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Autore: pierres    21/02/2021    1 recensioni
L’altro giorno l’ha vista, con le sue mani fatte di spuma d’onda, le dita di madreperla, carezzare distrattamente una vecchia camicia bianca trovata in fondo all’armadio.
«Era di papà?»
Sua madre non si volta. C’è sul suo volto un’immobilità fatiscente, un sorriso arcaico, sembra avere labbra di marmo e occhi di pasta vitrea, mentre ripiega con cura la stoffa e la seppellisce di nuovo sotto strati di polvere e ricordi.
«No» dice soltanto.
Henry non fa domande.
[Era mia]

-
«E tua mamma chiede mai di me?»
[Sparrabeth]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elizabeth Swann, Henry Turner, Jack Sparrow, Will Turner
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«E tua mamma chiede mai di me?»

«No»

 

 

 

 

C’è silenzio per la maggior parte del tempo nella grande casa padronale in cima alla collina. Sua madre ha licenziato quasi tutte le domestiche, si occupa da sola delle pulizie. Ha un armadio pieno zeppo di vestiti di raso e broccato di lusso, e grandi portagioie dove tiene i propri monili a prender polvere. Ogni tanto gabbiani stanchi si posano sul davanzale della finestra - lei gli insegna a nutrirli a palmo aperto, con briciole di pane e un sorriso frugale.

L’altro giorno l’ha vista, con le sue mani fatte di spuma d’onda, le dita di madreperla, carezzare distrattamente una vecchia camicia bianca trovata in fondo all’armadio.

«Era di papà?»

Sua madre non si volta. C’è sul suo volto un’immobilità fatiscente, un sorriso arcaico, sembra avere labbra di marmo e occhi di pasta vitrea, mentre ripiega con cura la stoffa e la seppellisce di nuovo sotto strati di polvere e ricordi.

«No» dice soltanto.

Henry non fa domande.

[Era mia]

 

 

 

Ciò che Henry non può capire della vita di Elizabeth, con le piccole mani da bambino piene di graffi e la pelle dei polpacci arrossata dall’edera velenosa del sottobosco, è il preciso disegno che la solitudine traccia con mani lente e implacabili, imperturbabili, ovunque nelle sue stanze e dentro alle vene degli occhi. 

La casa è sempre la stessa: la scalinata, il lampadario, il caminetto, camera sua e il cassetto a doppiofondo che ormai non contiene più nemmeno un segreto – come lei invecchiato, con polvere e rughe a colmare i suoi interstizi invisibili. E lei dorme ancora lì, tra quelle coperte, e la finestra – grande, crudele, bianca e azzurra e panna e oro del mattino e del tramonto, blu come l’abisso, pallida come i gabbiani – che si affaccia sul porto e sull’orizzonte.

Tutto sembra sempre lo stesso, ma Elizabeth no - e poi c’è Henry, ovviamente, Henry che ama più della sua stessa vita, Henry che le ricorda così tanto suo padre. C’è Will in quella sua testardaggine a prova di proiettile, nel suo mento aguzzo e pure negli occhi piccoli e marroni, c’è Will nelle sue mani veloci e abili quando intreccia nodi da marinaio con le corde delle tende di casa, c’è Will dappertutto in lui – in lui, ma non lì. Non lì con lei.

Elizabeth è sola e quando Henry è fuori a giocare, quando scarrozza in cortile con la sua spada smussata di legno e sfida ridendo i gatti selvatici che si nascondono dietro ai barili di grano e aceto, in qualche modo si ritrova sempre davanti a quella finestra che si getta sul mare – si getta, la finestra, proprio così, si lancia sul porto e sul mare aperto, con una ferocia disarmante, spalanca le imposte come nel gesto osceno delle gambe di una puttana e le dice: guarda.

Nient’altro che questo, nient’altro che un grido che non ha bisogno di parole; mentre le tende sottili sbatacchiano al lieve vento e ninnoli di ferro e conchiglie si agitano e si urtano tra loro tintinnando, la finestra si lancia sull’orizzonte tagliente, affilato come una spada, e le dice: guarda.

E lei, ancora testarda, ancora nuvolosa, ancora dannatamente crudele nei propri confronti, obbedisce e osserva; davanti a se’, sull’orizzonte piatto come un tagliere, studia il tramonto o l’alba che sia, qualsiasi ora non importa, e tutto quello che vede è, in ordine: vento, legno, acqua, blu, verde, bianco, spuma d’onda, sole, acqua, acqua, acqua, caldo rovente, gelo di sale – tutto quello che vede è l’orizzonte, le barche, il mare, gente che lavora, tutto quello che vede è-

Libertà.

Ciò che una nave è… ciò che la Perla Nera è, in realtà – è libertà»]

Rabbrividisce all’aria fredda che entra nella stanza, e si stringe le braccia attorno al corpo, come se dovesse tenere insieme mille pezzi grigi di conchiglia frantumata su uno scoglio.

 

 

 

Ma il problema non è tanto star sola, o l’assenza di Will, o le sottovesti di raso – il problema non è Port Royale, le gatte in amore che urlano la notte, i bicchieri d’argento, i quadri alle pareti.

Il problema è il mare. 

La notte lo sente sciabordare, battere ritmi di tempesta o di luna piena sulla spiaggia e gli scogli, sente il suo odore aspro e selvaggio filtrare dalle imposte e scompigliarle i capelli, impigliarsi sotto le ciglia, fischiarle nelle orecchie sogni di prue e di cordame. Il problema è che con il mare arriva anche altro, altri ricordi, altri sogni che ha scelto di riporre nel doppiofondo di un cassetto che non avrebbe aperto più – e non l’ha fatto, Elizabeth è diligente, è fedele, è brava (quasi sempre), ma sono immagini di vento – come lui, come lui – e il vento non resta nei cassetti.

Il problema è che con il mare e come il mare – come la marea, come l’onda che rapisce e riporta e rapisce di nuovo, come polpo d’abisso che si avvolge alla caviglia, come corallo che taglia, come sole che scotta e riscalda, come sale che brucia e guarisce – ritorna anche lui, col suo sorriso d’oro e le sue mani da gitano. Roventi.

Quelle notti, Elizabeth si lascia soffiare all’orecchio, dal vento, parole di tuono e d’amore.

[soffoca poi singhiozzi strozzati sputandoli contro il cuscino]

 

 

 

A giorni guarda l’orizzonte e si incide a sangue le pupille con quella linea troppo dritta - un taglio tra le palpebre, una spada affilata - e in realtà non sa cosa cerca, cosa aspetti.

Se il suo destino ormai è davvero questo, se come una barca tirata in secca deve solo sedere e guardare e aspettare, almeno si concede il privilegio di non chiedersi cosa - di non dover scoprire chi.

Gli anni passano, passano i tramonti. Nel letto vuoto le manca Will - nella tavola apparecchiata per due, nell’acqua della vasca sempre troppo fredda, c’è impressa l’assenza di suo marito.

Ci sono poi, però, quei falò organizzati vicino alla spiaggia, dei quali si vedono solo le luci smorzate e tremolanti dalle finestre della grande casa in collina, e si sentono echi distorti di canzoni cantate con forza, gridate raucamente con gli occhi rivolti alle stelle. In quei falò e in quelle notti, Elizabeth rivede altre notti e altri fuochi, e sempre le stesse stelle, osservate dal ponte di una nave silenziosa, con le vele gonfie sopra la testa, mentre tutto intorno era solo mare e cielo, era solo orizzonte a tutto tondo che però non tagliava mai – forse era la sua figura ondeggiante a smussare tutti gli angoli.

Nei falò e nelle stelle, non c’è posto per nient’altro che non siano il profumo e gli occhi neri di Jack – occhi da squalo, occhi di corallo. Nel mare sente all’infinito lo sciabordare della sua risata.

 

 

 

«Mi racconti una delle storie di te e papà?»

Elizabeth sorride piano, carezzando i capelli scuri e sottili del figlio.

«Quale vuoi sapere?» mormora materna, poggiandogli le labbra sulla tempia tiepida. «Di come ci siamo conosciuti? Tuo padre era mezzo affogato… Di quella volta in cui dovevamo sposarci e io finii in manette? O di quando ci siamo sposati davvero sul ponte di una nave in mezzo alla tempesta? O di quando-»

«Mamma…» 

Elizabeth si blocca. Abbassa lo sguardo: Henry è lì tra le sue braccia, il suo pupazzo a forma di squalo ha certi occhi neri e vuoti, immobili – non sono così gli occhi degli squali, pensa, non sono così, io gli ho visti, io li ho avuti ovunque, non sono così.

«Mamma» ripete Henry (è un secondo, un attimo infinito, Elizabeth sa che sta per chiederle qualcosa e non sa cosa ma il suo cuore perde un battito, ne perde cento, come se sapesse, come se si aspettasse che-) «Mamma, mi racconti di Jack Sparrow?»

L’attimo si congela – è magia. Come il tempo si fermi per un secondo infinito più lungo del normale, come se ci fosse un meccanismo grande, universale, un meccanismo che fa funzionare tutto, e poi ad un certo punto questa macchina celeste, questo sistema infallibile che porta avanti il mondo e il tempo e la terra e il cielo e il mare, ad un certo punto si inceppa su un secondo di vita – un secondo: Elizabeth ha ancora Henry tra le braccia, le labbra vicino alla sua tempia, il respiro immobile, spezzato dall’attimo in mille frammenti dolorosi, e suo figlio la guarda e aspetta col suo naso piccolo e le guance da bambino, e lo squalo di pezza coi suoi occhi vuoti fissa il soffitto bianco e non lo vede davvero.

Ma per raccontare di Jack, bisognerebbe prima spiegargli chi era – chi è – Jack. 

Chi è Jack?

[«Sei un brav’uomo», «Persuadimi», lo scrigno, Tia Dalma, «Capitan Jack Sparrow, se non vi dispiace», Davy Jones, sole, sabbia, sale, «Non avrebbe mai potuto funzionare»-

«Qual è la cosa che più desideri al mondo?»]

C’è un grido che le scava la gola, se uscisse fuori saprebbe di carne e di sangue salato, se uscisse fuori sarebbero due parole tremende che con la forza di un terremoto butterebbero giù tutto, l’isola, le barche, il cielo, pure il mare, pure l’orizzonte.

[Sei tu]

E sebbene non sia mai stato così semplice, quando ripensa a quella bussola si chiede: oggi dove punterebbe? Forse solo verso un generico orizzonte – verso la libertà.

[Ma Jack era questo alla fine, ciò di cui era fatto, oltre a vampa e carne e ambra, la sua essenza, il suo profumo, il suo scopo e la sua vita, la sua nave, la sua spada, Jack era questo: libertà]

Henry chiede di lui, ma Elizabeth non può parlarne e non saprebbe come: come si racconta del mare e del vento? Come si racconta di un gabbiano, del legno di un timone? Come si racconta di una gioventù passata a chiedersi dove fosse il proprio posto, passata a sentire il seno incastrarsi perfettamente al parapetto della nave, passata con i suoi occhi d’abisso e la sua pelle calda lì, ad un passo, lì – sembrava così vicino allora, e adesso dov’è?

Adesso dov’è?

[Vorrebbe maledirlo cento volte mentre guarda gli occhi di suo figlio e capisce che infine è giunta al limite che non può valicare, è giunta alla domanda a cui non può rispondere – lui, lui, sempre di lui la colpa, lui tra le dita e tra i capelli, lui sulle labbra per il tempo di un bacio, lui sull’orizzonte, modellato dietro al timone, con il cappello dritto e il tramonto negli occhi mentre canticchia a mezza bocca uno dei suoi motivi allegri, mentre a palpebre socchiuse apre le labbra in un sorriso e solleva il capo con un gesto fluido che ordina soltanto: portami all’orizzonte.]

Certe persone non si possono raccontare, non per come sono realmente, almeno. Ci si ammazzerebbe, o se ne ammazzerebbe il ricordo.

«Non c’è poi tanto da dire. Era… un grande pirata»

Henry la guarda, attende.

«Un brav’uomo. Era un brav’uomo»

[«Vorrai sapere che sapore ha...»

«Voglio già sapere che sapore ha»

Stupido, maledetto, insuperabile amore di vento e corallo]

 

 

 

«E tua mamma chiede mai di me?»

Henry guarda gli occhi dell’uomo che ha davanti, occhi neri, taglienti e arroventati, occhi di pescecane, e ripensa a sua madre: collo bianco, polsi sottili, riccioli biondi, un sorriso dolce come burro e tenace come ferro. Ripensa a sua madre e alla grinta che ha addesso, al modo in cui fissa l’orizzonte senza mutare espressione, senza torturarsi le mani, con lo sguardo di chi aspetta e basta, non sa chi, non sa cosa, aspetta. E guarda.

Ripensa al modo in cui sorride quando parla di suo padre, alle sue fossette appena accennate, alle sue gote tinte di rosa – poi ripensa ai suoi occhi e al taglio che assumono al nome di Jack.

Lo guarda di nuovo, se lo fissa bene in mente, quell’uomo così perso, con le sue cicatrici e la sua pelle screpolata dal sole, i suoi tatuaggi, lo sporco sotto le unghie. Si chiede chi sia veramente, chi sia stato.

Un brav’uomo.

Ma non vuol dire nulla.

«No»

 

 

 

Sua madre chiede di lui tutti i giorni, ma lo domanda all’orizzonte, lo esige dal mare e dal cielo e dai tramonti, dalle stelle. Sua madre chiede di lui in una preghiera silenziosa, chiede di lui anche quando chiude le imposte per non far filtrare vento salmastro dall’odore di legno e di alga e di squalo e di rum fin sotto le coperte del suo letto. Sua madre chiede di lui senza saperlo, senza volerlo, chiede di lui negandolo, chiede di lui maledicendolo e maledicendosi, piangendo per suo marito, soffrendo per la sua solitudine - sola davanti ad una finestra spalancata sull’infinito, sua madre chiede di lui.

Henry non l’ha capito, non lo saprà neanche Jack.

Resteranno solo i ricordi sbiaditi di granelli di sabbia tra le dita e nel corsetto, il bruciore dell’alcool contro la gola fin troppo tenera, per niente avvezza, il frusciare delle foglie delle palme, lo scoppiettare del falò.

L’attimo infinito in una notte eterna fatta di stelle e chiaro di luna, mentre tutto attorno l’orizzonte era nero e c’era e non c’era, immobile e sconfinato solo per loro, e non tagliava neanche un po’.

 
























 

  
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