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Autore: Apatya    25/02/2021    1 recensioni
"Al solo pensiero di poter creare meravigliosi quadri, mi emozionava a tal punto da gemere di piacere. Non riuscivo a tenere a bada la mia fame, la mia sete di anime sporche, cattive, da provare pietà per la loro ingenuità maligna.
Uscii fuori da quella casa e in mezzo le vie, ricoperte di neve fresca, ritornai a cantare melodie soavi, mentre una corona di margherite rosse mi accarezzava il capo e agghindava le mie lunghe corna ricurve, allegoria di una passione macabra."
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Cantavo la più dolce delle melodie, una ninna nanna soporifera da far addormentare anche la bestia più feroce della Terra. Avevo preso forma di una ragazza dai capelli lunghi e sottili da sembrare piume di corvi famelici. Ronzavo per le strade deserte ogni notte di Natale, l'aria era frizzante e i corpi ansanti della gente si precipitavano nelle loro camere, dentro quelle piccole case in mattoni, attaccate le une alle altre, da riscaldarsi a vicenda in mezzo alla coltre di neve candida, mentre i loro corpi si abbandonavano a un sonno apparente.

Ogni anno arrivavo in sembianze diverse, per saziare la mia fame di carne e paura. Mi arrampicavo sui muri per entrare nei cunicoli dei camini, nelle crepe dell'intonaco e negli spifferi delle finestre. Gli innocenti erano i miei preferiti, attendevano con ansia l'arrivo di un uomo in rosso o addirittura, alcuni, la nascita di un bambino venerato e amato da tutti.

Povere piccole creature indifese, se sapessero il loro vero scopo piangerebbero di terrore. Io ero lì per espiare le loro pene, prima che si distruggessero a vicenda. Avrei saziato la mia voracità entrando dentro le cavità nasali, nelle orecchie, baciato milioni di labbra per invadere vene e arterie di liquido nero, denso, da rendere il sangue in grumi di fango: cibo per vermi e mosche. Mi sarei presa i loro sogni, le loro paure e infine avrei banchettato con la loro carne putrida. Era un lavoro sporco, ma eccitava ogni centimetro del mio corpo.

Quella notte, mi fermai davanti al portone di una casa agghindata a festa, le luci bianche intermittenti abbagliavano le mie iridi scure come la pece. In una frazione di secondo, durato un battito di ciglia, la mia epidermide pallida si trasformò in una nebbia nera: divisioni di molecole e cellule, da poter oltrepassare qualsiasi superfice si presentasse al mio cospetto.

Una volta dentro, mi precipitai su per le scale senza fare rumore e, come un serpente a sonagli, mi intrufolai tra le coperte, dove avrei trovato carne calda piena di sangue. Mani forti e corpo snello di un uomo addormentato, sotto dolci melodie della mia voce angelica. I suoi occhi si spalancarono, mi vide sopra di lui, ma prima che potesse urlare gli tolsi le corde vocali, le annodai strette tra di loro e sibilai di restare in silenzio. Immobile, come una statua di marmo, si rigirava le iridi come un forsennato, mentre il suo viso veniva accarezzato da sottili fili scuri, assaporato dalla mia lingua biforcuta. Sprofondai una mano nel petto ipnotico di respiri veloci e cadenzati, spezzavo ossa, frantumavo organi, squartavo vene e arterie da fargli uscire dagli occhi lacrime di sangue. Licore di un rosso carminio, da eccitare anche il più sadico dei diavoli. Rantoli strozzati venivano fuori da quelle labbra piene, mentre gli occhi tremavano come foglie mosse dal vento.

I miei denti affilati si riempirono di bava, colò lungo le appuntite sciabole da rendere il mio sorriso luminoso agli occhi del malcapitato. Affondai senza ritegno la sua carne, sbranai muscoli, ossa, nervi ancora pulsanti e vene ricolme di sangue da colorarmi i capelli di sfumature carminiche. Fin quando non gli strappai il cuore, il palmo intriso di liquido caldo e le unghie infilate dentro quei battiti ancora pulsanti strinsero quell'organo come un trofeo da far ammirare. La sua paura era eccitante, rendeva ogni scossa sempre più piacevole. Risi di gusto, gorgoglii profondi mischiati a stridi acuti, e diedi lunghi, morbidi morsi alla sua anima.

Quella notte di Natale, tra le strade deserte e piene di luci colorate, portai i miei doni alla gente cattiva; era ciò che si meritavano. Avrei catturato il loro male, si sentivano superiori a me, angelo della morte e portatore di discordia. Nella vita non avevano fatto altro che recare malinconia, odio, dolore nella vita degli altri e lui ne era un'esempio lampante. Lo avevo visto nel suo sogno, mentre un pezzo del suo cervello si era infilato tra le mie unghie affilate come rasoi.

Mi pulii, col dorso della mano, la bocca ancora grondante di liquido e catrame. Vedendo quel meraviglioso dipinto in mezzo alle coperte azzurre, ormai imbrattate di sangue, lasciai petali di fiori sparsi per la sua stanza: regali puri per anime nere. Riempii ogni centimetro di spazio e dentro il suo sterno vuoto, lo colmai con margherite fresche. I loro steli si nutrirono del suo icore e presero sfumature di rosso da farmi addirittura piangere di tristezza. Una vergine primavera, in mezzo a un inverno perenne.

Accarezzai il suo viso ruvido, ormai violaceo, e la bocca spalancata, coperta da una margherita gialla. Avrei voluto imprimere quell'arte macabra nelle mie pupille e poterla ricordare per sempre. Non potevo, però, lasciare liberi spiriti dannati che si sarebbero potuti salvare. Altri cuori mi aspettavano e altre margherite attendevano di poter riempire voragini di gente peccatrice. Quel Natale era stato il migliore di tutta la mia eterna vita. Stavo facendo un favore al mio re, il quale mi avrebbe ringraziato per avergli portato così tante anime all'inferno, da soddisfare la sua insaziabile vendetta. Ero un cavaliere fedele al suo imperatore.

Al solo pensiero di poter creare meravigliosi quadri, mi emozionava a tal punto da gemere di piacere. Non riuscivo a tenere a bada la mia fame, la mia sete di anime sporche, cattive, da provare pietà per la loro ingenuità maligna.

Uscii fuori da quella casa e in mezzo le vie, ricoperte di neve fresca, ritornai a cantare melodie soavi, mentre una corona di margherite rosse mi accarezzava il capo e agghindava le mie lunghe corna ricurve, allegoria di una passione macabra. Ballavo sola, tra folletti, abeti decorati e il ghiaccio formatosi nelle zone più umide, mentre i miei lunghi capelli neri volteggiavano, cullati dal vento gelido di dicembre. La pelle si mischiava con il paesaggio innevato, da sembrare un bucaneve appena sbocciato.

«Buon Natale, mie piccole anime dannate. Non accalcatevi, ce n'è per tutti. La morte sa essere generosa» sibilai ilare.

   
 
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