Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |       
Autore: Acinorev    18/02/2021    0 recensioni
Missing moment ambientato dopo la fine di "High Hopes".
Dal testo:
"Il letto accanto a lei era vuoto e per un attimo, un solo fuggevole attimo, Emma pensò semplicemente che Harry doveva essersi già alzato per andare a lavoro come tante altre mattine. Ma le lenzuola erano ben stirate nella sua parte di materasso, fredde e solitarie: le suggerirono che quella non era una mattina normale.
Emma si alzò ed andò in salotto: lo trovò vuoto.
Harry non c’era."
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Little girl'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Buonasera a tutti!!
È da anni che annuncio l'uscita di questo missing moment, ma il mio testardo blocco dello scrittore mi ha sempre messo i bastoni tra le ruote. Per cui sono anni che scrivo e riscrivo nella mia testa queste vicende, rischiando di perdere il senno.
Finalmente qualche giorno fa mi è tornata inspiegabilmente l'ispirazione e ho iniziato a scrivere, come quando ai bei vecchi tempi saltavo i pasti pur di non perdere il filo del capitolo.
Questo missing moment fa parte della storia di Emma ed Harry, direi che è risolutivo per certi aspetti della loro coppia. È ambientato a poco più di un anno dalla fine di "High Hopes". Inizialmente doveva essere una one-shot, ma la cosa mi è sfuggita di mano e si è allungata a dismisura, per cui ho dovuto dividere il testo in due parti (sempre che non ne esca una terza!): essendo troppo impaziente, ho deciso di iniziare a pubblicare la prima parte, mentre continuo a lavorare sulla seconda!!
Spero davvero possa piacervi. Sarò felicissima di qualsiasi commento vorrete lasciare, sia in positivo sia in negativo.
Un abbraccio e buona lettura!

PS. come ho consigliato anche su Wattpad: brace yourself!!

 

 

18 aprile 2018
10:43 pm
 
«Ammettilo…»
Harry fece scivolare quella parola appena sussurrata tra le scapole nude di Emma, afferrando i suoi fianchi impazienti con malizia. «Avevo ragione» concluse, baciandole la pelle.
Emma non poteva vederlo, alle proprie spalle, ma era sicura stesse sorridendo. Lei fece lo stesso, inarcando appena la schiena. «No.»
«Testarda.»
Avrebbe voluto rispondergli sfacciatamente, ma alla sua bocca sfuggì solo un gemito privo di pudore: Harry aveva spinto il bacino contro di lei, coprendole il seno con le mani audaci. Voleva farle percepire la propria eccitazione: una dispettosa minaccia ed un passionale invito.
Emma chiuse gli occhi e si morse un labbro, muovendosi lentamente in sintonia con il suo corpo in un chiaro assaggio di ciò che entrambi stavano aspettando ed allo stesso tempo ritardando. Ringraziò il letto sotto le loro ginocchia, ad impedirle di cedere. «Se credi che questo basti a farmi cambiare idea…» scherzò provocatoria.
Lui sorrise sul suo collo, per poi lambirle il lobo di un orecchio. «Non c’è bisogno di farti cambiare idea» replicò, portando una mano tra le cosce di Emma e facendola sussultare per il desiderio. «Il modo in cui hai svaligiato tutte le loro scorte di sushi parla da sé.»
Emma era distratta dalle mani di Harry, intente a percorrere il suo corpo con lascivia, a soffermarsi sui suoi punti più sensibili e a tormentarla. «Non ho mai detto che non sia un buon ristorante giapponese» spiegò dopo qualche secondo, troppo impegnata a tenere a bada gli istinti più accesi e a riordinare i pensieri offuscati. «Solo che non è il migliore della città.»
«Infatti è il migliore dell’intera contea» ribatté lui, incapace di abbandonare la sottile disputa nata dalla cena conclusasi solo poco prima: avevano impiegato diverso tempo a scegliere il ristorante giusto e nessuno dei due aveva ancora deposto le proprie preferenze. Entrambi, sicuramente, non si dispiacevano affatto di cosa avrebbe comportato. «O persino dell’intera regione.»
Emma non rispose, reclinò il capo all’indietro e lasciò che Harry le baciasse la mandibola. «Stai parlando troppo» mormorò, percependo il proprio autocontrollo scemare inevitabilmente.
Harry non si fece ripetere due volte quelle parole, che più di un rimprovero sapevano di preghiera: entrò in lei con decisione e consapevolezza. Le circondò l’addome con le braccia nascondendo il viso sulla sua schiena e solleticandole la pelle con i capelli corti. Emma trattenne il fiato per pochi istanti, accogliendo l’unione che tanto aveva agognato ed assecondando i movimenti ritmici di Harry.
Doveva ancora abituarsi a percepire Harry dentro di sé senza alcuna barriera a separarli, ma non credeva ci sarebbe mai riuscita: era una sensazione della quale non si capacitava e che l’aveva fatta letteralmente tremare quando per la prima volta l’aveva conosciuta. Sentiva che non avrebbero potuto sperimentare oltre, sapersi più vicini, che un tale piacere non poteva essere sostituito o raggiunto in nessun altro caso.
Abbandonata ad una intimità ormai indiscutibile, gemette senza vergognarsene ed ansimò quando Harry rispose con una reazione simile, accelerando le sue spinte e rendendo più profondo il loro contatto. Allungò una mano all’indietro per raggiungere i capelli di Harry e stringerli in un pugno, mentre lui cercava la sua bocca per baciarla sfacciatamente.
Emma era sopraffatta, si sentiva in una prigione di piacere che, se da un lato la soffocava per la passione che non riusciva a contenere, dall’altro le faceva implorare di averne ancora.
«Ammettilo» ripeté Harry con la voce mozzata, probabilmente intento a non perdere completamente la propria lucidità.
Incredula per la sua perseveranza, Emma gli tirò appena i capelli mentre lui le stringeva possessivamente i fianchi. Preferì ribattere senza pronunciare nemmeno una parola: portò le mani sulle sue e si allontanò appena dal suo bacino, mordendosi un labbro per quella spiacevole ma necessaria interruzione. Si voltò a guardare Harry, che ansimando la stava osservando con un cipiglio confuso ed infastidito sul volto: continuò a tenere in ostaggio i suoi occhi e con una lentezza disarmante per entrambi andò di nuovo incontro all’erezione di Harry. Si occupò lei di dettare il ritmo e la velocità dei movimenti, di ristabilire le priorità e di rimettere al suo posto l’orgoglio così simile al proprio con il quale conviveva da anni.
Harry gemette più forte, restando inerme ed arrendendosi a lei in modo piuttosto mite: si sedette sulle proprie ginocchia ed Emma lo seguì, frastornata dalla posizione diversa ed appagante. Continuando ad ondeggiare sul suo bacino, si concentrò sul piacere che Harry le stava donando sfiorando i suoi punti più sensibili.
«Ammettilo.»
Emma si ribellò a quell’ulteriore invito imprimendo maggiore velocità ai propri movimenti: percepì Harry perdere momentaneamente il controllo sulle deliziose sevizie che le stava infliggendo, abbandonarsi appena sul materasso come se il suo corpo avesse accusato un duro colpo alla sua stabilità. Forte di questi dettagli, non si mostrò compassionevole: continuò incessante nel suo tentativo di ammansirlo, accecata dal piacere che sentiva crescere nel basso ventre, e si voltò per cercare la sua bocca, ansimando contro di essa in uno scambio di respiri.
Conosceva ormai alla perfezione qualsiasi reazione che era in grado di provocare in Harry, qualsiasi particolare che poteva far presagire qualcosa o sperare in altro: avere un tale controllo su di lui era inebriante. Per questo non ebbe alcun dubbio su ciò che stava per accadere quando Harry iniziò ad andarle incontro con il bacino in modo confuso, aggrappandosi ai suoi fianchi senza smettere di sfiorarle le labbra. «Vieni» gli sussurrò guardandolo negli occhi, in un imperativo che non lasciava scampo.
In quel gioco di pretese e dispetti che era la loro relazione e che si rifletteva anche nei momenti più intimi, non era mai chiaro se il cedere di uno fosse una disfatta o una gentile concessione all’altro. Nemmeno in quell’istante Emma avrebbe potuto dire con certezza se l’orgasmo totalizzante di Harry fosse una dichiarazione di sconfitta o un dono offertole come una maledizione, ma non se ne preoccupò: accettò senza domande e senza discussioni l’irrigidirsi del corpo che tanto amava, l’accelerare del respiro umido tra le proprie scapole, la sensazione di calore che ne derivò. Si prese persino del tempo per percepire ogni granello di emozione sin nelle ossa, ansimando senza allontanarsi o osare muoversi: non era ancora pronta ad abbandonare Harry, a dover fare i conti con la separazione.
Harry portò una mano sul suo collo, accarezzandolo piano, e camminò con le dita sulla sua mandibola fino a posarsi sulle sue labbra: la invitò a voltarsi e lei lo guardò colma di amore insaziabile, sibillino. Sapeva di doversi aspettare delle piacevoli ripercussioni per il modo in cui l’aveva trascinato nella cieca passione, e non poteva negare di aspettarle con smania: anzi, le provocò consapevolmente ancora una volta. Si avvicinò quanto più poteva alla sua bocca, data la posizione, gli sfiorò il naso e gli respirò sul viso illudendolo di un qualcosa che gli negò subito dopo: «Non lo ammetterò mai» dichiarò a bassa voce, accennando poi un sorriso vittorioso che si allargò quando lui scosse la testa, ancora ansante.
«Sei terribile» rispose lui, rubandole un bacio dispettoso. Con una mano tornò sul suo seno, poi sul suo addome: nessuno aveva intenzione di muoversi, Harry era ancora dentro di lei. «Davvero, davvero terribile» aggiunse, raggiungendo la sua intimità ed iniziando a torturarla sapientemente al fine di portarla là dove lei l’aveva costretto senza pietà solo poco prima.
Emma abbandonò il capo all’indietro e sospirò di piacere, impaziente di concedergli una rivincita ed allo stesso tempo di riscuotere la propria ricompensa. Avrebbe voluto ringraziare Dio per quel momento.
 
 
19 aprile 2018
11:37 am
 
Emma si tamponò il viso con l’asciugamano per eliminare le ultime tracce di umidità sulla sua pelle. Aveva notato con sconforto il disordine che governava i suoi capelli, ancora raccolti nella parvenza di una coda, ma stava tergiversando nel porre rimedio: ciò che più attirava la sua attenzione era la presenza di profonde occhiaie a testimoniare la notte insonne appena trascorsa.
Ma era giusto assegnare meriti e colpe di un tale viso stremato.
Il merito era di Harry, che l’aveva posseduta fino a sfinirla e che si era concesso a lei altrettante volte.
La colpa, invece, era del ristorante giapponese che li aveva ospitati a cena la sera prima. Erano riusciti a raggiungere un accordo, lei ed Harry: l’avevano decretato il miglior ristorante della città, della contea e della regione, ma solo nel causare terrificanti indigestioni. La passione che li aveva uniti per gran parte della notte, infatti, aveva dovuto cedere il posto al nauseabondo vomito e al doversi alternare in bagno per ben altri impellenti bisogni intestinali.
Al solo ricordo Emma sospirò e si lavò nuovamente i denti, arrivando a perdere il conto di quante volte avesse già provveduto a farlo: non riusciva a sbarazzarsi del retrogusto amaro che le era stato imposto da quelle ore di malessere, nonostante l’aroma alla menta del suo dentifricio le pizzicasse la lingua.
Harry entrò nel bagno pochi istanti dopo, ancora assonnato, trascinando i piedi e strofinandosi il volto con le mani, mentre Emma lo seguiva tramite lo specchio appeso alla parete e ne apprezzava il fisico asciutto, la pelle rosea macchiata solo dai boxer che indossava. La abbracciò da dietro, appoggiando il mento sulla sua spalla sinistra e dondolandosi appena nello stringerla a sé. Gli occhi chiusi.
«Buongiorno» mormorò Emma lentamente, godendosi il calore derivante dal loro contatto. Gli si premette appena contro. «A tutti e due» aggiunse, riferendosi a qualcosa che si era svegliato con Harry e che poteva percepire chiaramente tra di loro.
Harry si mosse appena in risposta, alzò le palpebre e cercò il suo sguardo nello specchio. Si inumidì le labbra, nascose il viso contro il suo collo. «Buongiorno» replicò la sua voce roca.
Emma chiuse gli occhi e si concentrò sui lenti baci che lui le stava lasciando dietro l’orecchio. Sentiva il suo respiro sulla pelle e poteva immaginare nei minimi particolari il movimento della bocca dal quale proveniva, poteva ripercorrerne ogni lineamento e saggiarne il gusto senza toccarla. Ne era attratta. Ne era eccitata.
Spontaneamente si alzò sulle punte dei piedi, reclinando appena il capo per permettergli un accesso migliore, per chiedergli in silenzio di non smettere. E mosse il bacino contro di lui, con lentezza e piacere.
«Emma…» la ammonì Harry, tornando a guardarla tramite lo specchio. Aveva ancora le braccia intorno a lei.
Lei si morse un labbro, fingendo una incoerente innocenza. «Sì?»
«Non provocarmi» le consigliò lentamente. «Tua sorella arriverà a momenti.»
Emma portò le mani sulle sue, accarezzandole piano. «Io non ti sto provocando» si difese, senza poter ingannare nessuno. Le sue parole erano una chiara sfida ed Harry ne era tutt’altro che immune.
Senza interrompere il contatto visivo, Harry si avvicinò al suo orecchio. «Ah, no?» Sussurrò, in modo così sensuale da farla rabbrividire.
«No» rispose lei a bassa voce, intenzionalmente incapace di mitigare la passione con la quale stava cercando di contagiarlo.
Sapeva come dimostrare il contrario, sapeva come fargli capire che in quel momento nulla avrebbe ottenuto attenzione ed importanza a discapito del puro desiderio che sentiva crescere esponenzialmente, sapeva come convincerlo a seguirla, sapeva come intrappolarlo costringendolo ad accontentarla, sapeva come fargli credere di averlo fatto spontaneamente e generosamente.
Mentre un teso silenzio li avvolgeva, Emma spostò la propria mano verso il basso: tratteggiò una lenta discesa verso gli slip in cotone che la celavano pudicamente agli occhi voraci di Harry. E lui seguì quei movimenti tramite lo specchio, come rapito, forse incredulo e grato, fino a trattenere il respiro quando la mano di Emma si nascose dietro la stoffa.
Emma percepì la presa di Harry intorno al proprio corpo farsi più debole, ma non meno asfissiante. Per provocarlo ancora, emise un gemito leggero, continuando a darsi piacere sotto il suo sguardo attento. Non dovette aspettare molto per sentire il bacino di Harry iniziare a muoversi contro di sé con lentezza, per sentire la sua erezione crescere e soffrire nel restare intrappolata nei boxer.
Harry cercò il suo sguardo, schiuse le labbra e continuò a guardarla mentre le lasciava un bacio sofferto sulla spalla, mentre cercava di controllare il respiro che si faceva più veloce, mentre cercava di trattenere l’istinto di toccarla oltre sapendo che lei non gliel’avrebbe permesso. Ed Emma assecondava i suoi movimenti, senza interrompere i propri: aveva la gola arida, era accaldata, eccitata. Avrebbe voluto raggiungere Harry e toccare la sua pelle nuda, ma qualcosa le sconsigliava di farlo, promettendole ben altri e più intensi piaceri.
Harry arrivò a baciarle la mandibola, la guancia, spingendosi contro di lei con sempre più ardore ed aggrappandosi ai suoi fianchi con qualcosa di simile alla disperazione. Cercò di baciarla, ma Emma si ritrasse appena, ansante. Lui accettò il dispetto, ma non gli si arrese: le afferrò il viso con una mano e le leccò volgarmente le labbra, respirandole tanto vicino da spingerla a cedere ai suoi istinti e ai suoi sentimenti. Quando fu lei ad avvicinarsi spontaneamente alla sua bocca, accecata dal desiderio e dimentica di ciò che gli aveva imposto pochi secondi prima, Harry lasciò la presa e la guardò tramite lo specchio, per godere della sua rivincita.
Emma si sentì soffocare da una valanga di emozioni, dalla più carnale alla più platonica. Ne fu sopraffatta e per un attimo si sentì debole per l’orgasmo al quale si stava avvicinando: gemette senza trattenersi e si aggrappò al bordo del lavabo per avere un sostegno. Agli occhi di Harry questo dovette sembrare una legittimazione di ciò che anche lui stava provando e trattenendo, perché tenendola per il bacino la fece voltare verso di sé e la sollevò per farla sedere sul lavandino. Le spostò gli slip e si abbassò quanto bastava i boxer, prima di unirsi a lei con un movimento che li fece sospirare entrambi di sollievo e lascivia.
Emma continuava a sorreggersi alla superficie di ceramica, mentre Harry ondeggiava dentro di lei. «Mio Dio…» sussurrò lei, senza nemmeno rendersene conto. Allungò una mano e la strinse tra i capelli di Harry, provocando in lui una smorfia di fastidio ed una spinta più energica. Entrambi si andarono incontro come a volersi baciare, ma non lo fecero: si sfiorarono labbra contro labbra, riuscendosi a toccare solo quando l’uno o l’altra si inumidiva sfacciatamente la bocca fingendo di non farlo di proposito.
La loro sintonia non subì cambiamenti nemmeno quando il suono del campanello li richiamò alla quotidianità. L’ospite era alla porta, ma a loro non interessava. Emma era pervasa dal piacere, aveva iniziato a tremare impercettibilmente ed aveva serrato la bocca per evitare che qualsiasi gemito potesse sfuggirle ed arrivare ad orecchie indiscrete. Harry, invece, si impose il silenzio baciandole il seno e suggendole un capezzolo.
Lei raggiunse l’orgasmo quando Harry si dedicò alla sua intimità con le dita, incapace di resistere oltre e di trattenersi: si aggrappò al suo corpo, cercando di soffocare il piacere contro il suo petto e stringendogli le gambe intorno ai fianchi. Le mani sulla sua schiena nuda, contratta. Per Harry quello fu abbastanza e troppo: non aveva ancora finito di godere dell’eccitazione di Emma, che si irrigidì tra le sue braccia muovendosi contro di lei intensamente, al limite del piacere.
Il campanello di casa suonò ancora, più a lungo.
Emma ed Harry restarono inermi per qualche secondo, ansimando travolti da ciò che avevano appena provato. «Te l’avevo detto, di non provocarmi» mormorò Harry, prima che i loro respiri potessero regolarizzarsi. Lei sorrise e finalmente lo baciò.
 
Si erano resi presentabili il più in fretta possibile. Sfumata la passione che li aveva attanagliati e che aveva offuscato la loro lucidità, Emma si sentiva vagamente in colpa ed in imbarazzo al pensiero di cosa l’avesse trattenuta dall’accogliere in casa Fanny, la sua sorellina. Harry non se ne preoccupava affatto – non che la cosa la stupisse, conoscendolo – ma lei non poteva che sbuffare a disagio mentre si dirigeva verso la porta.
«Si può sapere cosa stavate facendo?» Esordì Fanny, guardando sua sorella con divertimento e sospetto non appena la porta si aprì.
Emma schiuse la bocca per rispondere, per accampare una scusa che potesse vincere sull’astuzia della quindicenne che le stava di fronte, ma Harry la anticipò: «Non vuoi saperlo, nanerottola» rispose, raggiungendole e salutandola con un largo sorriso.
Emma gli riservò una gomitata. «Ci siamo svegliati tardi» lo corresse in tono minaccioso, facendo entrare la sorella.
Fanny la ignorò, ben consapevole di chi fidarsi. «E mi spieghi perché ti ostini a chiamarmi in quel modo? Ormai sono anche più alta di entrambe le mie sorelle» protestò rivolta ad Harry, rimproverandolo per quel soprannome che le era stata affibbiato due anni prima, quando la pubertà non aveva ancora elargito regali.
«Di un centimetro e mezzo» precisò Emma, dirigendosi verso la cucina.
Fanny si strinse nelle spalle, lasciando sul divano la giacca di jeans e sistemandosi i capelli castani. «Ma sono comunque più alta di te.»
«Non preoccuparti, anche lei ha dei soprannomi» la rincuorò Harry, appoggiandosi allo stipite della porta con le braccia incrociate. Il viso malizioso. Emma si soffermò sui ricordi di qualche minuto prima, si sentì arrossire.
«Ovvero?»
«Questa è un’altra cosa che non vuoi sapere, nanerottola» rispose lui, alzando un sopracciglio.
«Non lo ascoltare, si diverte a prenderti in giro» intervenne Emma, tastando alla rinfusa gli oggetti su una mensola per cercare qualcosa da cucinare: o forse stava solo cercando di distrarsi dai pensieri poco appropriati che non riusciva ad eliminare.
Quando Fanny vide la sorella arrendersi alla confusione, posando le mani sui fianchi, decise di commentare: «Abbiamo in programma questo pranzo da due settimane, praticamente, e ancora non sai cosa cucinare?»
«Io so cosa cucinare» mentì, notando con la coda dell’occhio come Harry stesse arruffando affettuosamente i capelli di Fanny. «Devo solo…» Lasciò la frase in sospeso per alzarsi sulle punte dei piedi e cercare qualcosa tra stoviglie ed altri prodotti in scatola.
«Harry?» Chiamò poi, incrociando le braccia al petto con fare infastidito.
Fanny era accoccolata contro di lui, circondandogli il busto con una mano. «Cos’hai combinato?» Gli chiese con complicità.
«Giuro innocenza» replicò lui, fintamente ingenuo.
Emma assottigliò lo sguardo ed indicò il mobile con un cenno del capo. «Com’è possibile che se io ti chiedo di comprare qualcosa da mangiare, finisci sempre per dimenticartene o per sbagliare, mentre se Fanny deve venire a pranzo da noi non manchi mai di farle trovare i suoi biscotti preferiti?»
«Li hai comprati davvero?» Civettò Fanny, guardandolo con adorazione e saltellando sul posto in modo infantile: Emma si chiese quanto tempo sarebbe passato prima di vederli di nuovo battibeccare come due bambini dell’asilo.
Harry si strinse nelle spalle. «Me li sono trovati davanti, al supermercato» raccontò con noncuranza.
Emma alzò gli occhi al cielo. «Tu non vai al supermercato» gli ricordò.
«Se Fanny deve venire a pranzo sì, ci vado» precisò lui, cercando di farla ridere. Chiunque avrebbe creduto che fosse un modo per indispettirla, ma Emma conosceva bene l’affetto fraterno nato tra i due, il modo in cui Harry stravedeva per la piccola di casa.
Fanny si era precipitata a controllare che il proprio vizio fosse stato effettivamente esaudito, e questo diede modo ad Emma di avvicinarsi ad Harry. Lui la baciò lentamente. «Non essere gelosa» le sussurrò sulla bocca per non farsi sentire. Con una mano le accarezzò il fianco, l’addome, il seno, il collo. «Non puoi essere gelosa» aggiunse.
Negli occhi i momenti appena trascorsi nel loro bagno, l’unione indiscutibile che li legava.
 
 
11 Maggio 2018
08:37 am
 
Il corpo di Emma era un orologio svizzero.
Soprattutto da quando aveva iniziato ad assumere la pillola anticoncezionale, il suo essere donna era scandito da tempi precisi e regolari, prevedibili e rassicuranti. Mai un ritardo. Nemmeno di un giorno.
Proprio per questo motivo, Emma era sull’orlo di una crisi di nervi. Non riusciva a spiegarsi sette giorni di ritardo: o meglio, una spiegazione poteva esserci, ma era statisticamente improbabile ed infinitamente più semplice da ignorare. Da una settimana a quella parte, ogni mattina Emma si era svegliata con la speranza di vedere una macchia di sangue sulla sua biancheria, di avvertire quei lievi crampi al basso ventre che preannunciavano il fisiologico avvenimento: ma ogni mattina aveva trattenuto il fiato inutilmente, deglutendo un ingombrante nodo alla gola e sospirando profondamente.
Non sapeva come sentirsi a riguardo, non voleva saperlo. Per lo più si costringeva a non sentire affatto, spaventata da eventuali aspettative o timori: non poteva permettersi di dar spago ai propri pensieri, non prima di essersi accertata della situazione. Credeva ne sarebbe stata sopraffatta.
Metodica nel portare avanti il suo ingenuo piano, quella mattina aveva atteso che Harry – l’ignaro Harry - uscisse per andare a lavoro ed aveva recuperato dalla borsa il test di gravidanza acquistato in farmacia il giorno prima. Aveva letto una decina di volte le istruzioni nella confezione: le prime cinque perché per l’ansia che le attanagliava lo stomaco non aveva prestato attenzione alle parole, le altre cinque perché voleva essere certa di non commettere errori e forse anche per rimandare l’inevitabile.
Era rannicchiata sulla tavoletta del gabinetto, con le ginocchia piegate contro il petto e le braccia a tenerle strette. Dondolava ritmicamente su se stessa come a volersi rassicurare, mentre il labbro inferiore rischiava di sanguinare per la forza e l’insistenza con le quali lo stava torturando. Aveva appoggiato il test sul lavandino di fronte a lei e stava aspettando che il timer impostato a tre minuti suonasse e la trascinasse nella realtà: fissava quel bastoncino di plastica come se fosse una bomba pronta ad esplodere, qualcosa di estremamente pericoloso e terrificante. Ma ne era anche attratta: più volte aveva represso l’istinto di alzarsi e sbirciare prima del tempo, come se avesse potuto affrettare le cose con la sua sola volontà. Nonostante non si sentisse affatto pronta, era impaziente di sapere.
Quando il timer trillò nel piccolo bagno, Emma sussultò e per poco non cadde a terra. Lo silenziò frettolosamente e sentì del sudore freddo impossessarsi delle sue mani: si inumidì la bocca, alzando il mento per convincersi di avere ancora un minimo di contegno. Fece un passo avanti ed il suo sguardo guizzò brevemente sulla sua immagine riflessa nello specchio: il suo viso era contratto in una smorfia tesa, che la spinse a serrare gli occhi per imporsi quanta più calma potesse racimolare. Si concesse qualche respiro profondo e quando percepì l’ansia asfissiante retrocedere e lasciarle spazio, sollevò di nuovo le palpebre e serrò la mascella.
Si avvicinò ancora al lavandino, allungò una mano tremante ed afferrò il test di gravidanza.
 
 
12 Maggio 2018
09:30 am
 
Emma si appoggiò alla parete con una mano, cercando di regolarizzare il respiro più che poteva. Si sentiva avvampare, si passò una mano sul collo come a volerlo liberare da una presa soffocante ed inesistente. Si guardò per un attimo intorno, vagamene infastidita dall’odore pungente di detersivo con il quale la signora delle pulizie stava lavando le scale, e fissò con astio il cartello scritto a mano che indicava che l’ascensore era fuori servizio.
Con la bocca secca ed il cuore in preda alla frenesia, dovuta non solo allo sforzo fisico, si affrettò a percorrere le ultime due rampe di scale. Si fermò davanti alla porta in legno scuro, ansimando e passandosi una mano tra i capelli.
Suonò il campanello, ma in qualche modo non le sembrò sufficiente: iniziò a bussare vigorosamente, prima con le nocche, poi con il palmo della mano. Udì borbottare dall’interno dell’appartamento, ma anziché esserne tranquillizzata si sentì in dovere di continuare.
Pete spalancò la porta con un cipiglio nervoso sul volto ancora assonnato. La squadrò con la mascella serrata: «Si può sapere che diavolo ti prende?!».
Emma ignorò la sua domanda e lo spinse debolmente di lato per intrufolarsi in casa.
«Certo, fai pure…» lo sentì lamentarsi dietro di lei, sovrastato dal rumore della porta che si richiudeva.
Emma trasse un profondo respiro, strinse i pugni e si decise ad affrontarlo. Si voltò di scatto, guardandolo negli occhi e forse anticipando parte del suo stato d’animo: Pete, infatti, corrugò la fronte e rilassò appena la linea dura della bocca. «Kent?» La chiamò, come per riscuoterla.
Emma iniziò a frugare nella propria borsa, mentre Pete chiedeva nuovamente cosa stesse succedendo ricordandole che quello era il suo unico giorno di riposo. «… Quindi voglio sperare che sia una cosa ur-» stava finendo di dire, quando lei gli mise frettolosamente qualcosa tra le mani, interrompendolo.
«Ho fatto un test di gravidanza» esclamò, come se quelle parole le stessero ustionando la lingua ed il suo corpo non vedesse l’ora di vomitarle fuori. «Anzi, ne ho fatti due. Per… sicurezza.»
Pete spalancò gli occhi, osservando brevemente i due bastoncini tra le sue mani. «Ma che cazzo…!» Sbottò una volta capito di cosa si trattava, facendo cadere a terra i test e storcendo la bocca in un’espressione disgustata. Strofinò le mani contro i pantaloni del proprio pigiama, prima di rivolgere lo sguardo verso Emma.
Lei si chinò per raccogliere da terra i colpevoli di tutta la situazione: non sapeva nemmeno perché li avesse portati con sé, forse erano l’unico appiglio tangibile di quello che stava accadendo.
Avrebbe voluto rimandare il momento in cui avrebbe dovuto incontrare gli occhi sconcertati del suo migliore amico.
«Kent, lo ripeto: che cazzo sta succedendo?»
Emma sospirò nuovamente, fece vagare gli occhi reticenti sull’arredamento del salotto, ma alla fine dovette obbligarsi a proseguire. «Sono incinta.»
Pete smise di respirare, lo sguardo assente di chi non riesce a scendere a compromessi con la verità. Le sue mani continuavano a sfregare meccanicamente contro le sue cosce, ma debolmente, come se anche loro fossero state distratte da quella notizia. «Incinta?»
Lei annuì, mordendosi le labbra. Attese, incapace di controllare il fremito che la percorreva.
Pete inarcò le sopracciglia, sembrò soppesare la situazione, ma ne uscì sconfitto. Si passò una mano sulla nuca rasata, abbassando e scuotendo il capo. Senza guardare Emma, si diresse verso il divano e vi si sedette con un sospiro frustrato.
Emma lo seguì, incerta. «Pete, per favore» lo pregò, con una voce spezzata che non corrispondeva al suo stato d’animo fino a quel momento, ma che rifletteva qualcosa di più profondo. Si sedette accanto a lui, deglutendo a fatica. «Ho bisogno… Ho bisogno che tu sia quello lucido tra i due, perché io non… Non ne sono in grado, ora come ora» ammise lentamente, percependo il panico intorpidirle le dita.
A quel punto Pete la guardò, ma senza il fastidio con il quale l’aveva spontaneamente accolta o il momentaneo disgusto che l’aveva seguito: semplicemente la osservò per incamerare la sua richiesta, mosso dal dovere che il loro legame gli imponeva. Improvvisamente Emma si sentì più al sicuro.
«Ne sei sicura?» Le chiese Pete, azionando il suo lato logico e pragmatico. Forse quello che Emma aveva smarrito e che stava cercando.
Emma annuì nuovamente, sistemandosi meglio sul divano. «Ho un ritardo di una settimana. Io non… Non ho mai ritardi» spiegò, come mille volte aveva ripetuto a se stessa: a volte per smentire una possibilità che ormai si era concretizzata, a volte per giustificarla. «Ieri ho fatto un test ed è uscito positivo. Ne ho ripetuto un altro oggi… Tra pochi giorni farò gli esami del sangue, ho già preso appuntamento dal ginecologo.»
Pete continuava a fissarla negli occhi, anche se lei di tanto in tanto distoglieva lo sguardo per concedersi una tregua. «Harry lo sa?»
Il cuore di Emma si accartocciò su se stesso. «No» rispose flebilmente. «Non ancora» aggiunse.
Aveva intenzione di dirglielo, ma non si sentiva ancora in grado di farlo. Doveva prima scendere a patti con se stessa. Se con Pete si era concessa di comportarsi spontaneamente e di lasciar trasparire tutta la sua gamma emotiva senza alcun freno, era solo perché lo temeva di meno: Harry era tutt’altro discorso, Harry… Harry meritava di più, e lei voleva sentirsi pronta a concederglielo.
Non sapeva nemmeno come fosse riuscita a mantenere una maschera di tranquillità nelle ventiquattro ore precedenti, a dormire accanto a lui senza renderlo conscio del proprio respiro artefatto.
Pete si inumidì le labbra ed inspirò profondamente: sembrava stesse cercando le parole giuste da dire, senza volersi sbilanciare. Forse non sapeva come reagire perché non aveva ancora capito come si sentisse Emma, perché non avrebbe voluto sbagliare.
Emma decise di spiegarsi meglio, o forse semplicemente non poteva più frenare il flusso dei suoi pensieri. «Non lo stavamo cercando-» riprese di getto. Iniziò a torturarsi le mani in grembo, abbassò lo sguardo, poi ricominciò più lentamente. «Certo, qualche volta ne abbiamo parlato e… Ci abbiamo fantasticato un po’ su» continuò, interrompendosi brevemente per riscaldarsi al ricordo delle chiacchierate in piena notte, sussurrate sulla pelle nuda. «Ma non abbiamo mai deciso di avere un bambino, non ora almeno. Io prendo la pillola, Pete. E giuro che non l’ho mai dimenticata, insomma, faccio tutto da manuale!» Nel pronunciare quell’ultima frase, si lasciò sfuggire un sospiro frustrato, passandosi le mani tra i capelli: era un fondamentale particolare del quale non riusciva ancora a capacitarsi. Sapeva che nemmeno la pillola anticoncezionale era in grado di fornire una protezione al cento per cento, ma si rifiutava di credere di essere davvero in quella misera percentuale sfuggita ad un controllo universalmente riconosciuto.
Pete l’aveva ascoltata con attenzione, rilassando la postura. Le diede qualche istante per regolarizzare il respiro. «Credo che ora sia inutile pensare a come sia potuto succedere…» disse poi, impregnando la sua voce di rassicurazione. «È successo» aggiunse, stringendosi nelle spalle come a voler sottolineare qualcosa di ovvio. Emma ne fu banalmente rinvigorita: che qualcun altro oltre lei prendesse atto della cosa poteva farla sentire sollevata, come se fino a quel momento lei avesse vagato sola e disorientata in una massa informe di infime domande, di possibilità infinite e paure sconfortanti. Aveva bisogno che qualcuno la trattenesse con i piedi per terra, che la costringesse a resistere al panico più cieco.
«Quello che mi interessa…» riprese Pete, «è sapere come ti senti tu. Sei incinta, Emma». Le posò una mano sulla coscia, avvicinandosi appena. «Ne siamo felici?»
Emma si immerse negli occhi cerulei di Pete e vi scorse uno sconfinato affetto, una calda promessa non pronunciata. Vi lesse indiscutibile appoggio, ma soprattutto libertà. Libertà di sentimento. Si sentì legittimata a provare qualsiasi cosa le venisse più naturale, certa che dall’altra parte avrebbe trovato un porto sicuro.
A quel punto il respiro le si mozzò in gola per un singhiozzo che la sorprese all’improvviso, mentre timide lacrime le riempivano gli occhi umidi. Sorrise apertamente e tirò su con il naso, per poi riappianare le labbra e coprirsi il volto con le mani. Non riuscì a pronunciare una risposta, perché semplicemente non fu in grado di trovarla: era offuscata da troppi pensieri sovrastanti per potersi definire felice all’idea di una gravidanza, ed anche se dentro di sé sapeva che portare in grembo il figlio di Harry aveva un significato totalizzante per lei, per il momento non riusciva a scardinare il concetto da tutto il resto.
Pete la abbracciò dolcemente, lasciando che lei nascondesse il volto contro il suo collo.
 
Non era andata a lavoro, non se l’era sentita. Era troppo distratta.
Era rimasta a casa a riorganizzare i propri pensieri e le proprie emozioni, o almeno a provarci. Dopo l’incontro con Pete, si era liberata di un grosso macigno che le pesava sulle spalle: lo shock iniziale si era tramutato lentamente ma inesorabilmente in chiara consapevolezza, ed una volta realizzata a dovere doveva solo essere interpretata nelle sue sfaccettature.
Come aveva confessato a Pete, né lei né Harry avevano mai progettato di avere un bambino, limitandosi a parlarne come di una possibilità lontana. Emma aveva sempre saputo di voler diventare madre e da quando aveva consolidato la storia con Harry aveva intrecciato indissolubilmente quella sua sicurezza al suo nome. Era un qualcosa che sapeva per certo sarebbe accaduto, ma che non si era ancora azzardata a soppesare sul serio.
Per questo motivo, quando il test di gravidanza era risultato positivo, avevano prevalso l’assoluta sorpresa e la completa assenza di controllo sulla situazione. Emma non avrebbe mai rinnegato quella gravidanza: era stato l’inaspettato a paralizzarla, a spaventarla più di qualsiasi altra cosa. Aveva sempre creduto che avrebbe avuto un bambino quando si fosse sentita pronta e preparata, ma questo le era stato negato: era stata catapultata in un sogno strabiliante, per il quale si sentiva però disarmata.
Inoltre il suo pensiero andava inevitabilmente ad Harry.
Ogni volta che avevano sfiorato l’argomento, lui era sempre sembrato propenso ad assecondarla: era certa che anche lui avrebbe voluto un figlio, prima o poi, ma non sapeva se sarebbe stato altrettanto flessibile nell’accogliere l’idea così all’improvviso. Forse avrebbe reagito come Pete, inizialmente pietrificato dalle sue parole, anzi sicuramente si sarebbe ammutolito e avrebbe messo su quell’espressione tesa e quasi imbronciata che Emma conosceva bene, in attesa di esprimersi a riguardo. Forse avrebbe anche tirato fuori gli stessi timori già noti, come i soldi che avrebbe voluto mettere prima da parte per assicurare alla famiglia una certa stabilità economica o la casa non adeguata che avrebbero dovuto cambiare. Ma Emma era anche convinta che Harry avrebbe infine ceduto arrendevolmente al pensiero del loro bambino e che ogni altra cosa avrebbe perso di importanza: memore dei suoi occhi verdi persi in fantasie lontane su ipotetici nomi e scuole da frequentare e percependo ogni giorno l’amore che li univa, le sembrava impossibile dipingere un altro scenario.
Si decise che non avrebbe avuto senso rimuginare su quale reazione avrebbe avuto chi, perché dentro di sé sentiva che in ogni caso avrebbero affrontato tutto insieme. Se Harry avesse iniziato a saltare per la gioia, lei l’avrebbe imitato prendendolo per mano. E se Harry avesse invece mostrato incertezza, lei avrebbe aspettato al suo fianco ricordandogli cosa rappresentavano insieme, senza giudicarlo per una reazione che lei stessa aveva avuto.
Rassicurata da quei pensieri, si trovò a sorridere tra sé e sé e a far scivolare lentamente una mano sul proprio addome piatto. Si sentiva infantile nel compiere quel gesto, ma era l’unica cosa che potesse corredare il suo stato d’animo in quel momento.
Lo scattare della serratura attirò la sua attenzione, riscuotendola: Harry era tornato dal turno in officina. «Diamine…» borbottò, accorgendosi dell’arrosto che si stava bruciacchiando sotto i suoi occhi stralunati. Lo girò nella padella e diede una rassettata anche alle patate nel forno, mentre si ripeteva mentalmente di mantenere la calma. Si era ripromessa di custodire il segreto fino alla visita con il ginecologo, per cui doveva impegnarsi a non destare sospetti.
«Ciao» mormorò Harry dietro di lei, afferrandola dai fianchi e baciandole una spalla. Emma rise silenziosamente, godendo del calore del suo respiro. Si voltò ed accettò un bacio a fior di labbra.
«A cosa dobbiamo questa sfacciata dimostrazione di doti culinarie?» Le domandò con un ampio sorriso sul volto, senza lasciare la presa dai suoi fianchi e attirandola verso di sé.
Emma inarcò la schiena per continuare a guardarlo negli occhi. Gli passò le dita su una macchia d’olio sulla tempia e gli sfiorò il naso con il proprio, scherzosamente. «Non posso viziarti, una volta tanto?»
Voleva viziarlo, sì. Voleva viziarlo e renderlo partecipe per quanto possibile della felicità incontenibile che si faceva sempre più spazio in lei.
Voleva anche scusarsi per l’attesa inconsapevole alla quale lo stava costringendo.
Harry la baciò di nuovo, questa volta con più malizia. «Sai che puoi farlo tutte le volte che vuoi» sussurrò. «Non chiedo altro.»
«Ah, sì?» Domandò Emma, ricambiando la sua provocazione. «Non pensavo fossi così bisognoso.»
Un soffio più intenso lasciò le labbra di Harry, mentre lei lo attirava a sé dall’orlo superiore dei suoi jeans. «Bisognoso è una parole forte» mormorò contro la sua bocca, arrendendosi alle sue mani, intente ad abbassargli la zip. «Più che altro mi definirei…» Lasciò la frase in sospeso. Emma si inginocchiò di fronte a lui e per un attimo Harry abbandonò il capo all’indietro, come incapace di assistere alla scena. Tornò a guardarla quando lei prese a giocare con i suoi boxer, sorridendogli provocatoria.
Emma si inumidì le labbra lentamente, senza abbandonare i suoi occhi. Sfiorò con una mano la sua erezione, che cresceva ancora intrappolata dietro la stoffa, e lo fece sospirare per l’impazienza. Si avvicinò, respirando con le labbra schiuse contro di lui, e gli abbassò i boxer.
Harry gemette senza che lei lo toccasse.
Emma lo prese tra le mani, con movimenti controllati che sapeva lo avrebbero torturato. Lui si appoggiò con una mano alla cucina, mentre con l’altra le afferrava i capelli debolmente come a volerla pregare di non fermarsi. Quando lei si avvicino con le labbra alla punta della sua erezione, Harry spinse il bacino in avanti impercettibilmente, facendola sorridere.
«Cristo-» mormorò Harry, catturato dal suo gioco snervante.
Emma mosse le mani avanti e indietro, guardandolo dal basso. «Io credo che bisognoso sia esattamente la parola giusta» precisò lentamente, macchiando la voce di sensualità.
Harry si lasciò sfuggire un verso di frustrazione: si piegò su di lei, facendo leva sui suoi capelli per attirare il suo viso verso il proprio, e la baciò sfacciatamente, con urgenza. «Sì, è la parola giusta» ammise contro la sua bocca, mordendola. «Ho bisogno che tu smetta di parlare.»
Emma gli leccò le labbra, alzando un sopracciglio. «Bastava chiedere» disse con finta innocenza.
 
 
16 Maggio 2018
03:23 pm
 
«Ancora non capisco che diavolo ci faccio qui» borbottò Pete, incrociando le braccia al petto e guardandosi intorno con la tensione ad irrigidirgli i lineamenti del volto. Lanciava occhiate cariche di disagio alle donne in avanzato stato di gravidanza che lo circondavano, così come ai poster ricchi di rappresentazioni anatomiche di genitali femminili.
Emma si schiarì la voce e raddrizzò la schiena, sperando che nessuno lo avesse sentito. «Sei venuto perché mi vuoi bene» gli ricordò, osservandolo mentre lui sbuffava contrariato. «E perché faresti di tutto per supportarmi» aggiunse, addolcendo il tono.
Pete alzò gli occhi al cielo.
Emma l’aveva supplicato di accompagnarla all’appuntamento dal ginecologo: il giorno prima aveva eseguito gli esami del sangue ed era in attesa del referto, inoltre voleva fargli alcune domande, ma non avendo ancora parlato con Harry – i quattro giorni più lunghi della sua vita – né con la sua famiglia e non volendo andare da sola, Pete le era sembrato la soluzione più semplice.
«Signorina Clarke?»
Emma scattò in piedi nel sentir chiamare il proprio nome, incrociando lo sguardo della segretaria che la invitò cordialmente ad accomodarsi nello studio. Pete borbottò un “Finalmente” alle sue spalle, dal momento che l’orario dell’appuntamento era passato da un pezzo, ma la seguì senza protestare oltre.
Il Dottor Jills era seduto dietro la sua scrivania, con la testa calva china su un foglio sul quale stava scribacchiando. «Prego, prego!» Esclamò, prima di alzare lo sguardo e salutare entrambi con un ampio sorriso. Le rughe intorno agli occhi piccoli ed infossati lo facevano sembrare ancora più affabile del tono di voce morbido e gentile.
Emma era agitata, si ritrovò a sospirare in un sorriso e ad avvicinarsi spontaneamente a Pete.
«Signorina Clarke? Giusto?» Chiese conferma lui, mentre le faceva cenno di sedersi.
Lei annuì ed accettò l’invito, mentre Pete la imitava al suo fianco.
«E lei è il suo compagno?» Continuò il Dottor Jills.
Pete strabuzzò gli occhi. «No, no» si affrettò a correggerlo, schiarendosi la voce.
«No, lui… è Pete, un mio caro amico» intervenne Emma, sentendo la necessità di andargli in aiuto.
Il ginecologo sembrava stupito e lievemente confuso, ma non si pronunciò oltre. «Bene, direi allora di procedere» disse, cercando qualcosa tra le varie cartelle sulla sua scrivania.
Pete si raggelò nel posare gli occhi sul lettino ginecologico e su alcuni strumenti riposti lì accanto, mentre Emma tentava disperatamente ed inutilmente di adocchiare i risultati dei suoi esami tra tutte le scartoffie lì davanti.
Il Dottor Jills rimase in silenzio per qualche istante, sfogliando un sottile fascicolo ed aggiustandosi il nodo della cravatta. Emma avrebbe voluto scuoterlo dalle spalle per spingerlo a parlare, a dire qualsiasi cosa: in compenso prese a stritolare la borsa che teneva sulle proprie gambe.
«Allora…» esordì il ginecologo, caricando Emma di impaziente aspettativa. «Prima mi permetterete qualche domanda di rito, hm?» Domandò, giocando con la penna tra le sue mani e provocando delusione nei suoi due interlocutori: da una parte, Emma aveva sperato di andare dritti al punto in modo da troncare l’ansia che continuava a tormentarla; dall’altra parte, Pete forse aveva avuto la stessa speranza, ma solo per uscire di lì il prima possibile.
Il Dottor Jills raccolse scrupolosamente l’anamnesi della sua paziente, interrogandola anche sulla sua famiglia e sul padre del bambino – nel pronunciare quelle parole aveva lanciato una rapida occhiata a Pete, che si era subito accigliato. Le aveva poi chiesto da cosa fosse nato il sospetto della gravidanza, se e quando avesse già fatto un test, e se avesse sperimentato sintomi particolari nelle ultime settimane.
«Prima di parlare degli esami del sangue di ieri, vorrei farle un’ultima domanda» continuò il ginecologo, schiarendosi la voce. «Lei ed il suo compagno avete rapporti completi regolari?»
Pete si strozzò con la sua stessa saliva. Emma si voltò a guardarlo vagamente imbarazzata, battendogli una mano sulla schiena per rassicurarlo e forse anche per temporeggiare. «Scusate» disse lui, guardandosi intorno mentre sedava la sua improvvisa tosse stizzosa.
Emma sospirò e tornò a guardare il Dottor Jills. «Sì, direi di sì.»
Lui annuì, come nel cercare una risposta più profonda in quelle poche parole. «E usate altre precauzioni, oltre la pillola anticoncezionale?»
«No» rispose lei piano.
Pete tossì nuovamente.
A quel punto la conversazione deviò sul suo ciclo mestruale, sulla data delle ultime mestruazioni e su altre informazioni che stavano facendo impallidire Pete sempre di più.
«Dottor Jills, mi scusi…» esordì Emma durante una pausa di pochi secondi, nella quale il ginecologo stava appuntando alcuni dati sulla sua cartella. «Io non capisco» continuò. «Prendo la pillola da anni, penso di non aver mai dimenticato di assumerla, sono sempre attenta all’orario… Ho persino una sveglia che me lo ricorda…»
Lui sorrise bonariamente, come di fronte ad un bambino ingenuo. «Signorina Clarke, capisco i suoi dubbi. Partiamo dal presupposto che anche la pillola anticoncezionale, nonostante la sua straordinaria efficacia, non è mai del tutto infallibile» le ricordò. «Inoltre può essere ostacolata da diversi fattori: il caso, innanzitutto» proseguì, con una punta di divertimento nella voce che mise vagamente a disagio Emma e che fece corrugare la fronte di Pete. «Ma anche farmaci, disturbi gastrointestinali… La pillola anticoncezionale è un medicinale, d’altra parte: qualsiasi alterazione nel suo assorbimento può minarne il funzionamento. Da come mi ha già detto, lei non ha assunto alcun farmaco negli ultimi mesi, giusto?»
Emma scosse il capo.
«Mai avuto vomito? Diarrea?»
Emma schiuse le labbra, trattenne il respiro.
Nella sua mente spiccarono a galla i ricordi di una notte trascorsa tra le braccia di Harry, di ritorno dal ristorante giapponese nel quale avevano cenato. I ricordi dell’indigestione che aveva colpito entrambi poche ore dopo. La loro immagine accaldata riflessa nello specchio del bagno.
Pete le diede una leggera gomitata, come per riscuoterla: probabilmente aveva indugiato un po’ troppo a lungo su quei pensieri.
«Le è tornato in mente qualcosa?» Indagò il Dottor Jills.
Emma balbettò, passandosi una mano tra i capelli. «Sì, in effetti… sì. Il mese scorso siamo andati a mangiare fuori e quella notte abbiamo avuto una brutta indigestione…»
Il ginecologo sembrava aver appena appreso un pezzo mancante del puzzle, risultando persino troppo entusiasta di quell’informazione. «Si ricorda che giorno era?»
Emma ricostruì l’accaduto e rispose ad ulteriori domande, senza prestare davvero attenzione. Riusciva solo a chiedersi come avesse potuto essere così ingenua da non averci pensato prima: si vantava della sua assunzione scrupolosa della pillola, ma aveva mancato di soffermarsi su quel particolare.
Si riscosse quando sentì il ginecologo introdurre le sue analisi del sangue.
Persino Pete, al suo fianco, si sporse impercettibilmente in avanti.
I valori delle beta-HCG erano consistenti con la presunta data del concepimento. «Lei è incinta di circa quattro settimane, signorina Clarke» decretò il ginecologo, con un largo sorriso sul volto.
Emma si ritrovò a saltellare sulla sedia in preda alla felicità, afferrando spontaneamente la mano di Pete.
Certo, il test di gravidanza le aveva già anticipato gran parte della sorpresa, ma era diverso sentire un professionista ufficializzare la cosa a fronte di valori ematici, spiegazioni mediche e date calcolate. Come quando aveva detto a Pete della gravidanza e lui le aveva ripetuto che non importava come, ma che era successo, provocando in lei un immenso senso di sollievo, allo stesso modo le parole del ginecologo avevano rimarcato ancora una volta la legittimità della sua emozione.
«Ok, ok» esclamò il Dottor Jills, cercando debolmente di porre un freno all’entusiasmo. «Prima di lanciarci in festeggiamenti, direi di procedere ad una veloce ecografia.»
Emma si paralizzò. Pete fece una smorfia di dolore nel sentire la propria mano venire inconsapevolmente stritolata.
«A questo punto della gravidanza l’embrione è ancora piuttosto piccolo, per cui sarà molto difficile vederlo. Ma potremmo dare un’occhiata alla camera gestazionale. Per il battito del cuore, invece…» Fece una pausa, nella quale spiò l’espressione di Emma: probabilmente era ciò che più gli veniva richiesto. «… temo che per quello dovremo aspettare ancora un pochino.»
Emma non nascose a se stessa una certa delusione: era ovvio che non vedesse l’ora di sentire battere il cuore di suo figlio, ovvio che avrebbe voluto accelerare la natura a proprio piacimento. Ma decise di non abbandonarsi ciecamente all’entusiasmo: sia perché non le sembrava il caso di rendersi imbarazzante di fronte al proprio medico, sia perché la mano di Pete stava diventando pericolosamente blu. Lasciò la presa, scusandosi con aria pentita.
Pete scosse la testa per nascondere un sorriso genuino.
«Se vuole accomodarsi, signorina…» Proseguì il ginecologo, indicandole con una mano il lettino alla sua destra. «Effettueremo una ecografia addominale ed una transvaginale-»
Fu interrotto da un altro eccesso di tosse di Pete.
Il Dottor Jills lo guardò con un sopracciglio alzato. «Ovviamente il suo accompagnatore può aspettare fuor-»
«No.»
«Sì, grazie
Avevano risposto all’unisono.
Emma corrugò la fronte e fissò Pete. Abbassò la voce nell’avvicinarsi a lui. «Pete, per favore. Non lasciarmi da sola.»
«Kent, quell’uomo sta per infilarti un affare su per…» Si fermò, sospirò e si passò una mano dietro il collo. «Ci dovrebbe essere Harry, qui. O tua sorella. O chiunque altro non abbia particolari problemi nel vederti… in certe circostanze.»
Il ginecologo rise allegramente: evidentemente non avevano parlato a voce abbastanza bassa. «Ma per questo non c’è alcun problema! Lungi da me esporre al pubblico i genitali delle mie pazienti» si affrettò a dire con un umorismo tutto suo, alzandosi in piedi. «Pensate che a volte nemmeno i loro compagni vogliono assistere! Eppure c’è un semplice stratagemma.»
Pete ed Emma lo seguirono con lo sguardo nella stanza. Lui afferrò un paravento color panna e lo sistemò accanto al lettino, poi indicò lo schermo appeso al muro. Si rivolse a Pete: «Lei potrà comodamente osservare la scena al di là del paravento».
Pete non sembrava convinto: la sua espressione tradiva un innato istinto a fuggire il più lontano possibile.
«Per favore» sussurrò Emma, afferrandogli di nuovo la mano.
Lui la guardò negli occhi per qualche istante. «Voglio che questo venga messo agli atti. Voglio potertelo rinfacciare per il resto della vita» decretò, lasciandosi scappare un sorriso quando Emma gli saltò al collo per ringraziarlo.
Qualche minuto dopo, Emma era decisamente rigida mentre si sdraiava sul lettino.
Il paravento era posizionato in modo che solo il suo corpo fosse coperto: poteva vedere Pete, se girava il capo alla sua destra. In un certo senso la rincuorava. Sapeva di essere stata egoista nel convincerlo a rimanere, ma era anche convinta che Pete fosse solo molto imbarazzato e che in fondo avrebbe fatto questo e altro per lei. Non aveva torto nel sostenere che quel momento dovesse appartenere ad Harry: anche Emma si sentì vagamente in colpa nel pensarci, ma in fondo era solo una visita di controllo dove quasi sicuramente non si sarebbe visto nemmeno l’embrione. Lei ed Harry avrebbero avuto momenti ben più significativi da affrontare insieme.
Il suo battito cardiaco era accelerato, impaziente, e lei stava sperimentando un certo distacco dalla realtà: non vedeva l’ora di scorgere qualcosa sullo schermo appeso contro la parete, così tutto il resto perdeva di importanza e di sostanza. Difatti non ascoltò, anzi non registrò tutto ciò che il Dottor Jills le disse sulle sue strutture anatomiche regolari e “ben predisposte”, né si lasciò possedere dall’imbarazzo o dal fastidio quando l’esame si fece più invasivo: la sua attenzione si ringalluzzì solo quando il ginecologo si soffermò su un’area confusa a lei poco chiara.
«Eccola» disse, manovrando lo strumento tra le sue mani per ottenere una migliore visuale. «Questa è la camera gestazionale, come potete vedere».
Ad Emma venne spontaneo sorridere, emozionata.
«Come pensavo, l’embrione non si vede» proseguì allora il ginecologo. «Ma non voglio si creino allarmismi: come ho detto precedentemente, la gravidanza è appena agli inizi, il piccolo sarebbe comunque troppo timido per farsi vedere!»
Emma continuò ad osservare quel sacco scuro dalla risoluzione scarsa, percependo il petto in fiamme a causa del suo significato.
Si voltò verso Pete e lo trovò incantato di fronte allo schermo, con le labbra semi chiuse e gli occhi immobili, ammaliati.
Il Dottor Jills si dovette accorgere della dinamica, perché si schiarì la gola ed alzò la voce: «Tutto bene, lì dietro?»
Emma rise, commossa, mentre Pete si riscuoteva facendo un passo indietro. «Certo, ehm… Sì, tutto bene.»
 
Il tempo aveva inspiegabilmente accelerato da quando lei e Pete erano usciti dallo studio medico, camminando con disattenzione perché impegnati nel guardare le piccole fotografie in bianco e nero che il ginecologo aveva stampato.
Emma si era ritrovata davanti alla sua porta di casa senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno avere il tempo di prepararsi.
Era ufficiale: non aveva più scuse per rimandare il momento. Doveva parlare con Harry.
Voleva parlare con Harry. Disperatamente.
Sentiva di non essere più in grado di contenere dentro di sé le sue emozioni, ma soprattutto percepiva la viscerale necessità di condividerle con lui, con la persona che più amava al mondo.
Nascose le fotografie nella borsa, insieme al referto degli esami. Prese un gran respiro e si sistemò i capelli.
Harry doveva essere già tornato dal lavoro.
Quando si decise ad aprire la porta di ingresso, notò che la casa era silenziosa. Non c’erano segni di Harry, e per un attimo temette di essere sola e di dover rimandare il momento ancora una volta.
Lasciò la giacca di pelle sul divano, accanto alla borsa, e si tolse le scarpe. Poi si avviò in punta di piedi verso la camera da letto, dove a volte Harry si appisolava dopo un estenuante turno di lavoro.
La porta era accostata, Emma la spinse con i polpastrelli, premurandosi di non far rumore. Vide Harry sdraiato sul fianco sinistro, nel loro letto: le dava le spalle, aveva il respiro lento e regolare. La luce calda di quel pomeriggio inoltrato accarezzava i suoi lineamenti ed impregnava la stanza.
Inspirò a fondo, forse cercando di assorbire qualsiasi briciolo di coraggio disponibile e di modulare l’istintiva e potenzialmente pericolosa avventatezza: non aveva programmato cosa dirgli, né come farlo. Si avvicinò al letto lentamente, chiedendosi se Harry stesse dormendo o se la stesse semplicemente aspettando.
Si sdraiò accanto a lui, facendo cigolare sommessamente le molle della rete: anche lei sul fianco, fissava la sua schiena curva, i suoi capelli mori. Allungò una mano e la posò delicatamente tra le sue scapole. «Ehi…» mormorò piano, accarezzandogli una spalla ed un braccio.
Harry si mosse piano, afferrando la sua mano e portandosela alla bocca per posarvi un bacio leggero. «Sei tornata, finalmente» disse contro la sua pelle, prima di lasciare la presa: aveva la voce impastata, assonnata.
Emma annuì come se lui avesse potuto vederla, ritrasse a sé la mano: non sapeva dove metterla, se toccarlo e dove. Decise di stringersela al petto, nell’attesa. Chiuse gli occhi ed inspirò il profumo di Harry: gli era così vicino da percepire persino il calore del suo corpo.
«Come è andata la tua giornata?» Gli chiese dopo qualche istante: una domanda di circostanza non inusuale nel loro rapporto, ma anche terribilmente insignificante di fronte a ciò che stava introducendo.
Harry sospirò. «Al solito…» rispose, come disinteressato: sentiva che stava per scivolare in un sonno profondo. Emma non sapeva se avrebbe preferito guardarlo negli occhi: in un certo senso parlare alla sua schiena rilassata era in grado di rassicurarla, la faceva sentire come protetta.
«Harry?» Lo richiamò lei, per attirare la sua attenzione.
«Hm?»
«Devo dirti una cosa» ammise, tornando a toccare la sua schiena: la sfiorò solo con le dita, disegnando percorsi leggeri e senza meta. Il cuore le rimbombava nella cassa toracica.
«Se stai parlando della felpa che hai scolorito in lavatrice, stai tranquilla… Lo so già» la rassicurò Harry, aggiungendo un’ombra di divertimento nella voce. «L’ho trovata nascosta in fondo all’armadio qualche giorno fa.»
Emma sorrise apertamente, affondando momentaneamente il viso nel cuscino. «Non l’ho nascosta» precisò lei a bassa voce, sulla difensiva. Gli accarezzò la pelle nuda del collo, l’attaccatura dei capelli: lo vide rabbrividire appena, tornò tra le sue scapole. «Ma non parlavo di questo.»
«Un’altra felpa, allora? O un paio di mutande?» Indagò Harry.
Se da una parte la rincuorava l’atmosfera di candida confidenza tra di loro, dall’altra rendeva tutto estremamente più difficile.
«No, Harry, io...» Sospirò. In quel momento decise che preferiva decisamente non guardarlo negli occhi. «Sono incinta» disse piano, poggiando l’intero palmo della mano sulla sua schiena, come per percepire il suo respiro o lo scaturire di qualsiasi altra emozione.
Lo sentì irrigidirsi, invece.
Harry si mise a sedere, continuando a darle le spalle. Emma fece lo stesso, incapace di decifrare quella reazione.
«Come…» Harry si schiarì la voce, si passò una mano tra i capelli. «Come è possibile?»
Emma indietreggiò appena, il suo corpo rilasciò parte della tensione come se avesse subìto una sconfitta: aveva aspettato avidamente una sua risposta, qualcosa che avrebbe potuto aiutarla nell’interpretare quel momento, ma la voce che l’aveva raggiunta non aveva rispettato le sue aspettative. Anzi, le aveva infrante: era piatta, vuota.
Ed Harry continuava a non guardarla.
A differenza di pochi istanti prima, Emma avrebbe dato qualsiasi cosa per averlo di fronte a sé, anziché dover essere costretta ad immaginare l’espressione sul suo volto. All’improvviso percepì una mancanza assoluta, uno svantaggio.
Nonostante la sensazione di essere sull’orlo di un baratro, Emma decise di aggrapparsi alla promessa che aveva fatto a se stessa, alla promessa di affrontare tutto insieme e di concedere ad Harry il tempo ed il modo di reagire come meglio credeva, accompagnandolo in quel percorso. Si inumidì le labbra, sedendosi sulle ginocchia: gli occhi puntati sulla sua nuca. «Il ginecologo mi ha spiegato che in caso di vomito o… o di disturbi intestinali, la pillola non viene assorbita come dovrebbe e c’è il rischio che non funzioni, se in quei giorni ci sono stati rapporti. Ricordi quando siamo andati a cena in quel ristorante giapponese?»
Emma lo ricordava bene, ma con una sottile patina di amarezza: paragonare la passione di quella notte e del giorno seguente alla tensione sconosciuta che li stava avvolgendo in quel momento era intollerabile. «Il ginecologo pensa che quello potrebbe essere il giorno del concepimento» aggiunse, ripercorrendo brevemente la conversazione avuta nel suo studio.
Ogni secondo di silenzio che passava, aggiungeva un peso insopportabile sul petto di Emma, un freno alla genuina felicità che l’aveva animata fino a poco prima. Un monito che destava in lei un sospetto che non riusciva a dissipare: sperava con tutta se stessa che Harry da un momento all’altro le mostrasse anche solo un briciolo del suo stesso entusiasmo, che quantomeno si voltasse a guardarla negli occhi, ma lui continuava a restare fermo, a non dire niente, a torturarla.
«Harry?»
Il suo nome sfuggì alle sue labbra in una preghiera appena sussurrata.
Harry non la accolse.
«Avresti dovuto saperlo» disse soltanto, in tono quasi accusatorio.
Emma corrugò la fronte. «Cosa?» Chiese ingenuamente, anche se dentro di sé sapeva a cosa si stava riferendo.
«Questo» rispose lui con ovvietà, concedendosi per un fuggevole istante di scomporsi e di alzare appena la voce. Poi riacquistò il controllo, sospirando e rilassando la schiena. «Che ci sarebbero stati problemi in caso di vomito e tutto il resto.»
Emma avvertì le ultime parole incrinarsi mentre uscivano dalla sua bocca, come se anche lui si fosse accorto del loro significato. Si ritrasse come se avesse appena ricevuto un calcio alla bocca dello stomaco, rabbrividì. «Problemi?» Ripeté, la gola secca, il respiro irregolare.
Improvvisamente una consapevolezza diversa si impadronì del suo corpo incredulo: forse Harry non voleva un bambino, in fondo. Forse era stata accecata dal proprio entusiasmo e aveva finito per attribuirlo ingenuamente e speranzosa anche a qualcun altro. Forse si era illusa, forse si era sbagliata.
Si rese conto che la promessa che aveva fatto a se stessa era troppo difficile da rispettare.
Un limpido terrore iniziò infatti a percorrerle il petto, accompagnato da un marcato senso di protezione, svuotandola di qualsiasi logica ed imponendole una difesa serrata, irragionevole ed istintiva. Emma si portò una mano sull’addome, stringendo tra le dita la stoffa della sua camicetta ed abbassando lo sguardo per un breve momento, per cacciare vie le lacrime che avevano iniziato ad accalcarsi nei suoi occhi. Quando riportò lo sguardo su Harry, senza nemmeno pensarci disse qualcosa che le provocò un dolore atroce, qualcosa che voleva essere una rassicurazione a se stessa ed un ammonimento ad Harry: «Io non ho intenzione di abortire».
Singhiozzò subito dopo, coprendosi la bocca con una mano per nascondere quel suono gutturale e fonte di vergogna. In minima parte anche per nascondere parole che aveva già pronunciato.
Harry si voltò all’improvviso, quanto bastava per guardarla da sopra la spalla. Respirava nervosamente: i suoi occhi erano intrisi di rabbia, di un furore cieco e ferito. Emma vi lesse disgusto e al solo pensiero che quella reazione fosse stata dettata da una sua volontà, da qualcosa riguardante il loro bambino, singhiozzò di nuovo.
Harry si alzò frettolosamente, afferrando un paio di scarpe nell’angolo della stanza.
Emma lo seguì inciampando sul pavimento freddo. Senza prevederlo, lo trattenne per una mano: forse sperava di scorgere anche altro nei suoi occhi, forse sperava che lui leggesse qualcosa nei propri. Ma Harry serrò la mascella e scosse impercettibilmente la testa: «Vaffanculo, Emma» disse soltanto, prima di divincolarsi dalla sua presa ed uscire dalla stanza.
Lei restò inerme al centro della loro camera da letto, sola ed ansante. Si lasciò cadere a terra, non oppose più alcuna resistenza alle lacrime.
 
Harry era uscito subito dopo la loro discussione, Emma non sapeva dove fosse andato.
Lei era rimasta lì, ad aspettarlo.
Seduta sul pavimento, con la schiena contro il letto e le mani tremanti.
Il sole era tramontato, cedendo il posto all’oscurità rischiarata solo dai lampioni in strada e ad una lieve brezza che di tanto in tanto faceva rabbrividire Emma, riscuotendola dal torpore.
Emma non riusciva a pensare lucidamente. Ogni volta che provava a tirare le fila di ciò che era successo, gli occhi di Harry le tornavano alla mente vanificando qualsiasi suo tentativo: avevano creato in lei una ferita apparentemente insanabile, che la faceva piangere come una bambina e che allo stesso tempo bruciava ad ogni lacrima salata che provocava.
Non riusciva a capire, a capacitarsene.
Continuava a confrontare l’Harry che aveva immaginato scherzosamente da chi avrebbe ereditato gli occhi il loro ipotetico primogenito, all’Harry che l’aveva completamente respinta, che si era persino rifiutato di guardarla. Come potevano coesistere? Di quale avrebbe dovuto fidarsi? Per quanto volesse convincersi del contrario, le veniva spontaneo credere all’Harry che le aveva dato le spalle, perché l’aveva fatto di fronte ad una realtà e non di fronte a fantasticherie lontane.
Posto di fronte ad un fatto, era fuggito.
Emma avrebbe voluto dire per paura, ma non c’era nulla a sostegno di quella tesi. Harry si era semplicemente allontanato da lei sia fisicamente sia emotivamente, si era distaccato per poi accusarla di essere stata irresponsabile, come a volerle attribuire una colpa di qualcosa di scomodo, di un problema. Quella parola tormentava Emma oltre ogni tolleranza: le ronzava nelle orecchie, avvolta dal tono roco di voce che lei amava e che in quel momento odiava con tutta le stessa. Racchiudeva la loro differenza di vedute: ciò che per Emma era fonte di gioia, per Harry era un problema che avrebbe potuto essere evitato con un po’ più di attenzione.
Emma odiava ammetterlo, ma dentro di sé sentiva crescere un subdolo senso di colpa, come se Harry avesse toccato un tasto dolente che lei aveva trascurato fino a quel momento: non vi si era mai soffermata, perché non credeva che un bambino – il loro – avesse bisogno di colpevoli da condannare. Eppure lei si era persino ritrovata a chiedersi se Harry avesse ragione, se davvero lei avrebbe dovuto essere più attenta, più responsabile. Quel pensiero la ricoprì di vergogna più delle parole stesse di Harry.
E quando Emma aveva cercato di difendersi da una possibilità che la terrorizzava e che nasceva dalla reazione distante di Harry, quando gli aveva detto chiaramente che lei a quel bambino non avrebbe mai rinunciato, lui ne era rimasto disgustato. Le era impossibile pensare che lui disprezzasse tanto l’idea di diventare padre, per gli stessi motivi per cui si era precipitata a dirgli di essere incinta convinta che ne avrebbero festeggiato insieme: eppure doveva arrendersi all’evidenza. Forse Harry non disprezzava l’idea, ma non la condivideva nemmeno. Possibile che avesse davvero considerato l’opzione dell’aborto e che si fosse sentito orgogliosamente estromesso dalla decisione quando lei l’aveva escluso categoricamente?
Possibile che tra loro si fosse appena interposta una gelida voragine insuperabile?
 
Erano circa le quattro del mattino, Emma non era ancora riuscita ad addormentarsi e non credeva che ci sarebbe mai riuscita.
Harry non era tornato, il che la rendeva ansiosa e preoccupata: aveva anche messo da parte ogni suo sentimento, ogni ferita ed ogni traccia di orgoglio nel chiamarlo al cellulare. Una sola volta. Senza ricevere risposta. Era stata tentata di contattare Zayn, ma non avrebbe potuto né voluto spiegargli la situazione.
Era costretta ad aspettare.
Si alzò dal letto e si recò in cucina a piedi nudi, cercando il pavimento freddo per aggrapparsi ad un qualche stimolo esterno che non riguardasse Harry. Si preparò un thè caldo, ne bevve solo metà: in fondo era stato solo un pretesto per occupare il tempo. Una volta lavata la tazza nel lavandino, decise che poteva essere una buona idea pulire l’intera cucina.
Stava mettendo a posto l’ultima stoviglia, quando Harry fece scattare la serratura della porta d’ingresso.
Emma si voltò spontaneamente, trattenendo il respiro ed afferrando un bicchiere per far finta di essersi alzata per bere, anziché per cedere ad una mania ossessiva di pulizia.
Harry aveva il viso stanco, ancora teso: non la guardò, come se lei non fosse nemmeno lì, a pochi metri da lui. La superò ed Emma lo ascoltò chiudersi in bagno ed azionare la doccia.
Serrò la mascella. Avrebbe dovuto parlargli? Aprire nuovamente il discorso? Chiedergli dove era stato e fargli promettere di non sparire mai più nel nulla? Sinceramente non voleva farlo, né ne sarebbe stata in grado.
Decise di rimettersi a letto, raggomitolata su se stessa, e chiuse gli occhi forse nella speranza di nascondersi a così tante verità scomode, forse per fingere di dormire. Ma inutilmente.
Harry non tornò a letto dopo la lunga doccia.
Nel buio del loro appartamento, Emma spiò in salotto attenta a non far nessun rumore: scorse la figura di Harry sdraiata sul divano, immobile.
Distante.
 
Poche ore dopo, quando la sveglia di Emma suonò sul comodino, riscuotendola da un sonno breve e leggero, la casa era silenziosa. Emma si passò una mano sul viso, prendendo atto del mal di testa che sicuramente non l’avrebbe lasciata in pace molto presto.
Il letto accanto a lei era vuoto e per un attimo, un solo fuggevole attimo, Emma pensò semplicemente che Harry doveva essersi già alzato per andare a lavoro come tante altre mattine. Ma le lenzuola erano ben stirate nella sua parte di materasso, fredde e solitarie: le suggerirono che quella non era una mattina normale.
Emma si alzò ed andò in salotto: lo trovò vuoto.
Harry non c’era.
 
 
19 Maggio 2018
06:46 pm
 
«Buon compleanno!» Esclamò Emma tra i capelli mossi di Fanny, stringendola in un abbraccio affettuoso. Sua sorella minore lo ricambiò, ringraziandola in un sorriso. Era strano vederla crescere così velocemente, osservarla trasformarsi in una piccola donna: ed era ancora più strano ritrovarsi ad articolare pensieri simili, degni di una prozia anziana.
«Ed Harry dov’è?» Domandò Constance, non appena le sue figlie si furono separate. Teneva il piccolo Christopher tra le braccia, ormai un ometto di poco più di un anno dai lineamenti dolci come quelli di Melanie ed i capelli scuri come quelli di Zayn. Gli occhi azzurri furbi e curiosi.
Emma sospirò. «Io sto bene, mamma, grazie» borbottò per temporeggiare. Quando si accorse che tutta la famiglia la stava osservando, si sentì in dovere di precisare: «Non credo riuscirà a venire, il suo capo l’ha di nuovo riempito di straordinari» inventò, infilando le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans e stringendosi nelle spalle. Distolse lo sguardo da quello di sua madre, deglutendo a vuoto il disagio che le opprimeva la gola.
Fanny corrugò la fronte. «Strano, non mi ha detto niente» commentò, prendendo tra le mani il suo cellulare forse per ricontrollare le loro conversazioni in caso le fosse sfuggito qualcosa.
«Ed io che gli ho anche preparato il suo sformato preferito!» Si lamentò Constance, evidentemente dispiaciuta dalla notizia.
«Mamma, ti ricordo che è il mio compleanno: dovresti compiacere me» precisò Fanny, scuotendo la testa.
«Quel ragazzo si fa sfruttare» intervenne Ron, alzandosi dalla poltrona e massaggiandosi la schiena là dove l’avanzare dell’età pesava di più. «Straordinari fino a quest’ora? Pazzesco…»
Melanie prese tra le braccia Christopher, che aveva iniziato a piagnucolare. Zayn le era accanto e ne approfittò per accarezzare il viso del figlio e per offrirgli un dito da stritolare nella sua presa infantile. «Magari riuscirà a passare più tardi» disse speranzosa, cercando di modulare lo sconforto che sembrava aver conquistato l’intera casa. Guardò Emma con un velo di sospetto, ma sua sorella distolse immediatamente lo sguardo, schiarendosi la voce ed affrettandosi a seguire Constance in cucina fingendo di essere interessata alla torta che aveva preparato per l’occasione.
La verità era che Emma non aveva idea di dove fosse Harry, né sapeva se sarebbe venuto alla festa di compleanno di Fanny, anche se ne dubitava fortemente. Dal giorno in cui gli aveva detto di essere incinta, non avevano più parlato. A malapena si erano visti. Lui la ignorava, ma soprattutto la evitava: andava sempre prima a lavoro, tornava sempre più tardi, usciva sempre più spesso. E se anche stranamente si trovavano entrambi a casa, lui non sembrava tollerare di stare per più di due minuti nella stessa stanza. Inutile dire che non dormivano nemmeno più insieme: solo la notte scorsa l’aveva sentito entrare cautamente nella loro camera, sdraiarsi lentamente nel letto facendole trattenere il fiato. Ma si era alzato poco dopo, quando Emma aveva osato lasciarsi sfuggire un respiro appena più profondo, e si era mossa impercettibilmente. Era come se lui non riuscisse a starle accanto, come se non lo sopportasse.
Con il passare del tempo Emma era riuscita a modellare le proprie emozioni, anche se non era propriamente convinta di esserne completamente responsabile: la sua sofferenza si era lentamente travestita da rabbia ed insofferenza. Il risentimento aveva iniziato a scalzare il dolore, l’orgoglio lo rivestiva come una corazza e la testardaggine aggiungeva il suo contributo. Si sentiva intrappolata in un circolo vizioso, dove Harry si allontanava ogni ora di più e lei di conseguenza era sempre meno disposta a fare il primo passo.
«L’ho farcita con il cioccolato, sai che Fanny ne è golosa» stava spiegando Constance, con le guance arrossate dal calore umido della cucina, dove in forno stava ancora cuocendo qualcosa.
Emma approfittò di un suo momento di distrazione per rubare una tortina invitante.
Il suono del campanello riscosse entrambe.
«Chi può essere?» Domandò sua madre tra sé e sé, corrugando la fronte.
Emma sentì una disperata speranza farsi spazio nel suo torace, spiazzata subito dopo da un’incredula disillusione. Si recò in salotto per capire cosa stesse succedendo.
La voce entusiasta di Fanny la pietrificò. «Harry!» Gridò genuinamente, mentre lui varcava la soglia di casa con un misurato sorriso: lei gli si gettò addosso, abbracciandolo e facendolo barcollare appena. «Pensavo non venissi! Emma ci ha detto che stavi facendo gli straordinari» si spiegò. Gli occhi di Harry vagarono sui presenti, fino ad individuare Emma dall’altra parte del salotto: come ormai succedeva da tre giorni, scottato dalla sua presenza, distolse subito lo sguardo. Emma serrò la mascella, rabbrividì. «O era solo per farmi una sorpresa?» Continuò Fanny, carica di allegria.
Harry annuì. «Beccati» sospirò, stringendosi nelle spalle. Le scompigliò i capelli e fece un passo indietro, mentre Ron gli si avvicinava: «Iniziavo a preoccuparmi per i tuoi orari da stakanovista» commentò bonariamente, stringendogli una mano.
Emma si limitò ad assistere alla scena da lontano, con la voglia di fuggire. Tutta la sua famiglia si era radunata attorno ad Harry per brevi convenevoli e lui si ostinava a comportarsi normalmente, con la sua solita aria affabile e beffarda: lei era l’unica esclusa, l’unica che si ostinava a tenere a distanza. Oltre all’amarezza per quel muro insormontabile che le impediva di fare anche solo un passo verso di loro, Emma sentì crescere la rabbia per un dispetto che avrebbe preferito non ricevere: era sicura che Harry l’avesse fatto apposta, che avesse consapevolmente deciso di contraddire le sue aspettative sul fatto che non sarebbe venuto pur di evitarla e dar retta al proprio orgoglio, che avesse deciso di procedere solo per farle un torto, per metterla in difficoltà e per sottolineare ancora una volta il loro nuovo rapporto. O forse Emma era solo troppo fragile, ferita ed arrabbiata per ammettere che magari Harry aveva semplicemente rispettato un impegno preso. Per fermarsi a pensare che la festa di compleanno di Fanny fosse abbastanza importante per lui da costringerlo a condividere il suo stesso spazio vitale per più di qualche secondo. Che fosse più importante del provare a condividere il loro letto.
Un moto irrefrenabile di gelosia la pervase. Fanny era aggrappata al braccio di Harry, mentre lui chiacchierava con Zayn del più e del meno: Emma si vergognò della tentazione di urlare.
Incrociò nuovamente lo sguardo consapevole di Melanie, e nuovamente lo ignorò.
 
Non sapeva cosa l’avesse spinta a farlo, da cosa ne avesse tratto la forza ed il coraggio necessari: forse ne fu responsabile la tensione aumentata esponenzialmente durante l’intera cena, o i continui sguardi eloquenti ed inquisitori di sua sorella maggiore, quelli confusi di sua madre quando Emma non si era seduta accanto ad Harry, la costanza di Harry nell’ignorarla continuamente e con costanza, la voragine al centro del suo petto, la voglia di condividere con la sua famiglia una notizia che avrebbe dovuto essere fonte di gioia e che invece sembrava essere un completo disastro. Eppure Emma l’aveva seguito.
Harry si era allontanato per fumare una sigaretta in giardino e prima che Zayn si potesse alzare per fargli compagnia, lei l’aveva seguito: Melanie aveva spontaneamente appoggiato una mano su quella di suo marito per consigliargli di restare lì, ed Emma gliene fu grata.
Lo trovò seduto su una delle sedie in vimini, lo sguardo perso nel buio.
Emma si chiuse la portafinestra alle spalle, per evitare che qualcuno li sentisse. Non sapeva cosa avrebbe dovuto o voluto dirgli, ma era mossa da un istinto irrefrenabile ed illogico di confrontarsi con lui.
Era come se Emma non fosse lì, Harry non sembrò riconoscere la sua presenza: aspirò del fumo lentamente, assottigliando gli occhi. Lei gli restò affianco, non ebbe il coraggio di stargli di fronte, anche se dentro di sé avrebbe voluto obbligarlo a guardarla.
«Non pensavo saresti venuto» esordì a bassa voce, cercando di tenere sotto controllo il proprio respiro: lasciò libero il proprio cuore, invece, sicura che su quello non avrebbe potuto esercitare alcuna autorità neppure volendo.
Passarono diversi secondi, secondi in cui Emma sentì il bisogno di piangere per la frustrazione causata dal silenzio insopportabile che li divideva. Non era mai stata così lontana da Harry, non aveva mai sentito di essere impotente di fronte a lui, di non essere in grado di scalfirlo, di essere invisibile ai suoi occhi.
«Tu non sapevi se sarei venuto» la corresse Harry, così piano da farle chiedere se l’avesse solo immaginato, spinta dal desiderio viscerale di sentirlo parlare, parlarle. Era immobile, la sigaretta tra le dita, il respiro lento. «Così hai pensato di indovinare cosa avrei fatto. Ultimamente sembra che tu non possa farne a meno» aggiunse, alzandosi in piedi e spegnendo la sigaretta nel posacenere lì accanto.
Emma era confusa, non riuscì a rispondere coerentemente.
Per la prima volta da giorni, Harry si fermò davanti a lei. Le sue iridi serie, rabbuiate da una tensione che non era ancora diminuita e che aveva un solo bersaglio.
Emma non riusciva a capirlo, corrugò la fronte. «Perché?» Domandò. «Perché sei così arrabbiato
Lui non rispose.
Lei si sentì sprofondare, privata di qualsiasi appiglio che avrebbe potuto trarla in salvo. Si sentiva persa. Semplicemente persa.
«Vuoi… Vuoi che mi scusi per non essere stata attenta? Per essere rimasta incinta?» Sbottò, con la voce spezzata. «Vuoi che mi scusi per aver dato per scontato che ne saresti stato felice? Che saresti stato felice all’idea del nostro bambino?»
Se possibile, Harry assunse un’aria ancora più gelida.
«Mi dispiace» continuò lei, senza sapere come riuscisse a parlare senza crollare a terra, senza cedere alle gambe che le tremavano, ai polmoni che faticavano a respirare. «Mi dispiace averlo pensato».
Se ne pentiva.
Era una delle cose che più la faceva soffrire.
Quella e gli occhi di Harry, che ancora una volta le riservarono chiaro disprezzo prima che lui la superasse e rientrasse in casa.


 

 
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Acinorev