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Autore: Princess_of_Erebor    15/03/2021    16 recensioni
Una fanciulla inaspettata... E un giovane dottor Enys. Due differenti personalità, una nuova realtà. Sullo sfondo, la selvaggia Cornovaglia del 1700 e alcuni personaggi ben noti, coinvolti in una storia diversa da quella che conosciamo. In questo progetto, voglio creare una protagonista femminile ispirandomi in buona parte alla sottoscritta. E se scrivere è un pò come vivere due volte, mi diletto a prendere vita attraverso le avventure di Jennifer.
Un racconto nato dalla passione per "Poldark" e dall'amore profondo che nutro per un personaggio che ha saputo sfiorare le più profonde corde del mio cuore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dwight Enys, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo I


Nampara, Cornovaglia
Marzo 1783


 
 
 
Jennifer trasse un profondo respiro. Era ben consapevole della ragione che l’aveva condotta fin lì, tuttavia non aveva idea di cosa sarebbe accaduto dopo aver varcato quella soglia… Di che cosa avrebbe provato. L’unico fatto certo, era che alcune cose sarebbero cambiate per sempre. Era proprio sicura di volerlo fare? In fin dei conti, nessuno la obbligava. Aveva tutto il diritto di voltare le spalle a colui che, senza scrupoli, le aveva voltate a lei e a sua madre.
Forse era ancora in tempo per tirarsi indietro; sarebbe bastato voltarsi, raggiungere l’ingresso dal quale era entrata e correre verso casa, libera e spensierata, attraverso la campagna lusingata dal timido sole di un inverno che non aveva premura di cedere il posto alla primavera. Ma si sarebbe sentita davvero spensierata, dopo?
Ci sarebbero stati “loro” ad attenderla, al rientro nella sua dimora: amarezza e sensi di colpa. Il rimpianto avrebbe preso a braccetto il rimorso, ed entrambi l’avrebbero tormentata giorno e notte fino a farle maledire la sua infelice decisione.
Cominciò a sentirsi male, e lei detestava mostrarsi vulnerabile. Da sua madre, quando era in vita, aveva appreso la sottile arte del tramutare la debolezza in forza; amava sentirsi invincibile, allo stesso modo in cui amava le sfide, ma in quel momento ogni pensiero che sapeva di conquista sembrava essere stato paralizzato da un nemico inatteso e sconosciuto. Aveva il fiato corto, come dopo lunghe miglia percorse senza fermarsi, per di più sentiva le membra irrigidite da un’opprimente inquietudine, simile a quella che la perseguitava dal giorno in cui aveva ricevuto la lettera.
“Entrate pure!”.
La serva che aveva guidato lei e l’altro signore attraverso la casa – ridotta ad una specie di porcile – fino alla porta chiusa, finalmente si era decisa ad aprire bocca; la sua voce vagamente stridula procurò alla fanciulla un sussulto, facendola riemergere bruscamente dall’abisso delle proprie riflessioni. Jennifer la guardò con curiosità: era una donna di mezza età grassa e sgraziata, coi capelli unti e sciatti. Puzzava di sudore frammisto ad alcol e aveva l’aria seccata di chi, impegnato a rifuggire i lavori domestici, era stato strappato al suo dolce far niente per annunciare una visita di cui non gli importava un accidenti. Aveva già abbassato la maniglia, quando Jennifer si rese conto di non essere pronta. Ma, che lo fosse o meno, a quel punto era troppo tardi per svignarsela. In fondo, non era mai stata una codarda. Il corpulento gentiluomo che l’aveva accompagnata in quello strano posto, e che sosteneva di essere suo zio, si fece avanti entrando nella stanza, dopo averle dato una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento. Col cuore che le batteva così forte da mozzarle il respiro, la ragazza fece qualche passo e d’un tratto si ritrovò immersa nella semioscurità. La porta venne chiusa alle sue spalle con un tonfo secco; subito dopo, il fruscio delle pantofole della domestica che si allontava lungo il corridoio la raggiunse e le rimbombò lugubre nelle orecchie in quel pesante silenzio di tomba, come il sussurro di uno spettro.
Jennifer gettò un’occhiata attorno a sé: l’unica candela accesa, quasi consumata, era sorretta da un candelabro di bronzo posto su di un vecchio comodino. La sua luce fumosa e tremolante rivelava un grande letto al centro della camera, circondato da pannelli di mogano; davanti al caminetto spento sulla sinistra, un tavolino di vimini e una poltrona logora costituivano l’unica mobilia che pareva beffarsi del disordine e del lerciume che regnavano dappertutto. L’aria viziata e stantia andò a colpire le sue narici provocandole un forte senso di nausea, ma la giovane donna tenne duro e, in quel momento, l’uomo che giaceva sul letto dai pannelli aperti le fece cenno di avvicinarsi. Lei obbedì e, non appena gli fu accanto, abbassò lo sguardo esitante su di lui: era un signore piuttosto avanti con gli anni, benché le rughe e la malattia non avessero del tutto guastato un viso che, in giovinezza, doveva essere stato particolarmente bello. Mary Jane si era sempre rifiutata di parlare alla figlia Jenny (com’era solita chiamarla sua madre) della notte in cui l’aveva concepita, ma in seguito la fanciulla era riuscita a scoprire che suo padre si chiamava Joshua Poldark, che era vedovo e che aveva un debole per le donne.
“Ebbene, Jennifer” disse lentamente Joshua tirandosi su a sedere con grande sforzo, per poi lasciarsi ricadere contro i cuscini che lo sostenevano, tossendo. “Come stai?”.
“Bene, signore” rispose lei con voce malferma. “A differenza di voi”, si trattenne dall’aggiungere. Stava iniziando a chiedersi quali altre domande del genere l’attendevano, quando qualcosa balzò sul lenzuolo catturando la sua attenzione: un grosso gatto grigio dagli occhi gialli e lucenti miagolò dirigendosi verso la mano del padrone, contro la quale strofinò prontamente il muso. Doveva avere la rogna, poiché sul pelo mancavano delle chiazze, e alcune parti del corpo erano ricoperte di croste. Suo malgrado, Jennifer sorrise.
“Ti piacciono i gatti?” chiese Joshua con un filo di voce, abbozzando un sorriso a sua volta.
“Molto, signore. Come si chiama?” s’informò lei, osservando la mano nodosa dell’uomo affondare nel pelo consumato dell’animale. Di fronte a quella visione, fu pervasa da un insolito senso di tenerezza.
“Lei è Tabitha Bethia”.
“Un nome piuttosto singolare per una gatta”.
“E’ il nome che la mia Grace diede alla micina avuta in dono da suo padre quando era bambina”.
Joshua aveva parlato con fatica; ogni parola che gli usciva dalle labbra – quando non veniva troncata da un colpo di tosse – richiedeva tutte le energie che gli restavano.
Jennifer tacque. Non sapeva cosa dire e si era pentita di avergli rivolto una domanda che, in qualche modo, aveva evocato ricordi dolorosi. Ma perché preoccuparsi per quell’uomo? In quasi dodici anni, lui non si era mai preoccupato per lei e solo adesso, in punto di morte, mostrava qualche rimorso di coscienza. La ragazza distolse lo sguardo dal malato, e solo allora notò un tizio intento a fissarla dal lato opposto della stanza, seduto in disparte nella penombra. Era alto e magro, con folte sopracciglia grigie, le braccia incrociate sopra un’elegante borsa di pelle che reggeva sulle gambe; doveva essere il dottore e, a giudicare dall’espressione insofferente e annoiata, aspettava solo che il suo paziente tirasse le cuoia. In piedi accanto a lui, il gentiluomo grasso picchiettava il pavimento polveroso con la punta del bastone, una mano gonfia appoggiata sul ventre sporgente; sembrava irrequieto e a disagio. Jennifer lo trovava disgustoso, con tutte quelle eruttazioni che nella quiete della stanza risuonavano simili a rombi cavernosi. La sua attenzione si spostò quindi sui consunti tendaggi di seta del letto; mentre ne studiava le decorazioni, Joshua girò piano il capo verso di lei e parlò di nuovo.
“So di non essere stato un buon padre...”.
“Voi non siete stato affatto un padre”.
Quella brutale sincerità l’aveva senz’altro ereditata da lui, pensò il vecchio Poldark scrutando sua figlia con tutta l’attenzione che la vista offuscata gli consentiva, nonché con una certa dose di compiacimento: era una ragazzina esile e molto graziosa. Aveva il sorriso malizioso della madre e un acuto scintillio di vitalità nei grandi occhi nocciola. Nonostante il frangente, un lento sorriso inarcò la bocca di Joshua; non gli dispiaceva l’idea di partire per l’aldilà accompagnato dalla consapevolezza di lasciare sulla terra qualcosa di sé. Qualcosa di buono.
“So che è tardi per fare ammenda” disse col respiro affannoso, fissando le travi del soffitto. “Ma prima di andarmene all’inferno, devo dirti che hai un fratello”.
Jennifer rimase immobile. Era stordita. Per alcuni lunghi istanti, dubitò di aver inteso bene. Sua madre non le aveva mai parlato dell’esistenza di un fratellastro, ma in fondo non c’era da stupirsi.
“U-un fratello, dite? E dove si trova adesso? Come mai non è qui?” balbettò infine.
"Si trova in America, è lì che ha combattuto. Ma non appena la pace sarà ufficiale, lui tornerà…” s’interruppe a causa di un nuovo attacco di tosse, “e quando ciò avverrà, vorrei che tu lo incontrassi”.
“Quanti anni ha?”.
“Quasi ventitré”.
“Lui sa della mia esistenza?”.
Joshua scosse la testa. “Ross è un bravo ragazzo, sono certo che sarà felice di conoscere sua sorella. Così, nessuno di voi due resterà solo e potrete farvi compagnia”.
A quelle parole, Jennifer sentì il cuore colmarsi di una strana felicità. Aveva un fratello! Ross… Era questo il suo nome. Non era mai stata entusiasta di essere figlia unica e, da quando la tisi le aveva portato via sua madre, era sola al mondo.
“Lo farò volentieri, signore. Conoscerò mio fratello”.
Allora il vecchio tese una mano ansiosa verso la fanciulla, e un improvviso luccichio spuntò all’angolo del suo occhio sinistro.
“Mi dispiace tanto, figliola!” disse ansimando penosamente.
C’era un autentico pentimento nella sua voce; Jennifer lo percepì e ne fu colpita, malgrado tutto. D’impulso, gli afferrò dolcemente la mano tremante per stringerla nella propria.
“Avete il mio perdono… Padre”.
Il volto cereo dell’uomo si illuminò e, per un attimo, parve ritrovare il suo antico colorito.
“Attendi il suo ritorno. Perché Ross tornerà… Me lo sento”.
Finito che ebbe di parlare, Joshua fu sul punto di soffocare per l’ennesimo colpo di tosse, al quale ne seguì un altro, e un altro ancora; annaspò, mentre il volto si faceva livido. Un ultimo rantolo agonizzante, prima che i suoi occhi si spegnessero per sempre. Il signor Poldark di Nampara se n’era andato in pace.




**-**





Nota dell’autrice:

E’ mio piacere, e dovere, ringraziare tutti quelli che si sono concessi una piccola porzione del loro tempo prezioso per leggere questo capitolo.
Tengo a precisare che non sono una scrittrice, né ambisco a diventarlo. Scrivo per puro diletto, animata dalla passione per un personaggio che sento "mio" e che ho amato in modo particolare, tanto nella serie TV quanto nei romanzi: il dottor Enys. Lui mi è affine, e questo è in grado di spiegare almeno in parte l’amore profondo che provo, lo stesso che mi ha donato l’ispirazione per cominciare a buttare giù una storia che avesse Dwight come secondo protagonista. Per quanto concerne il personaggio femminile, noterete che i suoi modi di fare non si discostano a tratti da quelli di Caroline; tuttavia, non è a lei che mi sono ispirata nel creare Jennifer, bensì a me stessa. Per inciso, la sua storia personale è completamente diversa da quella della Penvenen.
Il tempo che ho a disposizione per dedicarmi alla scrittura è purtroppo limitato, pertanto faccio presente che pubblicherò una volta ogni tanto. Ad ogni modo, farò del mio meglio per portare avanti questo piccolo progetto, a prescindere dalle tempistiche di pubblicazione. In fondo, le idee non mi mancano e la trama è già delineata nella mia mente.
Cos’altro dire: le recensioni sono molto gradite, dunque le attendo con ansia e curiosità. 
Ancora grazie a tutti!
 
Claudia





 
  
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