rabbia incolore come da uno schiaffo.
Intanto Lucifer era comparso in cucina, e si serviva di caffè silenziosamente. “Salutami Molly!”, sussurrò, eccitato.
Chloe si chiuse in bagno per resistere alla tentazione di sfigurarlo.
“Eccomi, scusa.”, disse Molly, poco dopo.
“Fumi davanti a tua figlia?”, chiese Chloe, con tono di rimprovero.
“No, in realtà è lei che ha iniziato, immagino per tentare di sopportare i ritmi della sua madre degenere.”
Chloe tacque per qualche istante. Scoppiò a ridere.
“Vedi, poi mi spieghi come faccio ad arrabbiarmi con te?”, disse, franando a sedere sul bordo della vasca.
Anche se non poteva vederla, seppe che Molly aveva sorriso.
“Tu sei una minaccia onnipresente per il mio benestare. Non ce la faccio, Molly. Non ce la faccio. Sei un fantasma che infesta la sua testa, e ora infesti anche la mia.”
“Complimenti per la rima baciata.”
Chloe fece ritirare la sua insensata, inutile rabbia; ormai questa ascessi di nervosismo nei confronti di una ragazzina che non vedeva da poco più di un anno iniziavano a stancarla.
“Chloe, cosa c’è che non va?”
“C’è che è tutto difficile.”
“Mh.”
“Non doveva essere facile?”
“Dipende.”
“Molly.”
“Dimmi.”
Chloe tacque, perdendo lo sguardo nelle piastrelle: lo abbassò poi sul solitario di diamanti che Lucifer le aveva infilato al dito in una sera di ottobre di molte lune prima. Sapeva che avrebbe dovuto esserci una fede d’oro, lì, e quell'assenza stava inziando a farsi ridicola. E francamente, ingiustificata. 
“Molly.”
“Sono sempre qui.”
“E’ vero che l’amore non basta?”
“Ci vuole anche buona volontà.”
“Quella c’è.”
“E allora cosa manca?”
Chloe ci pensò su.
“Manca un abito da sposa.”, rispose Molly al posto suo con dolcezza. “Cosa diamine state aspettando?”
La domanda riecheggiò nel silenzio, rimbalzando sui muri del bagno di Chloe e fermandosi come una nuvola di vapore denso sopra la sua testa bionda.
Potrà mai funzionare?
“Non voglio più essere una minaccia, Chloe. Dobbiamo sistemare questa faccenda una volta per tutte.”
Chloe assentì.  
Uno strillo colmo di disperazione e disdegno nei confronti di tutto ciò che è santo frantumò l’aria.
Chloe fece capolino dal bagno, mentre Molly esalava un preoccupato che cazzo è stato dall’altra parte dell’oceano.
“Scusa, Molly. Ti devo lasciare. Penso che Lucifer si sia aperto un piede sui cocci di una tazza che prima mi è caduta sul pavimento.”
Molly rise, e prima di riagganciare la telefonata sentì da lontano il guaito addolorato di Lucifer che cercava di articolare: “CHLOE PER IL CRISTO REDENTORE, ESCI DI CASA. SE TI AVVICINI SANGUINO ANCORA DI PIU’!”
 
 
 
 
 
Belsize Park, Londra
 
Mi tolsi il maglione e i pantaloni e mi infilai come un incubo sotto le coperte, incastrandomi perfettamente tra le braccia di Thomas.
Appoggiai il mento al suo petto; sapevo che era sveglio, quindi aspettai pazientemente che aprisse gli occhi. Ne aprì uno, solo dopo qualche minuto che gli stavo a peso morto sullo stomaco.
Allungò un braccio verso la sveglia per guardare l’ora.
“Bambina.”
“Amore.”
“Sono le due e venti.”
“Sì.”
“Che cazzo ci fai ancora sveglia.”
Nonostante il contenuto potesse risultare scorbutico e anche lievemente maleducato, pronunciò quelle parole come se avesse una zolletta di zucchero sulla lingua. Mi passò una mano sulla schiena nuda, e mi trasse più vicino a sé.
“Ero al telefono con Lucifer. Sono le sei del pomeriggio, in California.”
“E non può chiamare quando qui sono le sei del pomeriggio?”, borbottò lui, richiudendo gli occhi.
Sentivo il suo cuore attraverso il mento, e il riverbero del suo battito nel mio cervello; inspirai a fondo l’odore di palo santo del suo dopobarba, mischiato al profumo dell’ammorbidente che impregnava le nostre lenzuola. Questo, per me, sarebbe sempre stato l’odore di casa.
“Glielo dico, la prossima volta.”
“Ci sarà una prossima volta?”
“Beh. Sì.”
“Bambina.”
“Dimmi, amore mio.”
“Perché continui a misurare fino a che punto possa reggere la mia pazienza?”
“Perché mi diverte farti ingelosire per così poco.”
“Molly. Per farmi ingelosire basta meno. Basta che tu vada a comprare, che ne so, le zucchine da sola. Non ti serve intrattenere chiamate intercontinentali con quel damerino.”
“Damerino…”, ripetei, prendendolo in giro. “Chi è che nel ventunesimo secolo dice ancora damerino?
“Non sai come ti guardano gli uomini.”, ribattè Thomas, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa sul cuscino.
“E come mi guardano?”
“Come cani randagi davanti a un controfiletto.”
“Meno male che sono una persona e non un pezzo di carne, allora.”
“Lo sai cosa intendevo.”
Lasciai andare un piccolo sbuffo divertito. “Ti facevo un po’ meno medievale, sai?”
“Quando si tratta di te arretro di qualche stadio evolutivo, bambina. Mi fai diventare un uomo di Cro-Magnon.”
Iniziai a percorrere le pieghe della sua maglietta con l’indice; mi passò una mano gentile tra i capelli, e chiusi gli occhi anche io. Per un attimo dimenticai quello che avrei dovuto dirgli.
“E che cosa voleva, Lucifer, sentiamo.”, disse Thomas, non senza esprimere tutto il suo pacato disappunto con un sospiro.
“Vuole venire qui.”
Silenzio.
“Tu mi vuoi morto anzitempo, bambina.”
“Con Chloe.”, aggiunsi, come a volerlo rassicurare. “Anzi, in realtà è stata proprio un’idea di Chloe.”
“Ah, beh. Cambia tutto, allora.”, disse lui, ironico. Si arrotolò una ciocca dei miei capelli biondi intorno al dito, e la osservò come se fosse in procinto di dirmi addio per sempre. “C’è maretta, oltreoceano?”
“Diciamo pure che si prevedono procelle a non finire. Chloe continua a rimandare il matrimonio. Lucifer dice che ha una sorta di sindrome da stress post matrimonio traumatico, ma sai quanto ama essere iperbolico.”
“Non la biasimo. Non ha accumulato le migliori esperienze, in fatto di matrimoni.”, commentò Thomas, ormai rassegnatosi a rimanere sveglio con me.
“Già.”
Tacemmo per lungo tempo, cullati dai nostri respiri che si alternavano euritmicamente, come una sinfonia composta appositamente per quelle occasioni.
Conoscevo bene il peso di quanto gli stavo chiedendo; e sapevo altrettanto bene quanto avesse bisogno di sfondare una parete con un pugno ogni volta che il nome di Lucifer o di Chloe si insinuava nelle nostre conversazioni. Era passato qualche mese dalla chiamat di Chloe, e francamente stavo iniziando anche io a stufarmi di que
Non ne parlava spesso, ma io vedevo come gli si bloccava il respiro quando salivo su un’auto. Gli cambiava colore agli occhi, quella preoccupazione: si ingrigivano per qualche istante, dandogli un aspetto così straziato e frusto da sembrare prossimo alla vedovanza.
Per i primi mesi aveva sperato che con l’Oceano Atlantico di mezzo sarebbe stato più difficile per i miei amici coinvolgermi nel loro abituale crogiolo di sventure. Ma nell’arco di un anno le mail da parte di Lucifer si erano fatte sempre più lunghe e frequenti, sempre più fitte di dubbi da sbrogliare, strappi da ricucire, lacrime da asciugare. E io avevo ricominciato a mangiare poco e a dormire ancora meno, e i pacchetti di sigarette vuote avevano ripopolato le mie borse e i ripiani delle mie librerie.
Thomas assisteva, silenzioso come Dio, dispensando tazze di tè, piatti di minestrone, maglioni puliti, baci tra i capelli. Insomma, faceva quel che poteva.
Mi ero chiesta quante altre volte sarebbe stato disposto a continuare quel ciclo stagionale e lievemente tragicomico, prima ancora di chiedermi quanto avrei retto io.
Avevo chiamato Linda per chiedere consiglio prima ancora di sottoporre la questione a Thomas. Lei aveva detto che gli avrebbe fatto bene cambiare aria per un po’; e quindi avevo acconsentito.
“Ho paura che quei due non abbiano capito come stare insieme senza l’aiuto di terzi.”, disse Thomas, dopo aver fissato le striature della luce che filtrava attraverso le tapparelle.
“Non lo capiranno mai.”
“Le piante di pomodorini."
"Eh?"
"Sono come le piante di pomodorini."
“Mi sembra un po’ presto per la demenza senile, amore.”
Thomas sbuffò, divertito. “Parlo di quelle piante deficienti con cui ti sei fissata l’estate scorsa, ti ricordi? Ti è sembrata un’ottima idea iniziare a coltivare i pomodori a Londra, e ci siamo usciti scemi a cercare il modo di farle crescere dritte. Abbiamo buttato non so quante aste del mocio per tenerli su.”
Emisi una piccola risata a sbuffo. “Però quei due o tre pomodori che abbiamo raccolto erano buoni.”
“Sei impossibile.”, rise lui, passandosi una mano sul volto, stremato dalla mia presenza ma talmente innamorato da evitare a tutti costi che me ne rendessi conto.
“Immagino dovremo tirare fuori il servizio di piatti da sei e le lenzuola buone, allora.”, disse di nuovo, rispondendo tacitamente all’altrettanto tacita richiesta che quel mio discorso aveva avanzato. Gli posai un bacio su una palpebra come a voler dire grazie, devota come la Maria Maddalena che in fondo ero.
Lui mi carezzò una guancia; mi ci strusciai contro come un gatto.
“Mi sa che è il caso che facciamo l’amore, ora.”, bisbigliai, dimenticando un altro bacio sul suo petto.
Thomas aprì entrambi gli occhi, mostrandosi improvvisamente sveglio e interessato.
“Ah sì?”
“Sì.”
“Mh. Capisco. Beh, se dici che è proprio il caso, allora…”, disse lui, baciando una mia risata sul nascere.
Scivolai sotto di lui e mi sentii improvvisamente ricomposta. Avevo la tendenza a straripare, a quell’età.
E ora Thomas mi baciava il petto, in mezzo ai seni, e la sua barba ispida mi pungeva leggermente la pelle; e con le labbra riavvolgeva con cura i lembi del mio cuore che si schiudevano come petali ogni volta che permettevo a Lucifer di avvicinarsi troppo – sì, anche con l’Oceano Atlantico di mezzo.  
Scese ancora, e ancora, e ancora, fin quando la sua testa bionda non scomparve sotto le lenzuola, e io finalmente potei scollegare il cervello da qualsiasi canale che non fosse esclusivamente concentrato su noi, sul nostro letto nella nostra camera nella nostra casa a Belsize Park, Londra.
Noi: un innocuo monosillabo che con la forza di dieci uomini mi aveva ripescata dal fondo dell’abisso. Un pronome di prima persona plurale che ormai nel mio dizionario era indicato come composto per metà del mio melanconico professore, e per l’altra metà da me, ragazzetta di ventitré anni dura di comprendonio che, ancora una volta, offriva la sua casa e il suo randagio di un cuore come bed & breakfast per il Diavolo.
 
 
                                                                                    
 
‘Cause it’s hard to dance
with a Devil on your back,
So shake him off.
(Florence Welch, Shake it out)
 
Present day
 
“Perché ti chiamano Papessa?”, chiese Lucifer, accavallando le gambe. Eravamo seduti nel mio salotto tiepido e accogliente a bere tè e ad essere in imbarazzo dalle rispettive presenze. Due anni non sono mica pochi, sapete.
La Papessa prese un sorso di tè dalla tazza per nascondere un sorriso smaliziato. Si sistemò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio e sussurrò solamente: “Via, via. Ci conosciamo da meno di un’ora.”
Lucifer rimase leggermente deluso. Si sa che i serpenti sono curiosi per definizione.
“Dov’è Thomas?”, chiese Chloe avvolta in uno dei miei scialli di lana. Il tepore del tè e del caminetto che avevamo acceso le aveva restituito un po’ di colore alle guance, e la luce calda e soffusa del salotto si rifletteva nei suoi occhi chiari come in uno specchio.
“E’ in università. Viene per cena.”
“E la piccola?”, chiese ancora. Il tono che usò, tuttavia, non mi sembrò tanto diverso da quello che utilizzava durante gli interrogatori. Mi guardava con aria di sfida, come a voler dire bene, vediamo se sei così felice come dici.
“Dai genitori di Thomas.”, risposi, sorridendole. 
“Ah.”
“Molly mi diceva che siete ufficialmente fidanzati!”, disse la Papessa, cercando di cambiare discorso.
“Lo siamo da due anni.”, ribatté Lucifer, lanciando a Chloe un’occhiata fosca.
“Per favore.”, disse Chloe. “Non ricominciamo.”
“Ma dovremo pur parlarne!”
“Ora? No.”, rispose Chloe, riferendosi alla presenza della Papessa.
“Oh, ma fate pure come se non ci fossi.”
“Pensavo che avremmo almeno aspettato il dopocena per tirare fuori gli scheletri.”, feci io, incrociando le braccia come un giudice. “Ma in fondo è meglio così. Thomas dopo cena è stanco, di solito.”
“E’ che ci sono tante cose a cui pensare… tanti impegni… insomma.”
Gli occhi di Chloe saettarono verso Lucifer. Lucifer si mostrò improvvisamente interessato all’orlo della sua giacca. Io francamente ne avevo già abbastanza. “Siete venuti qui per parlare o per farvi la foto con i Beffeaters?” chiesi.
Loro tacquero, facendosi improvvisamente scrupolo di risultare inopportuni – immaginatevi la scena: il Diavolo e consorte (beh, più o meno) che si fanno un volo intercontinentale per cercare di cavarci fuori qualcosa da questioni vecchie come il mondo, per poi finire a vergognarsi e preoccuparsi di disturbare.
“Dio, che parossismo.”, dissi io, stropicciandomi gli occhi.
La Papessa si stava portando la tazza alle labbra, ma interruppe la traiettoria a metà.
Appoggiò tazza e piatto sul tavolino di cristallo del salotto e, leggiadra come una ninfa, si diresse verso l’armadietto dei liquori.
“Brava. Bravissima, Papessa. Ottima idea.”, dissi, dando voce alla gratitudine che si dipinse sulle facce stanche di Lucifer e Chloe.
“Brandy? Armagnac?”, chiese, facendo tintinnare le bottiglie tra loro.
“C’è ancora del gin?”, feci io, sempre con i polpastrelli premuti sulle palpebre.
“Ah, eccolo. Distilled for the eradication of seemingly incurable sadness.”, declamò la Papessa leggendo l’etichetta.
“Proprio ciò che fa al caso nostro.”, dissi io, infilando una sigaretta tra le labbra.
La accesi e appoggiai la testa allo schienale della poltrona su cui mi era raggomitolata. Sbuffai una nuvoletta di fumo verso l’alto; poi, con fare sconvenientemente solenne, abbassai lo sguardo su Lucifer e Chloe, i quali presero i bicchierini dal vassoio che la Papessa aveva appoggiato davanti a noi e li alzarono: ciascuno di noi brindò al proprio demone personale – e non fu un caso che sia io che Chloe ci rivolgemmo a Lucifer.
“E’ ora.”
“Sei davvero sicura, Molly?”, mi chiese la Papessa, rivolgendosi a me con fare solenne.
“Sì, Eminenza.”, risposi io. Mi versai un altro po’ di gin.
La Papessa sussurrò un molto bene che aveva un che di liturgico, e si apprestò ad accendere varie candele.
Lucifer e Chloe si scambiarono uno sguardo di pura confusione. Si rivolsero verso di noi, ormai calate nel ruolo di Santissime Sacerdotesse della Sbronza infrasettimanale, in cerca di spiegazione.
Versai ancora nei bicchieri di Lucifer e Chloe. “Prendete. E bevetene tutti.”
“Molly, sei inquietant-“, cercò di articolare Lucifer, ma gli tirai una sonora, solenne gomitata nel costato.
Il Diavolo guaì.
“Shhh. La cerimonia sta per iniziare.”
“Q-quale cerimonia?”, chiese Chloe, interdetta ed inquietata com’era giusto che fosse.
Tornai seria per un attimo. “E’ la cerimonia d’iniziazione della Sbronza: io e la Papessa mettiamo su questa messinscena sacrale e vagamente blasfema per quando vogliamo ubriacarci senza cadere in depressione.”
“Ho un’età per certe cose, sapete.”, disse la Papessa, bevendo un altro bicchiere. “Ho bisogno di confezionare scuse su misura per comportarmi ancora da ventenne.”
Io feci spallucce. “A me viene naturale.”
“Anche a me.”, disse Lucifer. Non è che avesse esattamente bisogno di scuse o incoragggiamenti per sbronzarsi.
Ripresi tutto il mio contegno da messa solenne, e bevvi di nuovo.
“Ma non potete incominciare a bere e basta?", chiese di nuovo Chloe; nonostante fosse reticente, l’idea della sbronza aveva decisamente allettato anche lei. Infatti, buttò giù alla goccia il secondo bicchierino.
“NO.”, urlammo in coro io e la Papessa.
E Lucifer. Ci voltammo verso di lui con una faccia confusa.
“Ma che ne sai tu delle Santissime Sacerdotesse della Sbronza Infrasettimanale?”, chiesi. “Ne sei venuto a conoscenza solo adesso!”
“Non dico mai di no a qualsiasi cosa che comprenda una gradazione alcolica sopra il trenta per cento.”, rispose lui, giulivo, versandosi un altro bicchierino. E un altro. E ancora un altro. “Si può avere della musica?”
La Papessa sciolse le dita che aveva incrociato sotto il mento e stampò a Lucifer un primo piano che rasentava il tentativo di bacio: Lucifer saltò indietro, inquietato.
“Mia cara nemesi celeste,”, disse la Papessa, calata nel suo ruolo papale come mai prima d’ora, “stai per prendere parte a una sbronza all’inglese: niente musica, niente puttanate; solo gin e verità. Tutta la verità. Nient’altro che la verità.”
Tutti noi deglutimmo a fatica; sincronizzati come le Rockettes, ci calammo un altro bicchiere di liquore.
 
 
 
And, ah my love,
remind me,
what was it that I did?
Did I drink too much?
Am I losing touch?
Did I build a ship to wreck?
(Florence + the Machine, Ship to wreck)
 
 
 
Cosa diavolo mi era venuto in mente di mettermi a bere con Lucifer e la Papessa?
Improvvisamente, sdraiata a quattro di spade sul tappeto del soggiorno, mi ricordai la ragione per cui avevamo drasticamente ridotto la frequenza delle sedute delle Santissime Sacerdotesse: la Papessa era scozzese, e siccome reggeva l’alcool come un maledetto bue, io rischiavo il fegato ogni volta per tenere il passo con lei.
Sospettai che la Papessa condividesse lo stesso super-metabolismo-celeste di Lucifer.
Mi tirai a sedere di scatto; aspettai che la stanza smettesse di girare, e poi evocai la mia amica: “Papessa.”
“Dimmi, tesoro.”, disse lei, sorseggiando qualcosa come il decimo shottino di gin come se si trattasse di caffelatte.
“Non ci gioco più con te alle Sacerdotesse.”, dichiarai, e mi ri-sdraiai sul tappeto.
La testa di Chloe, a pochi centimetri dalla mia, era rivolta verso il lampadario, e se ne stava fin troppo zitta da fin troppo tempo.
Allungai una mano per richiamare la sua attenzione, ma con la coordinazione rallentata dalla sbornia non feci altro che sbatacchiarle le dita sul volto, rischiando di cavarle un occhio.
“Ahia!”, disse Chloe, appunto.
“Scusa. Tu sei ubriaca?”
“Dignitosamente. Brilla!”, urlò lei, alzando i pugni verso l’alto.
“Perfetto.” Sollevai leggermente il collo per guardare Lucifer. “E tu?”
Mi guardò con compassione. “Nemmeno se svaligiassi il reparto alcolici del supermercato qui sotto.”
“Uffa. Non doveva andare così.”, piagnucolai, stropicciandomi gli occhi.
“E come doveva andare?”, chiese la Papessa, distratta e lontana.
“Non lo so. Doveva essere una cosa più dignitosa. Più…”
“Adulta.”, continuò la mia amica.
“Bambina.”, mi chiamò una voce dall’al di là.
“No, Lucifer, adulta.”, ripeté Chloe.
Mi risollevai, stavolta con lentezza per evitare di provocare un altro maremoto nella mia scatola cranica, e la visione che mi si parò di fronte rischiò di dislocarmi la mascella e, conseguentemente, farmela cadere sul pavimento: Lucifer e la Papessa stavano giocando a burraco.
Di nuovo mi stropicciai gli occhi, incredula. “Lucifer.”
“Bambina?”
Tacqui un secondo, organizzando le parole. Mi voltai verso Chloe, che era tornata a fissare il soffitto. “Chloe?”
“Olè.”
“Il tuo fidanzato sta giocando a carte con la Papessa.”
“E la cosa ti turba perché…?”
“Io pensavo che il Diavolo giocasse, chennesò, a poker. A blackjack.”
“E invece il Diavolo gioca a burraco. Ora, tacete.”, intervenne Lucifer, studiando il ventaglio di carte che gli nascondeva il naso. “Devo stracciare una certa autorità spirituale.”
“Decisamente, non era così che doveva andare.”
 
Due bottiglie di gin e qualche partita a carte più tardi, anche Lucifer si era aggiunto al club della sbronza. La Papessa, invece, era sobria come una monaca e leggeva una raccolta di poesie in celtico, fumando Lucky Strikes.
Ora eravamo tutti e tre sdraiati sul tappeto; avevamo spostato il tavolino e i divani perché le gambe di Lucifer non ci stavano, ma ora osservavamo il lampadario come se stessimo cercando di staccarlo con la forza del pensiero.
“Lucifer.”
“Dimmi, bambina.”
“Innanzitutto, la devi finire di chiamarmi bambina con quel tono da pornoattore.”
“Sottoscrivo.”, aggiunse Chloe.
Lucifer ridacchiò perché l’unica cosa che aveva capito era porno.
“In secondo luogo,”, continuai, mettendomi una sigaretta tra le labbra, “hai da accendere?”
Non rispose; si frugò nella tasca, impacciato, ed estrasse lo Zippo.
“Oh, se mi ammalo per via di tutto questo fumo passivo vi sbatto al fresco!”, si lamentò Chloe, che tuttavia non mosse un muscolo per levarsi dalla nuvola tossica che si azava dalle nostre bocche. 
“Ora, le cose importanti.”, dissi io, grattandomi un occhio con la mano che reggeva la sigaretta. Mi cadde un po’ di cenere in bocca e sputacchiai.
“Effettivamente è di grande rilevanza.”, fece Lucifer, commentando quel mio verso strozzato come se avessi fatto un commento sulla situazione socio-economica del Nagorno-Karabakh.
“Zitto. Allora. Siete fidanzati da due cazzo di anni.”
“Sì.”, risposero loro, in coro.
“Due cazzo di anni.”
“Sì.”
“Che cazzo vi aspettate?”
“Che Lucifer si dimentichi di te.”, disse Chloe, che evidentemente aveva abbandonato i freni inibitori.
“Mh.”, feci io, comprensiva.
Lucifer taceva.
“Posso?”, si intromise la Papessa, chiudendo il libro.
“Ma ci mancherebbe. Anzi, se vogliamo chiamare anche la signora dirimpetto a unirsi a questo amabile powwow, prego.”, fece Lucifer, sarcastico.
“Taci, Belzebù.”, lo rimbeccò la Papessa, incrociando gli indici davanti al suo naso, come una versione hippy dell’Esorcista. “E fatti in là.”
“Credo che la formula ufficiale fosse vade retro, Satana!”, corressi.
“Stiamo perdendo di vista il punto.”, disse Chloe. Notai, immersa in una nuvola di sigaretta, che in fondo anche da ubriaca rimaneva fedele a sé stessa. Ne sorrisi.
“E il punto è che?”
“Il punto è che io non potrò mai stare tranquilla, perché so che dentro di lui c’è una parte che appartiene solo a te, perché sei tu che l’hai sfiorato così a fondo.”
Tacemmo tutti. Chloe sbuffò, e vidi una lacrima appannarle gli occhi per una frazione di secondo.
“E poi non ho voglia di scegliere le bomboniere.”, aggiunse.
Ci guardammo per un secondo.
Scoppiammo a ridere come bambini, tutti quanti. La Papessa ci squadrò dall’alto – Lucifer non aveva accondisceso a farle posto, per mantenere aspra e accesa la rivalità biblica.
“Siete fuori di testa.”, disse solo, rubandomi la sigaretta e prendendone un tiro. “Siete la cosa più disfunzionale che io abbia mai visto. Una sorta di Cerbero delle relazioni intersoggettive.”
“Però siamo simpatici.”, dissi io, giuliva e ubriaca.
“Siete patetici.”, continuò la Papessa, appuntandosi i gomiti ai fianchi. “E io vorrei essere ubriaca.”
“Ma sei scozzese.”, disse Lucifer, con un tono da bravo scolaro che ha imparato la lezione.
“Croce e delizia.”, rispose la Papessa, accontendandosi di essere esclusa dal Club degli Stronzi Sdraiati sul Tappeto.
Mi voltai verso Chloe, offrendole uno sguardo dolce. Le presi la mano e gliela strinsi. “Io sono contenta di avervi qui e di condividere il mio tappeto ed un quasi certo coma etilico che ci porterà tutti allegramente sulla lista per un trapianto di fegato d’urgenza.”, dissi, suscitandole una piccola risata. Ne fui sollevata.
“Però voi due dovete parlare. Tipo, davvero parlare.”
Chloe sospirò. “Lo so.”
“Poi parleremo noi due. Ma se non ti fidi di lui…”
“Molly.”
“Dimmi, Chloe.”
“E se avessimo fatto tutto questo casino, questo roboante, meraviglioso scompiglio nelle nostre vite solo per distruggerlo in maniera clamorosa?”
La guardai.
“Sai che c’è? È meglio se ci mettiamo a ballare. Papessa? Metti i Bee Gees, prego.”
 
 
 
 
Here's to all that we kissed
And to all that we missed
To the biggest mistakes
That we just wouldn't trade
To us breaking up
Without us breaking down
To whatever's comin' our way

(Halestorm, Here’s to us)
 
 
 
 
 
Eccoci.
Allora.
Approdo a Belsize Park e prima serata della
reunion – seppur incompleta.
Ma non vi dico altro.
Siamo solo agli inizi.
Avevo voglia di scrivere qualcosa di un po’ meno “pesante”, dal punto di vista emotivo e psicologico: mancava un po’ di commedia, in
Big God. Mancava il Lucifer delle prime stagioni (che okay, ancora non è stato espresso al massimo delle sue potenzialità, qui, nei Crisantemi) – che comunque è quello che io preferisco.
Molly è sempre Molly.
La misteriosa identità della Papessa verrà disvelata, non preoccupatevi. Così come vi prometto che vi presenterò anche la figlia di Molly.
Giuro che rientra tutto in un grande disegno. Giuro.
Spero che questi primi capitoli vi stiano comunque piacendo, perché purtroppo sono un po’ il mio tallone d’Achille, gli incipit. Fosse per me farei incominciare tutto
in medias res senza dovere spiegazioni a nessuno; ma mi rendo conto che sia controproducente.
Verrà anche spiegato il perché di questi maledettissimi
Crisantemi. Giuro, lo giuro, vostro Onore, ha tutto un senso!
Prima che prendiate Lexotan e camicie di forza, gradirei moltissimo se mi diceste che cosa ne pensate, se mi sto muovendo in una direzione che possa interessarvi e piacervi!
Vi mando un bacio,
Y.
   
 
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