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Autore: Yunomi    17/02/2021    2 recensioni
"I pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette. L’amore. Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumata come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette. No. Non più"
Sequel assolutamente non richiesto di Big God. La lettura è fortemente consigliata per capirci qualcosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chloe Decker, Lucifer Morningstar, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Goodbye stronzo
 
 
Oh, the queen of peace
Always does her best to please
Is it any use?

Somebody's gotta lose
(Florence + the Machine)
 
 
 
La Papessa nappava freneticamente una costata di agnello con un cucchiaio, coprendola e ricoprendola di burro fuso: la cucina era illuminata di una luce calda, serale, e l’aria faceva l’amore con il profumo di rosmarino e menta sprigionato dalla padella sfrigolante.
Io stavo appoggiata con il sedere al bancone attiguo ai fornelli, con una sigaretta dimenticata fra le dita: riflettevo, e i fumi che uscivano dalle mie orecchie, insieme alle esalazioni della sigaretta, creavano una densa cortina davanti agli occhi che mi impediva di vedere chiaramente.
La Papessa alzò per un attimo gli occhi dalla carne, e li spostò su di me. La sentii sospirare.
“Non avrei dovuto dirtelo.”
Mi voltai verso di lei con un movimento fluido del capo. “Certo sarei più serena se non lo sapessi.”, ribattei, sforzandomi di mostrare un sorriso che distendesse i lineamenti del suo bel viso gaelico, tirati da una preoccupazione tetra.
Non feci che incupirla ancora di più. Mi grattai il mento, pensosa. “Sei mia amica.”
“Certo.”
“E mi conosci.”
“Ho questa presunzione, sì.”
“Se me lo hai detto, vuol dire che pensavi fosse la cosa giusta da fare. E siccome anche io posso vantarmi di conoscerti un minimo, sono tranquilla nell’affermare che hai fatto bene a dirmelo. Sei leale. E sapevi che non mi avrebbe uccisa, se me l’hai detta. Che avrei trovato un modo per digerirlo.” Ancora faticavo a trovarlo, quel modo.
“Thomas comunque non ha ricambiato.”, rispose lei, pensando che questa informazione potesse in qualche modo aiutarmi ad ingoiare il boccone amaro. “Non più di tanto.”
Sorrisi. “Non ce l’ho con lui.”
“No?”, chiese lei, anche se sapevo perfettamente che la pensava come me. Era una donna troppo arguta per pensare che gli avrei fatto qualche scenata di gelosia: il mio più grande tarlo, l’empatia, si rivelava particolarmente utile in situazioni come questa: e sapevo che la Papessa si era messa nei miei panni più e più volte, analizzando la situazione con una miriade di varianti, di punti di vista, di scenari conseguenti possibili. Non avevo mai trovato qualcuno che si impegnasse così tanto nel capirmi, e sorrisi, grata, a questo pensiero.
“E’ con lei che ce l’ho. Non so se abbia voluto colpirmi dove ho il fianco scoperto, o se effettivamente in quel momento l’abbia colpita un raptus di lussuria incontrollabile.”
“Non mi stupirebbe. Il tuo fidanzato è un sogno erotico ad occhi aperti.”, scherzò lei.
Io aspirai una boccata di fumo, sorridendo leggermente. Era vero.
Il mio Thomas. Il mio bel professore malinconico e intelligente, il mio porto sicuro, il padre di mia figlia. Perché avevo la sensazione che non fosse più mio, nel ripetere questo aggettivo possessivo come una nenia imperitura?
Pensai che probabilmente Chloe aveva ottenuto quello che voleva: farmi sentire come si sentiva lei, e cioè in competizione con un’altra donna. Ma io avevo una cosa che lei non aveva, purtroppo: la completa fiducia nei confronti dell’uomo che amavo.  
E’ una questione delicata, sapete. Ci vuole coraggio ad affidare il proprio cuore a qualcun altro; ce ne vuole doppio se il tuo cuore è delicato, rattoppato alla bell’e meglio. Non so se Chloe non volesse o non potesse prendersi questo rischio. Da parte mia, ne avevo fatto la mia missione, cercare di aiutarla a capirlo; avevo sopportato le chiamate in piena notte in preda al pianto, all’angoscia, avevo sopportato gli sguardi arcigni e sospettosi di quando io e Lucifer ci avvicinavamo a parlare tra di noi, da soli.
“Io lo conosco molto bene, Thomas.”, incominciò la Papessa, portandosi il cucchiaio alle labbra. “Manca un po’ di sale.”
“Eppure a me è sempre sembrato un uomo sveglio.”, dissi, volutamente giocando sulla sovrapposizione di pensieri della mia amica.
La Papessa alzò gli occhi al cielo, sorridendo. “Thomas è una persona che, come te, ha sofferto. Sai com’è finita con…”
Alzai una mano, imponendole di non pronunciare quel nome.
“… mia sorella. Per questa ragione, sono convinta che quel bacio non significhi nulla, per lui. Forse nemmeno per Chloe significa qualcosa.”
Avevo sopportato tanto. Troppo, forse. Mi chiesi se potessi sopportare anche una cosa del genere, ma non seppi darmi una risposta.
Una sensazione poco nota di rabbia mi fiorì nel petto, e lo riempì come un’erbaccia, soffocando i germogli di pazienza che crescevano faticosamente in quel terreno duro, inospitale; non sono una santa. Posso essere passata per una donna pia in più occasioni, addirittura instillando il dubbio che potessi essere meno umana degli altri; meno corruttibile e quindi più manipolabile, come se la mia anima fosse fatta di gommapiuma.
Sentii la rabbia pungermi la pelle, da dentro: cercava di grattare con l’unghia nel punto più deperibile della mia corazza per aprirsi uno spiraglio, e riversarsi fuori come lava bollente dalle fauci dei vulcani.
La Papessa inspirò di nuovo; poi, come se all’improvviso qualcosa l’avesse privata della capacità di sostenere il mio sguardo, tornò a osservare la carne. “Ti spiace apparecchiare?”, mi chiese.
Appoggiai la sigaretta nel posacenere e mi accinsi a stendere la tovaglia sul grande tavolo di legno massiccio, posizionato al centro della cucina.
Fuori dalla finestra, il cielo venne squarciato da un fulmine, il cui riverbero elettrico  nell’aria mi fece trasalire, inquieta com’ero. Mi è sempre piaciuto credere nei segni del destino; dunque fu facile convincermi che quella fosse la volta buona per smetterla di tenermi tutto dentro.
Presi il coraggio a due mani. “Sono incazzata nera.”
La Papessa si voltò, e nel farlo le sue gonne e i suoi capelli si avvitarono intorno a lei come se dotati di vita propria.
“Sono incazzata nera perché è venuta in casa mia, e dal primo momento mi ha squadrata dall’alto in basso come se fossi una sorta di troia biblica che uggiola dietro al suo uomo per avere una carezza; roba che se potesse si farebbe scopare da lui su questo tavolo pur di rimarcare il concetto che ormai lui è suo, e che non ho alcuna speranza, lo farebbe.”, sputai, aggressiva e ferita. Mi tremava il petto; era stupito almeno quanto la mia amica da quell’accesso di ira a cui non era decisamente abituato. “Mi tratta come se ci stessi effettivamente provando con lui, cosa che non sto facendo. E cade tra le braccia di Thomas, del mio Thomas, appena ha l’occasione di starci da sola?”
La Papessa tolse la padella dal fuoco e mi prese tra le sue braccia, baciandomi i capelli come mia madre non aveva mai fatto. Tremavo, cercando di costringere le mie ossa a reggere il peso di quel torto, di quella cattiveria ingiustificata. Non riuscivo a capire più nulla, e provavo un senso di violazione probabilmente irragionevole. Come se fossero entrati i ladri in casa mentre dormivo: mi sembrava che un angolo sacro dentro di me fosse stato profanato, un luogo che avrebbe dovuto essere stato sicuro e che ora non lo era più. Mi guardai intorno, smarrita, senza riuscire più  a riconoscere quelle mura come mie.
Mi concessi di piangere due lacrime, una per occhio, che caddero sulla blusa a fiori della Papessa.
Poi mi staccai.
La mia amica mi accarezzò il volto, e io benedissi l’incredibile, inumano buonsenso che le impedì di sprecarsi in inutili frasi come hai ragione, tesoro, dovete parlarne. Non avevo bisogno di sentirmi dare ragione, avevo bisogno che non mi facesse sentire inopportuna per esprimere quelle emozioni fastidiose, scomode, appuntite come ricci di mare. Le ero grata per essermi stata così leale da avermi raccontato l’accaduto; quanto meno, di non aver fatto una scenata davanti a Chloe e Lucifer, il quale, come è ben noto, non aveva la tempra né la maturità per reagire ad una simile notizia in maniera costruttiva. Forse non l’avevo nemmeno io; ma è per questa ragione che preferivo dare di matto davanti alla Papessa, senza rischiare di passare per la ragazzina immatura che agiva in maniera puerile, incapace di reggere il confronto con la realtà.
Combattendo contro la voglia che avevo di lanciare tutti i piatti contro il muro, finii di apparecchiare il tavolo e mi ritirai nello studio.
 
 
 
But she’s a black magic woman
And she’s trying to make a devil out of me
(Fleetwood Mac)
 
 
 
“Toc toc?”
Alzai gli occhi dai fogli che avevo sparpagliati sul piano di lavoro, e li rivolsi alla figura che era comparsa sulla soglia: Lucifer aveva le guance arrossate per il freddo. Erano stati a zonzo per Londra tutto il giorno.
A vederlo, sentii la gola contorcersi come un serpente: era troppo felice, troppo sorridente. Ne dedussi che di conseguenza Chloe non gli aveva detto nulla. Caddi nel baratro della preoccupazione di farmi sfuggire qualcosa.
“Avanti.”, risposi, stornando lo sguardo sul computer; stavo revisionando il lavoro di una tesista di Thomas sull’estetica medievale. Lavoravo come sua assistente, in quel periodo, perché poteva sbrigare da casa senza rischiare di sollevare scandali in università – i pettegolezzi volano oltreoceano più veloci dei Boeing 747.
Lucifer si sedette sulla scrivania, incurante delle fotocopie e dei fogli che vennero schiacciati. “Come stai?”
“Benone.”, dissi io, sarcastica; lui tuttavia non colse.
“Che fai?”
“Lavoro.”
“Su che cosa? Vieni a farti un whiskey?”
“Per carità.”
Lucifer sbuffò, guardandosi intorno con fare annoiato. Scossi la testa, tornando a leggere sullo schermo.
“Thomas arriverà a momenti; la Papessa sta preparando.”, dissi, monocorde.
“Siamo andati sul London Eye.”, esclamò Lucifer, sistemando i polsini della camicia.
“Grande.”, risposi io. Volevo che se ne andasse; volevo che mi lasciasse sola con i miei pensieri, i miei appunti, i maledetti errori di ortografia di questa capra di ragazza che aveva scritto la tesi. La loro presenza, dico sua e di Chloe, mi risultò improvvisamente insopportabile. Erano a Londra da meno di quarantotto ore e già mi avevano dato di che pensare per sei mesi.
Gli lanciai uno sguardo eloquente – o almeno così credevo: lui imperterrito prese a raccontarmi di quanto si fossero divertiti a girovagare per Camden Town e Soho, di quanto gli piacesse Londra, di quanto Chloe avesse battuto i denti per il freddo. Quel nome mi ferì le orecchie come un rasoio, e mi morsi un labbro.
“Lucifer.”, sbottai ad un certo punto, chiudendo gli occhi.
“Sì?”
“Forse la Papessa ha bisogno di una mano con il puré.”, inventai, pur di togliermelo di mezzo.
“La sta aiutando Chloe.”
“Allora forse ha bisogno che stappi la bottiglia. Il Chianti deve respirare prima di essere bevuto.”, continuai.
Lucifer mi ignorò completamente; al contrario, pinzò uno dei fogli e lo lesse ad alta voce.
“Kao… Kalo… Kakokagathia... che vuol dire?", chiese.
Io mi massaggiai le tempie con gli indici, recuperando una pazienza che non seppi dire con esattezza da dove provenisse.
“Kalokagathia.”
“E che è?”
“Significa ‘ciò che è buono è bello, e ciò che è bello è buono’.”
Lucifer mi guardò, incitandomi a spiegare.
“E’ l’ideale di bellezza e perfezione morale. Nel medioevo solo quello che si considerava buono era bello. Non esisteva la concezione di bellezza senza il bene,  senza Dio.”, esplicai, incrociando le dita davanti al naso. Mi venne in mente che era un gesto che faceva sempre anche Thomas a lezione, e il pensiero mi acquietò l’animo per poco. Finché.
“Non sono d'accordo.”, fece Lucifer.
Alzai un sopracciglio. “Come sarebbe a dire non sono d'accordo?”, chiesi di rimando, preparandomi psicologicamente alla cazzata con cui ero certa avrebbe esordito di lì a poco.
“Non è vera, questa cosa del caipiroska.”
“Kalokagathia.”
“Fa lo stesso. Se ciò che è bello è buono e ciò che è buono è bello... perché io, che sono il male incarnato, il Caduto, l’Avversario, ciò che è corrotto, putrido e disdicevole… sono uno schianto?”
“Fuori di qui.”
 
 
 
 
 
 
There is rust in my mouth,
The stain of an old kiss

 
 
 
 
“E’ permesso?”
Senza alzare gli occhi dalla tastiera, emisi un ringhio di frustrazione che avrebbe messo in fuga un’orda di vichinghi: Thomas, tuttavia, si sistemò gli occhiali con l’indice, spingendoli in su verso la radice del naso, e mi rivolse uno sguardo inespressivo. “Sei di buonumore, vero.”
“Se le tue studentesse conoscessero le basi della morfosintassi sarei più felice.”, dissi io, con una sigaretta tra le labbra.
Thomas rise sommessamente; si avvicinò alla scrivania, mi sfilò la sigaretta e la sostituì con un bacio intenso, umido. Non potei trattenere un brivido, sentendo quelle labbra addosso. E non riuscii nemmeno a esimermi dal guardarlo con gli occhi del dolore e del tradimento.
“Mi sembri una vedova del quindici-diciotto.”
“Un po’ mi ci sento.” dissi, spostando finalmente le dita dai tasti.
Thomas mi rivolse lo sguardo: quello un po’ obliquo, un po’ liquido che mi provava ogni volta che aveva capito prima ancora che parlassi.
Si schiarì la voce; tornò sui suoi passi e chiuse la porta dello studio.
Thomas si voltò, le mani sepolte nelle tasche: c’era due, tre metri di distanza fra noi. Una voragine.
“Mi vuoi chiedere qualcosa?”, chiese, avanzando un passo.
“Se non ti conoscessi meglio, avrei quasi il dubbio che tu voglia piantarmi un coltello nel petto.”, scherzai io, più per allentare la mia tensione che la sua.
Lui sorrise e si grattò un angolo della bocca. “Scherzi, sarebbe un casino pulire tutto quanto, dopo.”
Aveva la camicia sbottonata, gli occhi stanchi, ma sosteneva il mio sguardo in un modo che mi fece quasi innervosire, date le circostanze. Lo avrei preferito un po’ più mortificato, leggermente più contrito.
“Ti ha baciato.”, dissi, incrociando le braccia sul petto.
“Non è una domanda, questa.”
“Perché gliel’hai permesso?”
“Non lo so.”
Mi lasciai sfuggire una risata leggermente offensiva.
“Mi piace vederti un po’ gelosa.”
“Thomas.”, ribattei ferma, mentre lui si avvicinava alla scrivania. Appoggiò le mani sul piano, squadrandomi.  “Li sai, i trascorsi che ci sono tra me e loro.”
“Oh, fidati. Li ricordo molto bene.”
Allungò una mano a sfiorarmi una guancia. Mi si mescolarono i pensieri nel cervello come in un frullatore, e mi fu impossibile parlare per qualche secondo. Mi ripresi. “Ecco. Allora perché non gliel’hai impedito?”
“L’ho baciata, è vero.”, continuò lui, e l’acredine di quelle parole era così dissonante con il tocco dolce delle sue dita che persi contatto con la realtà e socchiusi gli occhi. Povera Molly, pensò la voce della ragione nel mio cervello; povera bambina che ha mischiato troppe volte il dolore con il piacere, e ora non può avere l’uno senza l’altro.
Thomas circumnavigò la scrivania, inginocchiandosi davanti a me con gli avambracci appoggiati sulle mie ginocchia: lo maledissi per essere sempre così composto, così ordinato anche nel caos più totale.
“Mi dispiace che ti abbia fatto soffrire. Però spero tu ti renda conto che c’è una bella differenza tra i baci che do a te e quello lì.”
“Non è questione di baci. I baci contano fino ad un certo punto.” Sospirai. “E’ che le hai permesso di oltrepassare un limite. Un confine che non doveva nemmeno sognarsi di sfidare. Lo sa come ero ridotta. Lo sa che se non ci fossi stato tu, probabilmente non mi sarei mai ripresa. Non sarei stata in grado di rimettere insieme i pezzi senza di te, Tommy.”
“Ti sottovaluti. Vieni qui.”, mi disse, alzandosi in piedi. Mi alzai di scatto e mi incastrai tra le sue braccia così intensamente che pensai che le nostre costole si fossero intrecciate come gli anelli di una catena. Inspirai a fondo il suo odore e mi calmai quanto bastava per convincermi che sarebbe andato tutto bene.
“Ciò che provo per te, bambina,”, incominciò lui, “è qualcosa che non so nemmeno spiegare a parole.”
“Provaci.”
“E’ un bisogno del tutto egoistico e assolutamente malsano di averti addosso, costantemente; di sentirti nel mio letto, sapere che se allungo una mano incontro la tua pelle avvolta nelle lenzuola, di notte. Lo so che tu non sei una monade indivisibile che mi appartiene. Lo so che non posso averti tutta per me, e so anche che il tuo cuore è tuo, e lo puoi spezzettare e dividere con chi vuoi. Però io sono un vecchio geloso e possessivo, e mi manda in bestia l’idea che tu sia così affezionata a quel cascamorto. Rischio seriamente di prendere a testate il muro se per caso mi ricordo che ti ha messo le mani addosso.”
“E sapeva anche dove metterle.”, dissi io, ridendo contro il suo petto.
“Ti prego, Molly, è la volta buona che mi viene un infarto.”
In realtà rideva anche lui. Mi posò un bacio leggero sulla testa, poi uno sulla fronte, e infine scese sulle labbra. “Quello che voglio dire è che ho sbagliato a permettere a Chloe di baciarmi. Avrei dovuto fermarla subito.”
“Già, avresti dovuto.”
“Scusami.”
“Mh.”
Alzo gli occhi della mia anima verso di te, perché tu liberi dal laccio i miei piedi. E tu me ne liberi spesso poiché spesso si lasciano imprigionare, tu non smetti di scioglierli mentre io continuo a cadere nelle insidie sparse ovunque, perché non dormirai, tu che custodisci Israele.”
“Stai cercando di irretirmi citando Agostino d’Ippona?”, chiesi, alzando lo sguardo verso di lui.
“Forse.”
“Non sono più una studentessa da conquistare.”, risposi, e mi allungai per lasciare un bacio lungo sulla sua bocca.
“Sarai sempre la studentessa da conquistare.”, disse lui, prendendomi il viso tra le mani. Gli passai le dita sulla schiena, graffiandolo dolcemente attraverso la stoffa, colta dall’improvviso desiderio di sentirmi di nuovo sua. Giusto per ricordargli lo stato delle cose attuali.
Mi sospinse gentilmente contro il muro, mentre io facevo saltare i bottoni della sua camicia. Istantaneamente, quel gesto gli cambiò colore agli occhi; si tinsero di un grigio plumbeo, cangiante.
“Certo che se le donne le guardi così, io non posso darle torto più di tanto…”, mi lasciai sfuggire, mentre mi facevo sfilare il maglione. La sensazione della sua pelle contro la mia mi costellò la pelle di brividi; qualcosa a cui non mi sarei mai del tutto abituata, grazie al cielo.
“Ma si può che ogni volta che vi vengo a cercare state per scopare?”
Thomas appoggiò la fronte sulla mia, reprimendo una serie di improperi dietro ai denti, mentre io scoppiavo a ridere.
“Si fredda il puré.”, disse la Papessa, puntando i pugni suoi fianchi.
“Al Diavolo, il puré.”, rispose Thomas, girandosi verso di lei.
“Credo che gli piaccia, in effetti.”, feci io, continuando imperterrita ad estrarre simili battute dal mio archivio. Thomas mi guardò con un sopracciglio sollevato; io gli feci segno di riallacciarsi i pantaloni.
La Papessa non era una sprovveduta, ma certo era una donna di pudore, come voleva il soprannome, e alzò un sopracciglio alla vista del deshabillé di Thomas.
“Scostumati. Ai miei tempi si aspettava fino al matrimonio.”, continuò la Papessa, fingendo un basimento vittoriano.
“Le regole sono leggermente cambiate, rispetto al 1893.”, feci io, indossando con nonchalance il maglione.
Thomas mi accarezzò dolcemente il viso. “Magari finiamo la cena tranquillamente, andiamo in salotto a farci un brandy e ne parliamo come adulti, okay?”
Annuii, sorridendogli. Scendemmo al piano di sotto ingarbugliati in un abbraccio.
 
 
 
Goodbye stranger
it's been nice
Hope you find your

paradise
Tried to see your

point of view
Hope your dreams will

all come true
(Supertramp, Goodbye Stranger)
 
 
 
Non lo vedemmo con precisione: come una stella cadente.
Fu molto veloce.
Non facemmo in tempo a mettere piede in cucina; successe e basta.
Un brusco movimento, il rumore secco, inconfondibile, di ossa su ossa, di carne contusa. Un rumore vecchio come il mondo, e tuttavia sempre spaventoso.
La Papessa fece cadere la ciotola di puré sul pavimento.
Un attimo dopo, il naso di Thomas perdeva sangue come da un rubinetto aperto. Si tamponò col il dorso della mano; osservò la macchia rossa, rosso fragola. Era una fascio di nervi tesi per la rabbia.
Feci per trattenerlo, poggiandogli una mano sull’avambraccio: si scostò bruscamente, e io mi ritrassi come se mi avesse passato la scossa.
Calò un silenzio da obitorio che mi raggelò il sangue e riempì le nostre orecchie del rimbombo dell’aspettativa.
Con il suo solito aplomb, Thomas alzò gli occhi verso Lucifer, che scuoteva il pugno,
le nocche indolenzite.
“Che cazzo?”, chiese, secco e preciso come il taglio di un rasoio.
Chloe era diventata più bianca del muro, gli occhi spalancati e grandi come due piattini da dolce.
Io ero impietrita. Mi sentivo i piedi affondare come se il pavimento della cucina si fosse istantaneamente trasformato in cemento fresco.
“Così impari.”, fece Lucifer, agguantando un tovagliolo per pulirsi. “Stronzo.”
 
 
 
 


 
 
 
(per un effetto ancora più tragicomico, consiglio di ri-leggere il capitolo ascoltando Goodbye Stranger dei Supertramp. Spero che non ce l’abbiano con me per aver manipolato il titolo di questa canzone a mio uso e piacimento.)
Signori, la rissa è servita.
Con affetto,
Yunomi.
   
 
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