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Autore: ChiiCat92    09/03/2021    0 recensioni
"L’acqua aveva un sapore diverso. Fluiva pigra, dentro e fuori le branchie, e lasciava un sapore sterile, pulito, che invece di essere piacevole rimaneva incollato sul fondo della gola.
Forse dipendeva dalla salinità, o dalla bonaccia che non permetteva l’adeguato ricambio di nutrienti. Qualunque cosa fosse era fastidioso abbastanza da risvegliare i sensi.
Il tritone aprì gli occhi con quel pensiero, passandosi la lingua sulle labbra e stupendosi di trovare la bocca impastata.
I pensieri che cercava di recuperare dalla mente non erano diversi dalle lenze dei pescatori strappate che di tanto in tanto ritrovava sul fondale marino: aggrovigliati e alla deriva.
Si guardò intorno, sempre più confuso.[...]"
Genere: Angst, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Orochimaru, Sasuke Uchiha, Suigetsu | Coppie: Sasuke/Suigetsu
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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L’acqua aveva un sapore diverso. Fluiva pigra, dentro e fuori le branchie, e lasciava un sapore sterile, pulito, che invece di essere piacevole rimaneva incollato sul fondo della gola.

Forse dipendeva dalla salinità, o dalla bonaccia che non permetteva l’adeguato ricambio di nutrienti. Qualunque cosa fosse era fastidioso abbastanza da risvegliare i sensi.

Il tritone aprì gli occhi con quel pensiero, passandosi la lingua sulle labbra e stupendosi di trovare la bocca impastata.

I pensieri che cercava di recuperare dalla mente non erano diversi dalle lenze dei pescatori strappate che di tanto in tanto ritrovava sul fondale marino: aggrovigliati e alla deriva.

Si guardò intorno, sempre più confuso. 

Man mano che riprendeva coscienza si rendeva conto di quanto avesse male in tutto il corpo. I muscoli sembravano scossi, la pelle gonfia, persino le ossa dolevano. 

In alto su di lui una luce bianca illuminava l’acqua. Non poteva essere il sole, perché era sdraiato sul fondo ed era impossibile che arrivasse fin lì, in più, la luce del sole era gialla. 

Lentamente capì che qualcosa non andava.

La sabbia su cui era sdraiato era granulosa, dura, non riconosceva le alghe e gli anemoni che lo circondavano, non c’erano le centinaia di piccole creature che abitavano gli scogli vicino alla sua tana. Tutto era troppo...nuovo. Le rocce erano lucide, senza traccia di molluschi o mucillagini, come se fossero appena state immerse nell’acqua, e quel sapore sterile sul fondo della gola...

C’era un buco nella sua memoria, come se avessero strappato a morsi i ricordi direttamente dalla sua testa.

Un attimo prima si vedeva a nuotare sereno sotto il pelo dell’acqua, un attimo dopo sbam si risvegliava in quel posto. 

Non avvertiva nessun sapore, nessun odore, nessun suono familiare a parte quello che sembrava il ronzio petulante del motore di una barca, forse. Gli esseri umani erano vicini? 

Cauto, il tritone si mosse. Gli sembrava di avere le membra pesanti come macigni, la pinna rispondeva un attimo in ritardo ai suoi ordini, le braccia formicolavano. 

Si guardò, e fu con totale disappunto che notò il segno di una puntura sul fianco destro, poco più su di dove il busto si fondeva con le squame e iniziava la pinna caudale. 

Cosa l’aveva punto? 

Un riccio di mare? Un pesce palla? Doveva essere stato veramente stupido per essersi fatto pungere, soprattutto perché non riusciva a ricordare quando era successo, né come. 

Con la punta delle dita andò a toccare la ferita e sobbalzò per il dolore. La pelle era tumefatta, un livido violaceo cominciava ad allargarsi dove l’ago si era conficcato a fondo nella carne. Un po’ grosso per essere il segno della puntura di riccio. 

Beh, poteva capitare anche ai migliori, farsi pungere da qualcosa e finire per vagare strafatti di veleno per i fondali marini. Chi è in cima alla catena alimentare non deve preoccuparsi di finire mangiato da qualcos’altro, e il tritone dubitava che qualcuno avrebbe osato anche solo assaggiarlo, non avrebbe corso comunque alcun pericolo.

Però, diamine, quella puntura faceva un gran male, e faticava a rimettere a posto i pensieri, come fossero liquefatti.

Uno scorfano? Un pesce rana? Cosa poteva averlo ridotto così? 

In ogni caso, ipotizzò di essersi allontanato dalla sua tana in preda alla confusione, ora non gli rimaneva che capire dove si trovava e tornare indietro. Niente di più semplice.

Con un colpo di pinna si siede lo slancio per nuotare via.

Non sarebbe stato meno doloroso se avesse saputo di stare per andare a sbattere contro una parete di vetro, anche se di certo l’avrebbe fatto arrabbiare meno. 

Avrebbe sicuramente riso del tonk del proprio corpo che si schiantava contro la superficie dura, se fosse rimasto cosciente. 


Rinvenne, per la seconda volta, un po’ più infuriato della prima, ricordando perfettamente quello che era successo, con un bernoccolo sulla fronte e gli occhi gonfi per il pianto che si era diluito nell’acqua.

Di fronte a lui il vetro specchiato rimandava la sua immagine e quello che c’era dietro. 

Appoggiò una mano sulla superficie e nella sua mente cominciarono a delinearsi sagome imprecise di ricordi. 

Ignorò quei pensieri, perché erano accompagnati da una strana stretta alla gola, e alzò gli occhi verso l’alto. 

Stavolta con cautela cominciò a nuotare, una mano sempre premuta contro il vetro, verso quella strana luce bianca.

Non aveva fatto che pochi metri quando capì di essere in trappola.

La consapevolezza arrivò abbastanza forte da strizzargli lo stomaco. 

Gli umani l’avevano drogato, catturato, e messo in una delle loro gabbie di vetro. Non riusciva ancora a ricordare come era potuto succedere, ma era successo.

La segno della puntura che aveva sul fianco non era di un riccio o di uno stupido pesce palla, ma uno degli aggeggi degli umani. 

Ecco perché l’acqua aveva quel sapore di merda, perché non era vera acqua. Non era la sua acqua, era la loro acqua. 

Si scoprì a respirare in piccoli singhiozzi convulsi e la testa cominciava a girargli. Si portò la mano alla bocca e morse, forte. 

Il dolore dei denti che affondavano nella carne e il sapore in qualche modo confortante del sangue lo calmò.

Non gli piaceva quell’acqua, ma doveva respirarla suo malgrado. 

Per prima cosa doveva capire quanto grande era quella gabbia, prendere le misure dello spazio vitale che gli avevano riservato. 

Con entrambe le mani premute contro il vetro cominciò a nuotare seguendone il profilo, verso il basso, a destra, a sinistra, in tutte le direzioni. 

Piccola, che bastardi, aveva a malapena lo spazio per distendersi. Guardando il fondale dall’alto si sentì ancora più indignato. Non gli avevano lasciato posti per nascondersi, posti per sentirsi al sicuro, a parte qualche sasso con delle alghe e degli anemoni panciuti che avevano una strana consistenza tra le dita. 

Non c’erano coralli e neanche un abbozzo di tana: gli umani erano dei barbari, e non soltanto perché l’avevano rapito. Dove credevano che avrebbe dormito? Stupidi. 

Stava valutando se fosse il caso o meno di provare a spaccare il vetro quando avvertì un rumore. 

Una luce si accese fuori e lui mugolò. Non perché avesse paura, ma l’istinto animale gli aveva insegnato a rimanere sempre guardingo e sospettoso quando incontrava qualcosa che non conosceva.

La sua gabbia si trovava al centro di un grande salone, per quanto i suoi occhi affamati di curiosità percorressero gli oggetti non riconosceva niente. Non sapeva come vivevano gli umani, né gli era mai interessato. Adesso avrebbe voluto essere stato più attento quando suo fratello lo metteva in guardia dagli attrezzi degli umani. 

Tutto ciò che sapeva di quelle creature era che erano nati estremamente svantaggiati in tutto. Non avevano branchie o pinne, quindi annegavano facilmente, non avevano artigli o denti, quindi per i predatori erano un bocconcino prelibato, non avevano neanche muscoli e forza. Tutto quello che avevano, come gli aveva detto una volta suo fratello, era una sorprendente capacità di costruire gli oggetti più disparati per sopperire a quello che la natura non gli aveva dato. 

Un po’ come facevano i paguri cambiando conchiglia man mano che crescevano scegliendone di più dure, ma senza limitarsi solo alla conchiglia. 

Immobile, sperando quasi di diventare un tutt’uno con l’acqua, il tritone osservò gli umani che entravano nella stanza e si piazzavano davanti al vetro.

Erano in tre, un adulto e due ragazzi. Le loro immagini apparivano distorte e tremolanti a causa del vetro, ma anche se l’immagine fosse stata chiara non sarebbe cambiato il sentimento del tritone: un odio tale che se fossero stati a portata di mano li avrebbe dilaniati con gli artigli senza neanche mangiarne la carne. La sola idea di nutrirsi di loro gli faceva ribrezzo.

Erano strani, ma non in modo strano buono. Indossavano strani tessuti per coprire e limitare i loro corpi, e la mancanza di pinne e branchie visibili suscitavano nel tritone una nausea acida. 

Non avevano grazia nei movimenti, sembravano pesanti e lenti più dei molluschi. 

Il tritone sentì le labbra sollevarsi in un ringhio, scoprendo una pericolosa dentatura da squalo.

Uno dei due ragazzi, il più alto, appoggiò protettivo una mano sulla spalla del più piccolo, tirandolo appena a sé. Ma lui non sembrava intimorito, né impressionato.

L’umano adulto, che doveva essere il padre, disse qualcosa.

Il tritone non riuscì a capire, non perché non capisse il linguaggio umano, quello era talmente banale che anche una seppia poteva riuscirci, ma perché il ronzio del motore e il vetro attutivano i suoni e rendevano impossibile sentire. 

I due ragazzi annuirono in risposta, il più grande con convinzione, l’altro quasi scocciato. 

Il tritone lo odiò all’istante. Poteva perdonare, addirittura rispettare, l’umano adulto (che supponeva essere quello che l’aveva catturato). Si era fatto catturare ed era diventato preda perché li aveva sottovalutati, e per quanto l’orgoglio bruciasse se abbassi la guardia e ti rendi vulnerabile è solo colpa tua. 

Tutte le creature dell’oceano capivano e accettavano quell’inevitabile destino. Nel momento in cui venivano catturate smettevano di combattere: avevano fallito, i loro metodi di fuga, mimetizzazione, difesa non erano stati efficaci, per quale motivo dibattersi se si trovavano tra le fauci del predatore?

Mangia o sarai mangiato, era semplice.

Ma quell’impertinenza, quel menefreghismo, quella mancanza di rispetto...no, quelle cose il tritone non poteva sopportarle. Il ragazzo umano gli doveva quantomeno l’attenzione che si meritava, perché lui era il miglior trofeo di caccia possibile.

Per questo, e per fargli capire che doveva avere paura di lui, il tritone si lanciò contro il vetro, battendo con i palmi aperti e ringhiando a denti scoperti. 

Gli umani saltarono indietro per lo spavento, compreso il più giovane. Fu una gran soddisfazione vederlo con gli occhi sgranati e l’espressione finalmente turbata.  

Il padre disse qualcosa con alle orecchie del tritone arrivò come un basso rimprovero, poi si tirò dietro i figli (a quel punto era chiaro che fossero i figli) e lasciò la stanza.

Spente le luci, il tritone si ritrovò a sbuffare.

Non sapeva che cosa se facessero gli umani dopo la cattura di uno della sua specie, era successo talmente poche volte che non aveva esperienze dirette. E comunque nessuno era mai tornato per raccontarlo con la sua bocca. 

Sicuramente l’avrebbero mangiato, di solito quando si cattura una cosa è per mangiarla, no? 

Nuotò sul fondo e si acciambellò in un angolo, la pinna grigio azzurra tutta arrotolata contro il corpo. 

Fece schioccare le mascelle irte di denti, più e più volte, come per metterle in movimento. Accettava di essere stato avventato, di essere stato catturato, ma non di diventare il prossimo pasto degli umani. Probabilmente l’avrebbero ucciso comunque, ma poteva strappare dita e arti finché respirava. 

Dovevano solo azzardarsi a mettere una mano nell’acqua. 

 

Ad un certo punto si era appisolato. Non c’era granché da fare o posti dove andare o cose da guardare. La stanza era rimasta buia per una quantità di tempo snervante, e nessun umano si era fatto vivo, quindi tanto valeva risparmiare le forze.

Se non fosse stato per il brontolio del suo stomaco forse non si sarebbe neanche svegliato.

Ma adesso giaceva su quella sabbia ruvida con gli occhi spalancati e una voglia specifica sul fondo della gola.

Voleva andare al banco di corallo che si trovava poco lontano dalla sua tana, infilare una mano tra le fenditure e catturare un polpo. Non uno di quelli grandi, no, quelli piccoli, con le ventose non ancora pericolose e i tentacoli piccoli e inermi che si attorcigliavano intorno alle dita. Un bocconcino gustoso come antipasto prima di cacciare qualcosa di più grosso.

Il pensiero che non avrebbe più rivisto la sua tana né tantomeno il banco di corallo lo sfiorò con delicatezza, ma come tutte le cose delicate (i tentacoli di una medusa, l’ultima bolla d’aria che scappa tra ossa frantumate) fece male.

Si volse su un fianco, raccolse la pinna al petto, le sopracciglia aggrottate. Pensieri così strani non erano da lui, né era abituato all’immobilità.

Nell’oceano c’era talmente tanto spazio da non avere bisogno di fermarsi a pensare, qualsiasi pensiero annegava dolcemente in un oblio di buio freddo.

Chissà se Mangetsu stava bene. Era stato lui l’unico ad essere stato catturato o al fratello era toccata la stessa sorte?
Non riusciva a ricordare il momento in cui era successo, e questo non faceva che farlo sentire solo più arrabbiato. Se solo avesse capito dove aveva sbagliato…

Una luce si accese ma lui non si mosse. 

La stanza tornò illuminata e poté vedere l’ambiente alieno degli umani all’esterno. Il ronzio del motore sulla sua testa era diventato un piacevole rumore di fondo, e ormai era in grado di isolarlo dal resto dei suoni. Così poté sentire i passi dell’umano che si avvicinava alle sue spalle.

Non ne era del tutto sicuro, ma doveva trattarsi di uno degli umani giovani. Anche se con il vetro a bloccare le sue percezioni era difficile dirlo non si sarebbe stupito dell’errore. 

Avvertì lo sguardo dell’umano come una lama sulla schiena. Stava osservando le creste dorsali che come fiori sbocciavano lungo la colonna vertebrale, e il punto in cui la pelle finiva e le squame cominciavano.

Il tritone sentiva come un formicolio lo scorrere dei suoi occhi sulla pelle, tanto da costringersi a non avere alcuna reazione. Gli umani sapevano essere così irritanti. Poteva almeno avere la decenza di ucciderlo e mangiarlo in fretta, invece di stare a squadrarlo così. 

Si volse di scatto, sorprendendo l’umano, i cui riflessi erano ovviamente inferiori ai suoi. 

Era il più giovane tra i due, quell’irriverente piccolo mostro che aveva spaventato ringhiandogli contro.

Era pericolosamente vicino al vetro, o meglio, sarebbe stato “pericolosamente vicino” se non ci fosse stato proprio il vetro. A quella distanza e con la velocità del tritone il suo collo bianco sarebbe già stato piegato ad angolo retto.

L’unica cosa che poté fare il tritone fu ricambiare il suo sguardo con uno più intenso. I suoi occhi erano grandi, quasi rotondi, con l’iride viola purpureo liquidi, pieni di risentimento.

“Saresti già morto.” suggeriva quello sguardo “Saresti già morto se non fosse per il vetro.” 

Il giovane umano ne parve consapevole solo un istante, quell’istante di paura che si prova di fronte l’ignoto, poi la sua espressione si modellò sull’indifferenza, gli zigomi rilassati, le sopracciglia lisce, gli occhi vuoti come pozzi di pece nere. 

Il tritone provava una spiacevole sensazione alla base della nuca sotto lo sguardo dell’umano. 

Non aveva molta esperienza con gli umani, quindi la sua poteva essere ignoranza, ma quel ragazzo non sembrava normale. C’era un velo di ghiaccio simile ad una fiamma nera tutto intorno a lui, che si diradava per pochi attimi prima di tornare ad avvolgerlo in un abbraccio soffocante. 

Al tritone vennero in mente gli occhi degli squali. Non che fossero le creature più cattive o più pericolose o meno intelligenti dell’oceano, ma c’era qualcosa...qualcosa di disturbante nella vacuità dei loro occhi rotondi, nell’infinita, cauta distesa nera dell’iride.

Non avevano la sicurezza dei tritoni, o in generale delle creature senzienti, ben consapevoli di essere troppo in alto nella catena alimentare per potersi trovare in pericolo, e non avevano neanche la tranquillità del predatore. Era qualcos’altro, qualcosa che il tritone vedeva adesso nel ragazzo umano. 

Che strana creatura. 

Forse, sotto sotto, il tritone era contento che tra loro ci fosse il vetro. E forse, ancora più sotto, non l’avrebbe ucciso subito se non ci fosse stato. 

La porta in fondo alla stanza si aprì e il legame fatto di sguardi che avevano intessuto tra loro si spezzò quando entrò l’altro umano.

La sensazione che gli aveva fatto formicolare la nuca svanì e il tritone si riscoprì a respirare un po’ più profondamente. A quel punto delle cose il sapore dell’acqua non gli dava più così fastidio.

L’umano era più grande del ragazzo, e il tritone ipotizzò che fosse il fratello, data anche la somiglianza tra loro. Era più alto di una testa almeno, con capelli corvini neri tenuti legati in un codino lungo la schiena e occhi con la stessa oscurità del più giovane. Anche se non sembravano quelli di uno squalo, i suoi, quantomeno, erano vivi

« È meraviglioso, vero? » chiese il maggiore. Adesso che erano così vicini, e che il tritone era più cosciente, riusciva a sentire le loro voci.   

Prima di rispondere alla domanda il ragazzo fece scivolare di nuovo quegli occhi bui sul corpo del tritone. La sensazione formicolante alla base della nuca si ripresentò con forza, come il delicato tocco di appendici irti di spine che cercano a tentoni il punto più morbido prima di colpire. 

Il desiderio di ucciderlo, e in fretta, si fece strada in lui, affiorando dal torbido dei suoi pensieri. 

In risposta alla domanda del fratello il ragazzo si strinse nelle spalle. 

Non era presunzione la sua, né era altezzoso, semplicemente non sapeva come rispondere perché non provava niente.

Chiunque altro avrebbe spalancato la bocca e sarebbe rimasto immobile per lo stupore di fronte all’acquario che conteneva una mitologica creatura, ma non gli suscitava emozioni di sorta. Forse era colpa di qualcosa che era rotto in lui.

« Sasuke. » la voce del maggiore era calda, una cantilena a cui si poteva fare facilmente l’abitudine. « Nostro padre ha faticato molto per catturarlo. » 

« Non gliel’ho chiesto. » mentre quella del minore era mononota, si muoveva in altezza e in lunghezza lungo lo stesso, piatto asse. 

Il tritone si sentì ribollire dall’interno. Cosa diamine aveva che non andava quel ragazzo? Gli artigli fremevano per affondare nella sua carne. Chissà se almeno nella morte avrebbe mostrato una qualche emozione. 

« Adesso è qui, però. » continuò il maggiore.

Sasuke (il solo nome suggeriva fastidio alle orecchie del tritone) si strinse nuovamente nelle spalle. 

« Non dovrebbe esserlo. » 

Il maggiore diede in una breve risatina, senza allegria e senza colore, forzata come se si aspettasse da lui esattamente quella reazione. Doveva essere un bravo bugiardo. 

« E quindi? Dici che dovremmo liberarlo? » 

« Dico che non avrebbero dovuto catturarlo. »

Su questo, quantomeno, il tritone era d’accordo. Suo malgrado avvertì le labbra arricciarsi in una smorfia di sdegno.  

« Pensi che ci capisca? » chiese il maggiore. Aveva ignorato l’ultimo commento del fratello. 

Il tritone cominciava a sentirsi a disagio. Finse indifferenza, anche se il cuore prese a battere sfalsato in petto per la paura, e si poggiò alla parete di vetro dando la schiena ai due. Preferiva che continuassero a pensare che fosse stupido come un sasso o che semplicemente non li capisse. Non sapeva ancora che cosa volevano da lui, e doveva conservare un minimo di vantaggio. 

« Tu cosa pensi? » rispose, cauto, Sasuke. Il tritone aveva le orecchie così tese che quasi gli facevano male, doveva fare uno sforzo non indifferente per continuare ad ascoltare la conversazione sopra il rombo del motore, oltre il vetro, dandogli le spalle.

C’era giusto un pizzico di curiosità nella voce del ragazzo, che il tritone accolse con sollievo: allora era in grado di provare qualcosa che non fosse il vuoto. 

« Penso che sia una creatura miracolosa. » rispose il maggiore. Il tritone sollevò un sopracciglio per la perplessità. Non avrebbe mai definito “miracolosa” la sua esistenza, o quella di suo fratello, o quella del suo clan, tanto quanto non l’avrebbe fatto con un banco di salmoni o con il brulichio dei molluschi tra le alghe. C’erano, e tanto bastava. Ma forse era diverso per gli umani, che non avevano mai avuto la conspevolezza della loro presenza. Incredibile quanto fossero egoisti e ciechi. « Anche se per metà è umano, l’altra è animale, non sappiamo se la sua mente funzioni come la nostra. » 

“Sono sicuro di essere più sveglio di te, umano.”  

« E se fosse come noi? » Sasuke lo stava guardando. Il tritone cominciava ad abituarsi alla presenza fisica del suo sguardo sulla pelle. « Non sarebbe come tenere in prigione una persona? Come un...rapimento? » 

« È complicato. » sospirò il maggiore. « Tecnicamente avresti ragione. Ma fino a ieri i tritoni non esistevano nemmeno, non hanno diritti agli occhi della nostra legge. In più, nessuno sa che si trovi qui. Immagino che solleverebbe un bel vespaio, però. » 

« Cosa vuole farne papà? Non può farlo vedere comunque a nessuno. » 

« È un po’ come avere appeso in salotto un quadro che dovrebbe trovarsi in un museo, Sasuke. Nessuno saprà mai che si trova lì, ma ogni giorno che rimane appeso a quel chiodo diventa più prezioso. »

« Perché? » 

« Perché solo i nostri occhi possono vederlo. » 

Sasuke tacque, il suo sguardo abbandonò il corpo del tritone per vagare sulle bollicine d’aria che il motore gettava dentro l’acqua, sulle rocce, sulle alghe di plastica, sulla sabbia granulosa, sulla teca di vetro. Tentò, non senza sforzo, di immaginarsi in trappola in una teca di vetro, ma il privilegio in cui era cresciuto lo rendeva impossibile.

Il fratello gli poggiò una mano sulla spalla che lui accolse come fosse un’ancora di salvezza.

In silenzio lasciarono la stanza, mentre il tritone rimaneva solo, di nuovo al buio, con le loro parole. 

Non volevano mangiarlo, volevano tenerlo prigioniero. Per sempre. 


Adesso il tritone aveva davvero fame. Gli umani non gli avevano portato niente da mangiare.

In generale quello che avevano fatto per tutto il giorno era stato entrare nella stanza, discutere su quanto fosse bello e speciale, bussare sul vetro (irritante, ma non accadeva spesso) e andarsene.

Aveva imparato ascoltando di nascosto le loro discussioni che i due ragazzi si chiamavano Sasuke e Itachi, ed erano fratelli proprio come aveva ipotizzato.

Il padre si chiamava Fugaku? Fukaku? Fukagu? Beh, qualcosa del genere, non aveva prestato molta attenzione a quel dettaglio. 

Non era stato lui a catturarlo, come aveva detto Itachi, ma una squadra di uomini che lui aveva assoldato. Non molto onorevole dal punto di vista del tritone, soprattutto dato il modo in cui il figlio ne tesseva le lodi.

A quanto pareva era diventato una sorta di animale da compagnia più che un trofeo di caccia.

Gli umani non sapevano proprio cos’era il rispetto. E neanche che un animale da compagnia andava cibato. Se il loro intento era farlo morire di inedia ci stavano riuscendo.

« Stupidi, idioti, ignoranti, bastardi. » mormorò il tritone, sottovoce.

Erano le prime parole che pronunciava da quando l’avevano catturato, ed erano tutti insulti.

Ormai passava il tempo rannicchiato in un angolo della vasca, dove poteva appoggiare la schiena contro il vetro e avere una buona visuale sulla stanza. Non poteva nascondersi, né difendersi, ma almeno avrebbe visto arrivare una potenziale minaccia. 

Anche se, riflettendoci, gli umani non erano poi così pericolosi. 

I suoi ricordi continuavano ad essere nebulosi, il che l’aveva scoraggiato dal soffermarvisi. 

C’era un che di frustrante nel percepire quel vuoto nella propria mente, come se gli avessero aspirato via a forza una parte di sé. 

Continuava a rivedersi libero, l’acqua dell’oceano che filtrava pulita e deliziosa tra le branchie, per poi risvegliarsi in quel carcere di vetro. 

Qualunque cosa gli avessero iniettato doveva essere ben più forte del veleno di un pesce pietra. 

Strinse la pinna al petto, le braccia intorno a quelle che in un umano sarebbero state le ginocchia. Quella posizione comprimeva lo stomaco, così poteva ignorare i morsi della fame. 

Non voleva neanche pensare a quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato.

Valutò se fosse il caso di mangiare le alghe che si agitavano molli nell’acqua, ma poi pensò a quanto sarebbe stato umiliante e lasciò perdere.

Meglio morire di fame che far vedere agli umani che aveva disperatamente lottato per la sua vita. Non c’era onore in quello, e non sarebbe sopravvissuto senza onore quanto senza cibo. 

La porta si aprì per l’ennesima volta.

Rivolse solo un’occhiata purpurea all’umano che veniva verso la vasca. Era Sasuke, quello che meno gli piaceva. 

Gli sfuggì uno sbuffo e affondò il viso tra le braccia, così da non essere costretto a guardare il ragazzo che si avvicinava. 

Avvertì un tonk tonk leggero quando l’umano batté contro il vetro, cosa che lo fece solo più innervosire. 

Rimase immobile, tutto stretto in se stesso, e l’umano batté di nuovo. 

Lo stomaco gli si contorse in uno spasmo famelico. Immaginò di strappare il braccio all’umano e mangiarlo, uno strato alla volta. Prima la pelle, poi i muscoli, poi le ossa, spezzandole per succhiarne il midollo. La bocca gli si riempì di acquolina, il respiro si fece più affannoso.

E il ragazzo continuava a battere sul vetro.

Tonk. Tonk. 

Il suono si espandeva nell’acqua come una goccia d’inchiostro, in cerchi concentrici che sembravano pulsare. Le alghe tremavano, polvere si sollevava dalla sabbia. 

Tonk. Tonk.

Il tritone strinse i denti. Era insopportabile. L’unico sollievo era l’immagine della carne dell’umano tra le sue fauci, ridotta in poltiglia sanguinolenta mentre il resto del suo corpo tremava, preda di un convulso dolore. 

Tonk. Tonk. 

Respirò a fondo l’acqua, e quasi si strozzò per colpa del suo sapore orribile. Avvertì gli artigli graffiare le squame, la spina dorsale prudere per il bisogno di distendersi e scattare, come una molla, invisibile quanto veloce. 

Doveva solo stare fermo, prima o poi l’umano si sarebbe stancato. Solo stare fermo. Solo stare fermo.

Solo stare fermo. 

Tonk, tonk, tonk, tonk. 

« BASTA MI STAI FACENDO IMPAZZIRE! » 

La sua voce sovrastò il ronzio del motore, il battere delle nocche dell’umano contro il vetro, il pulsare del suo cuore furibondo. E la consapevolezza di aver appena urlato in faccia al ragazzo usando la sua lingua sbocciò come un fiore di corallo velenoso. 

Quel che era peggio era che il ragazzo non sembrava sorpreso. Le labbra prima dritte in una non-espressione adesso si sollevarono in un sorriso storto, il genere di sorriso che fa venire voglia di dilaniare, mutilare e sfregiare. 

« Lo sapevo. » disse Sasuke. Calmo, come la superficie dell’oceano che riflette il cielo in tempesta. « Lo sapevo che potevi capirci. » 

« Cazzo. » imprecò il tritone.

Ci era caduto in pieno. Con gli artigli sguainati e i denti aguzzi che gli pungevano le labbra si lanciò contro il vetro. Picchiandolo, graffiandolo, colpendolo come a volerlo sfondare, immaginò di sfogare tutta quella rabbia sul corpo dell’umano, mentre lui lo fissava con in modo sterile, gli occhi vuoti. 

« Faccia di merda! » ringhiò ancora il tritone. Le mani cominciavano a fare male, il vetro era maledettamente duro, avvertiva lo scricchiolare degli artigli fin dentro le ossa. « Se non ci fosse questo coso io… » 

« Cosa? » chiese Sasuke, la testa piegata appena in un lato. Delizioso, fu il pensiero inconscio che folgorò per un attimo la mente del tritone. Il collo scoperto con la pelle d’alabastro esposta, il blu tenue e il reticolo di vene e arterie appena visibile. 

Delizioso. 

« Mi uccideresti? » il ragazzo fece un passo avanti. Un passo avanti verso il tritone, con gli artigli sguainati e pronto a farlo a brandelli. « E poi, senza il mio aiuto, come andresti via di qui? » 

Il tritone si ritrovò a battere le palpebre, più e più volte. Aveva scheggiato il vetro a furia di colpirlo, e l’immagine del ragazzo gli appariva distorta, frammentata. Scorgeva il suo sorriso da una parte, l’espressione immota dall’altra, un riflesso rosso fuoco in un occhio, il vuoto nero di un’anima oscura nell’altro. 

« Vuoi...aiutarmi ad andarmene. » non era neanche una domanda, solo una perplessa affermazione. 

Sasuke si strinse nelle spalle. L’immagine frammentata di lui che il tritone aveva davanti agli occhi si ricompose quando si spostò di lato dove il vetro era ancora integro. « Non lo faccio, se non vuoi. » 

« Voglio! » sibilò il tritone, un pugno chiuso contro il vetro. « E visto che ci sei, sto morendo di fame, portami qualcosa. » 

Il tritone avvertì la ormai familiare sensazione dello sguardo vacuo di Sasuke che gli percorreva il corpo, facendogli formicolare la pelle, quasi avesse un potere nascosto in quelle iridi nere, ma si obbligò a rimanere immobile, non un fremito, solo i suoi capelli grigio azzurri che fluttuavano nella placida corrente. 

« D’accordo. » acconsentì Sasuke, come se il tritone avesse fatto una richiesta assurda e lui fosse tanto gentile da accoglierla comunque. « Mi chiamo Sasuke, immagino che tu l’abbia capito. » il tritone annuì, suo malgrado. « Tu hai un nome? » 

« Certo che ho un nome. » ringhiò, le braccia adesso strette al petto. Non gli piaceva quell’umano. Era così irritante, eppure lo attraeva. Come una preda attrae il predatore, ovviamente, ma pur sempre di attrazione si trattava. 

Quando sarebbe stato libero la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata tirare in acqua Sasuke, annegarlo e poi mangiarlo. Un pensiero confortante. 

Masticò il proprio nome tra i denti prima di sputarlo, così che fosse tagliente e appuntito come una scheggia da lanciare in faccia al ragazzo, nella speranza di colpirlo. « Suigetsu. » 

« Suigetsu. » ripeté Sasuke. Tra le sue labbra non aveva lo stesso suono, lo pronunciava in maniera sibilante, quasi fosse un rettile in agguato. « Cosa mangiano quelli come te? » 

« Gli umani. » rispose subito lui, una sorta di sbuffo dal naso, scocciato.

Il ragazzo non fece una piega, giusto il tremito di un sopracciglio. « Gli umani non sono sul menù. Qualcos’altro? »

« Quello che vuoi. Purché sia ancora vivo. O morto da poco. » 

« Vedrò cosa posso fare. » di nuovo, il tono di chi aveva accettato una richiesta assurda. « Ah, un’altra cosa. » il ragazzo sollevò un dito, e Suigetsu si ritrovò a fissarlo per un attimo, calamitato dal movimento. « Sono l’unico qui che pensa che il tuo posto non sia quella vasca. E anche l’unico che sa che tu non solo ci capisci ma parli anche. È meglio che le cose restino in questo modo, per la tua sicurezza. » 

« Non sono stupido. » 

« Non è quello che ho detto. » 

« Lo so che non è quello che hai detto. » di nuovo. Suigetsu si ritrovò ad artigliarsi contro il vetro. Le unghie stridettero lasciando soltanto miseri graffi. Di che diamine era fatto quel vetro? « Ma è quello che intendevi. Non sono stupido. »

Qualcosa di divertito brillò sul fondo degli occhi scuri di Sasuke. Forse lo stava mettendo alla prova, o forse non credeva affatto che fosse intelligente, in ogni caso non tollerava il suo tono. 

Se non fosse stato così stanco, affamato e irritato non avrebbe reagito in quel modo, e Sasuke non avrebbe mai scoperto che capiva la loro lingua. Era stata solo fortunato, ma aveva capito da un pezzo che non era il caso di mettersi a ciarlare davanti agli umani.

Il fatto che lui non riconoscesse lo sforzo che aveva fatto per sembrare indifferente, sordo, o ottuso lo faceva arrabbiare soltanto di più.

Ovviamente non avrebbe aperto bocca davanti agli altri umani. Fin quando rimaneva uno strano pesce con il busto umano e la perspicacia di una spugna l’avrebbero lasciato in pace. Ma sapere che poteva parlare poteva cambiare il suo status da “animale da compagnia” a “ostaggio”. L’ultima cosa che voleva era essere interrogato o peggio torturato perché gli rivelasse quante più informazioni possibili sulla sua gente. 

Si sarebbe fatto ammazzare prima di diventare un traditore. 

« Va bene. Scusa. » non si stava scusando davvero, ma Suigetsu se lo fece bastare.

Con uno sbuffo tornò a rannicchiarsi nel suo angolo, fissando il ragazzo con astio. 

« Portami da mangiare. » ribadì, con un broncio sulle labbra. 

Sasuke annuì, un lento dondolio della testa ipnotico che faceva ondeggiare i corti capelli neri corvini come fossero sott’acqua. Poi gli volse le spalle e lasciò la stanza. 

Suigetsu affondò il viso tra le mani a coppa e si lasciò andare in un urlo frustrato.

Le cose non potevano andare peggio

Non si fidava dell’umano, e dubitava fortemente che volesse davvero liberarlo.

Ma da quella chiacchierata aveva capito due cose: il ragazzo poteva essere manipolabile, e nessuno controllava quello che succedeva nella stanza.

Se anche fosse morto in quella vasca, avrebbe portato almeno Sasuke con sé. 

 

Sasuke mantenne la parola data e gli portò da mangiare.

Il tritone non se n’era accorto, troppo impegnato ad essere arrabbiato, mortificato e affamato, ma un’impalcatura di legno collegata ad una scala consentiva agli umani l’accesso alla parte alta della vasca.

Era da lì che l’avevano riempita d’acqua, da lì che dovevano averlo fatto entrare, e ancora lì dove sarebbe arrivato il cibo.  

Osservò Sasuke salire la scala tirandosi dietro un secchio di plastica colmo fino all’orlo. Non riusciva a scorgerne il contenuto ma si ritrovò a pregare perché si trattasse di calamari. 

Andava pazzo per i calamari. 

Nuotò verso l’alto e attese, paziente, che Sasuke sollevasse il pannello che chiudeva la vasca.

Avrebbe potuto saltare verso il ragazzo in quel momento, afferrarlo per una manica e tirarlo in acqua. 

E per un lungo attimo fu tentato di farlo. 

Ma se lui fosse stato davvero la sua unica possibilità di scappare? 

Poteva dargli il beneficio del dubbio ancora per un po’. 

Solo un po’. 

Aspettò, trepidante, che Sasuke avesse finito prima di affiorare dalla superficie. Solo gli occhi viola porpora sopra il livello dell’acqua, il naso e il resto del corpo ancora sommersi. 

Il ragazzo lo guardava dall’alto in quel suo modo che lo faceva sentire come coperto di creature brulicanti. 

Senza l’acqua o il vetro a distorcere l’immagine realizzò che il ragazzo era più bello di quanto pensasse, e che aveva ancora più voglia di strappargli la faccia ad unghiate. 

Pian piano emerse abbastanza da appoggiare le braccia sul bordo della vasca. Sarebbe stato in grado di issarsi oltre e ritrovarsi sulla piattaforma, ma da lì andarsene sarebbe stato un problema.

Si immaginò a ruzzolare dolorosamente lungo la scala, finendo vittima della gravità. Odiava la terraferma.  

Sasuke si era spostato a distanza di sicurezza, o a quella che considerava essere una distanza di sicurezza. Di certo Suigetsu avrebbe dovuto sforzarsi per allungarsi oltre il bordo della vasca per agguantarlo, ma non era infattibile, e lo sapevano entrambi. 

Esattamente come lui aveva deciso di dargli un’occasione e non tirarlo in acqua quando aveva avuto l’occasione, Sasuke aveva deciso di fidarsi di lui. 

Ingenuo piccolo umano.

Manipolabile si aggiunse definitivamente alla lista degli aggettivi associati a Sasuke, insieme a delizioso.

« Puoi respirare fuori dall’acqua? » chiese l’umano. Carino e arguto, proprio il suo tipo. 

Suigetsu piegò il collo così che Sasuke potesse vedere le fessure delle branchie. All’apparenza tagli slabbrati, palpitanti come fossero dotati di vita propria, le branchie si aprivano nella carne bianca appena sotto la linea della mascella, tre per lato. Nel loro lieve fremere si intravedeva una parte più chiara e umida all’interno. 

Pochi umani avevano avuto il privilegio di vederle così da vicino senza essere in punto di morte, e comunque non erano sopravvissuti abbastanza da raccontarlo.

« Con queste posso respirare sott’acqua. » disse, per poi portarsi un dito al naso e toccarlo con la punta dell’artiglio affilato. Era lungo almeno cinque centimetri, e poteva allungarsi di altri cinque in caso di necessità. Un piccolo sfoggio delle sue armi naturali, giusto per far capire a Sasuke che non era inerme soltanto perché non poteva muoversi agilmente sulla terraferma. « Con questo fuori dall’acqua. Cosa mi hai portato? » 

Sasuke non si voltò per prendere il secchiello, rimasto alle sue spalle, e fu una mossa intelligente: era meglio non distogliere l’attenzione dal tritone, dai suoi artigli affilati, e dalle due file di denti appuntiti nascosti sotto le labbra.

« È il pesce più fresco che sono riuscito a trovare, va bene? » 

« Fammi vedere. » Suigetsu gli tese una mano e Sasuke strinse gli occhi, guardingo.

Le cose potevano andare in due modi: il tritone avrebbe accettato il cibo toccandolo a malapena, o approfittando della vicinanza gli avrebbe staccato di netto il braccio dal gomito.

Entrambi lo sapevano, entrambi l’avevano visto già succedere nelle loro menti, entrambi sapevano che dovevano reprimere il loro istinto se volevano far funzionare quella...cosa che c’era adesso tra loro. 

Suigetsu doveva credere che l’umano l’avrebbe davvero aiutato a scappare, e per questo era necessario avere la sua fiducia. Totale fiducia.

Ma non sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe pensato alla dolce sensazione di ucciderlo e sentire il sangue riempirgli la bocca. 

Si tirò indietro con un colpo di pinna, allontanandosi dal bordo della vasca, per mostrare a Sasuke la sua buona volontà. 

A quel punto il ragazzo si azzardò a muoversi all’indietro, ruotando appena il busto, cercando di non dare comunque le spalle al tritone, per prendere un grosso pesce nel secchio. Lo appoggiò sul bordo, lì dove Suigetsu sarebbe arrivato a prenderlo, e tornò al punto di partenza, in quella che ormai considerava una zona sicura.

Suigetsu aspettò che avesse fatto, poi si avvicinò lentamente per prendere il pesce. Una trota, niente di che, ma il suo profumo, quello di un animale che ha appena smesso di respirare, gli fece contorcere le budella.

Se l’umano voleva stare a guardare mentre mangiava, cavoli suoi, non avrebbe di certo fatto caso alle buone maniere.

Addentò la trota al ventre, squarciandolo, le squame scricchiolarono tra le dita. Era fresco, non gli aveva mentito, il sangue era ancora ferroso e liquido. La pinna si agitò per la felicità e fu solo con una parte della mente che realizzò che Sasuke lo stava guardando scodinzolare.

Lasciò la testa, ma succhiò gli occhi, e quando ebbe finito del pesce era rimasto ben poco. 

La fame si era placata, con il senno di poi avrebbe potuto evitare quella situazione di imbarazzo con Sasuke se solo fosse stato più lucido. Mentre si leccava le dita per ripulirsi dai brandelli di pelle, lanciò un’occhiata viola verso il ragazzo.

Lo stava guardando ancora, e non aveva cambiato espressione neanche per un attimo.

Lanciò la lisca del pesce dietro di sé, senza pensare che nella vasca non c’erano correnti oceaniche o pesci spazzini che se ne sarebbero liberati per lui, e tese di nuovo la mano verso Sasuke.

« Cos’altro? » 

« Come mai riesci a capirmi? E parlare la mia lingua? » chiese invece Sasuke, immobile, distante.

Il tritone si sarebbe dovuto tirare fuori dall’acqua con la sola forza delle braccia, sollevare la pinna (piuttosto ingombrante) e sporgersi verso di lui per afferrare il secchio. Tutte cose che era troppo pigro e stanco per fare, almeno per il momento. E poi l’idea di Sasuke che lo serviva porgendogli da mangiare gli piaceva.

« Sei sicuro di non essere tu a parlare la mia lingua? Voi umani siete così egocentrici, pensate di essere speciali e unici. Noi esistevamo da prima che voi imparaste a camminare su quelle gambette. » sventolò la mano verso di lui. « Cos’altro? » 

« Dei gamberi. » 

Suigetsu annuì e si fece di nuovo indietro, così che Sasuke potesse poggiare una manciata di gamberi sul bordo della vasca, per poi indietreggiare a sua volta.

Sembrava uno strano balletto, un passo avanti, uno indietro, un passo indietro, uno avanti, in cui la posta in gioco era la sopravvivenza. 

« Quindi la vostra è una specie antica? » provò ancora Sasuke.

La curiosità lo divorava, anche se i suoi occhi non ne sembravano toccati. L’umano sapeva nascondersi bene nel buio, la sua armatura era impenetrabile. 

Il tritone prese a sgusciare un gambero dopo l’altro. Succhiava la polpa fin dove poteva e poi lanciava dietro di sé i resti. 

Impiegò un po’ più del dovuto a rispondergli, e non solo perché non era sicuro di poter rivelare i segreti degli abissi ad un ragazzo umano, ma anche perché, da disinteressato di storia, non era il tritone giusto a cui chiedere quelle cose. 

Mangetsu avrebbe saputo rispondere, avrebbe saputo elencare tutti i loro avi, le leggende, i miti, gli eroi, la creazione.

Una fitta al petto quasi gli mozzò il respiro e il gambero che stava sgusciando gli cadde di mano. 

Voleva tornare a casa, voleva rivedere suo fratello.

Cercò di fingere indifferenza e prese un altro gambero. Ma a Sasuke quel tremito non era passato inosservato. 

« Pensi che ti racconterò tutta la storia della mia specie soltanto perché mi hai portato da mangiare? » agitò con noncuranza il guscio del gambero contro di lui. « Ci vuole qualcosina di più, non trovi? Liberami e ti svelerò i poteri degli abissi. » 

« Quali poteri? » 

Già, quali poteri? 

Suigetsu si strinse nelle spalle, gli occhi viola indugiarono qua e là come cercando aiuto.

« Beh...ad esempio come...l’immortalità! O respirare sott’acqua! O...l’eterna giovinezza! » 

Sasuke inarcò un sopracciglio, era la prima vera espressione che vedeva sul suo volto, e non era molto piacevole. Anche se era innegabile che avesse proprio un bel faccino.

« Quindi sei immortale e anche eternamente giovane? »

« Sì. Sì, proprio così. » annuì come per confermarlo, poi si riempì la bocca con la carne soffice del gambero. « In realtà ho...seicento anni! »

« In seicento anni non ti hanno mai insegnato a non parlare con la bocca piena? »

Suigetsu quasi si strozzò con il pezzo di gambero, ma riuscì a mandarlo giù, e niente poté impedirgli di lanciare il guscio contro Sasuke. Lui fu abbastanza veloce quantomeno da difendersi con un braccio, ammirevole reazione, ma non l’avrebbe salvato se avesse voluto davvero fargli del male. 

« Portami rispetto, ragazzino. »

Sasuke avrebbe potuto sfruttare il suo evidente vantaggio (il fatto che Suigetsu fosse in trappola e che gli sarebbe bastato allontanarsi dalla vasca per sfuggirgli, che gli parlava dalla posizione del padrone) e rispondergli a tono. Invece scelse di sorridere.

Un sorriso accennato, sollevando appena un angolo delle labbra rosate. Con non poco stupore il tritone vide formarsi sulla sua guancia un’adorabile fossetta. 

« Chiedo scusa, vostra altezza. » 

Boccheggiante, e non perché le branchie esposte vibravano agognando una particella di umidità nell’aria, Suigetsu si ritrovò a battere convulsamente le palpebre. Gli sembrava di essere vittima di una qualche illusione. Un attimo dopo averla vista, quella fossetta era sparita.

« Così va...meglio. » bofonchiò, tornando a concentrarsi sui suoi gamberi. Erano gommosi tra le dita, e avrebbe preferito i calamari (frammenti di ricordi irritanti quanto fuori luogo gli invasero la mente. Mangetsu che catturava per lui delle seppie. Mangetsu che gli portava il moncone di un enorme tentacolo pieno di ventose. Lui e Mangetsu che inseguivano il brillare spasmodico di piccoli polpi negli abissi) ma anche quelli non erano poi così male. 

Sasuke lasciò che il tritone finisse di mangiare, aspettandosi da lui chissà cosa, e ottenendo invece la mano di nuovo tesa per avere dell’altro cibo. 

Stavolta gli offrì un pezzo di anguilla, ancora ghiacciato al centro. Non fresco come gli aveva promesso.

« Cosa pensavate di darmi da mangiare, esattamente? » mostrò a Sasuke il nocciolo di ghiaccio in cui si era tramutata la carne dell’anguilla. « Avevate pronta una vasca e non avete pensato al cibo? È stupido. » 

« Non credevamo di catturare davvero un tritone. La tua esistenza ha scatenato il panico. » 

« Ah, complimenti! » Suigetsu sollevò le braccia come fosse un’ovazione. « Non credevate nemmeno nella cosa che stavate cercando e nonostante questo avevate preparato la cella in cui metterla, ma non il cibo da darle da mangiare, giuro non potrei essere meno impressionato. » 

« Hai detto che di solito mangi gli umani? » 

Il tritone si sentì quasi offeso. Stava dando dello stupido a lui, a suo padre, a tutti gli altri esseri umani presenti in quel posto, probabilmente a tutta la sua specie, ma Sasuke non ne sembrava toccato. 

Non era un modo carino di rispondere agli insulti. 

« Sì, di solito sì. » ringhiò, mettendo ben in mostra la dentatura da squalo mentre prendeva un boccone esagerato dal pezzo di anguilla. 

In realtà la carne degli umani era stopposa, e si gonfiava d’acqua immediatamente. Il sapore era anche buono, ma bisognava spogliarli, visto che avevano la bizzarra abitudine di coprire i loro corpi con strati e strati di tessuto, il che era un noia. Nella stragrande maggioranza dei casi arrivavano sul fondo nella loro versione più sopportabile: cadaveri paonazzi con carne semi putrida. Certo c’era anche la possibilità di dargli la caccia o aggredirli quando si spingevano a largo, ma ai tritoni non piaceva averci a che fare, in generale a nessuna creatura dell’oceano piaceva averci a che fare.

Quindi, la risposta alla domanda di Sasuke era: no, se posso preferisco non mangiare gli umani, è troppo sbattimento, fate così schifo che non vale neanche la pena uccidervi. 

Ma ovviamente erano pensieri che doveva tenere per sé. 

« E tra di voi? Tra di voi vi mangiate? » 

« Mi stai chiedendo se siamo dei cannibali? » Suigetsus sbuffò dal naso. Quell’anguilla era pessima, avrebbe preferito un’altra trota. O i calamari. Dannazione, non riusciva veramente a togliersi dalla testa i calamari, continuavano a tornare e appiccicarsi alle pareti del suo cranio con le loro ventose irritanti. « Tu mangerai tuo padre quando sarà morto? »

« No, certo che no. » 

« Allora hai la risposta alla tua domanda, ragazzino. »

Per un po’ Suigetsu rimase in silenzio a mangiare l’anguilla, gli occhi che come lampi salivano e scendevano sul corpo di Sasuke. 

Nonostante la spiacevolezza della situazione di rado si era trovato così vicino ad un umano vivo, ed era sicuramente la prima volta in assoluto che parlava con uno di loro.

Era abituato a vederli morti, fatti a pezzi, o da lontano, sulle barche che si spingevano nei loro territori, cosa che accadeva sempre più di frequente.

Non che fosse un tabù o un divieto avventurarsi in superficie, più che altro era sconsigliato. I tritoni non avevano leggi, né le volevano, quello che gli veniva insegnato era più un vago codice di comportamento legato alle esperienze dei più anziani, e nessuno aveva mai consigliato il contatto con gli umani. 

Altre specie marine si mostravano più curiose e più inclini a stabilire un dialogo con loro, ma a quanto pareva erano sordi alla maggior parte delle lingue degli abissi, oppure troppo stupidi per capirle, il che portava sempre alla morte o alla cattura della specie marina in questione. Ma a differenza dei tritoni e pochi altri mammiferi marini, le creature oceaniche avevano la memoria breve, o non ne avevano affatto, quindi si ritrovavano nell’ignobile quanto necessario ruolo della preda.

Andava bene così, d’altronde qualcuno in cima alla catena alimentare doveva pur starci.  

In ogni caso, considerato quanto poco Suigetsu avesse dimestichezza con le cose degli umani, o con gli umani in generale, non poteva negare di essere affamato anche di altro oltre che di quegli stramaledetti calamari. 

Se fosse riuscito a scappare avrebbe avuto da raccontare storie interessanti a suo fratello e alla sua gente, tanto che l’avrebbero ricoperto di onori.

L’unico tritone mai sopravvissuto alla cattura, e tornato tra i flutti per condividere la sua esperienza.

Suonava allettante, purtroppo però non era tra i tritoni più svegli. Di nuovo, pensò che Mangetsu avrebbe saputo cosa chiedere molto più di lui. 

« Perché avete addosso quella roba? » chiese, indicando i vestiti di Sasuke.

L’umano si guardò, valutando forse se fosse giusto rispondere con una frecciatina o con la verità. La prima opzione era la più allettante, in effetti. 

« Per diverse ragioni. » disse quindi, scrollando le spalle. « I vestiti indicano lo status sociale, i gusti personali di chi li indossa, le temperature esterne, le mode del momento. »

Suigetsu fece dondolare la testa da una parte all’altra. Complicati e stupidi, non era la giusta combinazione di fattori.

Immaginò di fasciarsi il corpo in una quelle cose e subito avvertì un senso di claustrofobia come se l’avessero legato. Come avrebbe fatto a nuotare con il tessuto che gli si appiccicava alla pelle? 

« Sembra scomodo. » sbuffò in risposta. Il centro dell’anguilla, quello congelato, lo gettò sulla piattaforma. Era immangiabile e non voleva stare lì a rosicchiarlo. 

« Ti posso assicurare che non lo è. Almeno, non nella maggior parte dei casi. » 

« Quindi ci sono casi in cui lo è? » 

Sasuke rifletté. I tacchi alti erano scomodi, i cappotti rigidi e le sciarpe erano ingombranti, alcuni maglioni davano il prurito, le magliette si inzuppavano di sudore d’estate, l’abbigliamento intimo poteva causare eritemi o infiammazioni, la maggior parte dei jeans stringeva da qualche parte ed era sempre la parte sbagliata. Sospirò.

« Sì, diciamo di sì. »

« Non capisco. » Suigetsu batté un palmo aperto sull’acqua, sollevando schizzi. « Perché allora li indossate se sono scomodi! »

« È più...complicato di così. »

« Beh, non dovrebbe esserlo. È solo stupido. »   

Sasuke aprì la bocca per rispondere ma poi si voltò di scatto verso la porta. 

Un uomo che il tritone non aveva mai visto entrò nella stanza, forse a controllare che fosse tutto a posto.

Suigetsu avvertì una morsa al petto (paura?) e con un colpo di pinna si immerse, raggiungendo il fondo in un attimo. L’istinto urlava di nascondersi, di trovare un grosso masso o una cavità e rimanervi rannicchiato finché l’uomo non se ne fosse andato.

Lo vide avvicinarsi alla vasca a passi striscianti. 

Il cuore gli batteva forte contro i timpani, così forte da far male.

L’uomo aveva capelli lunghi, neri, sottili come pioggia, un viso scavato così pallido da sembrare bianco, una corporatura minuta e scialba. Non sarebbe sembrato pericoloso se non fosse stato per gli occhi. 

Suigetsu aveva paragonato gli occhi di Sasuke a quelli di uno squalo, vacui, rotondi e neri, quelli dell’uomo somigliavano a quelli di un serpente marino velenoso: privi di coscienza o vita, privi di qualsiasi cosa se non l’ancestrale, violento istinto di sopravvivenza. 

Non era un uomo, era un mostro.

Divenne subito certo che era stato lui a catturarlo, a sparare il dardo che l’aveva intontito a tal punto da incasinargli la memoria.

Il mostro indugiò un attimo di fronte alla vasca, passandosi la lingua sulle labbra sottili, proprio come si stesse pregustando il sapore della sua carne, poi distolse lo sguardo e salì le scale per raggiungere la piattaforma.

Con un moto di nausea si rese conto di avere paura per Sasuke, e di non volere che il mostro gli andasse vicino, poi il pannello sopra la vasca si chiuse con un tonfo. 

Non sentì che cosa i due si dissero, né avrebbe voluto sentirlo. 

Piegò la pinna e se la strinse al petto, cercando conforto nel calore del suo stesso abbraccio.

Non aveva più voglia di calamari, i gamberi che aveva mangiato sembravano ballare dentro il suo stomaco.

Adocchiò la lisca consumata della trota, e per un attimo gli apparve davanti un’immagine: se il mostro avesse messo le mani su di lui l’avrebbe ridotto come quella lisca pur di carpire ogni suo più piccolo segreto. 


I giorni fluivano lenti e tutti uguali. 

Con solo i bisogni primari da soddisfare Suigetsu non era più sicuro del tempo passato in quella vasca. Sapeva solo che, lentamente, il sapore dell’acqua aveva smesso di dargli fastidio.

Una volta al giorno un umano sempre diverso svuotava un secchio di pesci nella vasca, ben lontano dal discreto ed educato modo di Sasuke di porgergli da mangiare, sembrava più l’ora del pasto delle orche, e lui le orche le odiava. 

Qualche volta gli era capitato di trovare tra i tranci di pesce qualche calamaro. Non ne mangiò mai, e smisero di portargliene. 

Parlare con Sasuke era diventato sempre più difficile. Il ragazzo non era mai solo, e quando riuscivano a ritagliare uno scampolo di tempo venivano sempre interrotti bruscamente.

Forse sospettavano qualcosa, o non volevano che il giovane umano passasse le sue giornate con la strana creatura del mare.  

Non aveva bisogno di specchiarsi per capire di avere una brutta cera. Il riflesso che ogni tanto catturava sulla superficie dell’acqua o sul vetro gli diceva tutto quello che voleva sapere.

Appariva sfiorito, spento, non ricordava neanche l’ultima volta che aveva disteso nella sua interezza la pinna dorsale.

Stava stretto in quella vasca, e avvertiva il disagio in forma di crampi dolorosi come scosse elettriche.

Il mostro accompagnava sempre più spesso Sasuke. Per qualche ragione si tenevano lontani dal vetro, così che Suigetsu riusciva a malapena a sentirli parlare o non li sentiva affatto. Considerando che doveva anche fingere di essere privo di intelletto ad un certo punto aveva smesso di cercare di sentire qualcosa dalle loro conversazioni. Si limitava a lasciarsi galleggiare a pancia in su, fissando l’ormai familiare soffitto scuro, il pannello apribile (solo dall’esterno), il motore che teneva pulita l’acqua in un angolo.

Con enorme sforzo riusciva a ricordare le sensazioni di lasciarsi andare alla corrente oceanica. 

Nelle belle giornate passava il tempo galleggiando non troppo distante dalla superficie, dove ancora la luce del sole arrivava, con il ventre rivolto verso l’alto, le braccia spalancate e le orecchie piene di mormorii.

La luce filtrava nell’acqua in fasci come una cosa viva, lame spesse e nette che tagliavano il blu infinito; disegnava giochi di colore sulla pelle nivea, accarezzandola con un calore gentile. Riusciva ad intravedere la sfera infuocata che accendeva il cielo, ma a quella profondità era tanto lontana da sembrare impossibile: non poteva esistere una cosa così. Il suo di cielo era fatto d’acqua viva che si muoveva e rivoltava preda di forte emozioni, un amore devastante, un candido odio. 

Intorno a lui cantavano i delfini, sotto di lui rispondevano le balene. Pesci, grandi e piccoli, gli passavano accanto senza sfiorarlo, portandogli il rispetto che era dovuto alla sua specie, mentre i suoi occhi e poi tutto il suo corpo diventavano un tutt’uno con l’acqua da cui proveniva, a cui apparteneva, fino a diventare nient’altro che flusso che si ritrae ed espande come un enorme cuore pulsante. 

Tonk tonk. 

Suigetsu si riscosse all’improvviso. Gli sembrava di pesare quando un masso, le membra intorpidite. Si era assopito? Non riusciva a ricordarlo. Sentiva solo un languido sapore sul fondo della lingua: nostalgia.

Abbassò lo sguardo e vide Sasuke che lo salutava e gli indicava l’alto, con urgenza. 

Annuì, e aspettò che lui gli aprisse il pannello per emergere, le braccia incrociate sul bordo della vasca. 

La pelle del tritone cominciava a riempirsi di strane macchioline scure, ma se ne accorgeva solo quando tirava il corpo fuori dall’acqua. Chissà a cos’erano dovute. Alla mancanza di movimento, all’alimentazione scorretta, alla tristezza?

« Credo che Orochimaru cominci a sospettare qualcosa. » mormorò il ragazzo, guardandosi intorno. Anche se la sua espressione rimaneva scolpita nell’alabastro, qualcosa di nuovo si agitava sul fondo degli occhi scuri. 

Un brivido percorse la schiena di Suigetsu. Non aveva neanche bisogno di chiedere chi fosse Orochimaru perché l’aveva già capito da solo: l’uomo inquietante con la faccia da serpente. 

« Okay, non è un problema. » rispose lui, anche se si sentiva tremare, la pelle accapponata. « Smettiamo di parlare per un po’, prima o poi la smetterà, no? » 

« No. » secco, brusco, a Suigetsu sembrò quasi di ricevere uno schiaffo. « Adesso che ha il dubbio otterrà quasi sicuramente il via libera per sottoporti ai suoi esperimenti. È...colpa sua se ti trovi qui. È una specie di biologo, uno scienziato, una cosa del genere. » Sasuke scosse la testa e alzò gli occhi al cielo come a rimproverarsi di non avere più chiara quell’informazione. Suigetsu si chiese quanti anni avesse. Non ne avevano parlato, a parte quella volta che lui gli aveva detto di avere seicento anni, ma era sicuro che non fosse tanto più grande. Doveva avere sedici o diciassette anni al massimo. « Mio padre gli ha dato i fondi necessari per le sue ricerche, purché se mai catturasse qualcosa lo consegnasse a lui per la sua collezione di animali esotici. Ecco perché la vasca era pronta. Ma adesso è diverso. » 

Suigetsu si ritrovò a stringere le dita intorno al bordo della vasca, il bisogno di fuggire si faceva ogni istante più intenso. 

« E...quindi...cosa...cosa mi succederà. » 

« Niente. » all’improvviso il panico, la concitazione, ogni emozione scivolò via dal viso di Sasuke. Tornò la sensazione di formicolio su tutto il corpo, i suoi occhi più scuri di ogni anfratto tra i coralli. « Perché stanotte ti faccio uscire di qui. » Suigetsu avrebbe voluto dire qualcosa ma sentiva la mascella bloccata e la lingua paralizzata, e comunque Sasuke non l’avrebbe lasciato fare. « Quanto tempo puoi stare fuori dall’acqua? » 

Il tritone scosse la testa, come se non capisse, ma rispose comunque alla domanda con un filo di voce. « Quanto voglio, non è un problema. » 

« D’accordo. Tieniti pronto. » 

Sasuke fece per andarsene, senza rendersi conto di essere alla portata della presa del tritone. E Suigetsu non era pienamente padrone di sé quando lo afferrò per la maglia, tirandolo indietro. 

I loro visi si trovarono a pochi centimetri di distanza. Rosso rabbia brillava sul fondo degli occhi di Sasuke (forse pensava di essere stato un ingenuo a fidarsi e che sarebbe morto così, dopo aver promesso aiuto al tritone?) che sfumò in sorpresa quando labbra bagnate si poggiarono sulle sue.

Il bacio aveva un sapore strano, salato per via dell’acqua della vasca, con un retrogusto stranamente amaro.

Suigetsu respirò a fondo con il naso, assimilando il profumo di Sasuke (legno bruciato, scintille elettriche, oscurità). Il contatto gli permise di capire qualcosa in più su di lui, accarezzare le pieghe delle sue labbra con la punta della lingua sigillò la sicurezza delle sue buone intenzioni. Aveva detto la verità, voleva veramente dal profondo del cuore riuscire a liberarlo.

Forse aveva qualche potere di cui poteva parlargli, ma ormai avevano finito il tempo a disposizione.  

Si allontanò da lui e lo lasciò andare, Sasuke rischiò per un attimo di perdere l’equilibrio ma riuscì a recuperare. 

Lo guardò come se per la prima volta avesse davanti una creatura pericolosa e Suigetsu lo trovò piacevole. Era ora che lo riconoscesse per quello che era. 

« Grazie. » gli disse, rivolgendogli un occhiolino. 

Nell’immergersi fece in modo di sollevare uno schizzo d’acqua verso il viso accaldato di Sasuke.

Mentre seguiva la sua sagoma distorta raggiungere il fondo cominciò a comprendere perché le storie di sirene finivano sempre con marinai annegati. 

 

Quando Sasuke entrò sgattaiolando con passo leggero dentro la stanza, Suigetsu aprì gli occhi di scatto e seppe di essere pronto.

Aveva passato tutta la giornata terrorizzato all’idea che il ragazzo lo tradisse o venisse fermato o...qualche altra stronzata che avrebbe potuto impedirgli la fuga, e per questo non era riuscito a mangiare neanche un boccone. Aveva passato tutto il tempo nuotando in cerchio sul fondo della vasca, sollevando la sabbia e facendo agitare le alghe (che per la cronaca erano finte, quindi non avrebbe neanche potuto mangiarle semmai Sasuke non gli avesse portato da mangiare). 

Invece adesso era lì. Era lì per lui. 

Sasuke sollevò il pannello e finalmente Suigetsu poté issarsi sulla piattaforma. 

Le sere di bonaccia erano il momento migliore per sdraiarsi sugli scogli e guardare il cielo, così simile alle profondità oceaniche da mozzare il fiato.

Spesso la bassa marea lo costringeva a spingere sui muscoli della braccia, che di solito non usava, finché non si gonfiavano palpitanti sotto la pelle nivea. 

Poi la schiena toccava l’umido e soffice scoglio, con una mano poteva ancora accarezzare la superficie dell’acqua, e l’infinito lo sovrastava.

Erano tra i suoi momenti preferiti, e il solo gesto di spingere il corpo sulla piattaforma glielo ricordò con forza: tra poco sarebbe tornato a casa, e avrebbe costruito molti altri ricordi come quello. 

Sasuke perse un istante di troppo a fissare la pinna grigio azzurra del tritone, scintillante come una gemma, tanto che Suigetsu stava per chiedergli cos’avesse da fissarlo, poi lui si riscosse e si sporse per prenderlo in braccio. 

Il tritone strinse le braccia intorno al suo collo mentre lui gli passava un braccio intorno alla vita e uno sotto la giuntura delle ginocchia. 

Fece perno sulle gambe per sollevarlo e sbuffò. « Sei pesante. » 

« Oh scusami principessa. » bisbigliò al suo orecchio.

L’adrenalina, la vicinanza, il profumo di lui che tornava prepotente a colpirlo, la consapevolezza del corpo bagnato premuto contro il suo: a Suigetsu cominciava a piacere. 

Sasuke non commentò, si limitò a risparmiare forze e fiato. 

Lentamente, e non senza pensare che sarebbero caduti entrambi da un momento all’altro, Sasuke riuscì a scendere la scala. Assurdamente il peggio era passato. 

Adesso doveva solo portare il tritone fuori dalla stanza, attraversare il corridoio e scendere in garage, dove un furgoncino con il motore già acceso li aspettava per la fuga. 

Sarebbe andato tutto bene. La morsa che gli stringeva il cuore si allentò un pochino.

Suigetsu odiava la sensazione di essere pesante, e soprattutto inerme, e la presa intorno al collo di Sasuke si fece più salda, le unghie affondate tra i suoi capelli. Lui non emise un gemito, troppo concentrato sul passo successivo.

Il tritone pesava almeno sessanta chili, se non avesse fatto in fretta non sarebbe riuscito a reggerlo per tutto il tragitto, per quanto breve.

« Sei così forte Sasuke. » bisbigliò Suigetsu, la testa poggiata sulla sua spalla. I capelli bagnati gli avevano inzuppato la maglia, avvertiva le goccioline scivolargli lungo la schiena come se fossero state parte del proprio corpo. 

« Sta’ zitto. » fu la secca risposta. 

Il tritone trattenne una risatina.

Stava scappando, e la sensazione di libertà ed euforia che ne derivava gli rendeva la testa leggera. O forse era la mancanza di ossigeno. In realtà non sapeva quanto tempo poteva passare fuori dall’acqua, non aveva mai provato, e mai chiesto. Mangetsu l’avrebbe sicuramente saputo. 

Però non aveva problemi quando si sdraiava sugli scogli o sulla spiaggia a prendere il sole, anche se l’acqua era sempre alla sua portata e poteva tuffarsi immediatamente se sentiva mancare il fiato. 

Poco importava, ormai, no? 

« Sasuke. Non me lo sarei mai aspettato da te. » 

Il ragazzo si fermò, le gambe diventate di pietra. Suigetsu riuscì a sollevare la testa solo per desiderare di non averlo fatto.

Davanti alla porta, aperta come fosse una presa in giro, c’era Orochimaru. Aveva una qualche arma in mano che Suigetsu non conosceva, ma che già solo dalla forma e dal colore emanava pericolo. E poi Sasuke stava tremando. Non tanto per la paura, quanto per lo sforzo di tenere il suo corpo tra le braccia. 

« Togliti di mezzo. » disse il ragazzo, così calmo e pacato che Suigetsu si stupì e volse subito lo sguardo verso Orochimaru. Come avrebbe risposto a quella mancanza di rispetto? 

L’arma che aveva in mano emise un click, Suigetsu avrebbe voluto capirne di più degli aggeggi umani per sapere se dovesse avere paura o meno. 

« È un soggetto di ricerca, non puoi portarlo via. » accomodante, la voce di Orochimaru era raschiata come se avesse gridato a lungo, e alla fine le sue corde vocali fossero rimaste irrimediabilmente danneggiate. Doveva aver gridato contro il cielo, o contro Dio, perché solo entità prive del dono della parola potevano portare un uomo a quella disperazione. 

Suigetsu provò pena per lui, e rancore. 

« No, è un prigioniero. E in questo paese è contro la legge torturare i prigionieri. Ora togliti di mezzo e abbassa la pistola. » 

« Non ho alcun problema a spararti, Sasuke. » sembrava che Orochimaru non avesse sentito una sola parola, oppure gli era sgusciato intorno con le sue membra viscide. « Mi basta avere quell’essere. »

« Fottiti. » 

Suigetsu sgranò un po’ gli occhi, vedeva più chiaramente adesso, o così gli sembrava. 

Per questo si strinse contro Sasuke, ruotando il busto quanto bastava per coprirlo quando la pistola sparò nella sua direzione. Il suo corpo divenne come acqua, leggero e senza forma, eppure rigido e compatto al tempo stesso, mentre avvolgeva con forza quello di Sasuke per proteggerlo come un’armatura. 

Durò solo un attimo, un attimo confuso in cui la sua mente divenne scorrevole e inconsistente, e quando tornò se stesso avvertì il dolore peggiore della sua vita. Nessun veleno esistente in natura provocava tanto male, e il viso gli si contorse in una smorfia. 

« Suigetsu…! » mormorò Sasuke. Sbilanciato indietro dal peso incespicò per un attimo.

« Sto bene. » fu la flebile risposta, ma non ne era sicura, cominciava ad avvertire una sensazione sgocciolante, il rapido fluire di liquidi in posti che dovevano rimanere vuoti. Orochimaru ricaricò l’arma e tentò di sparare un secondo colpo.

Ma non sparò mai.

Suigetsu avvertì un tonfo sordo e una mezza imprecazione farsi largo nel torbido del suo dolore. Riuscì a vedere con la coda dell’occhio Orochimaru stramazzato a terra, la pistola lontana, e una sagoma scura avvicinarsi a loro.

« Dallo a me, ti aiuto. » era la voce di Itachi. 

Dalle labbra del tritone uscì un miserabile gemito mentre Sasuke lo passava al fratello.

Cominciava a sentire la coscienza scivolare in un limbo senza aria, gli sembrava di respirare a singhiozzi. 

Lo portarono fuori di lì e lo caricarono sul furgoncino. 

« Non fermarti, Sasuke. Ad Orochimaru penso io. » 

Suigetsu immaginò Sasuke annuire mentre sotto di lui il caldo del motore del furgone gli scaldava la guancia.

Aveva il corpo così freddo, e il fluire del sangue rendeva tutto appiccicoso.

« Suigetsu! » chiamò Sasuke, forse si voltò per guardarlo, ma il tritone non ebbe la forza di ricambiare lo sguardo. 

« Sto bene, sto bene. » biascicò. Ma ora come non mai sapeva che non era vero, anche se la consapevolezza non lo disturbava più di tanto.

« Ti riporto a casa. » 

Non importa, avrebbe voluto dirgli il tritone, Non tornerò più a casa. 

Tutto sommato non era colpa di Sasuke, lui aveva tutte le intenzioni di mantenere la promessa, gli imprevisti potevano capitare. 

In un altro momento non avrebbe chiamato imprevisto l’attivarsi di un qualche potere di cui lui non aveva idea, o il beccarsi un proiettile in un polmone, ma in un altro momento non avrebbe rischiato la sua vita per fare da scudo ad un umano, e non sarebbe stato minacciato da una pistola in primo luogo. In un altro momento sarebbe andato tutto bene, in questo momento le cose erano andate a puttane.

Forse Sasuke non si era accorto della sua ferita, tra il buio, Orochimaru, Itachi, la concitazione della fuga. 

La pistola non aveva fatto quasi rumore, solo un plop attutito. Suigetsu non poteva sapere che dipendeva dal fatto che Orochimaru aveva usato un silenziatore con la seria intenzione di uccidere Sasuke, e probabilmente scappare con Suigetsu per sottoporlo ai suoi esperimenti in un posto più tranquillo.

Una fuga e un rapimento nella stessa notte, emozionante! 

Suigetsu avvertì le branchie fremere, l’aria sapeva di sangue, era un sapore anche più schifoso dell’acqua sterile della vasca.

Una creatura capace di respirare dentro l’acqua quanto fuori non era abituata, né poteva concepire, la sensazione di annegamento, mentre il polmone si riempiva di sangue e l’altro collassava per lo sforzo. 

Annaspò, quelle che sentiva sulle guance erano lacrime. Voleva resistere, voleva resistere con tutte le sue forze, arrivare almeno all’oceano per vederlo un’ultima volta, ed era davvero infuriato con se stesso perché sapeva che non ci sarebbe riuscito.

Voleva lasciarsi andare, faceva troppo male. 

Sasuke! provò a chiamare, ma la voce proprio non voleva saperne di lasciare la gola congestionata. Sasuke, sto morendo! 

Il furgoncino sfrecciava ondeggiando a destra e a sinistra, Sasuke imprecava, ringhiando insulti e attaccandosi al clacson.

Suigetsu sperimentò quella che gli umani chiamavano “motion sickness”, ma anche la nausea per la guida spericolata dell’umano svanì in fretta, dietro un nugolo di puntini neri che presto gli riempì il campo visivo.

Pensò a Mangetsu, a quanto sarebbe stato triste. Non avrebbe mai saputo cos’era successo a suo fratello, forse aveva già piano la sua morte. Pensò che non avrebbe avuto modo di raccontargli di quel potere che aveva appena scoperto di avere, era comune a tutti i tritoni? Avrebbe dovuto fare più attenzione alle lezioni degli anziani. Pensò ai calamari, non ne aveva mangiato neanche uno durante la sua prigionia, testardo e sicuro del fatto che presto sarebbe uscito di lì e ne avrebbe potuti mangiare quanti ne voleva. 

Pensò all’oceano, a quanto gli sarebbe mancata la carezza delle onde, il frizzare delle bollicine di ossigeno, il caldo delle correnti del sud, le luci intermittenti dei pesci abissali, il soffice della sabbia nera di certi fondali, la sensazione di pizzicore quando immergeva le dita tra gli anemoni, il guizzare rapido di mille piccole vite.

Smise di respirare con l’oceano negli occhi, senza più poterlo vedere.

Sasuke quasi inchiodò e scese di corsa ad aprire il portellone del furgoncino. 

« Suigetsu, siamo...siamo arrivati! » le prime luci dell’alba coloravano il cielo, e Sasuke poté vedere la macchia di sangue che si allargava sotto il corpo del tritone, il suo sguardo fisso e vuoto. « No… » 

Si sporse per prenderlo in braccio e si ritrovò le mani bagnate di sangue. Anche la sua maglia era zuppa, lo era stata per tutto il tempo e aveva pensato che fosse acqua.

Orochimaru gli aveva sparato e non se n’era reso conto, preso com’era dai suoi egoistici sogni di ribellione e fuga. Non aveva neanche capito cosa aveva fatto il tritone per lui.

« No...Suigetsu… » tremava quando sollevò il capo del tritone poggiandoselo sulle ginocchia. Gli occhi spalancati erano di un viola impossibilmente profondo, le labbra erano violacee, così come l’interno delle branchie. 

Avrebbe voluto urlare, ma non aveva la forza per farlo.

Suigetsu era morto. Era morto per colpa sua. 

Fu con stoica fermezza che sollevò il corpo senza vita del tritone.

Il mare batteva con forza contro la sabbia come reclamando vendetta, il vento sapeva di sale.

Le braccia gli facevano male e tremavano per lo sforzo, ma Sasuke percorse tutto il pontile senza mai inciampare.

Osservò l’orizzonte dove la curva del cielo sembrava inghiottita dalle immensità dell’oceano, il nero che rifletteva il luccicare delle ultime stelle, le onde che ne increspavano la superficie come battiti di ciglia di migliaia di occhi.

« Mi dispiace. » mormorò, non a Suigetsu, ma all’oceano che aveva davanti. Per un attimo ebbe come la sensazione che lo ascoltasse, perché il suo ritrarsi durò un attimo di più, prima di tornare ad abbattersi lungo la riva. Il suo scrosciare continuo rimescolava pensieri ed emozioni, facendolo sentire così assurdamente piccolo. 

Lasciò andare il corpo del tritone nell’acqua e rimase a guardare mentre i flutti lo accoglievano, un abbraccio caldo come quello di una madre. 

Rimase lì quando il sole rese rosata l’acqua e il cielo, era lì quando la spiaggia si popolò di pescatori, ed era lì quando arrivarono anche le famiglie, i ragazzi, con i palloni e gli aquiloni, attratti dalla bella giornata di sole. 

Era ancora lì, ma Suigetsu ormai doveva essere tornato a casa. 

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The Corner 

Nel 2021 Naruto? 
Nel 2021 Naruto.
Torno in questo fandom dopo ANNI e dopo aver risolto qualche piccolo trauma che mi ci aveva allontanato con una ship che non avrei MAI tenuto in considerazione e che non pensavo che mi sarebbe piaciuta così tanto. 
Questo è solo un tentativo di muovere qualche passo nel tornare scrivere fan fictions in generale...chi lo sa cosa ci aspetta il futuro.

Chii  

 
   
 
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