Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Miky_D_Senpai    06/02/2021    5 recensioni
Sull'isola di Paradis la vita è governata da istinti, bisogni e richieste innate che la ragione di quegli esseri primitivi non sapevano spiegare.
Eppure i giganti non erano mai stati così uniti nel loro destino cupo, obbligati da una curiosità cieca ad avvicinarsi sempre a quelle mura che li respingevano.
E cieco era stato lui. Credendo che in quel piccolo angolo di paradiso vigesse la legge per cui vince il più grande.
[One-shot: 5136 parole]
[Song-fic / What if?]
Dal testo:
["Raggiunse le foglie che lo nascondevano. Non sentì ordini, nonostante stesse arrivando lui era tranquillo, silente nel caos dei suoi subordinati che si fiondavano contro il suo braccio.
Strappò via il legno, rivelando finalmente quell’uomo, l’unico che ancora lo guardava dall’alto verso il basso.
Sorrise, convinto che, in quegli ultimi istanti, la vista di quella chiazza bionda..."]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman, Petra Ral
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Ashes of Eden – Breaking Benjamin
 
Appoggiò la mano sul fusto di un albero, il fiato veniva meno. Aveva aggirato l’immensa foresta dove viveva, usando tutte le energie che gli restavano dopo una giornata a sradicare querce.
L’espressione esausta non lasciava intravedere la sua paura, il terrore di ciò che lo aspettava, la speranza che fosse tutto un sogno, tutto sbagliato.  Nulla in quel momento però era immaginario, i vestiti lacerati e le ferite sottostanti pulsavano contro il vento e bruciavano a contatto con il suo sudore.
I piccoli cespugli gli graffiavano le caviglie, il punto che aveva il maggior numero di ferite e nelle quali i segni degli arpioni erano più evidenti. Uno di quelli restò impigliato tra le fronde, tirandogli via un legamento prima di cadere al suolo, attutito dalle foglie. Non riuscì a percepire il suono, che si perdeva nella vegetazione ventiquattro metri sotto di lui.
Era un gigante.
 
La foresta tremava sotto i suoi piedi, ma stavolta erano le sue gambe a tremare come bastoncini durante un terremoto.
Nessuna delle ricognizioni sotto quelle mura lo aveva mai ridotto così. Dopo la mattinata passata a tagliare alberi, l’imboscata e la folle corsa che lo aveva riportato lì, il suo corpo chiedeva pietà ad ogni movimento, mentre il vapore proveniente dalle sue ferite creava una piccola coltre che gli offuscava la vista.
I vestiti strappati e il sangue che si era solidificato sulla sua pelle, contro il tessuto, non facevano che rallentare i suoi movimenti tra la vegetazione più fitta.
 
Il legno bagnato di vecchi tronchi tagliati di netto rifletteva la forte luce del mezzogiorno dalle piccole pozze che si formavano nelle sue imperfezioni, mentre il terreno umido rinfrescava la vista di quel piccolo pezzo di paradiso che lui stesso si era creato con tanta cura.
Il quieto paesaggio non era di conforto in quel momento, il silenzio del vento lasciava la strada libera al terrore. Perfino il piccolo fiumiciattolo che passava dietro la sua abitazione si agitava nel pieno della sua portata.
L’acqua scorreva piena di forza contro i massi che ne delimitavano il percorso, mentre le trote che lo popolavano restavano immobili a goderne la corrente. Il riverbero si proiettava fino agli alberi, che seguivano fedelmente il percorso dell’acqua, creando piccoli giochi di luci sui rami più bassi e circondando la casa con una scia di finte lucciole.
 
Il gigante strinse con maggiore forza la corteccia della quercia, spaccandone lo strato superficiale con un rumore secco, per aiutarsi a continuare fino alla porta di ingresso. I tronchi del portico cigolarono sotto il suo peso, la fatica dei suoi passi lo trascinava a stento oltre quel paio di gradini marmorei con cui aveva adornato l’entrata.
Posò la mano sulla porta, delicatamente, sentendo piccole schegge punzecchiargli la pelle stanca, spinse piano, sperando nel minor rumore possibile dei cardini metallici. Il legno però cedette, come se nessuna forza lo tenesse in piedi, cadde come un corpo senza vita, l’attrito dell’aria aumentò solo il fragore dell’atterraggio.
Rimbalzò una volta, ripercorrendo solamente un decimo della sua traiettoria, tornando poi sul pavimento, piatta. La polvere si alzò come fosse l’anima del legno che si volatilizzava, coprendo per qualche istante i suoi occhi spenti.
Lo sguardo girava da una parte all’altra del salone, scrutando tutte le diverse tonalità del marrone a lui familiari, passano poi alle tonalità più accese del rosso e del bianco, fino a quel nero violaceo che tanto sperava di non vedere.
 
[_Pochi minuti prima_]
 
Un’ascia giaceva sul terreno, la sega a tronco era ancora impigliata tra le due metà di una quercia molto ostinata e i due giganti si riposavano appoggiati sui loro lunghi attrezzi da lavoro.
L’altro era più alto e svettava sopra gli alberi più bassi, quelli che non avrebbero tolto alla terra, e doveva combattere con la luce che filtrava dalle chiome più alte per alzare lo sguardo a quell’altezza.
«Ho sentito che le case vicine sono state attaccate» gli aveva detto, mentre sollevava l’intero peso del carro pieno di legna. Lo aveva guardato con occhi seri, di chi sta ancora assimilando un’informazione.
«Da cosa sono stati attaccati?» aveva chiesto, senza porre troppa attenzione ad ulteriori dati che il cervello non riusciva a gestire in così poco tempo.
Era rozzo, primitivo, ma erano tutti come lui.
 
La comunità che avevano creato attorno al culto di Ymir si basava su poche regole non scritte e nessuna discussione formale tranne per qualche screzio sotto quelle strane mura. La curiosità moveva gran parte delle loro scelte, a volte senza passare dalle loro credenze o dalla loro ragione.
Impulsivi come dei cuccioli di orso, ma troppo violenti per rispettare la precedenza di arrivo e troppo ostinati per lasciar perdere le questioni più banali.
Stava pensando già alle risposte possibili che potessero corrispondere al grado della minaccia: potevano essere stati “attaccati” da un’infestazione di termiti o da qualche animale selvatico in cerca di cibo, ma in entrambi i casi non sarebbe stata una notizia così importante da dover essere raccontata.
Che fossero stati altri?
La ricerca di nuove terre non era nella loro indole, ma stupidi diverbi erano all’ordine del giorno e potevano essere sfociati in qualcosa di più aggressivo. Era già accaduto in passato, ma non era venuto a conoscenza di nulla di simile da qualche anno.
Nonostante la loro statura spiccasse rispetto alle altre creature non avevano necessità di rapportarsi ad esse, se non per i vari casi in cui queste entravano nelle loro abitazioni senza permesso, rubando piccoli pezzi di cibo o di materiali utili a creare i loro nidi. Tra di loro, invece, i rapporti erano di silente convivenza, quando tutto andava bene.
 
«Non lo so da cosa sono stati attaccati» rispose l’amico facendo un lungo respiro e grattandosi la fronte con leggero imbarazzo.
Talvolta le notizie tardavano ad arrivare per via della distanza tra un’abitazione e l’altra. Chilometri potevano separare una famiglia dai vicini più prossimi e, se non per ricognizioni sotto le mura o occasioni particolari, non si incontravano quasi mai tra loro.
Quella era una delle loro rimpatriate per procacciare materiali di prima necessità e solo per quello erano lì a parlarne.
«So solo che i cavalli hanno un comportamento strano da qualche tempo» mormorò alla fine, senza dare un peso eccessivo all’informazione, lo sguardo dei due si soffermò sulle colline al di fuori di quella foresta.
 
Il verde dell’erba era quasi disturbante per quanto era monotono, ma più si alzava lo sguardo più i colori si mescolavano e si aggiungevano. Sopra il grigio delle silenti montagne si poteva soltanto apprezzare come chiaro fosse il cielo macchiato dalle rare nuvole.
Quel panorama così limpido era disturbato da una nuvola di polvere che avanzava, preceduta da una scia di fumo verde. La nube sollevata dal galoppo di un centinaio di cavalli veniva nella loro direzione, aggirando la foresta.
I due stavano ancora tentando di trovare una spiegazione a quel fumo così innaturale quando un’altra scia, stavolta rossa, partì nella loro direzione.
Una mandria che non sembrava comportarsi stranamente, correndo insieme, seguendo il proprio leader, ma la disposizione sembrava organizzata, orchestrata.
Fu in quel momento che li videro, mettendo a fuoco i rami vicini, in contrasto con lo sfondo, e aggrappati ad essi, seduti in attesa, piccoli esseri si ciondolavano in attesa, studiandoli.
Si fermarono, senza lasciare le querce che tenevano in equilibrio, puntate nel terreno, li osservarono a loro volta, non ricordavano di aver mai visto qualcosa di simile, nonostante le forme dei loro corpi ricordavano i loro simili.
Quelle miniature li guardavano con ansia, pronti a scattare, irrequieti con le loro piccole armi in metallo che facevano vibrare i riflessi della luce come fiamme.
In quella foresta nulla sembrava volersi muovere generando uno stallo destinato a non durare.
 
Will the faithful be rewarded
When we come to the end
Will I miss the final warning
From the lie that I have lived
Is there anybody calling
I can see the soul within
And I am not worthy
I am not worthy of this
 
Si sentì mancare quando vide lo sfondo della stanza.
La scena, tetra sotto quella luce limpida, aveva del surreale: i due corpi distesi a terra presentavano innumerevoli ferite, inferte seguendo uno schema armonico, traiettorie curve avevano diviso le carni di netto.
Lo schema di un chirurgo folle il cui scopo non era altro che privare della vita invece che salvarla. E quella rappresentazione delle sue paure, così immobile era disturbata da piccoli movimenti sullo sfondo.
Ripercorse mentalmente tutti i dettagli che componevano l’arredamento, costruiti da lui stesso. Il tavolo che occupava il centro della stanza era una quercia risparmiata dall’incendio, decorato con vasi, le posate ancora poggiate su piatti freddi. Il divano, le sedie e le lunghe tende non erano che macchie nella sua prospettiva.
Sullo sfondo, illuminati dalla grande finestra, gli scaffali della cucina erano l’ultima ancora di salvataggio che avevano i suoi occhi, prima di cadere di nuovo sui suoi capelli.
 
Quel dettaglio su cui poteva essersi soffermato mille volte, ma solo in quell’istante ne percepì particolari che aveva a lungo dato per scontati.
Il corpo più grande schiacciava quello piccolo del loro bambino, una madre che tentava ancora di proteggere il proprio figlio nonostante le mutilazioni, nonostante fosse già morto.
In quella pozza al centro della loro cucina, altri di quei piccoli esseri valutavano i loro stessi danni, le loro poche perdite e cambiavano le lame preparandosi frettolosamente ad affrontare lui.
Non erano nemmeno un decimo di quanti ne avevano affrontati prima, le sue ferite non si erano del tutto rimarginate, ma la rabbia cieca che gli stava annebbiando la vista stava per prendere il controllo delle sue azioni.
Percepì in lontananza un movimento frettoloso, delle urla e mentre due di quelli si alzavano in volo, una lacrima vinceva i suoi sforzi e attraversava lenta la sua guancia.
Si avvicinavano coordinati, volando a pochi centimetri dal suolo, da entrambe le direzioni e in quell’attimo prima di reagire visualizzò la sua amata subire lo stesso attacco, i loro piccoli ganci sulle proprie caviglie, i loro movimenti fulminei mentre miravano a chi era distratto a proteggere qualcun altro.
 
Li colpì.
Piantò i pugni nel pavimento nello stesso istante in cui quel loro vano coraggio si trasformava in euforia per il quasi successo.
Un colpo sferrato con tanta rabbia che la casa stessa tremò, eppure fu come colpire l’aria per come quelle ossa di cui erano fatti si frantumarono senza opporre resistenza. I muscoli degli avambracci facevano più male di quanto la testa girasse, nemmeno l’adrenalina in circolo riuscì a coprire la sensazione di mancamento.
Trattenne un conato come non poté fare con le lacrime, la rabbia lo stava corrodendo e mentre il pavimento stesso girava sotto di lui urlò.
Cacciò tutta l’aria dai polmoni, svuotandosi completamente.
Riuscì soltanto a sollevare lo sguardo un istante, guardando le loro espressioni sorprese e terrorizzate, la delusione della sconfitta e il lutto.
Si alzò piano, le nocche riflettevano la luce dividendola in ogni suo colore, nonostante le tonalità del rosso sembrassero più accese. La pelle delle braccia era cristallo, indistruttibile, impenetrabile come non era stato il suo cuore.
 
[_Qualche anno prima_]
 
Avevano attraversato le vuote campagne, attratti da quel muro, guardandolo come falene una lanterna. Curiosi e ostinati.
Si avvicinavano in due, lenti e costanti nei loro movimenti. Lui un centinaio di metri più avanti rispetto a lei.
Erano decisamente poche le storie su come due giganti si potessero trovare in quel mondo così strano. Si partiva da come i membri più anziani del gruppo avessero percorso tutto il perimetro di quelle mura insieme, prima di restare uniti nel loro percorso infinito attorno a quell’ammasso di pietre.
Si finiva con loro.
La loro storia non era delle più lunghe, non avevano ancora percorso tutti quei chilometri insieme, ma si erano trovati per caso in un momento di pura necessità. Erano stati presenti l’uno per l’altra quando entrambe le loro abitazioni furono spazzare via da un grosso incendio. Quella stessa sera avevano scoperto di avere entrambi un vicino di cui necessitavano.
 
Mentre si avvicinavano ad alcuni dei loro amici che li aspettavano già sotto quelle ripide mura, uno di loro stava tentando di farsi strada scalando la parte più ruvida mentre altri si aggiravano senza meta. Un altro in particolare notò i due nuovi arrivati, alla vista di come lei fosse in realtà incinta, si scagliò velocemente contro di lei, atterrandola.
Un istante passò interminabile, nel silenzio interrotto dal volo dei piccoli uccelli che scappavano dalla scena.
Si era frapposto tra i due, reagendo fulmineo
Aveva paura, glielo leggeva negli occhi, ma le stringeva la mano rassicurandola, mentre l’amica la stava portando lontana dal cancello, lasciandolo davanti al suo aggressore.
Quel ferro freddo sembrava assorbire ogni rara emozione positiva e la faceva fluire sulle pietre e i mattoni che ne decoravano il contorno. Le nuvole riuscirono finalmente a coprire anche la luce del sole, sottolineando la pesantezza della situazione.
Un brivido che si propagava dalla punta dei piedi a quella dei capelli e una sensazione amara in bocca dei presenti li preparava a ulteriore violenza.
La compagna venne fatta sdraiare sul fianco destro, per lasciare che la contusione sull’addome potesse riposare libera dal suo stesso peso.
Lanciò un’altra occhiata al pancione e, sperando nel meglio, ritrovò la forza nelle ginocchia per tirarsi in piedi.
 
Si sollevò oltre la testa di quello che doveva essere poco più di un gigante di sedici metri, il quale tentava ancora di guardarlo con sfida, per quanto quell’espressione si potesse muovere dallo sguardo da ebete che aveva.
Non sembrava essere supportato da altri, probabilmente era nuovo di lì, ma si ergeva con fare sprezzante come fosse alla guida di un esercito. Ma nessuno era dietro di lui, nessuno si sarebbe messo contro un padre di famiglia.
“Siamo mostri, quello che abbiamo sempre combattuto e non meritiamo di moltiplicarci” nessuno capì, nessuno si sentiva un mostro, nessuno coglieva i difetti della loro forma così umana, di quelle case che si erano costruiti che seppur distanti richiamavano ad una forma primitiva di civiltà intrinseca nella loro essenza.
Ma sembrava l’unico a conoscere una verità nascosta a tutti, un pazzo devoto ad una folle teoria complottista che lo aveva messo sotto un’orrenda luce a seguito delle sue azioni sconsiderate.
Aveva compiuto anche lui il grande viaggio, come ognuno di loro, ma evidentemente non aveva ancora superato il trauma di una vita solitaria e non aveva ancora accettato di essere all’oscuro di cosa ci fosse dietro quelle mura.
Chiunque avrebbe preferito sparire in confronto ad aprire bocca, ma lui continuò a professare la sua opinione, come se lui sapesse la loro provenienza, di quanto si ricordasse al di là del mare, del mostro che era diventato, insieme a tutti loro.
 
Ma mentre la sua verità si perdeva contro la barriera che si era creata negli altri, nel momento stesso in cui il buonsenso fu calpestato dalle sue azioni, l’altro percepiva soltanto ogni movimento che proveniva dal suo interno in quel momento. Il suo respiro, l’adrenalina che gli scorreva nel sangue, l’odore che emanava il codardo.
Aveva attaccato senza motivo, nessuna legge gli avrebbe vietato di rispondere, nessuna regola di educazione lo avrebbe obbligato a fermarsi e continuare a subire un sermone simile davanti a tutti.
Davanti ad amici che erano pronti a scattare, nonostante quel gigante sembrasse folle e pericoloso, davanti a lei, che era stata assalita con un odio ingiustificato, sapendo che quest’odio era rivolto alla loro creatura.
Non lo guardò tanto era folle di rabbia.
 
Fu la prima volta che sentì la pelle indurirsi sopra i muscoli contratti, non vide il colorito celeste e i vari riflessi di una superficie metallica che si muoveva insieme al suo corpo.
Il pugno si conficcò nella guancia con un colpo secco, l’inutile resistenza della carne contro le nocche rinforzate non riuscì a fermare quella forza.
Interruppe il discorso filosofico, interruppe il fastidio di quella voce che odiava con tutto se stesso.
Quello volò, precipitando a terra un centinaio di metri più avanti e nemmeno questo fermò gli altri dall’infierire, con l’odio di chi difende la propria umanità, la propria specie, i propri figli.
Tornò da lei quando il cervello processò che era stato fatto abbastanza, la pelle scarlatta non era ancora tornata normale, ma scaglie di diamante cadevano a terra.
Si assicurò che stesse bene, guardandola negli occhi, quei bellissimi occhi verdi che gli ricordavano l’erba e le foglie di quell’isola. L’avrebbe protetta, si giurò, protetta dalla follia di un mondo a volte troppo piccolo per loro.
 
Are you with me after all
Why can't I hear you
Are you with me through it all
Then why can't I feel you
Stay with me, don't let me go
Because there's nothing left at all
Stay with me, don't let me go
Until the ashes of Eden fall
 
«Fuoco!»
L’ordine arrivò da uno dei rami più alti, nascosto alla vista dei due.
Lo sguardo non fece in tempo a tornare indietro che furono colti di sorpresa da tanti piccoli proiettili.
Il fumo che si sollevava aiutava gli altri a nascondere le proprie tracce, avrebbero potuto fuggire, nascondersi, ma erano così sicuri del loro successo che rimasero pressoché immobili.
Le piccole ferite provocate non erano più di un solletico, ma i primi colpi dei cannoni destabilizzarono entrambi, mettendoli sulla difensiva. Le braccia coprirono istintivamente i punti vitali e il volto, lasciando le gambe completamente scoperte.
Tentarono entrambi di arretrare, ma lunghi arpioni li avevano completamente immobilizzati dalla vita in giù, lanciarono un leggero grugnito, percependo il pericolo crescente come animali messi all’angolo.
Un altro ordine risuonò dallo stesso ramo, quella voce potente e imperiosa, così lontana, li faceva sentire piccoli e a disagio.
Non avevano tempo di ragionare su cause ed effetti che altre trappole erano pronte a scattare.
Si guardarono intorno un istante prima di iniziare a muoversi goffamente usando i lunghi tronchi per aiutarsi, senza prestare attenzione l’un l’altro e finendo per annodare i loro bastoni tra le funi.
Quei piccoli esseri avevano quasi completato le operazioni di ricarica, correvano e si incitavano come api operose, abituate a quelle azioni da anni di addestramento, muovendosi sotto l’occhio vigile di un burattinaio invisibile.
La frustrazione di non vedere il capo, la mente che governava quell’insieme di individui li muoveva più che la lotta per la sopravvivenza.
 
Fu l’amico a riuscire per primo a divincolarsi, allungandosi fino al tronco di un albero millenario. Non diede tempo a nessuno di reagire, nonostante i rampini di quelli lo stavano circondando e alcuni sembravano dondolare aggrappati a lui. E solo nel momento in cui si trovò entrambi i piedi dell’altro sul petto anche lui capì le sue intenzioni.
Si era sollevato saltando, riuscendo a mantenere, per quel millisecondo necessario, l’equilibrio con la mano aggrappata, portando con sé i barili degli arpioni e quelli che si erano aggrappati a lui.
Venne spinto contro l’albero vicino, quello da cui sembravano venire tutti gli ordini, liberandosi dalle trappole che vennero strappate da terra. Si girò in un istante, aiutandosi con le mani per frenare la caduta.
Diede una rapida occhiata intorno a sé, notando quanto maggiore fosse il numero di quelli e quanto complesso di carri e individui.
 
Solo dopo qualche istante notò la sensazione scivolosa sotto i palmi, doveva essere caduto su quelli che non avevano fatto in tempo a reagire, le cui vite erano state abbandonate da compagni increduli, terrorizzati e sollevati allo stesso tempo, per quei centimetri che li avevano salvati. Non distoglievano lo sguardo da quell’imponente mano davanti a loro, non reagivano e basta, così poté valutare ancora meglio la situazione.
Quattro file di cannoni erano posizionate lungo un piccolo sentiero battuto, dove si sarebbe mosso il carro con la legna che i due avevano recuperato, avevano sfruttato i solchi sulla terra battuta per muoversi più velocemente e sfuggire alla loro vista.
Il carro giaceva sotto il suo stesso peso, bloccato dal pieno carico, e solo uno di loro sarebbe riuscito a spostarlo.
Si voltò rapidamente, notando che quei piccoli esseri avevano intuito le sue intenzioni e guardavano l’enorme carro preoccupati, ma lui si mosse prima di loro, muovendo il braccio per disperderli e avvicinarsi alla ruota.
Riuscì a colpirne qualcuno, ma altri già si fiondavano su quel mezzo, come se il loro peso o la loro presenza su di esso potesse cambiare qualcosa nei suoi piani.
Ma non sapeva quanto il piano di quell’uomo che non si faceva vedere avesse già previsto.
 
Will the darkness fall upon me
When the air is growing thin
Will the light begin to pull me
To its everlasting will
I can hear the voices haunting
There is nothing left to fear
And I am still calling
I am still calling to you
 
Ci volle un momento per riprendersi da quel colpo, mentre quei domatori di cavalli non si erano ancora mossi, paralizzati. Probabilmente stavano tentando di ricalcolare le loro azioni in base ai soliti schemi che sembravano eseguire come burattini.
Frustrati dai vari, piccoli, fallimenti che avevano sotto gli occhi ora avevano smesso di crogiolarsi sopra due cadaveri, sopra la sua famiglia, non avevano assolutamente idea di cosa avessero scatenato.
«Cosa facciamo capitano?» chiese uno di quei soldati, visibilmente scosso.
Sembrava la miniatura della sua vicina, una ragazza bassina anche rispetto agli altri, rossa di capelli e con una voce stridula che risuonava chiara per tutta la stanza. L’aveva sentita urlare il nome di uno dei suoi compagni l’istante in cui capì che era spacciato.
Quello era il loro modo di affrontare la vita? Il valore che gli davano si mostrava solo nel momento in cui un compagno moriva?
Guardò il suo interlocutore, il quale non era alto la forchetta alle sue spalle, lui non aveva reagito, non aveva reazioni da quando lo aveva visto prima, nel fitto della foresta, mentre i suoi subordinati morivano e lui cavalcava via, non li aveva degnati nemmeno di uno sguardo.
Lo odiava per questo.
 
Si guardavano, meditando entrambi, fulcri opposti di un ingranaggio immobile, bloccato come un orologio prima che il tempo continui a scorrere. Si erano passati i turni, mossa e contro mossa, un gioco a cui lui non avrebbe giocato a lungo.
Tirandosi su tentò di sopprimere i suoi sentimenti, prendendo spunto da lui, calmandosi.
Lei lo guardava terrorizzata. «Capitano cosa facciamo?» domandò insistentemente, tentando invano di catturare la sua attenzione. Ma non gli avrebbe permesso di fare altro, non in casa sua, non contro di lui, non continuando quell’oltraggio alla loro memoria.
Stavano parlando tra di loro, con la guardia abbassata, consci di essere a 300 metri da lui, sentendosi protetti dai suoi eventuali attacchi. E pensavano di avere abbastanza tempo per reagire, ma quando lui scattò, quella distanza servì solo a fargli rendere conto di quanto fossero fottuti.
 
Percorse con tre balzi lo spazio che li separava, fermandosi poco prima dei due cadaveri, abbastanza lontano per non scivolare in quella pozza di sangue, abbastanza vicino per colpire.
Le mani si unirono, sbattendo fragorosamente con lo stesso movimento che si fa per uccidere un insetto che ha finito le energie.
Non percepiva quanti ne aveva presi, non riuscì a vedere se non un ammasso di sangue e tessuti, sapeva solo che il ronzio di quella voce era finito.
Non aveva urlato, lei.
L’aria non aveva fatto in tempo ad uscire dalla sua bocca, l’aveva guardato, calma, mentre le sue braccia erano aperte, per poi capire e insieme a quella consapevolezza, il terrore mutò l’ultima espressione che le vide fare.
In tre riuscirono a sollevarsi in volo, allontanandosi da lui senza voltarsi. Correndo per la propria vita e abbandonando gli altri al più tragico dei finali.
Vi fu un veloce ordine, prima che le due macchie alla sua sinistra sparirono fuori dalla finestra, tentò di seguirli con lo sguardo, ma il terzo intanto lo attaccava, rotolando sul suo braccio per risalire velocemente verso la sua testa.
La ferita che lasciava era profonda e il sangue zampillava copiosamente. I segni che lasciava non combaciavano con quelli sui due corpi, sembravano più curati, decisi, il lavoro meno affrettato di quelli che si lanciavano frettolosamente a tagliare il tendine della caviglia per immobilizzare il proprio nemico.
Allungò il braccio e, mentre sentiva che era pronto a sferrare l’ultimo colpo, indurì i due lembi di pelle appena tagliati, bloccandogli una lama.
 
Are you with me after all
Why can't I hear you
Are you with me through it all
Then why can't I feel you
Stay with me, don't let me go
Because there's nothing left at all
Stay with me, don't let me go
Until the ashes of Eden fall
 
Strinse con forza il legno della ruota, ma sollevandosi venne a conoscenza di un’altra parte del loro piano.
Vide circa una ventina cavalli lasciare la vegetazione percorrendo il sentiero del carro, entrando nel fitto della foresta. stavolta il suo cervello elaborò il pericolo in un battito di palpebre: casa. La direzione in cui vide sparire, con in sella quegli strani esseri, era il preciso tracciato che portava davanti la sua porta.
Come facessero quelli a domare gli altri animali, come mai stessero abbandonando gli altri, non se ne curò, doveva soltanto fermarli e fece l’unica cosa in suo potere in quel momento.
Si sollevò, prendendo quel dannato carro da entrambe le ruote, cogliendo di sorpresa perfino l’amico, che stava ancora finendo di tirare via i vari arpioni dalle sue caviglie.
Roteò il busto, riposizionando le gambe per bilanciarsi e lanciò con tutta la sua forza il suo carico oltre i vari cannoni.
 
Quelli che stavano cavalcando in una formazione regolare non avevano idea di cosa gli stesse per piovere in testa, finché l’esplosione di uno dei tronchi più vecchi non fu così vicina da allarmarli.
Quasi tutti si voltarono a guardare la morte cadere su di loro, solo uno ordinò di continuare a cavalcare senza battere ciglio, nemmeno quando un tronco cadde tra di loro, dimezzando la formazione. Ma nonostante i corpi sparsi per la foresta di quelli che erano incaricati di salire sul carro, loro continuarono a cavalcare verso casa sua.
Alle sue spalle, l’amico intanto stava tentando di coprirlo dagli attacchi di quelli che approfittavano della sua preoccupazione, non capendo che lui non avrebbe fatto lo stesso in quel momento.
Si alzò e iniziò a correre in una direzione diversa rispetto a quei cavalli, sapendo che tra gli alberi ci avrebbe messo il doppio del tempo e tentò di aggirare la foresta.
L’altro venne preso come bersaglio, mentre afferrava l’unico di quelli che si era lanciato all’inseguimento e lo scagliava contro i cannoni.
Si mossero troppo lentamente per salvarlo, ma abbastanza per sparare di nuovo gli arpioni, stavolta senza sfruttare la preparazione mancarono il bersaglio numerose volte prima di bloccargli una gamba.
Prima che potesse reagire avevano cominciato a ricaricare i cannoni, gli saltavano addosso, tagliando le carni alla meno peggio con le loro piccole lame, creando lunghe lacerazioni avvicinandosi sempre di più ai punti vitali. Lo stavano massacrando lentamente, senza mai infliggergli il colpo di grazia.
Lo sguardo straziato non verté verso i suoi aggressori, ma si slanciò più in alto.
Si allungò verso quel ramo, quello che voleva sapere era chi lo aveva condannato, voleva conoscerne le sembianze.
 
Raggiunse le foglie che lo nascondevano. Non sentì ordini, nonostante stesse arrivando lui era tranquillo, silente nel caos dei suoi subordinati che si fiondavano contro il suo braccio.
Strappò via il legno, rivelando finalmente quell’uomo, l’unico che ancora lo guardava dall’alto verso il basso.
Sorrise, convinto che, in quegli ultimi istanti, la vista di quella chiazza bionda in contrasto con i colori dell’albero potesse essere una soddisfazione che valesse la propria vita.
Lo sguardo, in risposta alla sua espressione così serena, accennò una sorpresa, la sensazione di chi ritrova qualcosa di familiare in un luogo sconosciuto.
Guardava quel gigante che aveva smesso di lottare senza un senso, per focalizzarsi sulla sua curiosità e, prima di morire, soddisfare l’ultimo suo desiderio. Conoscenza.
Sorrise e, suo malgrado, sollevò il braccio per dare l’ultimo ordine.
«Fuoco!»
 
Si guardarono il tempo che restò incastrato, nessuno dei due sembrava soddisfatto della situazione.
Per quell’istante in cui i loro occhi si incrociarono ci fu una breve connessione, il feeling tra due cacciatori, tra due assassini, pronti a finire il proprio lavoro.
Si mosse come per scacciare una mosca dal proprio braccio, ma quell’altro fu più veloce e in un balzo si era staccato dalla lama inutilizzabile per schivare l’attacco. Lo lasciò imbambolato a guardarlo salire più in alto di quanto potesse saltare.
Volava da una parte all’altra del soffitto, seguito da una strana scia di fumo bianco e preceduto da un cavo che si moveva sinuoso facendolo oscillare come un pendolo.
Riusciva a sfruttare lo slancio di quel momento angolare per raggiungere velocità sempre più elevate girandogli attorno mentre lui faceva sempre più fatica a seguirlo con lo sguardo e a rispondere in tempo indurendo lo strato più esterno di pelle.
 
Le ferite continuavano ad aumentare in numero, sempre più vicine, sempre più precise. E mentre quello gli ruotava un’altra volta dietro la schiena, lui teneva le braccia alzate per pararsi almeno il volto.
Al primo taglio sul collo, però, dovette cedere alle sue provocazioni e allargare le braccia tentando di prenderlo.
Il piccolo essere sembrava non aspettare altro che questo suo movimento e passò come un lampo vestito di verde, affondando le lame da un’estremità all’altra della sclera. Indietreggiò, disorientato e ferito.
Si copriva gli occhi con una mano, mentre con l’altra tentava di orientarsi tra i mobili. Senza dargli tregua, il suo aggressore gli stava già alle spalle, pronto ad attaccare altri punti scoperti.
Nella sua breve esperienza con quei piccoli esseri, sapeva che quello era su un piano completamente opposto e, mentre cadeva dopo che gli aveva reciso il tendine d’Achille, si era reso conto che sarebbe stato anche l’ultimo che avrebbe visto.
Pensò in fretta, doveva rivederla un’ultima volta.
Scendeva, lo sentiva, veniva in picchiata come un rapace su un topolino, ma proprio quando si rammentò di essere pesante e forte, sollevò il braccio con rapidità, scagliandolo verso una sedia.
Seguì la direzione del suono e allungò il braccio tentando di schiacciarlo, ma sotto la sua pelle sentì solo aria. Già sfuggito chissà dove, aggrappandosi a chissà quale muro per scagliarsi di nuovo all’attacco.
 
Il gigante si trascinò con entrambe le braccia verso il fondo della stanza, dove giaceva sua moglie. era riuscito a convogliare le proprie capacità curative verso gli occhi e l’unica cosa che lo divideva dalla sua vista era la cascata di sangue che lentamente fluiva dalle altre ferite.
L’altro lo guardava, inorridito e incuriosito da quella scena pietosa, gli lasciò compiere quell’estenuante lotta contro il pavimento finché non ebbe quel cadavere tra le braccia.
Lanciò un arpione contro una trave del soffitto e si calò di nuovo sul pavimento, avvicinandosi senza timore.
La sua presenza venne notata solo a pochi passi dalle gambe di lei. Istintivamente l’abbraccio si fece più stretto.
«Tu sei un domatore di cavalli?»
«Ehi, che ti prende adesso? Non volevi uccidermi? E poi cosa stai blaterando?» ribatté l’altro quasi spazientito.
Il gigante sospirò, conscio del suo destino. Guardò nuovamente i capelli biondi che accarezzava, chiuse gli occhi lasciando che il suo profumo lo cullasse per un istante. Lo guardò di nuovo e, come il condannato che accetta la ghigliottina, chinò il capo. A quel piccolo essere ci volle un istante per sparire. Un colpo. Il capo del gigante cadde su quei capelli biondi.
Buio.
 
Why can't I hear you
Stay with me, don't let me go
Because there's nothing left at all
Stay with me, don't let me go
Until the Ashes of Eden fall
Heaven above me, take my hand
Shine until there's nothing left but you
Heaven above me, take my hand
Shine until there's nothing left but you
 
Tornarono dentro quelle mura acclamati come eroi, sofferenti per la stanchezza, abbattuti dalle perdite.
Giravano tra i loro simili su quei cavalli, con i loro vessilli e simboli di libertà che professavano e dell’onore che avevano acquisito sul sangue di innocenti.
Un vecchio si approcciava verso quella colonna di soldati, ma nessuno voleva dargli l’infausta notizia.
Un cadetto si rintanò in un vicolo per vomitare, aveva tenuto gli orrori di una giornata sullo stomaco.
Un paio di ragazzini guardavano entusiasti i loro eroi tornare sani e salvi, ignari dell’oscura verità: non c’era nessun mostro al di fuori delle mura, i veri mostri erano rinchiusi al loro interno.

 
   
 
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