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Autore: Asmodeus    16/03/2021    3 recensioni
[What if?| Canon Divergence | Grindeldore]
Sappiamo tutti com'è andata la storia tra Albus e Gellert, ma chi ha detto che questo sia l'unico passato possibile? Cosa succederebbe, se il passato venisse finalmente a galla in tutta la sua scomoda verità?
Dal testo: Fuori pioveva ancora a dirotto.
Alzò lo sguardo verso il cielo nero come il suo umore, lasciando che la pioggia si mescolasse alle sue lacrime di rabbia, paura e dolore.
Quando infine si Smaterializzò, tutti i suoi progetti, i suoi pensieri e le sue emozioni erano divenuti una singola parola: Albus.

~ Questa storia partecipa al contest “All About Grindeldore” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP, dove si è classificata prima a parimerito.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Elphias Doge, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Tutto, per il Bene Superiore

 

 

Il Paiolo Magico, Diagon Alley n°1, Londra, 23 giugno 1899



Stavano controllando gli ultimi dettagli prima della partenza per Atene quando si accorse di una nuova località cerchiata sulla mappa della Grecia.
«Al, e questo?» chiese, indicando la novità col dito. Il Paiolo Magico era poco illuminato anche di giorno, e quel luogo era stato cerchiato con un inchiostro nero che si confondeva con le altre scritte della mappa.
Albus spostò lo sguardo dalla cartina raffigurante l’Egitto e il Vicino Oriente, allungando un poco il collo per vedere meglio. «È il Monte Olimpo, Elph» buttò lì con nonchalance, tornando immediatamente a concentrarsi sull’Egitto.
«Lo so cos’è, Al» rispose leggermente piccato lui. «Ma perché l’hai cerchiato? Atene, Santorini, Creta… è ben lontano nostre mete, no?»
Un pensiero angosciante stava prendendo forma nella sua mente vedendo quella montagna, ma non riusciva ancora a esprimerlo a parole.
Albus alzò brevemente le spalle, senza alzare lo sguardo nel rispondergli: «Sì, è dall’altra parte della Grecia difatti…»
Lasciò passare qualche istante di silenzio, limitandosi a fissarlo in attesa di una vera risposta alla sua domanda, mentre l’ansia continuava a salire. Manticore, chimere, ciclopi: le varie lezioni di Cura delle Creature Magiche affioravano nella sua mente, colme di nozioni su quelle terribili creature che abitavano le montagne dell’Antica Grecia. Loro avrebbero dovuto ricercare informazioni su Andros l’Invincibile, per poi visitare le colonie di Sirene dell’Egeo del sud ed evitare così i pericoli della Tessaglia e della Macedonia. Ma ora che Albus aveva individuato l’Olimpo, tutto rischiava di saltare… Certo, probabilmente lo avrebbe seguito anche lassù, amico fedele e instancabile, ma voleva almeno sentirsi dire la verità. Stava quindi per ripetere la domanda, esasperato, quando Albus alzò finalmente lo sguardo dalla mappa egizia.
«Qualcosa non va, Elph?» domandò, il tono della voce tranquillo come se gli avesse chiesto che tempo facesse all’esterno.
Cercò di tenere a bada la sua ansia per non rispondergli male: si fidava ciecamente di Albus, ma non aveva mai gradito i cambi di programma repentini come poteva essere quello. Per questo si prese un attimo prima di rispondergli, provando a controllare la voce per nascondere i mille pensieri che stavano ora affollando la sua mente.
«Niente, Al. Mi chiedevo solo perché lo avessi cerchiato proprio ora. Senza dirmi niente, tra l’altro».
«Ho pensato che sarebbe stato bello farci un giro» ammise l’amico, raddrizzandosi sulla sedia e guardandolo dritto negli occhi. «Ma non con te, Elph» aggiunse, nel tentativo di rassicurarlo.
Era calmo come sempre, e lui fu contento nel non trovare alcuna malizia nel suo sguardo, nonostante quella chiusura che non lo rassicurava affatto.
«Che intendi? Con chi dovresti andarci?» indagò, chiedendosi chi avrebbe dovuto accompagnare il suo migliore amico lontano da lui, proprio nel mezzo del loro Grand Tour.
Albus scrollò le spalle, un mezzo sorriso sulle labbra. «Boh, non ne ho idea. Non andrò ora, il nostro Tour è più importante e già pieno zeppo di mille meraviglie! E non ho intenzione di metterti in pericolo andando in luoghi che non vuoi visitare. Ma prima o poi…»
Vide i suoi occhi azzurri accendersi di quel riflesso fiammeggiante che aveva già notato impossessarlo altre volte, a scuola, quando dovevano studiare qualche branca della magia misteriosa o addirittura pericolosa. Era lo stesso sguardo magnetico e coraggioso che lo aveva conquistato fin dal primo giorno ad Hogwarts, quando Albus lo aveva scelto come amico in mezzo alla folla di nuovi studenti, nonostante i marchi della malattia che sfregiavano il suo volto.
Deglutì, cercando dentro di sé il coraggio necessario per non lasciare appese al nulla le parole del suo migliore amico, per dar loro un appiglio sicuro a cui aggrapparsi. Se Albus avesse voluto davvero andare sull’Olimpo, lui lo avrebbe accompagnato seduta stante, a prescindere dalla paura o dall’insicurezza che provava. Dopotutto, non esisteva richiesta alcuna che potesse trattenerlo dall’essere al suo fianco, a qualunque costo.
Fece dunque per parlare, pronto a quell’ennesima dichiarazione di fedeltà verso l’amico straordinario che sedeva di fronte a lui, quando l’oste li interruppe raggiungendoli al loro tavolo.
«È appena arrivato un gufo per te, Albus. Viene dalla professoressa Bath» commentò il proprietario, allungando una lettera ancora sigillata al giovane mago rossiccio. L’oste si attardò qualche istante per osservare la distesa di mappe e altre pergamene che affollavano il tavolo, prima di allontanarsi mentre Albus apriva curioso la missiva.
«Oh, Bathilda… Sai Elph, viene spesso a trovare mamma, ultimamente» commentò l’amico, spezzando il sigillo di ceralacca che chiudeva la lettera. «Mi ha anche proposto di aiutarla nei suoi studi, finita la scuola, e non ha preso molto bene la notizia del nostro Grand Tour…» ridacchiò, lisciando la lettera prima di cominciare a leggerla.
Si trovò ad invidiarlo un po’ per tutte quelle conoscenze famose già alla loro giovane età, ma in pochi attimi notò che qualcosa non andava. Gli occhi di Albus scorrevano sulla pergamena ingiallita sempre più preoccupati, il volto che si inscuriva sempre più velocemente. Poi, d’improvviso, vide l’amico bloccarsi, come pietrificato, mentre il fuoco che brillava nelle sue pupille si spegneva rendendole come vuote.
Attese qualche istante, mentre Albus impallidiva a vista d’occhio e le sue mani finivano per stritolare la sottile pergamena con disperazione.
«Al? Tutto ok?» chiese, alzandosi dal suo posto preoccupato. L’amico non rispose, e si accorse che sembrava non respirasse nemmeno; anche i suoi solitamente lucenti capelli ramati si erano come spenti di colpo, perdendo in pochi istanti tutta la loro vitalità e voluminosità.
Di fronte a quel silenzio, circumnavigò il grosso tavolo per raggiungere il suo migliore amico, toccandogli istintivamente il braccio e trovandolo rigido come pietra. Lo chiamò, senza ottenere risposta, e solo allora si decise a guardare la lettera, su cui gli occhi di Albus erano concentrati da fin troppo tempo come a volerla perforare e distruggere con lo sguardo.
I suoi occhi volarono sulla grafia elegante della professoressa Bath, estremamente curata e dolce ma comunque incapace di alleviare il contenuto di quel messaggio impossibile. Arrivò in fretta alla fine della missiva, il cuore che inorridiva sempre più, finché gonfio di dolore tornò a osservare l’amico.
Albus era ormai pallido come un fantasma, ogni traccia di vitalità sparita dal suo corpo, mentre copiose lacrime avevano cominciato a scendere e bagnare le varie mappe poggiate sul tavolo.
Si trovò a stringerlo a sé, obbligandolo a lasciare la presa sulla pergamena e a lasciarsi andare al dolore. Quando l’oste tornò da loro, svariati minuti dopo, erano ancora lì, con Albus che si aggrappava al suo braccio e veniva cullato dal suo ventre, in una pallida imitazione del calore materno che il giovane mago aveva appena perso per sempre.


***



 Maison Flamel, Rue de Montmerci n°52, Parigi, 16 febbraio 1905



«Albus, hai già controllato la voliera stamattina?»
La flebile voce del suo anziano mentore risuonò cristallina alle sue orecchie, nonostante fosse fin troppo concentrato nell’osservare la nuova reazione alchemica che studiava ormai da giorni. Finalmente il composto che aveva preparato aveva cominciato a sublimare, accendendosi di un vivido colore rosso che prometteva bene.
Si premurò di controllare che ogni cosa fosse esattamente al suo posto e protetta da possibili interferenze esterne, prima di abbandonare il bancone da lavoro e raggiungere il suo maestro.
Quando lo raggiunse nel suo studio, Nicolas Flamel stava leggendo un pesante tomo di alchimia egiziana, le fragili mani affusolate che sfogliavano caute le sottili pagine di papiro. Nonostante l’età plurisecolare l’anziano alchimista ci sentiva ancora perfettamente, per questo non si stupì quando lo apostrofò nuovamente al suo arrivo.
«Hai controllato la voliera, Albus?» chiese una seconda volta Flamel, alzando le vecchie pupille dal prezioso manoscritto e perforandolo con il suo sguardo attento.
«Non ancora, maestro. Mi scusi, ero troppo concentrato sull’Opera…» si giustificò, prima di continuare: «Comunque, salgo subito a dare un’occhiata. Non mi è sembrato di sentire dei gufi arrivare, ma non si sa mai…»
L’anziano alchimista annuì, tornando a controllare il suo manoscritto mentre lui si dileguava imboccando la rampa di scale.
Per l’ennesima volta, si chiese come mai un mago potente come Flamel continuasse a utilizzare i gufi come mezzo di comunicazione. Da quando si era trasferito a Parigi a studiare da lui, uno dei suoi compiti quotidiani era percorrere più volte al giorno le infinite rampe di scale dallo studio alla grande voliera personale di Flamel, soltanto per incontrare vecchi gufi mezzi addormentati che si annoiavano per l’assenza di lavoro. Il vecchio alchimista possedeva infatti uno splendido tomo magico in grado di metterlo in comunicazione diretta con praticamente ogni importante personalità del Mondo Magico; la posta ordinaria via gufo, invece, era smistata da un funzionario del Ministero della Magia, che si occupava personalmente di recapitare le lettere più importanti alla Maison tre volte a settimana, raccogliendo le restanti lettere in una consegna mensile che raggruppava le corrispondenze più triviali e gli elogi di questo o quello studioso o inesperto alchimista.
Superò gli ultimi gradini con un balzo, abituato ormai a quell’impresa quotidiana, e si trovò immerso nella sonnacchiosa, tenue luce della voliera. L’odore dei gufi era pungente, e i vecchi volatili affollavano numerosi trespoli sonnacchiando beati. Come ogni volta, comunque, nessuna lettera era in vista.
Già che c’era, si preoccupò di controllare le varie ciotole contenenti il cibo per i numerosi animali, verificando che l’ingegnoso sistema tecnomagico inventato da Flamel per distribuire granaglie e pezzi di carne funzionasse a dovere. È proprio in quel momento che sentì uno svolazzare d’ali inconsueto, e un gufo che conosceva bene fiondarsi dentro la voliera della Maison.
«Arnold! Che ci fai qui?» esclamò, notando il gufo del suo migliore amico posarsi sul trespolo più vicino a lui. Il rapace di Elphias appariva stanco morto per la lunga traversata, e si avvicinò a lui desideroso di cibo, una piccola lettera legata alle zampe.
 Nutrì immediatamente l’ospite inaspettato, mentre gli altri gufi di Flamel continuavano a sonnecchiare indisturbati e la curiosità si faceva strada dentro di lui.
Non riceveva quasi mai lettere da nessuno, per sua esplicita richiesta, per cui quella missiva era una sorpresa inaspettata. O meglio, quasi.
Si affrettò a prendersi cura del gufo di Elphias, e ancora più in fretta lo liberò dunque della lettera che, come previsto, era indirizzata proprio a lui.
La aprì con le mani che tremavano, chiedendosi come fosse possibile che il suo migliore amico fosse riuscito nell’impresa che gli aveva affidato l’ultima volta che si erano  visti, più di un anno prima.
La grafia di Elphias era sgraziata e difficile da leggere, ma i suoi occhi volarono sulle righe.

Caro Al,
ho fatto le ricerche che mi hai richiesto e… sì, avevi visto giusto! Barnabas Deverill ha vissuto a Parigi, proprio nella prima metà del XVIII secolo, e tutte le altre tue intuizioni erano corrette. Credo che tu…


Divorò il resto della lettera tutta d’un fiato, e quando ebbe concluso si accasciò sulla sedia più vicina.
L’aveva trovata.
E lo aveva in pugno.



***



Gregorovitch Zauberstäbe, Berlino, 18 novembre 1905



Il pavimento di legno antico scricchiolò sommessamente sotto al suo peso, unico rumore prodotto da una Materializzazione altrimenti perfettamente silenziosa.
Si scostò i capelli fradici dalla fronte, tirandoli all’indietro affinché non gli oscurassero la visuale. Erano ormai cresciuti troppo, e avrebbe dovuto tagliarli al più presto, ma non aveva avuto tempo per cose così triviali negli ultimi mesi.
Si guardò intorno, mettendo a fuoco la stanza buia che costituiva la mansarda del negozio di bacchette più rinomato d’Europa. Lavorare per qualche settimana per i rifornitori di Gregorovitch aveva avuto la sua utilità, dopotutto: come previsto, gli incantesimi Anti-Smaterializzazione che proteggevano il resto del negozio lì non funzionavano, né erano presenti altri incanti d’allarme per difendere quello che non era altro se non un magazzino di materie prime.
Osò accendere una debole lucina con la luce della bacchetta, per orientarsi meglio tra la valanga di scatole contenenti i più disparati componenti per bacchette: se i suoi calcoli erano giusti, Gregorovitch aveva comunque installato degli incantesimi antifurto, e lui non ci teneva affatto a farli scattare urtando accidentalmente qualcosa mentre si muoveva nell’oscurità.
Individuò rapidamente la porta del magazzino, e in pochi istanti riuscì a disattivare tutti gli incantesimi difensivi che proteggevano anche quell’accesso al negozio sottostante, nonché al resto della casa del fabbricante di bacchette.
Aveva imparato la planimetria dell’edificio a memoria, dunque scese con decisione le scale dirigendosi direttamente allo studio privato di Gregorovitch. A parte le poche goccioline che cadevano dai suoi vestiti fradici, i suoi passi non lasciavano nessuna traccia o rumore sui vecchi pavimenti, mentre la pioggia insistente all’esterno copriva il suono del suo respiro.
In pochi secondi raggiunse lo studio del fabbricante di bacchette, e dopo aver controllato se per caso non vi fossero altri incantesimi di protezione specifici in azione, aprì la porta ed entrò.
Sebbene conoscesse gran parte della casa a memoria grazie alle precedenti settimane di lavoro, non gli era mai stato concesso di penetrare nello studio privato di Gregorovitch: per questo, si beò per qualche istante della vista di quella stanza che custodiva i segreti dell’arte delle bacchette.
L’ampia stanza era ricoperta da librerie su ogni lato, mentre un grosso tavolo da lavoro occupava gran parte dello spazio rimanente. Centinaia di manoscritti sulla costruzione delle bacchette e sulle proprietà delle loro varie componenti erano stipati in ogni dove, mentre l’ultima creazione di Gregorovitch era esposta con cura al centro del tavolo.
Socchiudendo la porta dietro di sé il più silenziosamente possibile, si avvicinò al grosso tavolo per studiarlo meglio: l’ultima bacchetta creata dal giovane fabbricante era inequivocabilmente di legno di sambuco, e notò vari tomi sull’argomento disposti ordinatamente sul piano di lavoro.
Un sorriso vittorioso si aprì sulle sue labbra: aveva fatto centro.
Alzò lo sguardo, saettando qua e là con gli occhi alla ricerca di un indizio sull’esatta collocazione della bacchetta originale. Gregorovitch si era dimostrato incauto nel mettere in giro la voce del suo possesso della Stecca della Morte, eppure era sicuro avesse provveduto a nasconderlo e proteggerlo adeguatamente in casa sua. Cominciò a percorrere lentamente il perimetro della stanza, puntando la propria bacchetta in ogni direzione e cercando di analizzare ogni singolo centimetro della stanza con la magia alla ricerca del prezioso artefatto.
Dopo aver percorso per la terza volta l’intero perimetro della sala, però, fu costretto ad arrendersi: la bacchetta non era lì.
Si maledisse silenziosamente per quel buco nell’acqua inspiegabile.
Dove ho sbagliato?”, si chiese mordendosi la lingua e imprecando tra sé e sé.
Non aveva più molto tempo, ormai: aveva soppresso con facilità gli incantesimi protettivi installati da Gregorovitch, ma era consapevole che presto si sarebbero riattivati automaticamente e a quel punto sarebbe stato scoperto.
Rimuginò sul da farsi ancora per qualche prezioso istante, poi decise di giocare il tutto e per tutto.
Uscì in fretta dallo studio del mago, fiondandosi ancora più giù dalle scale e puntando verso quella che sapeva essere la camera da letto del fabbricante di bacchette. Lo avrebbe sfidato direttamente, obbligandolo a rivelargli l’esatta ubicazione della Bacchetta di Sambuco: per quanto potesse essere abile, era certo di essere un duellante migliore dell’artigiano magico.
Aprì la porta della camera di Gregorovitch con un calcio ben assestato, la sua bacchetta pronta a colpire il suo avversario nel giro di pochi attimi. Così concentrato nel compito com’era, si accorse troppo tardi che qualcosa non andava.
Non appena la porta si spalancò, fu investito dalla luce già accesa e accecante: l’improvviso cambio di luminosità lo destabilizzò per qualche attimo, obbligandolo ad abbassare la guardia mentre tentava di mettere a fuoco il mondo nuovamente illuminato. D’istinto, innalzò un Incantesimo Scudo per difendersi da qualunque attacco, mentre il suo cervello rielaborava le nuove informazioni a una velocità disarmante.
Come aveva fatto Gregorovitch a scoprirlo? Aveva la Bacchetta con sé? Lo avrebbe dunque potuto sconfiggere?
Dove ho sbagliato?”, pensò di nuovo, mentre il mondo tornava ad essere percepibile ai suoi occhi e lui realizzava come nessun incantesimo lo avesse ancora colpito.
La camera da letto di Gregorovitch si rivelò di fronte ai suoi occhi increduli: ampia, elegante seppure arredata con lo stesso gusto romantico che pervadeva il resto del negozio, era ben illuminata da un grosso braciere in bronzo fluttuante in un angolo e che doveva fungere anche da riscaldamento.
I suoi occhi schizzarono qua e là alla ricerca del suo avversario, eppure nonostante la luce intensa non lo riusciva ad individuare. Scartò l’ipotesi di un incantesimo d’invisibilità in atto, in quanto completamente inutile in quel frangente, e tornò a chiedersi cosa non fosse andato per il verso giusto quella sera.
Possibile che anche Gregorovitch fosse sparito, lasciando tutto acceso in quel modo?
Dove ho sbagliato?
Si girò su sé stesso a controllare il corridoio dietro di sé, nella vana possibilità che il fabbricante di bacchette lo stesse tenendo sotto tiro alle spalle: anche lì, niente.
Fu solo quando tornò a concentrarsi meglio sulla camera da letto, entrando con cautela, che finalmente vide quella che doveva essere la gamba di Gregorovitch: era accasciata a terra, quasi completamente nascosta dall’ampio letto, e mostrava il piede nudo del mago e la parte finale del suo pigiama.
Con attenzione, si spostò per vedere meglio oltre al letto, e per un attimo inorridì. Gregorovitch era steso a terra, immobile, ancora in pigiama e con le braccia protese verso quella che sembrava una colonnina di metallo riarrangiata a mo’ di espositore di bacchette.
Aveva visto giusto: Gregorovitch era davvero il proprietario della Bacchetta di Sambuco, e la custodiva evidentemente nella sua camera da letto. Solo che qualcun altro c’era arrivato prima di lui.
Si lasciò andare in una maledizione liberatoria, avvicinandosi a controllare il cadavere del fabbricante di bacchette.
Solo allora notò che Gregorovitch aveva gli occhi chiusi, non vitrei e spalancati, e che il suo petto si alzava e si abbassava lentamente. Non lo avevano ucciso, ma soltanto Schiantato.
«Dove ho sbagliato?» ripeté per la quarta volta, stavolta a voce alta.
Pensava di essere l’unico ad aver scoperto come non fosse necessario uccidere il proprietario della Stecca della Morte per conquistarne la lealtà – di come fosse semplicemente sufficiente sconfiggerlo in un qualunque modo.
Chi altri aveva potuto fare il suo stesso ragionamento?
Chi altri avrebbe scelto quella soluzione, invece che infliggere a Gregorovitch una più rapida e sicura morte?
Certo, lui stesso aveva previsto di Schiantare il fabbricante di bacchette ancora dormiente, una volta recuperata la Bacchetta, ma aveva i suoi motivi. Gregorovitch era il più bravo fabbricante di bacchette d’Europa, dunque un possibile prezioso alleato per il mondo che aveva in mente di costruire; inoltre, se voleva conquistare l’approvazione del Mondo Magico per il suo piano di liberazione dei maghi del mondo, non poteva cominciare infangare il suo progetto iniziando proprio con un omicidio…
Fu proprio quell’ultimo pensiero che accese un dubbio nella sua mente.
Soltanto un altro mago al mondo poteva aver fatto il suo stesso identico ragionamento, perché soltanto un altro mago al mondo aveva condiviso con lui quel meraviglioso piano.
Controllò un’ultima volta il corpo stordito del fabbricante di bacchette, certo di trovarvi conferma in merito all’identità del suo assalitore.
Non si parlavano più da sei anni, da quando quel piccolo incidente lo aveva costretto a fuggire, abbandonando l’unica persona con cui aveva realmente condiviso quel pesante fardello che era la sua missione, il suo destino.
Un piccolo biglietto era stato delicatamente infilato tra le mani serrate di Gregorovitch: sopra di esso, a matita, il simbolo dei Doni della Morte sovrastava una piccola frase scritta con una grafia aggraziata e potente al tempo stesso.
Avevano passato poche settimane insieme, eppure non avrebbe mai dimenticato la scrittura di colui che aveva coniato il motto perfetto per il sogno della sua vita: “Per il Bene Superiore”.
Ora, direttamente da quel lontano passato, quell’estate a Godric’s Hollow tornava a parlargli con prepotenza, rischiando ancora una volta di distruggere la sua missione.
Strinse il bigliettino in un pugno di ferro, ma invece di gettarlo a terra se lo infilò in tasca.
Non riusciva ad arrestare il flusso dei suoi pensieri, chiedendosi come mai fosse tornato da lui, perché proprio in quel modo. Perché il furto della Bacchetta non era altro che un messaggio, solo e soltanto per lui.
Non si preoccupò minimamente di soccorre Gregorovitch, né gli importava di farsi vedere mentre abbandonava la casa uscendo direttamente dal negozio lì accanto, abbattendone la porta con un singolo incantesimo.
Fuori pioveva ancora a dirotto.
Alzò lo sguardo verso il cielo nero come il suo umore, lasciando che la pioggia si mescolasse alle sue lacrime di rabbia, paura e dolore.
Quando infine si Smaterializzò, tutti i suoi progetti, i suoi pensieri e le sue emozioni erano divenuti una singola parola: Albus.


***


Torre di Londra, Londra, 24 dicembre 1905



Nevicava da giorni, e l’ampia corte interna che circondava la White Tower sembrava più una gigantesca nuvola che circondava un castello volante delle fiabe che una vecchia piazza d’armi in disuso. Intorno a loro, tutto era silenzioso come una tomba, e il gelo dell’inverno lo raggiunse subito nelle ossa nel momento esatto in cui si Materializzò, sprofondando nella neve.
Era quasi la mezzanotte, eppure la corte interna era illuminata da tanti piccoli fuochi fatui che il suo ospite aveva preparato per loro due. La scelta della Torre di Londra come punto d’incontro l’aveva gradevolmente stupito, e quella messinscena luminosa non faceva che aumentare l’importanza di quel loro incontro. Teatrale e grandioso, ambizioso e spietato: quel luogo così denso di Storia parlava davvero di loro due, ed era il luogo ideale per quella che non poteva essere altro se non una resa dei conti.
Albus lo stava aspettando, ritto come una statua dall’altra parte dello spiazzo innevato. Indossava un pesante mantello nero per proteggersi dal freddo e dai cristalli di ghiaccio che riempivano ogni cosa: nel buio della notte che li avvolgeva, e in mezzo a quello scenario, sembrava la versione ingrandita dei grossi corvi della Torre.
La metafora spontanea lo colpì nella sua verità: dopotutto, anche lui, come loro, custodiva una vera e propria reliquia quella notte.
Vedendo che l’altro non aveva fatto il minimo movimento al suo arrivo, mosse qualche passo verso di lui, arrancando a causa della mole di neve che inghiottiva i suoi stivali e rallentava il suo cammino. Sentì i suoi stivali riempirsi di quella gelida bianchezza, ma ignorò le stilettate di freddo che gli mandavano le sue membra e continuò ad avanzare senza dire una parola.
Il suo compagno di un tempo, invece, continuava a starsene immobile, ritto in quel candore purissimo e in completo silenzio. Poteva vedere le nuvolette di condensa che abbandonavano le sue labbra e nascondevano il suo volto, unica certezza che l’uomo di fronte a lui era vivo e respirava, e non una statua abbandonata.
Mentre continuava ad arrancare in quell’oceano bianco, si rese conto di quale spettacolo ridicolo stesse mostrando al suo vecchio amante: un ragazzo più giovane e prestante fisicamente che faticava così tanto e rischiava di capitombolare a terra come un vecchio. Era un’ennesima dimostrazione di debolezza e fallimento, e sentì per un attimo la rabbia montare dentro di sé.
Non gli era bastato batterlo sul tempo a Berlino, derubandolo della Bacchetta quando ormai poteva sentirsela tra le dita. Non era stato sufficiente obbligarlo a scoprire cosa volesse da lui, imponendogli settimane di lavoro per discernere, da quel semplice bigliettino che gli aveva lasciato da Gregorovitch, dove e quando aveva intenzione di incontrarlo per potersi confrontare.
No, Albus si era dimostrato ancora più crudele, e ora lo sottoponeva a quell’umiliazione per sottolineare la sua superiorità su di lui, rivendicando quel ruolo di guida che gli aveva ceduto durante tutte le settimane in cui avevano sognato insieme un mondo a loro immagine.
Eppure, in parte sentiva di meritarsi quel trattamento: in un mondo di vinti e vincitori, lui era stato sconfitto nella corsa alla Bacchetta di Sambuco e ora ne pagava il prezzo. Nelle settimane precedenti, aveva pensato più volte di rintracciare in altro modo il suo vecchio amante, per coglierlo di sorpresa e riprendersi la Bacchetta in un duello magico – ma Albus si era guadagnato il diritto di quell’incontro. Nessun altro lo aveva mai messo sotto scacco, prima.
Inoltre, obbligarlo a tornare indietro da lui, nonostante fossero passati così tanti anni, per Albus era probabilmente il modo perfetto per inchiodarlo alle sue responsabilità, punendolo per la sua fuga dopo l’incidente.
Continuò dunque ad avanzare, sopprimendo la rabbia e determinato a dimostrare al suo vecchio compagno che non si sarebbe tirato indietro un’altra volta.


Vedere Gellert avanzare nella neve alta fino alle ginocchia rischiò di strappargli un sorriso triste.
Arrancava come un vecchio, faticando a muovere le gambe in mezzo a quella coltre bianca che continuava a sommergere la capitale col suo puro silenzio.
Era sempre stato così impacciato, anche quando si amavano nelle torride sere estive dopo giornate intere passate a esaminare antiche tracce e vecchi manoscritti?
A vederlo muoversi in quel modo gli sembrava tutto fuorché quella straordinaria guida rivoluzionaria che credeva di poter salvare il mondo dalla crudeltà umana. Invece che un profeta incarnante la salvezza dell’umanità, forse era davvero soltanto un giovane sbandato, con troppi sogni e ancora inesperto del mondo.
Eppure, non poteva non riconoscere nel giovane uomo che arrancava davanti a lui gli stessi difetti che pulsavano nelle sue vene.
Anche lui si era creduto superiore a tutti gli altri, aveva permesso alla sua immaginazione di raggiungere le vette più alte e desiderato gli obiettivi più irraggiungibili.
E invece aveva ottenuto solamente la morte di sua sorella e una domanda che continuava a squarciargli il petto ogni singola notte, un senso di colpa che da sei lunghi anni gli aveva tolto ogni briciola di serenità.
"Perché l’hai uccisa?"
Continuò a fissare la figura ammantata che sprofondava qua e là nella neve, e strinse forte la Bacchetta di Sambuco sotto al mantello.
Presto avrebbe avuto le risposte che cercava.


Si fermò a poche iarde di distanza da Albus, non appena riuscì a vedere i suoi occhi nitidamente nonostante la neve e la condensa del respiro.
Al posto delle due pozze d’acqua profondissime e potenti che aveva fissato in interminabili notti d’amore e in cocenti giorni di studio, però, trovò due iceberg implacabili, sentendosi immediatamente perforare da parte a parte.
Fu tentato di parlargli per primo, la rabbia che tornava a cercare di prendere il sopravvento dentro di lui, eppure riuscì a trattenersi e ad aspettare. Passarono svariati minuti prima che finalmente Albus si decidesse a parlare, rompendo un silenzio che durava da sei lunghi anni.
«Alla fine, sei tornato».
«Avevo scelta?»
I due iceberg continuavano a perforargli il cervello, ma lui era sempre stato in grado di resistergli.
«È inutile che continui a provarci, lo sai. Tira fuori le palle e parla», lo aizzò, scoprendo di voler chiudere al più presto quella discussione.
Sapeva benissimo che sarebbe finito tutto in un duello magico, e preferiva che fossero le loro abilità magiche a sfidarsi, invece che le loro lingue – Albus era sempre stato più bravo di lui, con quella.
Vide le labbra dell’altro stringersi in una smorfia, prima di sputare le prime parole velenose.
«Tu parli di tirare fuori le palle?» ribatté il più grande, il livore di sei anni concentrato in ogni singola sillaba. «Perché sei scappato?»
Qualunque parvenza di autocontrollo messa in campo da entrambi fino a quel momento crollò in un istante, come se una diga si fosse rotta all’improvviso facendo esondare un lago troppo pieno. Era un discorso che avrebbero dovuto fare anni prima, ed ora il peso del passato si era fatto incontenibile.
«Che avrei dovuto fare? Restare lì a farmi uccidere da tuo fratello?» si difese lui, gli occhi che cominciavano ad ardere al pensiero di colui che aveva rovinato tutto.
«Meglio morire che fuggire come un vigliacco!» lo punse il più vecchio. «E non pensare che io mi beva questa cazzata: Ab è un ottimo duellante, ma sappiamo entrambi che lo avresti ucciso tu quel giorno, se non ti avessi fermato!»
«Ma per chi mi hai preso, Al?» si ritrovò ad urlargli di rimando, la faccia che si arrossava per la rabbia di fronte a quelle accuse infondate. «Era solo un semplice Crucio, non gli avrei mai fatto del…»
«Del male? Vero, perché l’Incanto Cruciatus non fa del male, proprio!»
Anche Albus stava urlando, e nonostante fosse concentrato sul suo viso sempre più infuriato si accorse di un movimento sotto al mantello.
«Lo sai che intendo!» si difese, stringendo a sua volta la propria bacchetta sotto le vesti. Era ormai una questione di pochi istanti, e poi sarebbero passati agli incantesimi – e non era più certo di poterlo sconfiggere, a quel punto.
«Lui… ci stava ostacolando, Al! Voleva bloccarti in quello sputo di paesino, mentre tu avresti dovuto viaggiare con me! Dovevamo partire, trovare i Doni, era l’unico modo per…»
«Per cosa, Gel?» lo fermò lui. Aveva aperto il mantello, e ora puntava la Bacchetta di Sambuco contro di lui. «Parlami ancora della cazzata del Bene Superiore e ti ammazzo. Voglio la verità!»
Anche lui aveva sfoderato la propria bacchetta, ma si rese conto di non poter colpire il suo nemico. Il giovane Albus che aveva conosciuto anni prima non c’era più: davanti a lui si stagliava il famoso Silente, lo stregone provetto che aveva già incantato mezza Europa con la sua conoscenza superlativa della magia. La rabbia lo aveva trasformato in una macchina di morte, e con la Bacchetta di Sambuco al suo fianco nemmeno lui avrebbe potuto fermarlo.
Silente era in attesa, gli iceberg che aveva al posto degli occhi che sembravano volerlo impalare come lance ghiacciate. Deglutì rumorosamente, cercando di pesare bene le sue prossime parole senza lasciarsi prendere dall’emozione.
Avrebbe potuto raccontargli del loro sogno – perché dopo quell’estate non era più stato soltanto suo, di come avrebbero potuto cambiare il mondo per renderlo davvero a loro immagine e somiglianza. Oppure avrebbe potuto inventarsi una risposta sul momento, per guadagnare tempo mentre cercava un modo per ripararsi dal sicuro attacco in arrivo e sviluppare una strategia per salvarsi.
Ma alla fine, dalle sue labbra sfuggì semplicemente ciò che l’altro gli chiedeva: la verità.
«Per salvarla, Al» mormorò, abbassando gli occhi. «Il potere illimitato, il Bene Superiore e tutto il resto, sì, erano un bel sogno ma… Lo sai anche tu che era l’unico modo per evitare che altri soffrissero come ha sofferto lei».
Tornò a guardarlo, dritto in quegli iceberg che aveva al posto degli occhi e che ora sembravano vacillare.
«Io ho sempre voluto il potere della Bacchetta, per essere il mago più potente del mondo. E il mondo che volevo costruire insieme a te mi avrebbe reso il sovrano di tutti i maghi che avessero scelto di seguirci, è vero. Ma…» fece una pausa, realizzando per la prima volta la verità di quanto stava dicendo.
«Ma quando l’ho conosciuta meglio, e ho smesso di vederla come un fardello…». Lo vide alzare la bacchetta in risposta alle sue parole, ma continuò senza lasciargli il tempo di agire: «… che ti distraeva dalla nostra missione, io… Ho capito che ciò che stavamo facendo, liberarci dalla paura dei Babbani e rivelarci per chi siamo, prendere il controllo… Avrebbero avuto una vita normale, non solo tua sorella, ma tutti quelli come Ariana…»
«Non nominarla!» urlò l’altro, facendolo sobbalzare.
Il viso di Albus era paonazzo, ma il suo sguardo aveva smesso di perforarlo, gli iceberg che cedevano il passo ai laghi cristallini che ben conosceva. La Bacchetta di Sambuco continuava ad essere puntata contro di lui, ma ora tremava leggermente tra quelle lunghe mani che aveva stretto tante volte.
Anche la sua rabbia aveva ceduto il passo a qualcosa di più profondo e forte, mentre sentiva un senso di liberazione invadergli le membra. Riprese il suo racconto, deciso a fargli conoscere appieno la sua verità.
«Era l’unico modo, Al. Non dico di averlo fatto per te, all’epoca, ma ora mi rendo conto di come fosse davvero l’unico modo per salvarla. Ma né tu né Aberforth sembravate capirlo, e io non ne potevo più di restare bloccati laggiù… Ho sbagliato, non dovevo colpirlo, ma…»
«Ma lo hai fatto», concluse per lui l’altro. Si accorse che i suoi occhi erano tornati ad essere gelidi come prima, due iceberg indistruttibili.
«Hai colpito Aberforth, e poi me, e Ariana, poverina! Ha provato a difenderci da te, da tutte le cazzate che continui a raccontarmi, e tu… tu l’hai colpita, l’hai uccisa…»
Albus aveva ripreso a stringere la Bacchetta di Sambuco con decisione.
Il suo istinto di sopravvivenza cercò di avvisarlo che le cose non stavano andando come previsto, che il suo racconto era comunque troppo debole per sconfiggere sei anni di dolore e rimorso.
Strinse anche lui la bacchetta, facendola scattare verso l’alto per Stordire il suo avversario. Ma fu troppo lento.


Non si era nemmeno accorto di aver alzato la Bacchetta di Sambuco contro Gellert, né di aver pronunciato le parole dell’incantesimo.
Ma in qualche modo, si ritrovò di nuovo a Godric’s Hollow, in quel giorno di fine estate di tanti anni prima.
Conosceva il copione di quella scena a memoria, perché lo riviveva quasi ogni notte in cui aveva gli incubi, ancora e ancora fino alla pazzia.
Stava discutendo con Gellert da svariati minuti senza venire a capo di nulla, quando infine entrava suo fratello, con Ariana che gli teneva la mano. In quei ricordi sua sorella era eterea, come fosse stata un fantasma, eccetto per quei due enormi occhi blu persi in un mondo sconosciuto, ma per il resto la scena era come la ricordava.
Aberforth che si scaglia immediatamente contro il suo ragazzo, Gellert che gli risponde a tono e cominciano a litigare, e lui pietrificato e in disparte che fissa Ariana, ancora sulla porta e in mezzo a loro due.
La bacchetta di Gellert che veniva sfoderata, Aberforth che provava a colpirlo con un cazzotto per ritrovarsi a contorcersi a terra per l’incantesimo lanciato dal suo compagno.
Nei suoi incubi, a quel punto tutto si faceva ancora più confusionario e la normalità ritornava solo quando il corpicino di Ariana era riverso esanime sul pavimento, e Gellert svanito.
Ma stavolta, Gellert rimaneva, e Ariana era ancora viva, anzi, se ne stava in disparte mentre era lui che correva a frapporsi tra il suo ragazzo e suo fratello. Si vide con la bacchetta in pugno lanciare un Incantesimo Scudo estremamente potente, fermando Gellert prima di contrattaccare insieme ad Aberforth.
Ora toccava a Gellert difendersi con un potente incantesimo dall’attacco combinato, mentre Aberforth continuava a lanciare Schiantesimi in preda all’ira. Si vide osservare stupito suo fratello, con gli occhi che brillavano in preda a un moto di follia incomprensibile; solo per caso si accorse anche di Ariana che fluttuava a qualche centimetro dal pavimento, la testa rilasciata all’indietro e gli occhi che scintillavano di quella stessa luce che animava Aberforth. Gellert ancora resistvae, ma stava per cedere di fronte alla potenza combinata di tutti e tre i Silente scagliata contro di lui.
Vide il suo doppione nei ricordi accorgersi della cosa, e come lui realizzò ciò che andava fatto per evitare una carneficina. Si vide spostare la bacchetta in direzione dei suoi fratelli, per costringerli ad addormentarsi con un incantesimo innocente e mettere fine a quella follia. Ma qualcosa andò storto.
Invece di colpire i propri bersagli, il suo incantesimo venne come assorbito dal corpicino fluttuante di Ariana, e pochi attimi dopo esplose in un lampo di luce azzurra che li stese tutti e quattro.

Venne sbalzato via da quei ricordi, ricacciato alla sua realtà dopo aver perso i sensi nel passato di Gellert.
La testa gli pulsava come mai prima, mentre la verità si faceva largo nella sua mente e distruggeva tutte le sue certezze.
Il mondo intorno a lui era completamente bianco e freddo, e solo a fatica riuscì di nuovo a mettere a fuoco la realtà mentre anche la sua mente cercava di ricostruire un senso al suo passato.
Gellert era a terra, Schiantato sulla neve, e solo le nuvolette del suo respiro facevano capire che era ancora vivo.
Sentì la Bacchetta di Sambuco sfrigolare fra le dita, mentre per la prima volta avvertì la reale potenza magica della Stecca della Morte.
Fece qualche passo in avanti, verso il suo vecchio compagno riverso nella neve.
Si lasciò cadere in ginocchio di fianco a lui, sollevando con le mani la testa di Grindelwald e poggiandosela contro il petto. Anche se svenuto e coperto di neve, era ancora bello come il giorno in cui l’aveva conosciuto, con quei capelli biondi che aveva sempre amato stringere tra le dita.
Tornò a infilare le mani tra quella soffice capigliatura, accarezzando quella mente così geniale che gli aveva finalmente restituito la verità.
E pianse, mentre tutto intorno il mondo continuava a farsi bianco e freddo e vuoto come la sua vita senza più certezze.
Poi finalmente prese di nuovo il controllo, e recuperata la sua nuova bacchetta, si Smaterializzò insieme a Grindelwald.


***



 Il Paiolo Magico, Diagon Alley n°1, Londra, 25 dicembre 1905



Gellert stava dormendo, stremato dalla potenza del suo incantesimo di Legimanzia.
Lo guardò per svariati minuti, come faceva tutte le mattine in cui si svegliava prima di lui dopo quelle notti passate a fare l’amore fino allo sfinimento.
Ma molto era cambiato da allora.
Ciò che provava allora per lui era sparito da un pezzo: troppi anni erano passati, caricati di dolore e distanza che non poteva essere colmata da un semplice ricordo né dal conoscere la verità di come tutto era andato veramente.
Non c’era nemmeno più la stessa magia di allora, tra di loro: perché entrambi erano cresciuti e si erano fatti più potenti, certo. Ma anche perché ora lui era decisamente disilluso da quel sogno che li aveva animati allora, e Gellert…
Chissà cosa gli passerà per la testa, quando si sveglierà. A vedermi qui, di fianco a lui.
 Era una realtà che doveva essere ancora costruita, a cui avrebbero dovuto dare forma insieme.
Magari, dopo tutto quel tempo, dopo quella discussione che avevano rimandato per troppi anni, sarebbe stato proprio il più piccolo a scegliere di non stare più con lui.
E per lui, sarebbe comunque andato bene.
Da quando Ariana non c’era più, aveva faticato a trovare un senso alla parola felicità, e dopo quella notte temeva che quel significato non fosse più di casa nella sua vita.
Ma ora, senza più quel peso, senza quella domanda ad attanagliargli il cuore, si sentiva libero di seguire la strada che avrebbe dovuto percorrere sei anni prima.
 Era quasi certo che Gellert lo avrebbe seguito di nuovo in quel percorso, anche se stavolta non sarebbe stato più il più piccolo a guidarli, ma lui.
La Bacchetta di Sambuco era già sua, e benché avrebbero potuto condividerla per arrivare alla grandezza, Gellert non ne avrebbe mai sperimentate appieno il potere.
E quella sera aveva già dimostrato di non essere in grado di combatterlo: se avesse scelto di duellare, invece di parlare, avrebbe probabilmente vinto lui, ma… anche lui era vittima di quegli stessi ricordi, in qualche modo.
Erano entrambi al sicuro, ora, e anche se non ne erano pienamente consapevoli sicuramente potevano fidarsi l’uno dell’altro.

Si alzò dal letto, lasciando riposare il suo vecchio amante dopo averlo baciato delicatamente su una guancia.
Gellert mugolò qualcosa, prima di girarsi dall’altra parte e continuare a riposare, e lui parimenti si voltò verso la finestra del Paiolo.
Londra, là fuori, ancora dormiva, e i bambini probabilmente stavano sognando l’arrivo dell’alba per poter scartare i regali di Natale.
Ma quest’anno, lui il suo, anzi, i suoi regali li aveva già con sé.
Si toccò il fianco della vestaglia con una mano, sentendo la dura potenza della Bacchetta di Sambuco sotto la stoffa.
Gellert mormorò qualcosa nel sonno, e per un attimo gli sembrò di udire il suo nome provenire da quelle labbra.
Diede un’ultima occhiata fuori dalla finestra, mentre la neve continuava a scendere silenziosa per coprire tutto il mondo, poi si tolse la vestaglia e tornò verso il letto.
Era nudo, come sempre nelle notti passate insieme al suo compagno di una vita. Si infilò sotto le coperte in silenzio per non svegliare il giovane mago, accovacciandosi al suo fianco e beandosi della sua bellezza prima di chiudere gli occhi per riposare un po’.
Era ancora tutto così confuso, e sicuramente stava riallacciando troppo velocemente il suo passato con il suo futuro.
Ma non poteva più permettersi di perdere altro tempo.
Loro due avevano una missione, che non poteva essere svolta da nessun’altro se non loro, non importa quali sacrifici essa comportasse.
Avendo già dato molto, ormai era pronto a dare tutto.
Per il Bene Superiore.

 


 

Note dell'Autore

Ringrazio di cuore fantaysytrash per aver indetto questo contest meraviglioso che mi ha permesso di tornare a scrivere, dopo tanto tempo, su una delle mie OTP preferite di sempre, nonché per avermi permesso di indagare una versione diversa della tragica storia di questi due maghi fenomenali. Ho trovato difficile dare un vero lieto fine a questa storia, perché purtroppo trovo difficile vedere solo in positivo il rapporto tra due personalità così complesse e potenti come quelle di Silente e Grindelwald, ma spero che la conclusione della storia vi sia piaciuta. Spero altresì che la mia spiegazione della morte di Ariana Silente sia plausibile: avrei preferito non farla morire, visto tutto il "What if" che anima la vicenda, ma ci sono vari punti "fermi" nell'universo che non sono modificabili - e in questa fanfiction, la triste sorte di Ariana è uno di essi.

Qua e là ho inserito vari riferimenti alla storia personale di Silente e Grindelwald dopo il loro primo incontro e prima che diventassero i grandi maghi che sono stati, così come altre indicazioni canoniche nell'universo potteriano (ad esempio, uno dei precedenti possessori della Bacchetta di Sambuco, o il fatto che Silente abbia studiato presso Nicolas Flamel per vari anni). Mi è piaciuto poter far muovere anche Elphias Doge, nonostante lo abbia relegato in un ruolo piuttosto marginale: è un personaggio che apprezzo molto, e spero prima o poi di scrivere di più su di lui.

Concludo ringraziando chiunque sia arrivato a leggere fino a qui, e se vi va di lasciarmi il vostro parere vi sarà eternamente riconoscente! :)

 

Pacchetto n° 2:
Quando: 1905 [anno in cui Gellert ruba la Bacchetta di Sambuco a Gregorovitch]

Dove: Londra

Chi: Elphias Doge

Prompt [Bonus]: “And I know it’s long gone / And that magic’s not here no more / And I might be okay / But I’m not fine at all”

   
 
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