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Autore: Queen of Superficial    06/03/2021    1 recensioni
“Ma quindi cosa siamo, noi? Due buoni amici che si baciano ogni tanto?”

“Che ti ho appena detto sui ‘cosa’?"

“D’accordo… però vorrei saperlo lo stesso.”

Jimmy sospirò, come se toccasse ancora una volta a lui fare le veci di un Padre celeste scorbutico ed assenteista.

“Siamo tutto ciò che tu vuoi che siamo, piccola.”

“Due spiriti del vento?”

“Certo.”

“Due chicchi di riso.”

“Anche. Due cespugli in fiamme nel deserto.”

“Due stelle cadenti prima che inizino a cadere.”

“Due elfi dei Rifugi Oscuri con il mal di testa.”

“Due cestini pieni di ciliegie.”

“Due lapidi di marmo bianco.”

“Con sopra due vasi di calle e rose.”

“Due etti di prosciutto crudo.”

“Due punti. O un punto e virgola.”

“Due lumache sposate da vent’anni.”

“Due cretini.”

“Quello sempre.”
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, The Rev
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Lascio ai diversi futuri
(non a tutti)
il mio giardino dai sentieri che si biforcano.

J.L. Borges, Finzioni 

 

 

Jimmy era disteso sul letto della sua vecchia stanza, a casa dei genitori. Lo stomaco lo stava facendo  lentamente impazzire; il dolore gli riverberava nella testa nonostante il fortissimo farmaco che aveva preso per affrontare quel barbecue con un minimo di presenza di spirito. Puro spirito, tra poco, pensò. E gli fece male tutto. Le ombre degli alberi in cortile giocavano a rincorrersi sul pavimento, dentro il confine della lunga striscia luminosa proiettata dagli scuri accostati delle grandi finestre. Stava sudando per lo sforzo di tollerare quel fuoco ardente che gli inondava le viscere; aveva un ritmo quasi familiare, forte-debole-forte, l’onda del suono che si propaga e ritira in una sala di registrazione ingombra di fumo di sigaretta e uomini che cullano strumenti musicali come fossero bambini. Lo sorprese in quell’istante l’intuizione che quegli stessi uomini, grazie all’incoerente eleganza della vita, maneggiavano per converso i loro bambini esattamente come fossero strumenti musicali. Gli venne da ridere e soffrì.
Battere e levare, pensò per calmarsi, seguendo l’arrivo di una nuova ondata di dolore. Poi lo sentì, prima ancora che suonasse il campanello; quell’inconfondibile, delicato profumo di mandorle caramellate. Raccolse tutte le sue forze per concentrarsi sul volto a cui lo associava; occhi grandi, fieri e irrequieti, come se si stessero sempre concedendo una breve vacanza da un’altra dimensione; labbra piene e denti forti, una bocca che sorrideva e malediceva con precisione divina; la curva inquietante dei fianchi in un vestito, ipnotico e sacro pendolo che scandiva il tempo meglio del poco che poteva fare Dio; mani candide che gli afferravano il braccio per sussurrargli qualcosa di cui soltanto loro due erano in grado di parlare. Mani candide e sicure; navi pronte all’abbrivio. Gambe lunghe che si srotolavano sul suo divano quando lei si distendeva sul fianco come un gatto, un braccio a reggere la testa e un libro davanti. Il suo nome, sillabe complicate e scivolose sulla punta della lingua. Lo invocò come se lei fosse la dea Yoruba del mare, ma non lo era; era solo sua amica. Brian rideva da vent’anni di quella sua peculiare capacità, in certi casi, di essere davvero amico di una donna; e fu sempre Brian a ribattezzare una volta e per sempre la massa algebrica di capelli biondi che sprigionava quel profumo. Lo fece con cognizione di causa, dopo aver riflettuto con attenzione sulla sua figura delicata e fuori luogo in quel mondo di vichinghi espatriati, complicazioni semplici e spiagge assolate. E lei diventò quell’immagine eburnea, da allora, per tutti quanti. 

La porta della camera si aprì quasi controvoglia, con una tenerezza innaturale, e le mandorle caramellate si fecero più intense e vicine.
“Hey. Resti vivo ancora due minuti? Vado a prenderti un asciugamano fresco.”
Erano mesi che tra i loro visi c’era sempre lo schermo di un telefono; Jimmy voleva vederla in carne ed ossa e si sforzò di aprire gli occhi: “Non lo so se ce la faccio,” le rispose, “ma per te ci provo.” Niente. Lei non fu altro che un ombra sottile e profumata nella sua visione periferica. Gli sembrò di cogliere l’orlo di un vestito bianco che frusciava oltre la porta, si sistemò meglio — il materasso del letto a una piazza e mezza sembrava duro come la pietra — e sentì l’acido sapore del reflusso gastroesofageo in bocca. D’istinto, si toccò il cuore. Batteva ancora. Ad occhi chiusi, passò un minuto oppure un anno e gli sembrò di essere in dormiveglia dal 1800 quando i capelli di lei gli solleticarono il viso. Eccola lì. Cocco e mandorle caramellate. Le rivolse uno sguardo appannato e stanco e perfino un minuscolo, eroico sorriso.
“Ciao piccola. Che accoglienza, eh?”
“Ciao, peste. Stai zitto un attimo, sto cercando di pensare.”
Jimmy si ritenne autorizzato a guardarle il seno che si alzava e si abbassava inquieto mentre lei gli poggiava con dolcezza il panno freddo sulla fronte; sospirò di piacere a contatto con la stoffa e la sentì armeggiare sotto la sua maglia. Gli cercò un punto del torace con le dita ed iniziò a massaggiare con delicatezza. Il sollievo fu immediato, simultaneo e benedetto.
“Se vuoi fare sesso va bene, ma sappi che al momento non posso garantire una performance all’altezza dei miei standard,” trovò la forza di provocarla, con gratitudine.
“Non ti ho forse detto di stare zitto?”
Lui sorrise e desiderò, senza dirglielo, che non smettesse mai; desiderare intensamente cose senza dirsele era il loro modo di funzionare.
Lei gli tolse le mani di dosso giusto il tempo di estrarre una piccola sfera molle da un blister e porgergliela insieme ad un bicchiere d’acqua che a lui parve apparso dal nulla, come un coniglio dal cappello: “Prendi questa.”
Con enorme fatica, Jimmy sfilò dalla tasca dei jeans un altro involto: “Ho già preso queste.”
Lei fissò le pillole con diffidenza: “Lo immaginavo. Il sistema sanitario americano è composto perlopiù da mitomani e assassini; questa roba stenderebbe un cavallo. Quello che ti ho dato io è un gastroprotettore, serve a creare una patina intorno al tuo stomaco per impedirgli di bruciare per autocombustione. Non che possa fare granché per la tua incommensurabile testa di cazzo, ma per ora pensiamo a risolvere l’immediato. Poi, con calma, ci preoccupiamo dell’eterno.”
Jimmy si tirò un po’ su per inghiottire il medicinale e le lanciò uno sguardo saggio dalla coltre di capelli fradici, di un colore smaccatamente irlandese, che si ritrovò davanti alla faccia. Provò a dirle qualcosa, ma una mano perentoria lo costrinse a rimettersi disteso. Era seduta accanto a lui sul letto e le sue dita stavano riprendendo il massaggio. Come un bambino, le afferrò una lunga ciocca dorata e ci giocò brevemente. Lei sorrise come sorrideva solo a lui e cercò di catturare la sua mano con le labbra per un bacio fugace; Jimmy si negò e poi si lasciò prendere, indugiando un po’ per accarezzarle il viso.
“Che hai combinato, J? Tua madre mi ha implorata, sopravvalutandomi, di farti ragionare.”
“Il volume del mondo è troppo alto ed a me fischiano le orecchie.”
“D’accordo, ma questo non è un problema recente. Mi dice Brian che avete litigato un mese fa. Tu e lei. E che lei se n’è andata per non tornare.”
“Brian ti dice troppe cose.”
“Quelle che dovresti dirmi tu.”
“Così lasci tutto e vieni a salvarmi, proprio come hai fatto ora? Sono i miei fratelli, lo sai, ma certe volte non hanno alcuna idea di come funzioni la vita reale. Tu sei una persona, non un pronto soccorso. Né un’estensione di me, pronta a scattare a molla ogni volta che qualcosa non va.”
“Questo, se permetti, vorrei deciderlo io.”
“Quanto ti sei incasinata l’esistenza per venire qui? Dimmi la verità.”
“Per niente. Ho solo accettato un semestre come visiting teacher alla UCLA.”
“E non mi hai detto un cazzo. Ma lo sapevo che la solerte famiglia Sevenfold ti avrebbe fatta correre, mia dolce ambulanza.”
Il dolore svaniva in una scia di piccole eco remote, lasciandogli addosso una sorda stanchezza che non aveva nulla a che fare con il sonno.
“Quando inizi?” le chiese, domandandosi per un lungo secondo se fosse il caso di baciarle quei polsi benedetti da un dio che l’aveva messa sulla Terra solo per lui. Continuava a massaggiarlo dolcemente e, ora che finalmente riusciva a metterla a fuoco, gli parve più bella che mai. Chiuse gli occhi e si abbandonò alle mani.
“Il quindici.”
“È fra due settimane.”
“Sì. Dovrò lasciarti solo per un po’ di ore al giorno, ma te la caverai.”
“Non capisco.”
“Ti spiego: starò da te.”
Jimmy aprì di nuovo lo sguardo su di lei.
“Certo che starai da me, dove altro volevi stare? Ma questo che c’entra?”
“C’entra perché prendiamo il toro per le corna, insieme. E ci liberiamo una volta e per tutte del criminale sistema sanitario americano.”
Gli occhi dalle lunghe ciglia si posarono gelidi sulle pillole di ossicodone.
Jimmy sospirò: “È un’impresa impossibile, piccola. Le prendo da troppi anni, e il dolore diventa insopportabile quando non lo faccio.”
“Clementine dice che ce la puoi fare. Non sarà un bello spettacolo e dovremo farci aiutare, certo, ma sono sicura che ci riusciremo.”
Clementine Brown era un medico, una bodhisattva, una paracadutista, una coltivatrice di basilico ed una matta. Ma Jimmy si fidava di lei perché era amica dell’unica cosa al mondo di cui si fidasse più che di se stesso; l’unica persona, viva o morta, il cui parere avesse un qualche peso per lui. Espirò debolmente la sua perplessità nei confronti di quel piano di salvataggio.
“La decisione non è più tua, comunque. Sono io che non ho nessuna intenzione di restare vedova.”
Lui rise piano. “Posso permettermi di ricordarti che io e te non siamo legalmente sposati?”
“Certo. Io invece mi permetto di ricordarti che è del tutto irrilevante.”
Non mi serve la benedizione ufficiale di un prete per essere assolutamente certa di non voler vivere in un mondo in cui tu non ci sei.
“Il tuo fidanzato che dice, a proposito?”
“Tutto bene. Ti saluta.”
Jimmy si chiese, più per abitudine che altro, se sarebbe mai stato disposto ad accettare che la propria fidanzata — quasi moglie, a dire il vero — avesse con un altro uomo un rapporto come il loro. Si rispose, al solito, di no. Tra le sue certezze più inviolabili e cristalline figurava quella che, fosse stato in Walt, si  sarebbe già da tempo presentato ad Huntington Beach per fare un discorso così chiaro da eludere il rischio di qualsiasi fraintendimento. Ma lei era forte e distante per procura da qualsiasi cosa terrena e Walt, ossessionato e devoto, si era rassegnato a sopravvivere raccontandosi Jimmy come il fratello maggiore un po’ incasinato della sua amata.
“Voglio sapere cosa dice dei sei mesi a Los Angeles, piccola. Non sei brava a fare la scema.”
“Probabilmente è perché non sono una scema e quindi non ci provo neppure, ma tu ogni tanto te ne dimentichi. Sei perdonato. Niente, cosa deve dire? È la mia carriera.”
“Non stavate per sposarvi?”
“Anche tu stavi per sposarti. Stavi per sposarti ogni anno da una decina d’anni a questa parte, eppure non l’hai mai fatto.”
“Io avevo un motivo, però.”
“Questioni private tra te e Dio, presumo, perché a me non sei mai riuscito a spiegare quale fosse.”
Valary Sanders si affacciò alla porta.
“Come andiamo?”
“È risorto secondo le Scritture.”
Jimmy alzò una mano per impartire all’aria una benedizione episcopale a conferma di quanto appena detto dalla sua crocerossina.
“Molto bravo, Reverendo. Cosa fate, venite giù?”
“Credo sia meglio lasciarlo riposare ancora un po’. Io vi raggiungo tra un attimo, se riesco a liberarmi di lui.”
Le due donne si scambiarono uno sguardo di intesa che non sfuggì al malato immaginario di Moliére né all’uomo in arrivo.
“Val ti ha sempre amata moltissimo, e lei non ha un gran feeling con le altre donne. Specialmente se sono belle come te.”
La voce di M. Shadows si era sostituita a quella di sua moglie, che già tacchettava giù per le scale diretta al cortile ingombro di amici e parenti.
“Non esistono donne belle come lei” soggiunse Jimmy ad occhi chiusi, per amor di chiarezza. Il massaggio cessò per trasformarsi in una delicata carezza. Attaccato alla gamba di Shadows, un batuffolo incuriosito infilò la testa nella stanza.
“Come ti senti, zio Jimmy?”
“Molto meglio, grazie. Che dicono i mostri?”
“Sono molto agitati, muovono i cespugli. Quando vieni?”
“Tra poco. Tu sta’ vicino a papà finché non arrivo.”
Papà sorrise — le due adorabili fossette del ragazzo che non sarebbe mai invecchiato sopra il volto di un uomo che invece aveva imparato alla maniera sgangherata del cosmo ad avere a che fare con le infinite contraddizioni di cui è fatta una vita— e diede un affettuoso buffetto al piccolo. “Andiamo, forza. Lasciamo lo zio Jimmy a riposare un po’. Hai dato un bacio a Giglio?”
Era questo il nome che stavamo tutti cercando; Brian un giorno l’aveva chiamata come un fiore, e da allora nessuno era più riuscito a guardare un giglio senza essere colpito dall’immagine onirica di lei che ballava, eterna e inviolabile, alla festa di compleanno di qualcuno.
Il bambino, quasi stesse aspettando solo quel via libera, corse accanto al letto e si gettò fra le braccia di lei, nascondendo il viso nel suo collo.
“Ciao, piccolo fiume.”
“Mi sei mancata tanto!”
“Anche tu.”
“Sei mancata anche a zio Jimmy. Non è vero, zio Jimmy?”
“Infinitamente.”
“E a te è mancato lui?”
“Moltissimo.”
Shadows fece un passo incerto nella stanza e lo chiamò a sé, in un disperato tentativo di deviare la piega ovvia che stava prendendo l’innocente interrogatorio. Ma il figlio fu più veloce.
“Quindi adesso vi fidanzate?”
Giglio fermò l’amico con uno sguardo e sorrise al piccolo, accarezzandogli la testa.
“Di più. Adesso facciamo un miracolo insieme.”
Il bambino non capì, ma annuì e sorrise: un miracolo gli sembrava una buona cosa.
Più tardi avrebbe chiesto al padre se un miracolo è come una magia e Shadows non avrebbe saputo fare di meglio che dirgli di sì, sì, certo che è come una magia. È una cosa bella, inaspettata e strana, che rende tutti felici.

Giglio avvertiva la potenza del tempo, nei termini minimi di un fuso orario di nove ore, pulsare lievemente nella sua testa. Aveva girato il cuscino e si era distesa al posto di Jimmy, sentendo in lontananza lo sciabordio dell’acqua della doccia che lui stava facendo per riaversi dalla crisi stomaco-cervello-cuore che lo aveva colto; era già la terza volta, quella settimana. Credette di essersi assopita quando se lo sentì gocciolare sul viso; lui le posò un piccolo, tenero bacio tra il naso e la guancia.
“Grazie”, le sussurrò a un centimetro dalla sua pelle.
Lei gli colpì il torace nudo e asciutto con il palmo della mano e gli parlò a un soffio dalle labbra.
“Vestiti, Fiction. Là fuori inizieranno a pensare male, se non scendiamo entro dieci minuti.”
“Nel caso in cui iniziassero a pensare male sentiremmo il fragore dell’applauso, non ti preoccupare.”
Giglio rise come dimenticava di saper ridere quando lui non c’era. Si era alzato e si stava frizionando i capelli con un asciugamano; ne approfittò per impararlo di nuovo a memoria. Manette, morte con clessidra, papa che bacia un demone neonato, fiction in verticale dallo sterno fin quasi all’ombelico; sulle braccia, un intricato viavai di figure da incubo, conigli pasquali morti e cavalli imbizzarriti. Vide sulle mani i segni del passaggio nella sua vita di una donna che non era lei, eppure tutto corrispondeva a loro. Ogni cosa parlava di loro. Perfino il tatuaggio, fatto molto prima che si conoscessero, di un numero che sarebbe appartenuto a loro più di quanto non fosse opportuno o auspicabile. Quella testa, che dopo anni di torture e colori non era più né scura né chiara, sebbene almeno ora il taglio avesse un senso. Le minute rughe d’espressione intorno agli occhi. Le gambe forti, che non stavano mai ferme. Si sorprese a pensare che tutta la scienza del mondo, tradizionale o obliqua, non bastava a spiegare il perché del legame di sangue e ferro che li teneva uniti. Jimmy era più grande di lei di quasi dieci anni e a volte glieli faceva sentire tutti; era l’uomo più intelligente che conoscesse, il più brillante e di gran lunga il più saggio. E, come ogni prodigio, recava in sé il seme della sua stessa distruzione. Si alzò di scatto perché aveva deciso di abbottonargli personalmente la camicia; lui la fissò serpentesco e affettuoso e la lasciò fare, concentrando lo sguardo sul punto in cui si incontravano le sue clavicole.
“Mia madre ti ha già detto che sei troppo magra? Problemi con Walt?”
“Perché me lo chiedi?”
Gli ultimi bottoni erano sempre i più delicati.
“Perché quando hai il cuore in subbuglio ti si chiude lo stomaco. Lo so.”
“Mi ha chiesto di sposarlo, tutto qui.”
“E tu gli hai detto di sì, se ricordo bene.”
“Sì, ma poi ho aggiunto che andavo sei mesi in California.”
“Ti ho mai raccontato la storia del knife-master?”
“Poco meno di un milione di volte.”
“Beh, il tuo dietrofront la batte dieci a uno. Non tornerò mai più — e quando tornerò perde a tavolino contro sì, lo voglio — ma prima, Huntington Beach!
Le fermò le mani con le proprie prima che lei potesse ultimare il lavoro con i bottoni, giusto all’altezza della cerniera dei suoi jeans, e si fece incredibilmente serio.
“Io la faccio questa cosa con te, Giglio, ma sarà un inferno. Andrò fuori di testa. E preferirei che tu non vedessi un altro lato di me. Uno che non so se puoi amare.”
Lei gli si fece così vicina così in fretta che sbatterono fronte contro fronte, dolcemente. Era arrossita con violenza e cercava ostinatamente di non sfiorarlo per sbaglio dove non doveva; non ancora.
“Se credi che ci sia un lato di te che non posso amare sei proprio un cretino, Jimmy Sullivan.”
Lui si sporse per baciarla. Fu un bacio casto e tenero, a labbra chiuse ed umide, ma così intenso che per un istante si chiesero entrambi se non era il caso di approfondirlo. Per fortuna, lasciarono perdere.

Jimmy recuperò un attimo le fila del mal di testa mentre sua madre enumerava ad un’affascinata platea di persone le infinite virtù del bel Giglio.
“Sapete che è laureata in medicina? Si è specializzata sul cervello, ha vinto anche un premio.”
La guardò, gli sedeva di fronte; giocherellava con il gambo di un calice di vino e sorrideva, timida.
“Non era un premio, Barbara, era un riconoscimento. Si dà sempre, per i meriti accademici. Niente di speciale.”
“Sciocchezze!”, la redarguì la signora, allungando una mano per accarezzarle il viso, “Ma quanto sei bella. Jimmy, tu glielo dici mai, quanto è bella?”
“Continuamente”, rispose lui, sorridendo a Giglio.
“Sei molto fortunato, lo sai?”
Io sono molto fortunata.”
Più di metà del tavolo si voltò verso di lei, che non staccava gli occhi da quelli di Jimmy. Qualcuno, sottovoce, cercò di farsi aggiornare con discrezione dal vicino di posto, perché si ricordava bene un’altra fidanzata, e da molto tempo. Sevenfold e consorti, sparsi un po’ qui e un po’ là, contenevano l’inclinazione etilica al pettegolezzo della tavolata smorzando sul nascere qualsiasi tipo di speculazione sulla natura del legame tra Jimmy e Giglio; comunque, come Zachary Baker non si stancava mai di ripetere, di certo non facevano miracoli. Dal centro si alzò una voce femminile che commentò: “Come si guardano, sono pazzi l’uno dell’altra!”
Barbara stava per aprire bocca e rettificare, ma fu anticipata da suo marito: “Lo sono da sempre”, rispose Joe, in un tono che non ammetteva repliche neppure dai diretti interessati.
I bambini reagirono ad un impulso misterioso innescato dal silenzio che seguì a quelle parole e schizzarono come biglie in tutte le direzioni, decidendo che le contorsioni sentimentali degli adulti li interessavano molto meno della caccia alla lucertola. Giglio fu grata del caos, perché le permise di alzarsi a sua volta e prendere Jimmy per un braccio con la scusa di portarlo a fare due passi.
“Dio, mi mancavi da morire” gli disse, inspirando forte il suo profumo attraverso la stoffa della camicia.
“Anche tu. Però chiamami Jimmy.”
La battuta gli valse uno sguardo tra il divertito e l’esasperato mentre si allontanavano verso un lato in ombra del cortile.
“Devo dirti due parole su quello che stiamo per fare, e tu devi promettermi che seguirai le mie istruzioni senza discutere. Lo prometti?”
“Jimmy, dovrei essere io a dare istruzioni a te. Io il dottore, tu il paziente.”
“Sì, però io Tarzan, tu Jane; quindi farai bene a darmi retta prima che io ti rammenti l’ordine naturale delle cose.”
Giglio scoppiò a ridere, non poteva farci niente; l’espressione di lui si addolcì all’istante nonostante l’urgenza di comunicarle con tutta la chiarezza possibile l’importanza di quel che voleva dirle.
“Ascoltami bene, dottor Frankenstein: se hai deciso di imbarcarti nell’impresa di riportare alla vita questa creatura qui,” disse, indicando se stesso, “allora è necessario che tu prenda quel che ti dico alla lettera. Altrimenti non c’è partita.”
Giglio sospirò e annuì; nel farlo, il respiro le gonfiò il petto quel tanto che bastava a distrarre Jimmy da tutto il buonsenso del Creato.
“Prometti?”
“Prometto.”
“Punto primo: se divento incontrollabile, tu te ne vai. Mi lasci lì e te ne vai. È chiaro?”
“Hai paura di farmi del male?”
“Certo che ne ho.”
“Invece farai il bravo. So che lo farai.”
“L’amore non basta in certi casi, piccola. Tu non lo sai, com’è l’inferno.”
“È l’inferno che non sa come sono io. Ti prego di credermi sulla parola.”
A ridere, questa volta, fu lui. Cristallo nel vento.
“Va bene, lo vedremo. Punto secondo: potrei andare fuori di testa. Anzi, quasi certamente sarà così. Dirò cose che non penso, farò cose che normalmente non farei, e tutto il peggio che ho da offrire ti si riverserà addosso come una valanga. Non saranno coriandoli. Se in qualsiasi momento non ti senti al sicuro con me, chiami Brian o Matt e li fai correre. Non aspetti che io esploda. È chiaro?”
“Sì, signore.”
“Ci sono già passato, disintossicarsi non è facile. E non dirmi sì signore con quel tono, oppure non rispondo più di me e non ho nemmeno ancora la scusa della crisi d’astinenza.”

 

L’esecutore di un’impresa atroce deve immaginare di averla già compiuta,
deve imporsi un avvenire altrettanto irrevocabile del passato.

 

Casa di Jimmy era un polmone spalancato sull’aria immobile dell’oceano Pacifico. La stanza da letto era fin troppo ampia per l’uso a cui l’aveva destinata, ma a lui piaceva svegliarsi galleggiando nello spazio cosmico e vedere che dalle enormi finestre già entrava il mare.
Giglio gettò il cuore oltre l’ostacolo ed il borsone da viaggio oltre la porta, centrando la gamba di un tavolino di ebano che quasi sicuramente era un regalo di Brian. Brian, di spalle alla scena, si fece spazio a spintoni trasportando due valige.
“Dov’è il resto?”, si informò solerte.
“Il resto l’ho spedito, arriva domani.”
“Bene.” Le ruote dei trolley urtarono sonoramente il pavimento, donando a tutti e tre la simultanea consapevolezza che ebbene sì, quelle valige avevano le ruote; era stato perciò inutile e doloroso lo sforzo erculeo del chitarrista, per quanto avesse confermato ancora una volta ciò che già sapevano, e cioè che Synyster Gates era l’uomo più virile del mondo. Del genere contemplato nelle selvagge fantasie di Friederich Nietzsche.
“Queste le mettiamo direttamente in camera da letto oppure volete fare il solito sipario da commedia romantica dei buoni amici che dormono in stanze separate?” chiese, per recuperare terreno.
Jimmy scoppiò a ridere, Giglio anche.
“Sei una tempesta di inopportunismo, Brian Haner.”
“Sono molte cose, mia cara, e gradirei che non tutte finissero nella mia biografia.”
Il suo migliore amico si allontanò verso il frigorifero e lui approfittò per avvicinarsi a lei: “Il mio numero ce l’hai, e devi usarlo. È chiaro?”
“Siete tutti così perentori…” sussurrò Giglio.
“Dottore?”, la chiamò Jimmy da lontano, “Mi è concesso l’ultimo sorso di vino?”
“Ma sentilo. Un condannato a morte”, commentò l’amico.
“Sì, ma porta di qua la bottiglia. Direi che la circostanza merita quantomeno un brindisi.”
Si accomodarono in veranda, proprio di faccia all’oceano. Più che una celebrazione, sembrava una sfida. Il clacson di Shadows forò il muro del suono e Brian urlò alla porta d’ingresso che sbatteva gioviale di portarsi fuori dei bicchieri, nonché un rinforzo alcolico ed un cestello per il ghiaccio. Gli altri tre Avenged Sevenfold spuntarono dalla portafinestra con i sorrisi aperti e le braccia cariche. Iniziarono a versare senza neanche chiedere permesso, ma Giglio bloccò il braccio di Jimmy a metà strada e gli porse di nuovo quelle sfere gelatinose: “Aspetta, prendi prima un paio di queste. Dovrebbero evitarti il bruciore.”
Lui le sorrise e la sua mano indugiò un attimo di troppo su quella di lei, prima di afferrare le pillole che buttò giù senz’acqua. Qualcuno le porse un bicchiere e Shadows urlò: “Congratulazioni per il tuo posto alla UCLA!”
“Grazie, ma non mi hanno mica dato il Nobel.”
“E per aver convinto Jimmy a darci un taglio con quella roba”, aggiunse Brian.
“Non l’ho convinto. L’ho semplicemente informato che l’avrebbe fatto. Con me.”
“E lui ti ha detto di sì perché ha pensato che finalmente magari gliela dai.”
“Devi sempre essere così becero, Zacky?”
“Senti, piccola, la tua sorprendente intelligenza è fuori discussione. Ma noi,” abbracciò idealmente la ristretta platea con un bicchiere in ciascuna mano, “ti abbiamo sempre più che altro guardato il culo. Notevolissimo, per dovere di cronaca. Dovrebbero chiuderti in un museo.”
“Dovrebbero chiuderti la bocca,” gli disse Shadows.
“Grazie, Zacky, lo apprezzo davvero.”
“Ma il tuo fidanzato che ne pensa di questo trasferimento?”
Brian si voltò di tre quarti e strafulminò Johnny Christ sulla sedia sdraio.
“Che ho detto?” fece quello, indietreggiando d’istinto.
Giglio organizzò una risposta, ma Shadows fu più veloce: “Che doveva dire, lo sa da sé che su Jimmy non si discute mai. È poi è adulto e vaccinato, sopravviverà.”
“Allora, come funzionerà la cosa?”, si informò repentino Brian, gran maestro del cambio di discorso.
Lei sospirò, si alzò dal divanetto ed andò a sedersi addosso a Jimmy, che la accolse in grembo come la bambina che per lui non avrebbe mai smesso di essere. “Mi aspetto un paio di giorni di relativa tranquillità, poi le cose potrebbero farsi più complicate. Le crisi di astinenza potrebbero fargli andare il cuore a vento, ma verrà un mio collega a monitorargli le funzioni vitali ogni tre giorni. Dopo una settimana, potrei aver bisogno di un’infermiera — che ho già impegnato. Non prevedo il futuro, ma ho provato a non lasciare nessuno scenario possibile al caso.”
Guardò lui negli occhi e le tornò in mente il verso di una canzone che mise in fuga con il languore che sentiva scenderle nelle membra insieme al vino.
“Ce la caveremo.”
“Perché siamo invincibili.”
“Perché siamo più testardi di Dio. Ed anche più organizzati.”
I ragazzi se ne andarono come lo sciame di api che erano, tutti un po’ troppo brilli e subito dopo un tramonto senza pari.
“Forza”, si sporse Brian sulla porta, “dammi un bacio a fior di labbra e non diciamo niente al reverendo.”
“Ti spezzo le gambe” si udì distintamente da un punto imprecisato del salotto.
Giglio rise, ed un braccio immane le circondò le spalle. “Aggiornaci su tutto. Val si è raccomandata di mandarle un messaggio ogni tanto, così sappiamo che va tutto bene. E chiamaci, Giglio, come ha detto lui. Noi arriviamo in un attimo, non importa che ora sia.” La tenne un po’ lontana per guardarla meglio. “Grazie,” le disse infine.
“Non dire idiozie. Forza, andate a casa.”

Dividere il letto con lui per la prima volta dopo, — quant’era? Un anno e mezzo, — la riportò indietro nel tempo, a quando i letti erano interi ed il desiderio di dividerli con qualcuno non esisteva.
“Come ti senti?”, gli chiese nell’ombra. Si erano stesi di fianco per guardarsi e le lenzuola profumavano di cotone. E mandorle caramellate, pensò Jimmy.
“In pace,” le disse, “e tu?”
E io ti amo più della mia vita, pensò Giglio, ma rispose: “Sto bene.”
“Sono felice che tu sia qui. Sono un uomo impossibile, lo so. È colpa mia se sto così.”
“No, non è vero. Manchi di istinto di sopravvivenza, ma questo sei tu. O a modo tuo, o niente. Ed anch’io sono felice di essere qui.”
“Posso farti una domanda?”
“Certo.”
“Tu sposeresti me?”
“Dormi, Jimmy.”
Oggi, domani e sempre — dormi, Jimmy. Dormi, resto sveglia io per tutti e due. Se c’è una via d’uscita la troverò, e se non c’è ne inventerò una. Io so cambiare la realtà, e vivere sarà farti sorridere con me. Io sono il mago della pioggia, per me niente è impossibile; guarda, batterò le mani e finirà il dolore.
Giglio si spinse contro di lui e svanì nelle sue braccia, respirando contro il suo petto.
Io lo farò per te, perché ho soltanto te; per tutto quello che sei, per le carezze che mi dai e quelle che ho dimenticato.
Lui la chiuse in un abbraccio di chiglia.
“Lo prendo per un sì.” disse, e si addormentò.

Così combatterono gli eroi,
tranquillo l’ammirevole cuore,
violenta la spada,
rassegnati a uccidere e a morire.
 

 

Giglio non prevedeva il futuro, ma al futuro lei piaceva molto e di solito si sforzava di assecondarla.
Per due giorni, dunque, non ci fu che la quiete piatta del vivere insieme; ritrovarono vecchi libri che lei gli aveva regalato e sfogliarono i nuovi, arrivati in una scatola di dimensioni ingiustificabili che aveva lasciato basito perfino il corriere.
La notte del terzo giorno lui si svegliò, in un bagno di sudore, da un incubo che non poté e non volle ricordare; gli sembrava che gli stessero dando fuoco dall’interno, tanto era incontenibile il dolore. Stravolto, con il cuore impazzito, si voltò a cercare gli occhiali che non gli servivano più da molto tempo; poi, all’improvviso, sentì il peso di Giglio a cavalcioni su di lui e le sue mani fresche afferrargli la testa per costringerlo a guardarla.
“Sono qui”, gli soffiò sulle labbra.
Lui serrò la presa intorno a lei e se la strinse addosso. “Ho solo bisogno di un attimo” si sforzò di dire, dondolando entrambi per contenere le ondate di sofferenza che lo squassavano. Lei gli allacciò le braccia al collo e gli tenne la testa con una mano, come a cullarlo. Quando si fu un po’ calmato gli sfilò la maglia, lo aiutò a stendersi, gli porse un asciugamano, gettò uno sguardo all’orologio — le quattro del mattino — e prese a massaggiargli il punto sensibile sopra lo stomaco come aveva fatto qualche giorno prima. Lui pronunciò con inquietante precisione una sequela di parolacce talmente forti che per un attimo lei si bloccò, imbarazzata.
“Scusa”, aggiunse poi tra i denti.
“È qui, tra la I e la C di fiction. Il punto da massaggiare per darti un po’ di sollievo.”
“A saperlo prima mi ci facevo tatuare una X, tipo mappa del tesoro.”
La sua voce era affaticata, ma la sua capacità di farla scoppiare a ridere nei momenti meno opportuni era assolutamente intatta. Una mano di Giglio salì fino al suo collo per prendergli le pulsazioni, sollevata dal fatto che si stessero regolarizzando. “Buone notizie,” gli disse, “non muori stanotte.”
Jimmy si sentì stanchissimo, di colpo.
“Bene. Riproveremo domani.”
“Cretino.”
“Anch’io ti amo.”
Lei si voltò ad aprire un piccolo frigo, accanto al letto, e gli porse un succo di frutta.
“Bevi. Poi dormi.”
“Che ci hai messo lì dentro?”
“Epinefrina, nel caso tu vada in arresto cardiaco. Succo di melograno. Tè freddo. Cioccolata. Qualche asciugamano. Una serie di boccette che, spero, non ci serviranno; siringhe, bande elastiche.”
“E cosa c’è nelle boccette che speri non ci serviranno?”
“Sedativi.”


Jimmy faceva sforzi immani, sempre più frequenti, per ricacciare indietro la psicosi e il dolore. Li faceva soltanto perché c’era lei, e mantenere il controllo era dunque una questione di vita o di morte. Prima o poi però, lo sapeva, sarebbe passato il fuoco dell’inferno con un foglio tra le mani ad informarlo che neppure lui era capace di tanto; domenica alle 11 ebbe una crisi così violenta che Giglio, ancora in camicia da notte in veranda a fumare una sigaretta perché lo credeva addormentato, fu costretta a correre dentro. Schiacciò il tasto di chiamata rapida sul telefono che aveva in mano e Brian rispose senza poter sentire alcun suono rassicurante, perché lei aveva già lanciato l'apparecchio sul divano. Arrivò da Jimmy che stava distruggendo qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, nella camera da letto; gli si parò davanti e per un attimo le sembrò che non la riconoscesse. Lui la spinse con foga contro il muro e le si attaccò perentoriamente addosso, prima di tirare un pugno disperato nella parete accanto a lei.
“Non ce la faccio, ho bisogno di prendere qualcosa”, le sibilò all’orecchio. Lei lo sentì respirare senza pace contro il suo corpo e afferrò le sue mani, che le si muovevano inquiete contro i fianchi, spingendolo ad abbracciarla; non disse una parola quando lui le spostò più giù della sua schiena, stringendo forte. Dolcemente lo guidò verso il bagno nella stanza, spalancò la porta della cabina doccia e ci si infilò dentro insieme a lui; aprì l’acqua fredda al massimo e restò a rabbrividire tra le sue braccia, lottando per tenerlo fermo. Lo cinse in una stretta inesorabile e gli ricoprì il collo di piccoli baci, senza sapere se la cosa lo avrebbe calmato o agitato all’inverosimile e perfettamente cosciente del fatto che, se lui avesse deciso di sovrastarla, anche nello stato in cui era non c’era niente che lei avrebbe potuto fare per fermarlo. Jimmy non disse niente, non si mosse né spostò le mani dal suo sedere, ma iniziò a respirare ad un ritmo più regolare dopo qualche minuto. Brian e Matt le apparvero nella cornice della porta del bagno, entrambi sconvolti dalla preoccupazione, e provò a dir loro con gli occhi di aspettare nell’altra stanza; ma Jimmy le crollò d’improvviso tra le braccia e per fortuna loro due furono più veloci del pensiero, lanciandosi ad afferrarlo prima che potesse toccare il suolo e farsi male. Giglio si inginocchiò a cercargli il polso per verificare il battito ed aprirgli gli occhi per controllare le pupille, mentre Brian si sporgeva a chiudere l’acqua. Tutti e tre insieme lo spogliarono, asciugarono, rivestirono e misero a letto senza dire una sola parola; solo alla fine Brian vide davvero Giglio che tremava, zuppa d’acqua, e le porse qualcosa per coprirsi. Lei si riscosse in un momento ed andò a cambiarsi in fretta, prima di tornare al letto.
“Cos’è successo?”, sussurrò Matt.
“Un brutto quarto d’ora.”
“Ti ha fatto male?”
“Sto bene.”
Si appoggiò un momento accanto a lui e le parve di aver dormito un secolo quando riaprì gli occhi, spaventata; la stanza riverberava della luce del pomeriggio smorzata dalle tende, e Valary e Michelle — chissà da quant’erano lì — si muovevano silenziose, avevano quasi finito di ripulire il casino che la crisi si era lasciata alle spalle, come una scena di guerra. Jimmy dormiva ancora; russava, perfino. E sembrava tranquillo. Si alzò a fatica per raggiungere le ragazze, che le fecero segno di seguirle fuori dalla stanza. Chiuse la porta con delicatezza e si avviò all’isola in cucina, crollando a sedere su una cosa che non era né una sedia né uno sgabello. Valary sfilò saggiamente una bottiglia di liquore dalla borsa e lo versò in cinque bicchieri; fu solo allora che Giglio si accorse di Brian e Matt che la guardavano, fraterni.
“Si è svegliato, ti ha baciato la fronte e ti ha chiesto scusa. Poi si è rimesso a dormire. Qualche dettaglio del brutto quarto d’ora? Ti ha per caso fatto qualcosa?”, le chiese sbrigativa la signora Sanders. “Lo so che sei un medico, ma è da pazzi che tu ti sia sobbarcata da sola questa impresa. Solo i due idioti qui potevano esserne tanto entusiasti.”
Lei buttò giù d’un fiato il bicchiere. I due idioti lì avevano l’aria di voler ribattere, ma ci ripensarono perché Val sapeva essere esatta e spaventosa.
“È stata solo una crisi d’astinenza."
“Hai dovuto sedarlo?”
“No.”
“Vi abbiamo preparato qualcosa da mangiare, è nel frigo. Sbattilo in forno quando serve.” le disse dolcemente Michelle, allungando una mano per sfiorarle il braccio. Sulla pelle stavano affiorando piccoli lividi viola.
“Mi ha solo abbracciata con un po’ troppa foga, non preoccupatevi inutilmente.”
“Giglio,” le disse Valary, “poteva spezzarti un osso.”
“Ti voglio bene e ti sono grata, Val. Davvero.”


Gli salì la febbre.
In un impeto ribelle, come se fosse gli esplosa d’un tratto nel petto una bolla di magma. Nel delirio le disse di tutto: che l’aveva sempre voluta e cosa, nel dettaglio, pensava di farle; che sapeva com’era la morte, umida e tetra, odorosa di fiori vecchi e dell’interno di un armadio; che sotto la pelle sentiva colonie di ragni che lo divoravano da dentro, e che entravano dall’occhio di Ra che aveva tatuato dietro il collo; che vivere gli faceva schifo, ma anche morire gli faceva schifo, e quindi non sapeva cosa fare; che a un certo punto il vuoto era diventato una tentazione a cui resistere, non più uno spazio da riempire. Lei gli rispose che aveva solo voglia di urlare, da anni, o di scappare; che ci aveva pensato anche spesso, alla morte, e le sembrava sempre un sollievo; che le parole arrancavano e le si bloccavano in gola, scomposte e tumefatte, e che la cosa la riempiva di sconforto e di furia; che non riusciva più neppure a pensare, non come avrebbe voluto e come sapeva di saper fare; che aveva perso qualsiasi battaglia e che comunque cielo ed inferno per lei non significavano niente, dal momento che non credeva ad altro che a quel che sentiva, e quel che sentiva era quasi nulla, da tempo; e che ad ogni modo, in mezzo a quel casino senza frontiere né speranza dove l’unica possibilità era la resa — di lei, che tutto sapeva fare meno che arrendersi alla realtà, — lo amava profondamente. Lui la ascoltò come se sognasse e poi rise, con gli occhi umidi e la fronte in fiamme.
“Siamo proprio una bella coppia,” articolò a fatica.
“Già,” concordò lei, “anche secondo me.”
Al mattino Jimmy si sentiva benissimo, come nuovo. Andò a fare personalmente il cappuccino, che non sapeva fare, mentre la signora delle pulizie lo salutava spaventata da quell’inconsueta visione e andava spedita direttamente in camera da letto, dove rifiutò le scuse di Giglio e si impose al posto suo per risolvere il disastro di lenzuola umide ed asciugamani gelidi che era diventato il letto. “Ha l’aria molto stanca, signora Sullivan, qui faccio io; vada a prendere caffè.”
Giglio sbandava a destra e a manca come un battello in balia delle onde, ma finì dritta contro la schiena di Jimmy e lo abbracciò teneramente. Lui mise le mani sulle sue, poi le porse una tazza.
“Tieni, signora Sullivan.”
“L’hai sentita, allora.”
“Difficile non farlo, urla come un’aquila. Però suona bene, non credi anche tu?”
Senza aspettare una risposta, mandò giù il resto del suo caffè e le disse: “Mi sento uno splendore. Penso andrò a fare una doccia.”
Giglio diede un sorso al cappuccino che, quod erat demonstrandum, faceva schifo.
“Al limite dottoressa” gli disse.
“Come?”
Dottoressa Sullivan, non signora."
Jimmy annuì solenne, voltandosi in fretta per sorridere al muro.
L’infermiera ed il collega di Giglio dovettero suonare tre volte prima che Soledad li sentisse; scortò entrambi in veranda dove Jimmy, il re lucertola, stava prendendo il sole dentro un precario accappatoio.
Giglio spuntò alle loro spalle in una nuvola rosa che, compresero, era un vestito. Il dottor Carson, che agiva per mandato dell’ineffabile Clementine Brown, la trovò sciupata, stanca e radiosa. E trovò bene anche il suo paziente.
“Come andiamo, dottore?”, lo salutò the reverend Tholomew Plague.
“Bene. Mi sembra stia bene anche lei. Le crisi si sono calmate?”
“Così pare, ma non cantiamo vittoria.”
L’infermiera attese che si sollevasse la manica dell’accappatoio e, come sempre, studiò disperata una strada in mezzo ai ghirigori dei tatuaggi per trovare una vena utile al prelievo.
“È molto saggio da parte sua essere cauto; il miglioramento è una splendida notizia, ma potrebbe essere un falso allarme.”
“Tutta la vita è un falso allarme.”
“Anche filosofo, stamattina,” rise il medico, mentre gli auscultava il torace.
“Non stamattina, dottore, sempre. Può chiedere conferma alla sua dolce collega, qui.”
“Confermo. Cambia solo corrente filosofica a seconda dell’umore, ma le variazioni sul tema sono infinite e la sua inventiva è inesauribile.”
“Dev’essere uno spasso vivere con lei, Jimmy.”
“Immagino di sì. A patto di non essere me, è chiaro,” rispose lui, tranquillo.

 

Accadde un’altra volta soltanto, e fu l’ultima.
Era sempre notte, ed a lui sembrò, fintantoché riuscì a ragionare, un’estrema zampata della dipendenza sul muro di liberazione che Giglio lo aveva aiutato a scalare. Si svegliò irrequieto e provò a riprendere sonno, senza successo. Lei respirava piano al suo fianco e si stupì di non averla svegliata; lei che di solito percepiva il più piccolo cambiamento nel suo respiro doveva essere davvero distrutta, dopo quasi due settimane di allerta ininterrotta. Le sollevò una mano e le baciò le punte delle dita, sentendo la propria coscienza che andava e veniva minacciando di cedere ad ogni secondo come un chiodo piantato male. Quando Giglio aprì gli occhi, non le ci volle più di uno sguardo a decifrare l’orizzonte degli eventi; lo afferrò per la maglia e se lo tirò addosso, in un’urgenza che nessuno dei due riconobbe per quel che realmente era. Prima che lui potesse anche solo pensare di dire qualcosa, l’intensità negli occhi di lei si trasformò in un’immagine confusa mentre lo baciava — baciava davvero — per la prima volta dopo moltissimo tempo. C’erano già stati baci tra loro; rari, spiegati o inspiegabili. Una notte di tequila e confidenze sulla spiaggia, durante una vacanza di qualche anno prima; una scommessa con gli altri, che li avevano sfidati; un gioco di ruolo di quelli che spesso facevano, immaginando porzioni di tempo mai vissute insieme, in cima ad una casa sull’albero; una volta in aeroporto, dietro il terminal delle partenze, quando se la sentì addosso con ogni fibra e scoprì che anche l’anima, ebbene sì, si misurava in centimetri. Jimmy li ricordò tutti mentre affondava tra le sue labbra, che sapevano di miele e cioccolato bianco; le sfilò la biancheria pregando il silenzio di restare com’era, le tolse la corta camicia da notte di seta che indossava e quasi si strappò di dosso la t-shirt, per l’ebbrezza di averla finalmente sotto di sé pelle contro pelle e nient’altro. Sentì che gli stava abbassando i boxer e le fermò le mani, rischiando di schiacciarla: “Aspetta,” le disse, “non sono lucido. Non voglio che accada così.” Ma lei era già oltre. Gli morse piano il collo e risalì con la lingua fino al suo orecchio, sussurrandogli: “Ora facciamo l’amore e basta.”
L’amore e basta era un concetto non chiarissimo per lui, che amava con lo stesso impeto incontenibile con cui viveva, finendo quindi per lasciare spazio ad una marea di altre cose che dell’amore avevano l’aspetto o alcuni tratti — ma proprio amore non erano. Lasciò che lei finisse di sfilargli i boxer per calciarli via e le disse: “Guardami negli occhi e ripetimelo, Atena.”
Lei consentì al brivido del suo nome pronunciato dalla voce di Jimmy di scorrerle lungo la spina dorsale e poi obbedì; piantò gli occhi nei suoi con una sicurezza che tirò fuori da qualche remoto angolo del cuore e gli disse, ancora una volta: “Ora facciamo l’amore, punto e basta.”
Entrò in lei senza spezzare il contatto di quello sguardo; era calda, accogliente, stretta e incredibile proprio come se l’era sempre immaginata. Si mosse come preda di una febbre e si arrese, finalmente, ad un tipo di delirio che poteva serenamente sopportare.

Ad Huntington Beach splendeva un sole bellissimo.
Matt aprì la porta della camera da letto, vide il letto, si voltò e se la richiuse alle spalle.
“Mi pare tutto bene.”
Una specie di monumento funebre a Synyster Gates gli sostava davanti, fumando amaro.
“In che senso ti pare tutto bene? Che significa? Stanno dormendo?”
“Amore, mentre aspettiamo gli altri puoi fare un caffè?”, ingiunse giulivo a sua moglie, ignorandolo.
Brian gli schioccò le dita davanti alla faccia per riacquistare la sua esclusiva attenzione: “Tu puoi essere più preciso?”
“Santo Dio, Brian,” sospirò Val, che si stava già avviando verso l’inconcepibile macchinetta del caffè di Jimmy, “un po’ di intuito. Hanno scopato. Mi sbaglio?”
“Mai,” le sorrise il marito.
“Oh, grazie al cielo. Alla buon’ora.”
Quando Zacky aprì la porta, trascinandosi dietro a fatica Johnny con le braccia cariche di vassoi di croissant e bevande calde, trovò ad attenderlo un compunto stormo di cornacchie al posto dei suoi amici di sempre.
“Che è successo? Qualche guaio?”
“No, anzi. Sembrerebbe che, finalmente…”
Zacky fischiò, e venne subito redarguito da Val: “Stanno ancora dormendo.”
“Va bene, però lo facciamo.”
“Zack, non mi sembra il caso.”
“Fanculo il caso, abbiamo vinto noi stavolta. Il caso può considerarsi sconfitto. Intesi? Tutti pronti.”

Giglio aveva dimenticato anche che giorno fosse. Si svegliò in un viluppo di braccia e gambe e sorrise al nulla. Jimmy la sentì muoversi, aprì gli occhi e se la strinse addosso.
“Ancora cinque minuti.”
“Devo lavorare.”
“Licenziati.”
“Non ho neppure iniziato.”
“Allora inizia e poi licenziati. Stai con me. Fammi le coccole, ho bisogno di coccole.”
Lei gli lasciò una scia di infiniti baci sul torace, sul collo, sul viso.
“Hai bisogno di un caffè. E anch’io. Forza.”
Recuperò la maglia di Jimmy dal pavimento, dentro un cliché, e se la infilò. Lui si voltò a guardarla.
“Sei nuda, lì dentro? Oh, che bieca provocazione…”
“Ti prego, Jimmy.”
“Non pregarmi, ti mangio.”
“Puoi mangiarmi dopo colazione? Sto morendo di fame.”
“D’accordo.”
Si infilò i boxer e lei notò con un certo sollievo che le occhiaie che lo accompagnavano da due settimane sembravano quasi sparite. Di evidente ottimo umore le diede uno schiaffo sul sedere, poi spalancò la porta della stanza. Ancora mezzi addormentati, furono colpiti dall’onda d’urto di un fragoroso applauso che non erano neppure del tutto giunti in corridoio; tra fischi e grida di gioia, quattro Avenged Sevenfold e due consorti si sperticavano in un’ovazione corale che li fece sorridere tutti e due. Lei nascose il viso tra le mani e poi addosso a Jimmy, che prima di abbracciarla trovò anche il tempo di fare un breve inchino. 

 

Gli uccelli cantavano la prima e l’ultima di molte albe; un sole timido che a Giglio sembrò sorgere per l’ennesima volta in uno stesso, eterno giorno libero dalle consuetudini e dalle catene del tempo. Sentiva il corpo di Jimmy, tiepido e familiare, addormentato contro la sua schiena. Non si azzardò a sciogliere il nodo dell’abbraccio in cui lui la imprigionava neppure per cedere all’impulso di rivedere per l’ennesima volta gli appunti della lezione introduttiva su Oliver Sacks che aveva preparato per i suoi studenti; nessuno molto più giovane di lei, né altrettanto invincibile. La sera prima avevano riguardato insieme un vecchio film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, in cui Max Von Sydow sfidava la morte ad una partita a scacchi; poi erano caduti dal divano ed erano finiti a fare l’amore sul tappeto, tra i popcorn rovesciati. Quello che ormai perfino la sua compunta madre definiva con solennità il suo fidanzato si girò nel sonno, e allora fu lei ad abbracciargli la schiena, rovesciando a bassa voce contro Sullivan 0 un quantitativo di improperi di cui, fosse stato sveglio, il proprietario avrebbe riso per ore. Leccò dolcemente il tatuaggio con l’occhio di Ra dietro la sua nuca, che non aveva mai smesso di inquietarlo, e si chiese quali tortuose vie prendesse a volte Dio per sottolineare i concetti che gli sembravano importanti. La verità è che, da quando era con lui, si era riaccesa di colpo come una radiosveglia capace di cantare un’unica canzone il cui suono era il suo nome ripetuto all’infinito.
“Ti ho sempre amato. Lo sai? Ma certo che lo sai, tu sai sempre tutto” gli disse sulla pelle.
“Quante volte devo pregarti di non amarmi prima delle otto di mattina, ché mi svegli?”
Giglio rise come una bambina e Jimmy si girò a guardarla; chissà da quanto tempo aveva già ripreso conoscenza.
“Ti amo da morire,” gli disse avvicinandosi per dargli un bacio, ma finirono per scontrarsi e ridere l’uno sulla bocca dell’altra.
“Io ti ho amata da vivere. Accontentati.”
“Questa è proprio una frase da biscotto della fortuna.”
“Non ho nessuna intenzione di essere brillante a quest’ora in cui l’unica altra persona sveglia ad Huntington Beach è mio padre, che sta per dire le preghiere del mattino; o il padre di Brian, che deve ancora andare a letto da ieri.”
“Ti ho mai raccontato di Cyrano de Bergerac?”
“Certo che sì. Il tuo eroe, il guascone. Il poeta. La mia ex che sceglie un orario decisamente interessante per venire a riportarmi il coniglio.”
“Come?”
“La vedo dal vetro. Scusa un attimo.”
Giglio si voltò ed avvistò la folta chioma della ex di Jimmy sul balcone che dava sul mare; come fosse arrivata lì fu una domanda che si pose solo più tardi. Jimmy si chiuse la portafinestra alle spalle e le arrivò il suono attutito di una conversazione civile. Dopo lunga riflessione, durata circa quaranta secondi, si decise a seguirlo fuori.
“Ciao,” la salutò, “vuoi un caffè?”
“Magari. Ho alzato un po’ il gomito.”
Jimmy palleggiava con lo sguardo tra l’una e l’altra, accarezzando un coniglio dall’aria severa.
“Questo è Vangelis”, la ragguagliò.
“Ciao, Vangelis. Restate pure qui, vi porto il caffè. E ti prendo una maglia, avrai freddo,” aggiunse, soppesando i vestiti leggeri della donna davanti a lei.
Quando tornò con un vassoio ingombro su cui spiccava solitaria una carota ed uno dei suoi cardigan di cotone appeso al braccio, Jimmy, la ex e il coniglio erano immersi in una conversazione privata. La donna contò le tazze e poi sollevò uno sguardo sorpreso su Giglio: “Tu non prendi il caffè?”
“Ho un po’ di lavoro da revisionare, lo bevo di là. Il coniglio resta qui o viene a farsi una cultura sui padri fondatori della neurologia insieme a me?”
La Ex accettò il cardigan che le porgeva e lo sguardo di Giglio non poté esimersi dall’indugiare sul tatuaggio che aveva sull’anulare della mano sinistra; era stata una storia lunga e importante, intervallata da fugaci momenti di separazione in cui ciascuno dei due prendeva la sua strada e nessuno metteva la parola fine. Un labirinto alla maniera di lui, con mille strade secondarie e tortuose ma un solo centro. Sorrise e se ne andò in salone.
Quasi svenne dallo spavento alzando gli occhi dalle carte che aveva appena finito di sistemare in bell’ordine sull’isola in cucina e vedendo Jimmy, che era evidentemente arrivato producendo nessun rumore.
“Tutto bene?” le chiese guardingo. Notò che sia la ex che il coniglio erano rimasti ad aspettare in veranda.
“Sì, James. Mi hai fatto quasi venire una sincope perché non ti ho assolutamente sentito ma, a parte questo, tutto bene."
“Per la tua sincope al limite avevamo ancora l’epinefrina in frigo. Sei sicura che vada tutto bene?”
Lei sospirò e si appuntò mentalmente di spiegargli che, in caso di sincope, con l’epinefrina potevi zuccherarci la camomilla.
“Stai cercando in maniera assolutamente sagace di capire se mi dia fastidio la sua presenza qui? La risposta è no. È stata anche casa sua per moltissimo tempo; voi due stavate insieme da una vita e, per quanto disfunzionali poteste essere, eravate una coppia. Io non ho per lei che il massimo rispetto, e che vi fermiate un attimo a parlare, se le informazioni che mi diede Brian sono giuste, mi sembra francamente il minimo. Neanche tu sei stato il mio primo amore, sai?”
“Lo so, ma non mi lamento. Preferisco essere l’ultimo.” Le fece un occhiolino così sfacciato che Giglio sorrise senza averne alcuna intenzione.
“Il coniglio ha mangiato la carota?”, si informò.
“Non cambiare argomento.”
“Non sto cambiando argomento, l’ho solo esaurito. Sei tu che sei insospettito dal mio sfoggio di diplomazia.”
“Non sono insospettito, cerco solo di non farti male. Neppure per sbaglio.”
Lei schivò bancone e sediesgabello per andare a baciarlo come dio comandava.
“Va’ da lei, io sarò qui a cercare di fare onore al Dr. Sacks.”
“Lo adorerà, vedrai.”
“È morto da un po’.”
“Lo adorerà a maggior ragione. I morti sono spaventosamente sentimentali, su queste cose.”
“E tu che ne sai?”, quasi gli urlò Giglio, mentre lui si allontanava.
“Io so sempre tutto, piccola”, fu l’inappellabile risposta. 

 

Gli si schiudeva come uno scrigno a qualsiasi ora lui desiderasse; oltre le parole, e i piccoli giochi di seduzione che entrambi mettevano in atto quando erano dell’umore, lei scoprì il mistero di desiderare se stessa attraverso un uomo con un’urgenza che di razionale non aveva niente. Jimmy ci mise davvero poco a sintonizzarsi su quelle frequenze; ormai sapeva che la pressione della sua mano aperta sulla schiena di lei bastava a garantirgli l’accesso a qualsiasi fantasia, dalla più comune alla più intricata. La casa aveva imparato ad essere un tempio di soprammobili fracassati nella foga del momento; l’amore non era solo l’estasi degli inizi o un’avventura ostinata, ma una cosa che si faceva e si faceva ovunque, in qualsiasi istante li cogliesse l’ispirazione, perfino sull’enorme libreria di faggio che Jimmy fece montare contro una parete del salone insieme a schiere di mensole su ogni muro, nei corridoi ed in tutte le stanze con la sola eccezione dei bagni, perché lei avesse dove mettere i suoi libri. Lo fece senza chiederglielo né dirglielo, cosicché Giglio tornò a casa dall’università un giorno e vide lui e la domestica che sistemavano i titoli in ordine sugli scaffali; gli sfilò di mano una copia rilegata in brossura del Silmarillion e lo baciò in un modo che mise in fuga Soledad. Un vaso da fiori in vetro bianco, aggiunta di Valary al tavolino di suo cognato, andò in mille pezzi poco dopo.
Fare sesso e poi farsi misurare la pressione diventò un rito che Jimmy cominciava a considerare familiare e, in un certo qual modo, erotico.
“Così mi fai sentire invalido,” si lamentò, sogguardando i resti del portafiori. Seduta, nuda, al tavolo del salone, lei arricciò il naso e si infilò il fonendoscopio nelle orecchie per auscultare le sue pulsazioni al di sotto della banda dello sfigmomanometro. Appena si ritenne soddisfatta, gli sfilò tutto il complicato marchingegno e gli salì addosso a cavalcioni: “Sei validissimo, invece. E prezioso. Per quello ti tengo sotto controllo.”
Lo baciò con trasporto e lo desiderò come fosse una droga; forse, più che battere una dipendenza, si erano limitati a svilupparne un’altra. Giglio, senza più la rassicurante rete di contenimento dell’amicizia, si scopriva capace di una devozione così assoluta e demente da sfiorare quasi l’idolatria; non sarebbe stato esatto dire che lo amava, lei aveva completamente perso la testa per lui. E capirlo era stato come trasformarsi in una diga esausta che cedeva alla forza dell’acqua. Gli leccò il collo e sentì con orrore la chiave che girava nella toppa; il povero Shadows, che ormai iniziava a fare pace con la scena che gli si parò ancora una volta davanti, si voltò democraticamente alzando le mani e sorrise al muro davanti a sé.
“Vi pregherei di scopare in luoghi meno di passaggio, da ora in poi.”
“Il salotto di casa di un’altra persona non è un luogo di passaggio, Matt —nemmeno se questa persona è praticamente tuo fratello e ti ha dato le chiavi.”
Giglio era imbarazzatissima e recuperò in fretta il vestito dal divano, ma Jimmy si prese il suo tempo per infilarsi di nuovo boxer e pantaloni della tuta.
“Dobbiamo andare da sua madre. Non ricordate che giorno è oggi? L’eccessiva attività fisica vi ha cotto il cervello?”
Lei controllò il telefono e l’orario; nessuna notifica.
“Matt, lascia che ti spieghi una cosa; la scrittura, che è uno strumento culturale, si è evoluta avvantaggiandosi della preferenza dei neuroni inferotemporali. Sono quelli che ti servono per elaborare gli stimoli visivi degli oggetti, per capirci. Quelli che si sarebbero attivati nel momento in cui io avessi visto il telefono lampeggiare per un messaggio, che tu non hai mandato, che mi ricordava che stavi venendo a prenderci.”
“Come hai detto che si chiamano, questi neuroni?”
“Inferotemporali. Si trovano nella tua circonvoluzione temporale inferiore, che non solo elabora gli stimoli visivi, ma è anche coinvolta con la memoria ed il suo richiamo. È coinvolta pure nell'elaborazione e nella percezione creata da gli stimoli visivi amplificati in V1, V2, V3, V4 e nelle regioni del lobo occipitale, dove si registrano colore e forma dell’oggetto nel tuo campo visivo e si capisce il ‘che cosa’ rappresenti quello stimolo. Insomma, quella parte del tuo cervello che identifica gli oggetti che vedi tramite un meccanismo di confronto con i tuoi ricordi.”
Shadows le sorrise, impressionato: “Sei un fottuto fenomeno, piccola.”
“Stavo solo attenta a lezione,” lo corresse lei, “comunque è meglio darci una sistemata, o faremo tardi. Posso offrirti qualcosa, nel frattempo?”
Jimmy le lanciò uno sguardo lascivo e fiero che la fece sentire orgogliosa di se stessa, il che non le capitava mai. Quando riapparve in salone dentro un abito semplice a maniche lunghe che aveva uno spacco a sinistra, adoratissimo dal suo fidanzato, li trovò entrambi chini sul bancone della cucina a sfogliare un libro che riconobbe subito come Musicophilia: tales of music and the brain di Oliver Sacks.
C’è sicuramente una tendenza universale ed inconscia ad imporre un ritmo anche quando uno sente una serie di suoni identici ad intervalli costanti… Tendiamo a riconoscere il suono di un orologio, per esempio, come ‘tic-toc-tic-toc’ anche se in realtà è ‘tic-tic-tic-tic’.

Clementine Brown aveva accolto l’invito a cena dai Sullivan seguendo un impulso sostanzialmente irrazionale. Il cortile puntellato di lanterne — fuochi fatui per gente strana — riluceva nel profumo impossibile dell’eucalipto. La sua amica Giglio scivolava come un fantasma trasognato dentro un vestito di cotone sul quale aveva messo anche un cardigan perché, per quanto si possa far uscire un medico dall’Europa, è impensabile far uscire l’Europa da un medico. Era di fianco a quello che era stato per moltissimo tempo un suo caro amico; Clementine la conosceva da quand’erano bambine, eppure non le passò mai per la testa di farle notare che una passione così prepotente per qualcuno non poteva far altro che tradursi in amore, presto o tardi. Notò che si sfioravano di continuo il dorso delle mani abbandonate lungo i fianchi parlando con qualcuno, incapaci di non toccarsi anche solo per un breve periodo. Il suo campo di specializzazione era il cuore, un muscolo riottoso e imprevedibile, ma aveva da molto il fondato sospetto che nella mente si annidassero più misteri riguardanti l’anima che in qualsiasi altra parte del corpo; quella, però, era l’area di competenza di Atena Rea. Dottore di ricerca in neurofisiologia, bambola di porcellana patologicamente disinteressata sia alle bambole che alla porcellana, brava ragazza (un po’ matta), troppo alta, troppo pura, e decisamente troppo sottile. Per gli amici Giglio. Le si fece accanto in una nube cospiratoria.
“Hai lasciato Walt?”
“Ma certo che ho lasciato Walt, Clementine. Cosa ti aspettavi che facessi?”
“E come l’ha presa?”
“Male.”
Walt era uno a posto. Analista di dati per una grossa banca internazionale, l’aveva conquistata con una sequela incessante di piccole attenzioni; però non le aveva mai fatto montare una libreria in casa propria, perché avesse un posto in cui scombinare l’ordine alfabetico delle cose secondo il suo infallibile istinto.
Brian Haner apparve alle spalle di Giglio, rivolgendo una singola, intensa occhiata a Clementine.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Come stai,” dissero poi simultaneamente ed un po’ troppo in fretta, e Giglio si ricordò improvvisamente che non voleva avere niente a che fare con cose del genere. Fluttuò leggera verso Jimmy che decifrava i segreti di una brocca di punch, poco lontano.
“Tu credi…” gli disse, voltando impercettibilmente la testa in direzione dei due che ora si stavano parlando con una marcata ostentazione di civiltà.
“Quello che credo io non ha nessuna importanza. Li vedi anche tu.”
Lei non seppe se sorridere o annuire, e nel dubbio lo baciò.
“A proposito,” fece lui, staccandosi, “devo dirti una cosa.”
Era stato a pranzo con la sua ex due volte, quella settimana, e da entrambe era rientrato brillo e silenzioso. Il lieve campanello d’allarme che ogni tanto partiva dal retro della testa di Giglio si fece di colpo più intenso.
“Ti ascolto.”
“Avrei detto marzo, ma ormai è praticamente marzo, quindi ho pensato: aprile. A te va bene aprile?”
“In genere è un mese che mi va piuttosto bene; è carino, non fa più freddo ma non fa ancora caldo, tutto è in fiore e sai che sulla sua presunta crudeltà io e T.S. Eliot non ci siamo mai trovati d’accordo.”
“Bene, allora è deciso. So che non ami particolarmente il caos, ma dovrai rassegnarti; saremo tantissimi. Dove ti piacerebbe andare, dopo? So che adori il Sud America, ma a me non dispiacerebbero le Hawaii. Possiamo vedere di fare un po’ e un po’.”
Giglio perse del tutto il filo del discorso, maledicendo Borges e tutta la sua corposa produzione letteraria; l’incoerenza morfosintattico-cognitiva era un tratto peculiare e rodato di tutte le loro conversazioni da sempre, e chissà come riuscivano a capirsi lo stesso. Fermo restando che, d’accodo con l’infinita saggezza del poeta, il nostro meraviglioso compito consiste nell’immaginare un labirinto e un filo, questa volta le parve di trovarsi molto lontana dal punto. Jimmy, come al solito, la batté sul tempo.
“Forse vuoi indossarlo,” le disse, porgendole quello che era, inequivocabilmente, il cofanetto di un anello. “Ricordavo bene, ma ho chiesto a tuo fratello per conferma; taglio vittoriano, zaffiro e brillanti.”
Una volta lei, più per gioco che per altro, aveva descritto a suo fratello, nel dettaglio, l’anello di fidanzamento dei suoi sogni. La piccola scatola si aprì con uno scatto e Giglio non poté fare a meno di notare che Jimmy aveva scelto uno zaffiro il cui blu era esattamente quello dei suoi occhi. Notò distrattamente che la piccola folla in cortile si assiepava intorno a loro e vacillò in una maniera così limpida che fu solo la mano discreta e solida di Shadows sulla sua schiena ad impedirle di cadere. Visto che lei non faceva niente, Jimmy sorrise, sbuffò, e prese l’anello e la sua mano. A lei tornò in mente Big Fish, una storia che si era fatta sempre più complicata con il passare degli anni e che non smetteva mai di riportarle all'attenzione come l’amore avesse la capacità di inceppare il tempo; ma anche che, passato l'istante, il tempo riprendeva il suo corso a velocità duplicata per recuperare. Fu proprio così; il vociare si fece attutito, e la sola cosa che Giglio vedeva era la mano tatuata di Jimmy che prendeva la sua; l’altra le infilava l’anello all’anulare e poi stringeva, delicatamente. Usò lo slancio per tirarselo addosso e nascondere il viso contro il suo collo. Pianse, perché le si frantumò la crosta dura del paraurti emotivo che aveva rinforzato con grande fatica e incessante lavoro; pianse poco, però, e lo baciò sulle manette. Con tenerezza. Si sentì stringere e capì che quell’abbraccio che lui le dava sarebbe durato ben oltre i confini di qualsiasi eternità.
“Il diciannove ti piace?”, le chiese piano.
“È un numero che mi è sempre piaciuto, e lo sai.”
Il vociare tornò senza preavviso al suo insopportabile volume effettivo; la mamma di Jimmy, in qualche modo, riuscì a farsi largo nella ressa per stampare un primo piano severo al figlio.
“Ci sposiamo,” le disse quello, calmo, facendo affiorare tutto lo stregatto che era in lui.
La signora Sullivan si squagliò in un radioso sorriso: “Ha detto sì?”
“Mica gliel’ho chiesto. L’ho semplicemente informata che lo faremo.”
I suoi quattro fratelli di vita, e non di sangue, scoppiarono simultaneamente a ridere in un’armonia così perfetta e rodata che denunciò d’un tratto tutti gli anni passati a comporre musica insieme.
Giglio, mentre la sballottavano a destra e a sinistra in un ginepraio di abbracci e mani e congratulazioni, si rese conto che innamorarsi di solito è un processo che avviene per gradi; a lei non era successo, era stato un colpo improvviso, e lui non era neppure presente. Era bastata una telefonata di Shadows che, con un tono che allora non gli riconobbe affatto, le diceva che la situazione era critica e che Jimmy si sarebbe ammazzato a breve, se continuava con tutte quelle medicine. Lei capì subito che prima di chiamarla dovevano averle davvero provate tutte; le buone e le cattive, come anche ogni soluzione intermedia. Sotto gli occhi inermi di Walt aveva fatto il più grande giro di telefonate della storia recente dai tempi in cui Winston Churchill era al timone dell’Inghilterra durante la guerra mondiale; Clementine Brown aveva interrotto la sua ricerca sulle ripercussioni del disturbo post traumatico da stress sul funzionamento del cuore e si era precipitata da Jimmy con un preavviso di dodici minuti, mettendolo sotto stretto monitoraggio. Poi erano seguite conversazioni Italia-America con gastroenterologi, cardiologi, e perfino con quel pazzo del suo professore di neuropsichiatria di Harvard che le disse, soave, che l’unica cosa sensata da fare era controllarlo lei stessa e le trovò alla velocità della luce una buona scusa per passare a Los Angeles i successivi sei mesi. Pensò che doveva chiamarlo ed invitarlo al matrimonio; si sa, i neurologi sono chiaroveggenti, ancorché stronzi e criptici come sciamani di malumore.
La mano di Jimmy — che avrebbe riconosciuto anche senza quel tatuaggio di una curiosa bottiglia con due spade incrociate — le afferrò il fianco in una stretta che voleva dire possesso, ma anche so bene che ti sei già ampiamente rotta il cazzo degli auguri

 

all’indietro


“Pronto?”
“Come sta, giudice Rea?”
L’uomo tacque per un lunghissimo secondo e si imbalsamò al tavolo del suo studio. Aveva fortemente voluto quella scrivania davanti alla finestra sul lago; ufficialmente, per guardare le anatre. In realtà, perché la calma imperturbabile di quell’acqua gli consentiva sempre, per un benedetto secondo, di dimenticare che aveva due figli che erano sempre stati del tutto fuori di testa. E per di più in una maniera non convenzionale; niente droghe, strane compagnie, sparizioni inspiegabili. No. Il minore al momento si trovava al largo delle Fiji a monitorare cuccioli di balena; la più grande, invece, a Los Angeles, a insegnare i tortuosi percorsi per aggirare i misteri della mente mentre cercava di salvare un uomo improbabile dal baratro di se stesso.
“Come stai tu, Jimmy.”
“Bene, la ringrazio. Mi fa bene averla qui.”
Forse, pensò, non dovevo dar loro questi nomi; troppa pressione. Ma sua moglie insegnava lettere classiche, ed a quei tempi Atena e Prometeo gli erano sembrati bellissimi, invulnerabili al tempo. Eroici. Come i bambini a cui li aveva imposti.
“Ne sono felice. Tiene molto a te. Mi dice Clelia che finalmente avete deciso di battere la strada della coerenza.”
“Voglio sposarla.”
Benedetto ragazzo, niente mezze misure. Neanche un po’ di vaga conversazione propedeutica sul tempo, sulle avanguardie musicali, sulla frutta secca. Il giudice Rea si massaggiò gli occhi.
“Mi sembra un’ottima idea. Gliel’hai già chiesto?”
Dall’altro capo dell’oceano gli giunse un’esitazione che gli fece tenerezza.
“Volevo prima il suo permesso.”
“Non ti facevo un tipo all’antica.”
“Perché non lo sono.”
L’uomo si lasciò andare sullo schienale della grande poltrona, contemplando un tramonto immobile al di là del vetro.
“Ce la fai a restare vivo per lei, Jimmy?”
Silenzio.
“Se ti succede qualcosa le si spezzerà il cuore.”
“Vorrà dire che le darò metà del mio. È abbastanza grande, a quanto ho capito.”
Al giudice venne fuori dal petto una riflessione sull’ineluttabilità del destino. Da quella parte del mondo sua figlia la chiamavano Giglio, il che gli faceva sempre tornare in mente una vecchia canzone; chi ti insegnerà a guardare il cielo fino a rimanere senza respiro, luce di purissimo smeriglio, corro nel tuo cuore e non ti piglio, dimmi dove ti assomiglio, giglio. Che si gioca per vincere, e non si gioca per partecipare. No, aspetta, questa era un’altra; stava facendo un mash-up.
“Per me va bene. Certo, sì. Fa’ pure.”
Udì, inequivocabile, un sospiro di sollievo.
“Avrei capito, se lei avesse preferito uno tipo Walt, per Atena.”
“Ma tanto le avresti lo stesso chiesto di sposarti, con o senza la mia benedizione.”
“Sì, l’avrei fatto.”
“Jimmy.”
“Signore.”
“Quando lei era sola e disperata, qui non c’era Walt. C’eri tu. Dunque ti sbagli, preferisco te.”
“Grazie, signore.”
“Non ringraziarmi. Chiamami Giò. Salutami Joe. E fammi sapere.”

I nomi dei loro padri erano, per una curiosa coincidenza, allofoni; si pronunciavano, cioè, allo stesso modo.
“Tua figlia s’è messa con l’amico suo, quello matto e pieno di tatuaggi. Jimmy, il timido batterista metal.”
“Sì, in effetti sembra proprio il tipo di cosa che mia figlia farebbe. Beh, è una buona idea, non trovi? Abbiamo notizie di Walter?”
“Anche troppe, non fa che telefonarmi dicendomi che è nostro dovere fermarla.”
“E come la fermiamo? Non è mica una palla da flipper. È una donna adulta, sa quel che fa. Piuttosto, sono curioso di sapere cos’è che ha fatto scattare la scintilla dopo tutti questi anni.”
“Credo, lo sforzo congiunto per liberarlo dalla dipendenza da narcotici. Soffre moltissimo con lo stomaco e il cuore da sempre, non ricordi?”
“Molto romantico. È per questo che è partita in fretta e furia, non è così? Los Angeles, l’improvviso desiderio di americhe… Tutte scuse.”
“A quanto ne so, l’aveva chiamata Matthew Sanders.”
“Aspetta, chi è Matthew Sanders?”
“Ma come: Matt. Quello molto bello, grossomodo delle dimensioni di un armadio, che porta sempre quegli occhiali da sole con le lenti a specchio… L’hai anche conosciuto.”
“Ah, sì. Il cantante.”
“Precisamente. L’ha chiamata e le ha detto che Jimmy era fuori controllo e che loro le avevano provate tutte, ma avrebbe finito per ammazzarsi."
“E lei ha pensato di dover sbarrare il passo al destino. Così tipico di Atena.”
“Hai voluto chiamarla come la dea greca della saggezza, chiaramente non ti aspettavi che accettasse a testa bassa una sconfitta a scacchi con Dio.”
“Sono stato ben lungi dall’essere preciso con le previsioni. Come sai,
Prometeo significa colui che riflette prima e nostro figlio Teo invece non riflette mai.”
“Perché è abituato al fatto che sua sorella rifletta al posto suo. E di tutti quanti.”
“Ho visto come riflette. Avremo nipoti molto stravaganti.”
“Pensi si sposeranno?”
“Ma certo, Clelia. Sii realista. Nipoti stravaganti, e con una grande dimestichezza con l’impossibile.”
“Poteva andarci peggio.”
“Decisamente.”
Loro erano presenti, agli albori di quell’assurda amicizia. Li avevano visti sedersi vicini; lui già un uomo, lei ancora nella scia della ragazzina che non aveva ancora del tutto smesso di essere. Clelia gli aveva torto il braccio con quell’istinto preveggente delle madri, e lui aveva seguito lo sguardo di sua moglie fino al muretto sull’oceano; una festa, un anno di studio fuori, la giovane Clementine Brown (figlia del giudice James, che non si stancava mai di sottolineare fiero il parallelismo con l’omonimo musicista) che scopriva la clessidra tatuata al centro della schiena e faceva la scema con un chitarrista con gli occhi bistrati. Dopo tre quarti d’ora in cui sua figlia ed il ragazzo non si erano mossi da lì, decise di andare irrazionalmente a controllare ed iniziò a sentire un complicato discorso sulla natura delle cose già a diversi passi di distanza, nonostante il volume della musica. Si bloccò per non disturbarli. Con qualche veloce ricerca antropologica scoprì che lui aveva una fidanzata, assente dai festeggiamenti; due normalissimi genitori, persone squisite; un’intelligenza sorprendente ed indecifrabile. Il giudice Rea era anche consapevole di avere una figlia d’una bellezza irragionevole, assurda, e temette per un lungo attimo tutto ciò che un padre teme quando vede la sua bambina a briglia sciolta nel vasto mondo privo di scrupoli. Quel che pochi sanno è che il giudice pensava quasi esclusivamente per strofe di canzoni (lo aiutava a tenere in ordine la realtà); scioccando perfino se stesso, si sorprese a canticchiare a mezza voce ‘perché mi amavi non l’ho mai capito, così diverso da quei tuoi cliché; perché tra i tanti, bella, che hai colpito, ti sei gettata addosso proprio a me’. A mezzanotte passata non si erano ancora mossi, ed il giudice e sua moglie erano tra i pochi adulti che resistevano in mezzo alla bolgia variopinta di infaticabile gioventù; perfino James Brown aveva battuto in ritirata, ma lui non riusciva a staccare gli occhi dalla scena surreale. Il ragazzo si era alzato solo per andare a prendere una bottiglia di vino, due bicchieri ed un secchiello del ghiaccio; poi era tornato a sedersi accanto a sua figlia, sorridendole con tutto il corpo. Un piercing sotto il labbro inferiore che non aveva notato prima brillò alla luce artificiale dei lampioncini. Passò ancora mezz’ora ed il giudice si distrasse da tutto, anche da sua moglie che lo pregava di andare a recuperare la piccola e tornare a casa; quasi sobbalzò, quando si ritrovò quel giovane alto e solenne davanti. Era venuto a presentarsi.
“Giudice Rea, buonasera. Professoressa. Sono James Sullivan, ma gli amici mi chiamano Jimmy.”
Gli sembrò timidissimo, molto educato e si sconvolse nel rendersi conto che, sotto quegli innumerevoli tatuaggi, gli pareva di scorgere un bravo ragazzo. Il giovanotto si rivolse, poi, esclusivamente a lui.
“Se per lei va bene, signore, vorrei riportare io Atena a casa. Ad un’ora decente. Sarà con me tutto il tempo, non ho bevuto molto e sono perfettamente in grado di guidare."
“È molto gentile da parte tua, Jimmy, ma…"
Il giudice parlò prima ancora di rendersene conto, spezzando a metà la frase cortese della consorte.
“Va bene, non fate troppo tardi e state attenti,” disse, e gli strinse la mano.
Sua moglie gli sorrise come non faceva da un po’, mentre tornavano brilli verso casa.
“Ti rendi conto che hai appena affidato Atena ad uno la cui foto si trova probabilmente alla voce enciclopedica ‘soggetti con cui non lasciare da sola vostra figlia’?”
“Ti dirò,” le rispose meditabondo il marito, “a me il ragazzo non dispiace.”
“No? E quelle manette tatuate?”
“Apotropaiche.”
“Se lo dici tu.”


La prima volta che il timido batterista andò a trovare Atena nella grande casa sul lago la band era in tournée da quelle parti ed entrambi i giovani Rea erano svaniti per ventiquattro ore, onde assistere all’imperdibile concerto. Il giudice si rallegrò dell’intuizione che gli aveva fatto comprendere che ormai erano alle spalle di tutti e cinque i Sevenfold gli anni delle droghe e delle groupies, anche se di certo gli davano del filo da torcere quanto a consumo di alcolici. Tre delle sue migliori bottiglie di whiskey non videro mai le cinque di quel pomeriggio. Sia lui che sua moglie avevano atteso per un paio d’anni che deflagrasse la bomba di un complicato innamoramento tra Jimmy ed Atena, ma quei due sembravano aver trovato una melodia che solo loro potevano sentire e suonare a quattro mani, e seguitavano perciò a restare ottimi amici tra lo stupore generale; mentre i suoi compagni di band bevevano whiskey con il giudice fino a rasentare la sbronza solenne, Jimmy s’era scusato e si era avviato con il braccio intorno alle spalle di sua figlia a fare due passi nel piccolo bosco. L’allora fidanzato di Atena aveva deposto le armi con rassegnazione ed era rimasto a tavola a dare fondo alla sua inesprimibile preoccupazione nel bicchiere ottagonale che occhi-verdi, Zachary, gli riempiva di continuo con fraterna comprensione. La fidanzata di Jimmy si trovava, per sua fortuna, dall’altra parte dell’Atlantico. La signora si era ritirata ed il giovane Teo cominciava ad accusare i prodromi di un atroce mal di testa, quindi lui restò da solo con il genero ad affogare le sue domande senza risposta nell’alcool insieme ai ragazzi.
“E questa è la casa sull’albero”, stava dicendo Giglio a Jimmy a qualche centinaio di metri da lì, dopo una precaria arrampicata in cui lui si era categoricamente imposto di non guardarle sotto il vestito; ma la danza della realtà era complicata e, nel seguirla, si era impresso a fuoco nelle pupille l’immagine delle sue mutandine di pizzo color avorio. Gli venne, per un attimo, il fondato dubbio che lei non gli avrebbe mai permesso di vedere qualcosa che non voleva che vedesse. Arrivati in cima, si sedettero vicini come avevano sempre fatto ed avrebbero fatto sempre; tra i rami si intuivano scorci di cielo, di lago, centri abitati in lontananza.
“Quand’ero bambina, venivo qui sopra ad interrogare gli spiriti del bosco. C’è un salice in una radura, laggiù; mia nonna ha sempre detto che quando morirà finirà lì dentro.”
“Tu sei ancora una bambina, lo sai?”
Nessuno riuscì a capire chi dei due avesse preso l’iniziativa, e quando si resero conto di quello che stava accadendo si stavano già baciando; le mani di lei, passeri in volo, gli sfilarono la giacca e cercarono il suo cuore sotto la maglia. Jimmy si stese e se la tirò addosso, inventandosi il coraggio di toccarla oltre il limite sacro del vestito; le accarezzò una coscia fin dove si sentì di spingersi, avvertendo l’orlo ruvido degli slip contro le dita; l’altra mano la passò tra i suoi capelli morbidi, tirandoli un po’ e strappandole un piccolo gemito che gli riverberò dentro con la violenza di un’onda d’urto. Atena si strusciò d’istinto addosso a lui, mandorle caramellate e pelle calda, e sentì la sua eccitazione premerle in un punto sotto l’ombelico frantumando nel suo stomaco l’ampolla di un insopprimibile desiderio. L’aria si stava surriscaldando e Jimmy la sentì fremere di attesa. Non smisero di baciarsi per un tempo che parve insieme lunghissimo e breve, finché lei gli si staccò di dosso e gli si distese accanto — la testa vicina alla sua, giocava con la cintura dei suoi pantaloni senza particolare malizia.
“Carlo Rovelli dice che il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi” gli sussurrò, premendogli le labbra su un punto appena sotto l’orecchio e sfiorando il rigonfiamento nei jeans come per caso.
“Chi è Carlo Rovelli?” le chiese Jimmy, in un insieme di sillabe dense e grondanti di voglia insoddisfatta.
“Un fisico.”
“E chi meglio di un fisico può spiegare i baci."
“Perché ci siamo baciati?”
“Ti ho già spiegato questa storia dei perché, piccola. Non servono a niente. Come i ‘se’, i ‘cosa’, i ‘come’ e i ‘quando’."
“E cosa serve, allora?”
“Nella vita servono solo i ‘nonostante’."
Jimmy era un grande fan delle speculazioni filosofiche sugli avversativi. Anche di tutto ciò che è lugubre, sinistro o inspiegabile, delle cose sgradevoli, curiose e rare, dei mostri, del whiskey alla castagna, delle cinque del mattino, e di lei.
“Non è il nostro primo bacio.” rifletté Giglio, un po’ a caso ed un po’ per abitudine.
“Né sarà l’ultimo.”
“Ma quindi cosa siamo, noi? Due buoni amici che si baciano ogni tanto?”
“Che ti ho appena detto sui ‘cosa’?"
“D’accordo… però vorrei saperlo lo stesso.”
Jimmy sospirò, come se toccasse ancora una volta a lui fare le veci di un Padre celeste scorbutico ed assenteista.
“Siamo tutto ciò che tu vuoi che siamo, piccola.”
“Due spiriti del vento?”
“Certo.”
“Due chicchi di riso.”
“Anche. Due cespugli in fiamme nel deserto.”
“Due stelle cadenti prima che inizino a cadere.”
“Due elfi dei Rifugi Oscuri con il mal di testa.”
“Due cestini pieni di ciliegie.”
“Due lapidi di marmo bianco.”
“Con sopra due vasi di calle e rose.”
“Due etti di prosciutto crudo.”
“Due punti. O un punto e virgola.”
“Due lumache sposate da vent’anni.”
“Due cretini.”
“Quello sempre.”

rientro del tempo nei binari
oggi 

 

“Voglio passare l’eternità con te. Un quarto d’ora per volta.”
“Sono un sacco di quarti d’ora, Jimmy.”
“Tutti indispensabili, bellissimi. E nessuno uguale all’altro.”
Avevano appena finito di fare sesso e lei lo aveva graffiato con la corona dell’anello; vide la minuscola linea del sangue sul suo collo e la leccò via, lentamente. Jimmy reagì affondandole dentro e toccando un punto che le fece temere che sarebbe stato necessario ricominciare da capo. Un telefono vibrò.
“Shadows ha sviluppato quest’abilità sovrumana di palesarsi nel mondo fenomenico ogni volta che io e te stiamo facendo l’amore” disse Giglio, prima di rispondere.
“Hey, piccola!”
“Ciao Matt! Io e Jimmy, come sempre, stiamo scopando. Possiamo sentirci più tardi?”
“Certo, tesoro. Però sono in auto con i Brian, padre e figlio, e tu sei in vivavoce.”
Si levò un coro di saluti.
“Ehm… c’è anche Joe. Siamo passati in comune per le carte, sai.”
Giglio non rispose: si augurò, limpida, di morire. Jimmy, che non si era mosso di un millimetro, rise contro il suo collo dentro il profumo di mandorle caramellate.
“Volevo solo dirti che domani passo a prendere i tuoi all’aeroporto, come eravamo d’accordo, e che stasera è confermato per le otto e mezza.”
“D’accordo. Sì. Grazie.”
“Buon proseguimento.”
“Ciao.”
Jimmy almeno attese che la telefonata si fosse conclusa per crollarle accanto e scoppiare a ridere come un pazzo.
“Ti rendi conto che ho urlato in stereo a Matt, Brian, suo padre e — ho i brividi a dirlo — tuo padre che io e te stavamo scopando?”
“Pensi che non lo sappia?”
“Saperlo è un conto, sentirselo dire in diretta da tua nuora è un altro paio di maniche.”
“Tu non hai mai beccato i tuoi a scopare?”
“Santo cielo, no.”
“Io sì. Una volta c’era anche mia sorella minore; non sapevo se coprirle gli occhi o le orecchie, quindi l’ho spinta nello stanzino delle scope e l’ho chiusa dentro. Poi ho fatto più rumore possibile per far arrivare ai due fornicatori il messaggio subliminale che noi eravamo rientrati prima ed era il caso di darci un taglio.”
“Molto premuroso, da parte tua. La nostra vita sessuale è di pubblico dominio.”
D’un tratto lui si fece serio, si voltò di fianco e percorse il sentiero scosceso del suo corpo con una mano, fermandosi giusto dove soltanto lui poteva andare. Gli sembrò inconcepibile che altri, prima di lui, l’avessero avuta.
“Dimmi che hai sempre pensato a me. Sempre e soltanto a me.”
Giglio capì subito a cosa si riferiva e si sentì di troppo dentro se stessa, perché era vero. Da quando lo conosceva, i — pochi, rari — uomini con cui era stata non erano altro che corpi le cui anime ignorava di proposito, solo perché al mondo niente somigliava alla sua.
“Ho avuto soltanto due fidanzati in questi lunghi anni, Jimmy, e tu li hai conosciuti entrambi. Altri uomini non ce ne sono stati, lo avresti saputo. Te l’avrei detto, ti ho sempre detto tutto.”
“Tranne che hai sempre pensato a me.”
“E tu? Tu pensavi a me?”
“Ogni volta. Pensavo a te o non pensavo a niente, non c’era una terza opzione.”
La mano di lui tra le gambe di lei diede una lieve stretta e Giglio sospirò, ardente.
“Pensavi alle mie mani?”, le chiese, poco più che un sussurro.
“Pensavo alle tue mani quasi ogni giorno. In alcuni periodi, incessantemente. Ma non immaginavo che ci fossi tu al posto loro, se è questo che mi stai chiedendo; ritornavo con la memoria alla casa sull’albero e a quella brama che non ho più avuto per nessun altro. Una questione di calore, come se l’aria che respiravo si fosse fatta rovente. A volte, dopo, bruciavo per te tutta la notte, ti amavo fino al delirio, fino alla febbre; volevo prendere il telefono, chiamarti e dirtelo in un fiume indisciplinato di parole. Dirti che non eri un desiderio, ma un obbligo morale ed un bisogno, e che non avrei più avuto pace se tu non mi avessi toccata subito, se non mi avessi detto che mi amavi, contro un muro o in un fienile o in una casa sull’albero. Nel cesso di un locale, non mi importava dove. Poi, arrivava il mattino ed i sentimenti si erano già rimessi in ordine.”
Jimmy se la tirò vicina, la toccò ovunque, le baciò il viso e poi la bocca. Lei passò una gamba sopra il suo fianco e si ritrovò a pensare che ogni cosa vaga, solo immaginata, prima o poi diventa familiare; basta solo sostituirsi al destino e crederci con la forza che è servita a dio per creare il mondo, posto che non si sia annesso meriti non suoi. Ma servono anche i dogmi, nella lunga strada verso qualsiasi meta. Si rincorsero piano, come un gioco di ombre o una piccola mareggiata; movimenti lenti e profondi, perfettamente accordati.
“Tu sei la cosa più bella… la più bella che…”
Lo zittì con un bacio di un’altra epoca e ne volle ancora; a quel punto, non c’era espressione di quella danza che non avessero sperimentato. Avrebbe potuto disegnarlo a memoria, prevederlo con la stessa esattezza del risultato di un teorema, perfino insegnarlo in cattedra a quel nugolo disorganizzato di brillanti studenti. Magari imprimerlo a fuoco tra le maglie larghe della storia, cui sempre sfuggivano le uniche cose che valesse davvero la pena di tramandare. Che nessuno avrebbe mai potuto spiegare lei, né indovinarla o intuirla, non era un problema che la incuriosiva più di tanto.
Quando finirono era già tardi, ma lei restò tra le sue braccia a sfiorargli il viso con le dita, leccandogli le labbra di quando in quando senza un motivo particolare.
Ai diversi futuri, non a tutti, lascio il mio giardino dai sentieri che si biforcano,” sussurrò infine.
“Borges”, rispose lui.
Finzioni. Fictions, in inglese,” aggiunse lei, facendo scorrere la mano sul tatuaggio sul suo torace. Lui le bloccò il polso e la guardò intensamente. “Devo pensare a rimuoverli o coprirli, quei tatuaggi.”
“Lasciali dove sono, Jimmy; è solo inchiostro, di rado ha valore di sentenza. Nessuno lo sa meglio di me.”
Si guardarono. Giglio sapeva bene che la sua ex, tra i vari, aveva un tatuaggio per lui sul cui significato c’era poco da equivocare.
“Personalmente preferisco essere la moglie di te tutto intero, e non solo della tua interpretazione poetica di te stesso” gli disse, baciandogli l’anulare su cui non c’era il suo nome e scalciando il lenzuolo per andare a farsi una doccia.
“Pensi ci sia una qualche differenza tra le due cose?”
“Non lo so. Tu lo pensi?”
“Fino a qualche tempo fa, no. Ora invece credo di sì. Sarà l’età che avanza.”
“Beh, io sposerò Jimmy. E per quanto riguarda il mio adorato Fiction…” aggiunse Giglio, voltandosi appena prima di sparire oltre la porta del bagno, “I’d rather be the author than the wife.”
Jimmy guardò il tramonto oltre la finestra e gli sorse spontaneo il sorriso che aveva solo per lei; scosse la testa divertito, su quel letto sfatto da Dio in persona al riparo dagli angusti confini dello spazio e del tempo.


It’s buried in my soul,
that California gold;
you found a light in me that I couldn’t find.


When the sun goes down
and the band won’t play,
I’ll always remember us this way.

 


dal racconto
Il giardino dai sentieri che si biforcano
contenuto in Finzioni di Jorge Luis Borges

 


- Ecco il Labirinto, - disse indicandomi un alto scrittoio di lacca.
- Un labirinto d’avorio! - esclamai. - Un labirinto minimo...
- Un labirinto di simboli, - corresse. - Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Ts’ui Pên avrà detto qualche volta. “Mi ritiro a scrivere un libro”. E qualche altra volta: “Mi ritiro a costruire un labirinto”. Tutti pensarono a due opere; nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva nel centro di un giardino forse intricato; il fatto può aver suggerito agli uomini l’idea di un labirinto fisico. Ts’ui Pên morì; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovò il labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il labirinto fosse il romanzo stesso. Due circostanze mi dettero la retta soluzione del problema. Una: la curiosa leggenda secondo cui Ts’ui Pên s’era proposto un labirinto che fosse strettamente infinito. L’altra: una frase in una lettera che scoprii. Albert si alzò. Per qualche istante mi voltò le spalle; aprì un cassetto del dorato e annerito scrittoio. Tornò con un sottile foglio a quadretti, che era stato cremisi e ora era rosa. La fama di calligrafo di Ts’ui Pên era giusta. Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciò un uomo del mio sangue: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Resi il foglio in silenzio. Albert proseguì:
- Prima di ritrovare questa lettera, m’ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potei pensare che a un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazad (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una notte, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito. Pensai anche a un’opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri. Queste congetture mi attrassero; ma nessuna sembrava corrispondere, sia pure in modo remoto, ai contraddittori capitoli di Ts’ui Pên. Ero in questa perplessità, quando mi fecero avere da Oxford l’autografo che lei ha esaminato. Mi colpì, naturalmente, la frase: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò in quest’idea. In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide - simultaneamente - per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang - diciamo - ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina.
II suo volto, nel cerchio vivido del lume, era indubbiamente quello d’un uomo anziano, ma con qualcosa d’infrangibile e anche d’immortale. Lesse con lenta precisione due versioni di uno stesso capitolo epico. Nella prima, un esercito marcia alla battaglia attraverso una montagna deserta; l’orrore delle pietre e dell’ombra gli fa disprezzare la vita, onde ottiene facilmente la vittoria; nella seconda, lo stesso esercito attraversa un palazzo in cui è in corso una festa; la risplendente battaglia gli pare una continuazione della festa, onde ottiene la vittoria. Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo del mio sangue, e che me le restituisse un uomo d’un impero remoto, nel corso d’una disperata avventura, in un’isola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: “Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire”.
Da quell’istante, sentii intorno a me e in me, nel mio corpo oscuro, un invisibile, intangibile pullulare. Non il pullulare dei divergenti, paralleli e finalmente coalescenti eserciti, ma un’agitazione più inaccessibile, più intima, e che coloro, in qualche modo, prefiguravano. Albert proseguì.
- Non credo che il suo illustre antenato giudicasse oziose queste varianti. Non giudico inverosimile che sacrificasse tredici anni dell’infinita esecuzione d’un esperimento retorico. Nel suo paese, il romanzo è un genere subalterno; a quel tempo era un genere disprezzato. Ts’ui Pên fu romanziere geniale, ma fu anche un uomo di lettere che non si considerò, indubbiamente, semplice romanziere. La testimonianza dei suoi contemporanei proclama - e bene le conferma la sua vita - le sue tendenze metafisiche, mistiche. La controversia filosofica ha gran parte nel suo romanzo. So che, di tutti i problemi, nessuno l’inquietò né lo travagliò più dell’abissale problema del tempo. Ebbene, questo è l’unico problema di cui non sia mai questione nelle pagine del Giardino. La stessa parola che significa tempo non vi ricorre mai, in nessun caso. Come spiega lei questa volontaria omissione?
Proposi varie soluzioni, tutte insufficienti. Le discutemmo. Alla fine, Stephen Albert mi disse:
- In un indovinello sul gioco degli scacchi, qual è l’unica parola proibita?
Riflettei un momento e risposi: - La parola scacchi.
- Precisamente, - disse Albert. - Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome. Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico di indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pên. Ho confrontato centinaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotti dalla negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho ristabilito, o creduto di ristabilire, l’ordine primitivo, ho tradotto l’opera intera: non vi ho incontrato una sola volta la parola tempo. La spiegazione è ovvia. Il giardino dei sentieri che si biforcano è una immagine incompleta, ma non falsa, dell’universo quale lo concepiva Ts’ui Pên. A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo; in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in: altri io, e non lei; in altri, entrambi. In questo, che un caso favorevole mi concede, lei è venuto a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma.
- In tutti, - articolai non senza un tremito, - io gradisco e venero la sua ricostruzione del giardino di Ts’ui Pên
- Non in tutti, - mormorò con un sorriso. - Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri.
Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto. Mi parve che l’umido giardino che circondava la casa fosse saturo all’infinito di persone invisibili. Queste persone erano Albert e io, segreti, affaccendati e multiformi in altre dimensioni del tempo.

 

— fin —

 

   
 
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