I
L'essere
non aveva nome. Non c’era
nessuno, nel suo mondo, che potesse dargliene uno. In ogni caso, il suo
cervello non sarebbe stato capace di comprenderne il significato. Lui
era,
semplicemente, se stesso. Un cacciatore. Respirava, si muoveva,
cacciava,
uccideva, mangiava, beveva, espletava i suoi bisogni, dormiva e, quando
era la
stagione giusta e il Grande Cerchio Azzurro si trovava nella parte
appropriata del
cielo, cercava una compagna per riprodursi. Questo era tutto
ciò che sapeva, e
questo gli bastava.
In
quel momento la sua necessità più
immediata era nutrirsi: l’oscurità era calata tre
volte dalla sua ultima preda,
perciò tutti i suoi sensi erano concentrati sulla caccia.
Avvertiva ogni
movimento dell’aria, la vegetazione bassa che schiacciava con
le sue otto
zampe, l’odore umido del sottobosco. I suoi cinque occhi, uno
dei quali era
posto dietro la testa, gli fornivano un’ottima vista, ma la
sua arma migliore
era l’olfatto: poteva individuare qualsiasi essere
commestibile a distanze
enormi. Quando sentiva qualcosa che la sua rudimentale memoria
identificava
come un potenziale pasto, si avvicinava a esso come un fantasma,
aiutato dal
corto e ispido pelame che si confondeva con l’ambiente. Una
volta giunto ad una
distanza sufficientemente ridotta, sarebbe stato compito dei suoi
potenti
artigli e dei denti lunghi e affilati procurargli il cibo.
Così si comportava
da quando era nato, e non concepiva nessun motivo per cambiare.
Quel
giorno però sarebbe stato diverso
dagli altri.
Dapprima
avvertì uno strano movimento
nell’aria: i suoi acutissimi sensi percepirono un insolito
vento, dapprima
leggerissimo, poi sempre più intenso, come se qualcosa di
molto grande si
stesse muovendo nel cielo. Poi sentì un odore insolito,
qualcosa che la sua
esperienza non era in grado di riconoscere: era molto intenso, e
sembrava
venire dall’alto, da sopra gli alberi. La sua limitata
capacità di elaborazione
gli suggerì, come confronto, un incendio: era come se
qualcosa stesse bruciando
nell’aria, ma non era in grado in alcun modo di capire cosa.
Infine, i suoi
involuti padiglioni auricolari captarono un rumore, prima lieve, poi
sempre più
potente, una sorta di rombo. Gli ricordava una mandria di animali in
carica,
solo enormemente superiore in potenza. Il suo istinto era in preda alla
confusione più totale di fronte a qualcosa di mai accaduto
prima, incapace di
prendere una decisone sul da farsi. Quando però il terreno
iniziò a tremare, la
scelta fu immediata: “fuga”. Non poteva lottare
contro qualcosa che non aveva
zanne, artigli, un corpo. Contro gli strani eventi che coinvolgevano
tutto il
suo ambiente, la sola soluzione era scappare.
Si
lanciò in uno sfrenato galoppo,
spezzando le piante ed evitando gli enormi alberi all’ultimo
secondo. Le otto
zampe e la spina dorsale estremamente snodabile gli permettevano
movimenti
molto aggraziati. Corse finché la foresta non
iniziò a diradarsi, per poi
aprirsi in una radura. A quel punto la creatura si bloccò,
impietrita. Nel
cielo vide qualcosa di troppo assurdo per la sua mente. Un enorme
animale
fluttuava nell’aria, apparentemente a una grande altezza;
nonostante la distanza,
però, era talmente immenso da coprire parzialmente il Grande
Cerchio, la cui
luce azzurra luccicava sulla sua stranissima pelle con riflessi di
bizzarri
colori. Sia il rombo che lo strano odore provenivano dall'essere
gigantesco. La
creatura rimase bloccata: nel suo mondo, che aveva imparato a conoscere
da
quando era nata, non c’era posto per un animale volante di
simili dimensioni.
Si lasciò comunque guidare dal suo primitivo cervello, che
cercò di
classificarlo nei modi che conosceva: era evidentemente troppo grande
per
essere una preda, e lo era più che a sufficienza per essere
un pericolo; la
reazione, quindi, poteva essere una sola.
La
creatura fuggì nella foresta alla
massima velocità possibile.
«Vai
pure, amico, e ti auguro una buona
giornata! - ghignò il comandante in seconda Brent, vedendo
la scena sul monitor
- Scusaci per il disturbo!».
«Con
chi sta parlando, Erik?» chiese un
uomo in piedi alle sue spalle; sembrava più vicino ai
cinquanta che ai
quaranta, ma il suo corpo non avrebbe sfigurato in un uomo di trenta; i
capelli
neri, ormai venati di grigio, erano tagliati corti, così
come la folta barba.
Indossava un’uniforme azzurra, con i gradi di ufficiale. Non
c’erano bandiere,
ma sul braccio destro era disegnato uno strano simbolo: una stilizzata
mappa
della Terra incorniciata da ramoscelli di ulivo.
«Con
un esemplare della fauna locale,
comandante - rispose Brent, che, con il suo metro e novanta, le spalle
larghe e
i capelli rossi, sembrava un vichingo - Promette bene, direi: pelame
scuro,
otto zampe e, se ho visto bene, almeno quattro occhi!
«Decisamente
non siamo più in Kansas,
Erik» borbottò il comandante, citando
“Il Mago di Oz”.
Il
capitano di vascello William Farris
fece scorrere il suo sguardo sugli altri dodici uomini che occupavano
la
plancia di comando della Columbus,
ciascuno intento al proprio compito. Tutti, incluso il comandante in
seconda,
indossavano la divisa azzurra delle Forze Spaziali dell’ONU.
Rivolgendosi
a un giovane orientale
seduto dietro un computer, il capitano chiese: «Tenente
Nakadawa, mi conferma
la mancanza di trasmissioni radio?».
«Signorsì,
comandante - rispose
l’ufficiale - Tutto lo spettro delle frequenze è
vuoto».
Un
altro membro del gruppo di comando,
un giovane dai lineamenti ispanici, si aggiunse alla conversazione:
«I droni da
ricognizione confermano le osservazioni precedenti: nessuna
città, nessuna
strada, nessun segno di civiltà. Flora e fauna sembrano
abbondanti, ma nessuna
forma di vita intelligente.
«Tenente
Motabe, ha effettuato lo
scanning dell’atmosfera?».
Un
uomo di colore basso e magrissimo si
voltò e rispose: «Signornò, ma i
rapporti delle sonde automatiche dicono che è
perfettamente respirabile».
«Lo
so, ma faccia ugualmente una nuova
scansione. Non intendo scendere al suolo senza essere sicuro di non
soffocare.
Mentre
l’altro ufficiale, leggermente
contrito, iniziava a muovere le mani sullo schermo del suo terminale,
Brent si
lasciò andare a un sorriso: il comandante Farris era il
migliore su cui l’ONU
potesse contare, ma alcune volte era veramente pignolo. In quel caso,
però,
poteva capirlo: non potevano permettersi alcun errore, dopo il
lunghissimo
viaggio che avevano fatto e tutto ciò che lo aveva preceduto.
Erano
partiti dalla Terra nel 2177, sei
anni prima, ma dall’inizio dell’operazione era
passato addirittura un quarto di
secolo. Era infatti il 2148 quando una sonda dell’ONU aveva
individuato, a
sessantadue anni luce dal sistema solare, in orbita attorno ad una
stella
azzurra, un pianeta delle dimensioni di Marte, ma con caratteristiche
incredibilmente simili alla Terra: atmosfera perfettamente respirabile,
con una
percentuale di ossigeno di poco superiore a quella terrestre, una
gravità di
pochissimo inferiore, abbondante acqua allo stato liquido, un
sottosuolo dotato
di forze tettoniche attive. Una sorta di fratello minore del pianeta
d’origine
dell’umanità. Era una scoperta incredibile: dal
2124, anno d’inizio del
programma di esplorazione interplanetaria voluto e guidato
dall’ONU in seguito
all’invenzione, dieci anni prima, dei motori spaziali
iperluce, era il primo
pianeta scoperto con caratteristiche tanto adatte a sostenere la vita
umana. La
successiva esplorazione si era rivelata altrettanto esaltante: buona
parte
della superficie del pianeta, illuminato da una intensa luce azzurra,
era
occupata da un immenso oceano, interrotto da tre grandi isole
più o meno delle
dimensioni dell’Australia e da oltre cento più
piccole. C’era abbondanza di
vita, favorita da un clima costantemente tropicale, e non solo
microscopica:
erano moltissime le specie vegetali e animali, abitanti sia nel mare
che sulla
terra ferma. L’esplorazione aveva rivelato, inoltre, che il
pianeta era
estremamente ricco anche dal punto di vista
“economico”: sotto i fondali
oceanici c’erano grandi depositi di idrocarburi, e le
montagne delle isole
maggiori erano ricche di carbone, uranio, ferro, rame, oro, e molti
altri
minerali, inclusi alcuni preziosissimi metalli superconduttori. Il nome
“Elisyan”, il paradiso delle civiltà
classiche, sembrò il più azzeccato. Il
solo problema era la distanza: anche con i migliori motori che la
tecnologia
era in grado di produrre, un’astronave con equipaggio avrebbe
impiegato almeno
sei anni per arrivarvi. Un’accelerazione maggiore sarebbe
stata insostenibile
per un organismo umano. Perciò, solo dopo diversi anni di
esplorazioni con
veloci sonde senza equipaggio e rover automatici era stata organizzata
la
spedizione vera e propria. La Columbus
era una nave enorme, a forma di fuso; pur essendo costruita con molte
delle
caratteristiche di una nave da guerra, era in realtà
disarmata. A bordo
l’equipaggio, proveniente da ogni parte del mondo, era
interamente costituito
da membri della Forza di Interposizione e Pacificazione delle Nazioni
Unite, il
braccio militare dell’ONU; ai suoi quasi cento membri, sia
uomini che donne, si
aggiungevano un'altra cinquantina di militari delle forze di terra e
circa un
centinaio tra tecnici, ingegneri, botanici e scienziati di ogni tipo.
Non erano
però loro il motivo delle immense dimensioni della Columbus: essa, infatti, oltre a
un’enorme quantità di materiali,
portava anche molti passeggeri. Erano oltre novecento, ed erano tutti
civili,
in massima parte famiglie. Considerando i nati e i morti durante il
lungo
viaggio, c’erano quarantotto persone in più
rispetto alla partenza. Erano loro la
vera ragione del viaggio. Quella, infatti, non era una semplice
esplorazione,
non era una spedizione scientifica; Erik lo sapeva bene, il Segretario
Generale
dell’ONU aveva fatto a lui e agli altri membri
dell’equipaggio un lungo
discorso per spiegare l’importanza di quel viaggio. Loro
erano la Colonia AA-001,
o meglio, lo sarebbero diventati non appena fosse stato costruito un
insediamento stabile su Elysian. Sarebbero stati la prima
comunità umana a
vivere sotto un sole diverso da quello natale.
Dopo
un paio di minuti di lavoro, Motabe
si voltò e disse sorridendo: «Scansione
effettuata, comandante. Corrisponde a
quelle effettuate dalle sonde. L’aria è
perfettamente respirabile».
«Guardiamarina
Park, mi conferma che questo
è il posto previsto per l’atterraggio?».
Una
bella donna orientale sui
trent’anni rispose: «Signorsì. Griglia
dodici, quadrante C. Una radura priva di
alberi e dal terreno sufficientemente solido per sostenere il peso
della nave.
Il
volto di Farris si aprì finalmentein
un sorriso: «Bene, allora diamo alla gente la buona notizia.
La aspettano da
tanto, non facciamoli attendere ancora.
Il
capitano prese il microfono del
sistema di comunicazione interno, regolò
l’impianto, poi disse: «Attenzione,
qui è il capitano William Farris che parla a tutti gli
uomini e le donne a
bordo dell’astronave Columbus».
La
voce del comandante risuonò in tutti
i corridoi della nave, dalla mensa al vano motori; tutti i membri
dell’equipaggio cessarono le loro attività per
ascoltarla. Nella stanza
pesantemente blindata adibita a quello scopo, i soldati del corpo di
guardia
interruppero il loro addestramento. Arrivò anche nella parte
più ampia della
nave, attigua alla stiva di carico, che aveva il nome ufficiale di Area
di Permanenza
Prolungata, familiarmente chiamata Esperance Town. Era la zona dove
vivevano,
fin dalla partenza, le famiglie dei civili. Era stata attrezzata come
una vera
città: aveva bar, ristoranti, un cinema, perfino una scuola,
dove alcuni
insegnanti tenevano corsi dall’asilo fino
all’università. Era una vera comunità
in viaggio nello spazio. Tutte le persone presenti alzarono la testa,
sperando
di sentire il messaggio che attendevano da tanto, troppo tempo.
«Siamo
in viaggio ormai da sei anni,
tre mesi, quindici giorni e sette ore - proseguì il capitano
- E’ un tempo
lunghissimo. Quindi mi sembra molto strano essere qui a dirvi che
dovete
radunare le vostre cose il più in fretta possibile. Tra
venti minuti il Columbus si
poserà sul pianeta Elysian.
Siamo arrivati!».
I
microfoni posti in tutte le parti
della nave rischiarono di esplodere, ma riuscirono a trasmettere alla
plancia
di comando il boato di gioia che attraversò tutte le oltre
mille persone a
bordo, militari, membri dell’equipaggio e civili. Alcuni si
misero a ballare e
saltare, altri scoppiarono in lacrime di gioia, altri ancora si
limitarono a
ringraziare il proprio Dio, qualunque esso fosse. L’atmosfera
di festa si
trasmise anche alla plancia, con gli ufficiali che ridevano, si
stringevano le
mani e si davano pacche sulle spalle. Il sottotenente Wosper,
sovrintendente
alla manutenzione, arrivò addirittura ad imitare la famosa
foto del soldato con
l’infermiera, baciando con passione una stupefatta ma
sorridente Park.
Il
comandante in seconda, trattenendo a
stento la felicità, si avvicinò a Farris:
«Congratulazioni, comandante. Si è
guadagnato un posto nei libri di storia. Ora dovrà pensare
ad una bella frase
epocale da pronunciare quando scenderemo a terra».
La
risposta del capitano non si fece
attendere: «Quando sbarcò sulla Luna, Neil
Armstrong disse che quello era “Un
piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per
l’umanità”. In confronto a
questo, era minuscolo - il volto dell’ufficiale si
aprì in un sorriso di gioia
- Credo che dirò semplicemente: “Benvenuti a
casa!”».