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Autore: SkyDream    05/03/2021    4 recensioni
[Ship! AtsuHina, KageHina, SakuAtsu]
Oro, sabbia, vento e vetro si intrecciano l'uno dentro l'altro.
Così Atsumu deve fare i conti con un amore che crede impossibile.
Shoyo si accorge che forse la pallavolo non può dargli tutto.
Tobio deve accettare di essere debole, nonostante sia una scoperta amara.
E Kiyoomi deve trovare il coraggio per smettere di essere trasparente.
-
Dal testo:
«E adesso sei tornato qui. Perché?».
Shoyo si voltò verso di lui, lo sguardo ambrato che sembrava rame fuso misto ad oro si abbinava perfettamente con la luce del tramonto. Cosa sembravano quelle lunghe ciglia che creavano ombre delicate sugli zigomi sollevati in un sorriso.
«Perché voglio giocare a pallavolo, e perché ho un conto in sospeso in Giappone».
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~ Miele d'arancio ~
[AtsuHina, KageHina, SakuAtsu]



Oro
Atsumu era innamorato.
Non era cotto di qualcuno, né desiderava qualcuno. Era semplicemente innamorato.
E non di qualcuno, ma del suo schiacciatore più basso.
Non che Atsumu fosse totalmente scemo – per quanto suo fratello fosse indubbiamente il più intelligente dei due -, ma di certo ci aveva messo un po’ per realizzare il pasticcio in cui si era andato a ficcare.
Il problema però, da sempre, era solo e soltanto Kageyama.
Fin dal ritiro prima dei nazionali, Atsumu e Tobio si erano dati del filo da torcere e, ad un occhio poco attento, quella intrinseca rivalità avrebbe potuto essere attribuita al fatto che, in campo, avessero lo stesso ruolo.
Eppure, ai tempi dei nazionali, Atsumu non aveva la più pallida idea di cosa si celasse dietro quel bravo bambino.
Tobio, quando voleva, sapeva essere il più malefico dei diavoli.
E lo era, ogni volta che lo vedeva giocare con Shoyo, ai tempi del liceo. Li vedeva volare insieme su quel campo, ridere dopo aver segnato un punto e vedeva – sopra ogni cosa – lo sguardo colmo di fiducia e totalmente dedito che Shoyo gli riservava.
Eh, cosa fosse la gelosia, Atsumu Miya lo aveva scoperto dopo la prima partita con la Karasuno.
Shoyo era un concentrato di vitalità, un uragano di energia capace di rianimare chiunque e con quel sorriso, lapalissiano, non poteva che farti innamorare della pallavolo anche se non avevi mai visto un pallone prima.
Era il carisma, no, erano i capelli color carota, indubbiamente! Oh, ma anche le lentiggini che risaltavano appena sotto gli occhi.
Era semplicemente Shoyo ed innamorarsi, per Atsumu, era stato inevitabile.
Aveva quasi sospirato di sollievo quando Shoyo, durante uno dei loro rari scambi di messaggi, gli aveva confessato che presto sarebbe partito per il Brasile.
Rio de Janeiro.
Figurarsi se Tobio lo avrebbe raggiunto lì dopo aver ottenuto un posto negli Adlers. Naah.
Molto meglio così, Shoyo non sarebbe stato suo, ma neanche di quel diavolo di Kageyama. Ben gli stava!
Certo, Atsumu aveva continuato a sentire una voragine nello stomaco – un mix molto articolato di sentimenti dolci bruciati e macchiati, di gelosia e invidia che divampavano – che lo faceva sentire il peggiore delle fecce umane.
Si era confidato, per metà, con suo fratello, spiegando molto a grandi linee la faccenda e senza fare nomi. Osamu aveva fatto finta di non capire, non perché non volesse mettere in imbarazzo suo fratello – quello era il suo hobby preferito – ma semplicemente perché ci teneva ad essere costantemente aggiornato su quella che sarebbe stata la telenovela di casa Miya.
Insomma, Atsumu aveva cercato di toglierselo dalla testa – con scarsissimi risultati, tra l’altro – e non si era nemmeno degnato di voltarsi dal lato opposto.
Se solo lo avesse fatto, Atsumu.
Quante pene si sarebbe risparmiato.
Ma lui no, no!, Atsumu voleva Shoyo, sognava ancora i suoi capelli color carota e sognava di avere su di sé il suo sguardo, il suo sorriso caldo, sognava di poter finalmente toccare quel viso che dà l’impressione non potrà mai essere freddo.
E poi – quale colpo al cuore era stato realizzarlo. – avrebbe voluto baciarlo.
Si era imposto di fermarsi lì. Di non andare oltre perché il suo cuore non avrebbe di certo retto e si sarebbe trovato a vagabondare sulle spiagge di Rio urlando il suo nome e parlando solo giapponese.
Le carceri in Brasile non sembravano allettanti, in fondo.
E allora Atsumu aveva semplicemente tirato avanti, consapevole che prima o poi qualcosa sarebbe successo: il ritorno di Shoyo, o magari sarebbe stato lui a partire, o forse si sarebbe innamorato di nuovo.
Di nuovo.
Ad Atsumu mancò l’aria. No! Dei e Numi del cielo, tutto ma non un nuovo amore.
Chi lo aveva il cuore per reggere un’altra storia così?
Piuttosto si augurava di ritrovarsi un asteroide in testa, almeno lo avrebbe fatto finire all’altro mondo e tanti saluti.
Di tutti i programmi che si era fatto, Atsumu non aveva di certo calcolato la situazione peggiore.
 
- Osaka. Ore 19:30 di una tarda primavera.
 
«E’ stato davvero magico, mi sembra di aver vissuto un luuuunghiiissimo sogno!» Shoyo se ne stava seduto sullo schienale della panchina, con il viso rivolto verso le montagne dietro cui stava scendendo il sole. Atsumu, seduto come qualunque essere normale, se ne stava un po’ più in basso con gli occhi ben aperti.
L’aria calda che soffiava in quel cortile, fino a poco prima pullulante di bambini intenti a giocare, non faceva altro che scompigliare ad entrambi i ciuffi sul viso.
Atsumu si era un po’ incantato a fissarlo, a guardargli quei capelli troppo lunghi che creavano morbide onde dietro la nuca e le orecchie.
Il Brasile lo aveva temprato, aveva colorato la sua pelle rendendola dorata e le lentiggini – prima appena visibili – erano emerse su quel viso sprizzante di felicità.
Perfino quella camicia bianca, di un tessuto leggerissimo e dall’aria straniera, gli conferiva un fascino particolare.
Del vecchio Shoyo – pensò – erano rimasti solo gli occhi e il sorriso.
E neanche, constatò, perché sul labbro superiore aveva una piccola cicatrice. La indicò.
«Ah, questa? Si vede tanto?».
Atsumu annuì e giurò di averlo visto arrossire.
«A Rio ho fatto il fattorino per mantenermi, solo che lì le strade sono piene di buche così qualche mese fa sono volato a terra e quindi-» Shoyo rise, più che altro perché ricordava bene come il suo primo pensiero era stato quello di camminare, saltare e controllare i polsi.
Poi del labbro spaccato e della bici distrutta se n’era occupato dopo, quando una signora aveva cominciato a strillare guardandogli la maglietta piena di sangue.
«E adesso sei tornato qui. Perché?».
Shoyo si voltò verso di lui, lo sguardo ambrato che sembrava rame fuso misto ad oro si abbinava perfettamente con la luce del tramonto. Cosa sembravano quelle lunghe ciglia che creavano ombre delicate sugli zigomi sollevati in un sorriso.
«Perché voglio giocare a pallavolo, e perché ho un conto in sospeso in Giappone».
 
A sentirgli dire quelle parole, con lo sguardo di chi bramava il cuore di qualcuno, Atsumu aveva sentito un fuoco divampargli da sotto il ventre e risaliva, lo stava inondando come avevano fatto quei sentimenti che lo avevano portato lì, a ritagliarsi un momento con Shoyo dopo troppo tempo.
E allora fece l’unica cosa che poteva fare.
Non si augurò neanche che fosse quella giusta, sperò solo di non pentirsene.
 
Se Tobio vuole essere il peggiore dei diavoli, io sarò il Re degli Inferi.
 
Atsumu si sollevò sulla panchina su cui era seduto e raggiunse il viso di Shoyo senza neanche dargli il tempo di capire.
Lo fissò negli occhi – o meglio, ci annegò per l’ennesima volta e si sentì affogare e avrebbe voluto dirgli di , sì, sì, se il suo destino era quello di morire baciandolo, avrebbe volentieri raggiunto l’altro mondo dopo essersi guadagnato la dannazione eterna.
Shoyo espirò sulle sue labbra prima di ritrovarsi la bocca di Atsumu sulla propria.
C’era urgenza in quel bacio e – inutile nasconderlo – anche la voglia di avere di più.
Atsumu, d’altronde, era così.
Era sempre di più. Avrebbe passato la vita senza mai accontentarsi di qualcosa anche se, santo cielo!, le labbra di Shoyo erano così morbide e piacevoli che gli sarebbero bastate per sempre.
Quel bacio sempre più approfondito portò Shoyo alla necessità di ancorarsi al capo chino di Atsumu, aveva un’improvvisa smania di toccarlo, di infilare le dita tra i suoi capelli.
Poi si arrestò.
Atsumu non seppe mai cosa passò nella mente dell’altro, ma era sicuramente stato un pensiero forte, abbastanza da sconnetterlo da quel bacio così passionale.
 
Ad Atsumu, però, non era mai importato.
Perché Shoyo lo aveva baciato il giorno dopo e quello dopo ancora e così per un intero mese.
Aveva passato un mese con un raggio di sole caldo e vivace dentro la sua vita.

 
Sabbia
 
Shoyo era ferito.
Non per una delle mille cadute con la bici che aveva sperimentato tra le strade di Rio, né per le pallonate in testa che gli arrivavano perché non riusciva ancora a scivolare bene sulla sabbia.
Shoyo era ferito perché, nel buio della sua cameretta, si era riscoperto solo.
Non aveva ancora imparato a comunicare in portoghese e, per quanto avesse già cominciato a giocare a beach volley, non riusciva ad attaccare bottone con nessuno.
Aveva mandato un messaggio a Tobio in quei giorni, ma non aveva mai ricevuto risposta. Nemmeno alle chiamate che gli faceva in piena notte, quando era sicuro che dall’altra parte del mondo fosse già mattino inoltrato.
Tobio non aveva risposto.
E Shoyo era seduto a terra, stringeva i bordi della maglietta e si mordeva le labbra perché quell’esperienza a Rio gli stava togliendo una delle cose belle della sua vita.
Forse la più bella.
Shoyo era ammirato da molti giocatori – ne era cosciente – e anche da qualche allenatore. Era benvoluto dai suoi amici lì in Giappone e questi non perdevano occasione per stuzzicarlo con qualche messaggino.
Ma non bastava.
Shoyo, in una delle sue lunghe meditazioni in riva al mare, si era riscoperto ad essere a corto d’amore.
Aveva cercato di tornare indietro, di sforzarsi di ricordare se avesse mai ricevuto una lettera d’amore o una dichiarazione. Non aveva neanche mai avuto un appuntamento, per non parlare del primo bacio.
Tutto – letteralmente tutto – era stato eclissato dalla pallavolo.
Certo, lui amava quel pallone e le emozioni che gli regalava ma, da quando era partito per inseguirlo quel pallone, non gli era più bastato.
Allora aveva cercato di chiamare Tobio, perché si era riscoperto a necessitare della sua voce, dei suoi sospiri quando lo stuzzicava e di quei sorrisetti sornioni quando aveva davanti un setter che voleva metterlo alla prova.
Tobio, da sempre, viveva in un mondo a sé stante eppure – per la prima volta – aveva aperto la porta di quel mondo anche a qualcun altro. E Shoyo lo sapeva. Ne era consapevole perché aveva fatto altrettanto.
Quante volte, in quella spiaggia ai primi tiepidi raggi di sole, prima che le macchine cominciassero il suo frastuono e i ragazzini si riversassero nelle strade, Shoyo si era nascosto dentro i suoi ricordi.
Dentro quegli abbracci dati dopo una vittoria, dentro quelle volte in cui Tobio gli sussurrava all’orecchio, dentro le miriadi di volte in cui Tobio gli aveva fasciato le dita e gli aveva spalmato della crema sulle mani screpolate dal freddo.
Lo richiamava sempre, dicendogli che doveva prendersi più cura di sé.
E, sopra tutto, ricordava con dolore la sua espressione dopo l’ultima partita delle nazionali al primo anno.
In quell’occasione, senza dire una singola parola, Tobio gli aveva comunicato qualcosa che lui non aveva compreso. Si era limitato, stranamente, a farsi coccolare da quelle dita lunghe e affusolate che avevano preso a tamponargli la fronte con un asciugamano bagnato.
Si era beato di quelle carezze, senza comprenderne il reale motivo.
E c’era voluto un volo di ventiquattro ore e una permanenza in un continente nuovo per capirlo.
Hinata Shoyo era innamorato.
 
Era stata durante una delle sue crisi, mentre si rannicchiava nell’angolo più buio della camera, in modo che neanche il sole potesse vederlo, che era arrivato un messaggio di Atsumu.
Gli era comparsa la notifica sullo schermo, c’era una buffa volpe che sogghignava come foto del profilo, e gli aveva chiesto “Come stai?”.
Non “Cosa fai” né “Ciao”.
Come stai?
Devastato, distrutto, a pezzi.
Mi sento come la sabbia smossa sotto il fondale marino.
 
Allora gli aveva risposto, in modo sincero, dicendogli che stava molto meglio perché gli aveva fatto piacere ricevere quel messaggio.
Atsumu, di contro, lo aveva tempestato di gif con volpi ridacchianti e perfino una foto di Ushijima con i baffi che non aveva fatto altro che farlo scoppiare in una risata incontenibile.
E Shoyo, per la prima volta dopo mesi, si era sentito bene.
 
La sua permanenza a Rio era durata esattamente due anni, né un mese di più né un mese di meno, e in quell’arco di tempo era riuscito a racimolare i soldi per tornare a casa una sola volta – per la prima partita di pallavolo di Natsu -.
Era emozionato all’idea di ritornare nel luogo che aveva sempre visto come casa, ma sapeva anche che la decisione di non prolungare il suo soggiorno in Brasile era dettata da tutt’altra cosa.
Aveva fatto i bagagli, con il minimo indispensabile, e aveva salutato per l’ultima volta quella spiaggia soleggiata. Le aveva promesso che sarebbe tornato, un giorno.
Santana e tutti i suoi amici lo avevano accompagnato all’aeroporto, affettuosi, coscienti del fatto che presto lo avrebbero rivisto sugli schermi.
Eppure – si era chiesto – chissà se qualcuno aveva letto nei suoi occhi quali fossero i desideri che teneva dentro.
Shoyo, prima di salire sull’aereo, aveva scritto un messaggio a Tobio avvertendolo del suo arrivo. Scrivendogli, in un post-scriptum, che gli avrebbe fatto piacere vederlo in aeroporto.
Non si era illuso, però, d’altronde Tobio gli aveva riservato messaggi sporadici e sterili in quei due anni. Perché avrebbe dovuto arrivare fino all’aeroporto?
 
Tobio non era lì.
Shoyo era riuscito ad arrivare a Miyagi e a lasciare le valigie sul letto prima che il telefono suonasse.
L’immagine non era quella di una volpe che sogghigna.
Sullo schermo spiccava la foto di un setter dalla maglia bianca e rossa.
“Sei tornato per restare?”.
Una domanda infantile, innocente, che Shoyo non accettò volentieri.
Per restare?
Adesso essere andato in Brasile era una colpa? Aveva ferito qualcuno? Non gli sembrava proprio.
 
Ho una faccenda in sospeso.
 
Shoyo aveva una faccenda in sospeso con se stesso, con i propri sentimenti e anche – soprattutto – con Tobio.
Tobio che non aveva voluto saperne di scollarsi dal suo cuore.
Tobio che, per l’ennesima volta, non aveva risposto al suo messaggio.
 
Entrare nei MYSB Black Jackals era stata una vera fortuna, una boccata d’aria non indifferente.
Shoyo si sentiva bene in quella palestra, soprattutto grazie alla presenza di Bokkun, che condivideva il suo entusiasmo senza farlo mai sentire inopportuno.
Era stato divertente, poi, mostrare a tutti i progressi fatti con il beach volley.
Nessuno di loro, però, aveva compreso il motivo per cui scuotesse il pallone prima di effettuare una battuta.
La faccia che più lo aveva colpito, però, era stata quella di Atsumu.
Effettivamente non lo aveva avvertito del suo ritorno, o meglio, era stato un po’ vago sui giorni e non lo aveva illuso dicendogli che forse sarebbe entrato nei Black Jackals.
Eh, Atsumu Miya lo aveva appena scoperto e la sua bocca a momenti stava toccando terra.
«Atsune!*» Shoyo gli riservò il più bello dei suoi sorrisi e lo raggiunse in un paio di salti, il pallone ben ancorato tra le braccia color ambra «Giochiamo un po’ insieme, ti va?».
 
Poi Shoyo aveva cancellato il seguito, la partita, la passeggiata, il tramonto visto dal parco.
Ricordava solo lo sguardo di Atsumu, colmo di dolcezza e di sentimenti a cui lui non aveva mai pensato.
Tobio, Tobio, Tobio.
Nella sua testa e nel suo cuore non c’era mai stato spazio per altri se non per lui. Eppure, si disse, forse qualcosa stava cambiando.
 
Shoyo quel pomeriggio assaggiò, per la prima volta, sulle sue labbra, il sapore dell’essere amati.
Si beò, per la prima volta, della tenerezza di essere stretti contro qualcuno.
Avrebbe voluto rimanere lì, Atsumu era caldo e piacevole e le sue labbra morbide tremavano per l’emozione.
Non rubare l’amore degli altri, Shoyo.
 
E così fu.
Shoyo si allontanò appena da quel bacio, anche se col fervente desiderio di ricominciare.
Non era sicuro di quello che stava facendo, Atsumu invece aveva lo sguardo di chi non aspettava altro.
Le ombre scivolarono di dosso ad entrambi, la luce dei lampioni in strada preannunciava l’arrivo della sera. Atsumu non aveva fiatato.


Shoyo quella sera si era buttato sul letto della sua nuova stanza, nella sua nuova casa, così diversa da quella di Rio, dall’odore così inusuale.
Era felice, però, di poterla condividere con Bokuto. Almeno non si sarebbe sentito solo (Ci si può sentire soli con Bokuto?) e di tanto in tanto Akaashi avrebbe avuto pietà di loro e avrebbe preparato delle cene commestibili.
Non gli era andata poi così male.
Su quel letto, dalle lenzuola già sfatte, ripensava al bacio di Atsumu.
Il suo primo bacio. Ed era stato bello, senza alcun dubbio.
Solo per quei dieci istanti, ne era valsa la pena tornare da Rio con un volo di ventiquattro ore.
Lo avrebbe fatto almeno un centinaio di volte, per avere un altro bacio.
Un altro assaggio di ciò che significa essere amati.
E poi, doveva ammetterlo, Atsumu era sempre stato parecchio carino con lui – e quei messaggi nel momento perfetto mentre era a Rio, ne erano solo un esempio – per cui cominciò a riflettere su quale fosse, realmente, il suo sentimento nei suoi confronti.
E con l’ultima ombra di quel bacio sulla bocca, Shoyo si addormentò.
 
Non sapeva ancora che, esattamente un mese dopo, durante un’amichevole, Tobio lo avrebbe salutato dagli spalti.

 
Vento


Tobio era devastato.
Shoyo era partito per il Brasile, con la promessa di migliorare notevolmente nel giro di soli due anni.
Se n’era andato, aveva trascinato quelle grandi valigie e lo aveva salutato con la mano come se si sarebbero rivisti il mattino dopo.
Ma così non era stato.
Tobio si era svegliato, ogni giorno, con la voglia di correre e raggiungere la Karasuno solo per sperare di trovarlo lì. Catapultarsi in uno squarcio spazio-temporale e tornare ai tempi del liceo dove Shoyo lo sfidava a chi arrivava prima.
Tobio si era allenato, ogni giorno, nella speranza di trovare una cicatrice a mezzaluna sul ventre di qualche suo compagno di squadra, solo per alzare gli occhi e scoprire di avere ancora Shoyo sul campo.
Tobio, ogni volta che soffiava il vento e il cielo minacciava pioggia o neve, si riscopriva a stringere il telefono come se avesse dovuto mandare un messaggio a qualcuno per dirgli di chiamarlo appena giunto a casa.
Devastato. Quella partenza aveva portato con sé solo un boato immenso.
E – cosa che trovava alquanto ironica e divertente – Shoyo continuava a cercarlo, come se nulla fosse successo. Gli inviava messaggi con il chiaro intento di chiacchierare un po’, si sforzava anche di mandarli ad orari decenti per quella parte di globo, ma Tobio non riusciva a rispondergli.
Sapeva che, se avesse anche solo provato a rispondere, sarebbe andato tutto a rotoli. Lui per primo.
Allora si sarebbe dichiarato, spiattellandogli in faccia che aveva più volte tentato di farglielo capire. Non solo!
Tobio si era sforzato di pronunciare quelle parole dopo che Shoyo era svenuto in campo, all’ultima loro partita dei nazionali del primo anno.
Cosa aveva ottenuto?
Adeus!*
 
Non poteva reggere un’altra separazione da lui, non poteva neanche illudersi di un suo ritorno.
Che speranze aveva?
Così Tobio si era imposto di dimenticarlo – come se poi fosse possibile dimenticare la prima persona che entra saltellando con un pallone in mano nella tua vita – e aveva interamente dedicato anima e corpo alla pallavolo.
E ci era riuscito, con discreti risultati, anche se aveva evitato di stringere eccessivamente con chiunque. Era il suo modo per proteggersi, forse un po’ meschino, ma d’altronde la sua reputazione non brillava certo per la bontà.
Eppure, si era ritrovato a pensare una sera, sotto la doccia, quando Shoyo era al suo fianco si calmavano anche gli attacchi di panico.
Quella partita delle medie era sfumata fino a diventare l’ennesima cicatrice del suo passato. Non soffriva più, non viveva più nel terrore di vedere il pallone sbattere a terra, lontano dai suoi compagni.
Da quando era entrato negli Adlers, però, gli sembrava di aver fatto un enorme passo indietro.
 
“Schiaccerò ogni tua alzata!”.
 
Che bugiardo – si era ritrovato a pensare –, d’altronde Shoyo è sempre stato un baro di prima categoria.
Alto un metro ed un succo di frutta, ma capace di spiccare il volo.
Tobio era convinto che sarebbe comunque riuscito a sopravvivere, probabilmente con una cicatrice in più. Ma non importava.

Questo prima che gli arrivasse un messaggio in piena notte.

 
Torno.
P.s. Vorrei vederti in aeroporto. Tokyo, 15:30.
 
Torno?
Che significava?
Tobio aveva faticato per poter ricominciare una nuova vita, e Shoyo tornava?!
No, no, doveva sicuramente essere l’ennesima presa in giro della sua vita, probabilmente farlo soffrire era l’hobby preferito del Karma o non si spiegava.
No.
Tobio non ci sarebbe andato, assolutamente!, se Shoyo fosse rimasto davvero – allora e solo allora – avrebbe potuto pensarci. Ma finchè non avesse avuto la certezza di ciò che sarebbe stato, lui non si sarebbe mosso.
La posta in gioco era troppo alta, sgretolarsi non era tra le opzioni compatibili con la sopravvivenza.
 
Era passato un mese da allora, e non si erano più scritti.
Tobio guardava sul tablet le partite dei MYSB, pregando il Karma di non farli capitare contro la sua squadra proprio in quel momento. Eppure, dopo i trenta giorni di prova, dovette accettare il fatto che l’incontro con Shoyo non era più rimandabile.
Ed era stato difficile, tremendamente, vestirsi e prendere lo Shinkansen per arrivare ad Osaka ad un orario accettabile e seguire la partita.
Era entrato nel palazzetto, aveva scelto la fila migliore – quella dove avrebbe potuto tenere d’occhio l’alzatore – e aveva aspettato il fischio d’inizio.
Shoyo era esattamente come se lo ricordava, solamente moltiplicato al quadrato.
Era sicuramente diventato più alto, i capelli un po’ più lunghi si erano schiariti sotto il sole cocente di Rio e la pelle – prima color latte – aveva raggiunto una tonalità di ambra che faceva solo risaltare di più i suoi bicipiti.
E le sue lentiggini.
Il sorriso era lo stesso, l’entusiasmo non si era placato eppure. Eppure.
Tobio si chiese se qualcuno avesse visto quella cicatrice a mezzaluna sul ventre.
Si chiese se a Rio qualcuno lo avesse baciato, avesse goduto del calore della sua pelle.
E fu durante quei pensieri, allo scoccare del time out, che Atsumu lo strinse a sé.
Tobio, durante la sua permanenza alla Karasuno, aveva stretto spesso i suoi compagni di squadra, abbastanza da riconoscere un impeto da adrenalina da un abbraccio.
Si irrigidì.
Quasi rise – isterico –.
 
Alla fine della partita, mentre i giornalisti si accalcavano per rubare qualche rapida intervista, Tobio scese fino agli spogliatoi e attese nel corridoio.
Sakusa passò per primo, rigorosamente lontano da tutti, e si fermò a fissarlo.
Più che fissarlo, Sakusa lo squadrò da capo a piedi come se la sua sola presenza potesse sconvolgere anche la sua vita.
Lo salutò con un cenno della mano e si rifugiò nelle docce.
Passarono tutti gli altri, compreso Bokuto – per fortuna troppo preso a parlare con qualcuno per accorgersi di lui – ed in fine, per ultimi, proprio Atsumu e Shoyo.
Stavano sicuramente commentando qualcosa, Shoyo gesticolava animatamente e l’altro rideva senza smettere un momento di osservargli le labbra.
Tobio sentì una scossa lungo la schiena, provò il desiderio di fuggire e di lasciarsi tutto alle spalle.
Ma non era possibile.
Non era possibile.
«Tobio?» La voce di Shoyo, lievemente più matura, giunse alle sue orecchie ridestandolo. Le sue labbra si erano lievemente piegate in un sorriso troppo spontaneo per poterlo contenere e lì, sul labbro superiore, vi era una piccola cicatrice che Tobio era sicuro non vi fosse fino a due anni prima.
«Devo parlarti.» gli sussurrò appena, avvicinandosi.
 
E fu il terremoto.
 
Si era sentito il rumore di un pugno contro il muro, proveniva dagli spogliatoi e a giudicare dalla potenza non poteva che essere stato Atsumu.
Shoyo era uscito con le mani ancorate alla tracolla del borsone – esattamente come era solito fare fino a due anni prima – aveva il volto esanime, era distrutto.
Era crollato come i pezzi del jenka.
Tobio lo aveva seguito, in silenzio.
Fuori dal palazzetto era ormai l’ora del tramonto, essendo in periferia non vi erano neanche troppe macchine in giro. Il vento tiepido si stava insinuando tra gli alberi smuovendone le foglie.
E tutto tornava a tingersi di oro e arancio, i raggi colavano sui loro visi riportandoli a tempi non esattamente recenti.
Avrebbero potuto sentire il cigolio di una bicicletta, il profumo dei panini appena sfornati al konbini vicino la scuola, l’orologio battere e l’eco risuonare sulla cima di quella collina silenziosa.
Invece no, invece era Osaka.
«Si può sapere perché non sei venuto prima?» Shoyo lo chiese avendo praticamente la certezza di avere Tobio alle sue spalle, d’altronde era così, lui lo sentiva.
Aveva sempre la percezione di dove fosse, per questo gli aveva fatto male sapere di non averlo più al suo fianco.
Era il prolungamento di se stesso, una parte del suo corpo che non poteva controllare e non voleva perdere.
Come il cuore.
«Perché non ero sicuro di volerti vedere, Shoyo.» Era stato schietto – forse troppo – e non aveva fatto altro che farlo irrigidire. Tobio sapeva benissimo che, in quell’esatto momento, le nocche della mano sinistra di Shoyo erano sbiancate mentre stringevano la tracolla all’altezza del cuore.
Come sempre, d’altronde. Non era cambiato nulla, dannazione!
«Io ho provato a cercarti, a parlarti e tu non hai mai risposto! Sono tornato dopo due anni, dopo quello che abbiamo condiviso non mi sarei di certo aspettato di dover attendere un mese per vederti!» Bene, era riuscito a dire già circa il due percento di quello che avrebbe voluto dirgli.
Tobio rise appena, si lasciò andare contro il muro del palazzetto e scivolò a terra fin sul prato verde che lo circondava.
«Dopo quello che abbiamo condiviso, non mi sarei di certo aspettato di dover attendere due anni per vederti».
 
Non sono bravo con le mezze misure.
Non lo sono mai stato.
 
Shoyo sussultò e si voltò, guardò in faccia l’altro ragazzo – ormai seduto sul prato - e per un momento gli sembrò finalmente di essere tornato a sei anni prima, quando lui in lacrime gli aveva urlato che lo avrebbe superato.
Com’erano finiti. Com’era comica la vita.
«Ho provato a chiamarti, a cercarti per tutto il tempo quando ero a Rio e tu mi hai risposto solo un paio di volte. Perché?» Aveva il tono ferito, il cuore in frantumi, in mille pezzi.
Tobio sollevò gli occhi e scoprì di non essere l’unico a soffrire. No, quella non era la reazione di chi vedeva in lui solo un amico.
Forse, forse anche lui per Shoyo…
D’altronde cosa poteva perdere? Non gli era rimasto più nulla di lui tra le dita.
Si portò le mani alla testa, tra i capelli smossi dall’aria d’autunno.
«Perché ero troppo abituato a viverti ogni giorno per poterti mandare un messaggio, Sho».
 
Sho.
Da quanto tempo.
Che dolcezza sentire quel suono sulla bocca.
 
«E sei tornato solo ora».
«Credimi, non me ne sono mai andato».
«Neanche io».
Amara verità, per quanto Tobio avesse provato a toglierselo di dosso, era sempre rimasto incollato a Shoyo in un modo o nell’altro. Aveva provato a mandare via quel sentimento che gli era rimasto incastrato nel cuore, ma niente.
E ora scopriva che per l’altro era stato lo stesso? A ventiquattro ore di aereo di distanza?
«Solo che…» Shoyo era andato un attimo in apnea, non aveva neanche ripreso un colorito normale nonostante fossero fuori da un bel po’ di minuti.
«Solo che?» Tobio lo aveva visto portare le mani ai capelli fino a stringerne le ciocche ambrate.
«Mi piace Atsumu».
 
 
Tobio si era seduto sul sedile dello shinkansen e aveva poggiato la testa al finestrino.
Il sole era ormai del tutto tramontato e non era certo sarebbe mai più risorto su di lui.
Aveva perso la sua occasione, se l’era fatta sfuggire tra le dita per colpa della paura.
 
La notte era scivolata su tutti e tre, lenta. Inevitabile.
Quasi a ricordare che la resa dei conti è sempre con sé stessi.


Note:
Atsune: Nomignolo che mette insieme il nome Atsumu e Kitsune (che significa Volpe in giapponese).
Adeus: "Addio" in portoghese.


Note dell'autore: La prima parte di questa mini-long (doveva essere una OS ma la cosa sta andando per le lunghe AHAHHA) è finalmente pronta! Spero nei prossimi giorni di poter pubblicare la seconda parte e anche le altre storie che al momento sono a prendere polvere.
Purtroppo la sessione del terzo anno si sta rivelando un po' più ardua del solito, per cui il tempo da dedicare alla scrittura è sempre troppo poco.
Spero che la storia vi stia piacendo, a presto!

Un bacio a tutti ^-^

-SkyDream
 

 
   
 
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