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Autore: Ode To Joy    17/03/2021    3 recensioni
Dazai Osamu lasciò la Port Mafia al tramonto di un giorno di fine inverno. Nessuno se ne accorse fino a che il silenzio non divenne assordante.
Nakahara Chuuya fu solo il secondo a notare quell’insolita assenza ad alta voce.

Chuuya deve fare i conti con le conseguenze che il tradimento di Dazai ha lasciato addosso a lui e al resto della Port Mafia.
[Chuuya x Dazai one-side]
[Oda x Dazai]
-Storia partecipante al CowT11 di Lande di Fandom-
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Margaret Mitchell, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryuunosuke Akutagawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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Dedicata alla mia Eneri Mess, 
per il suo Compleanno.
Tanti Auguri, socia.
Ti voglio bene. 


S k r i k


Sei la fine del mondo
Ma anche l'inizio
Dentro ogni tuo silenzio
Sento l'urlo di Munch
-Emanuele Aloia “L’Urlo di Munch”-
 
-12 ore dopo la sconfitta per la Mimic-


Quel giorno, il sole sorse su una Yokohama diversa, con meno segreti da nascondere e più sangue da ripulire. Ango non avrebbe dovuto essere lì.  

“Hai lavorato senza sosta per due anni,” aveva detto il signor Taneda. “Riposa e lascia da parte questa storia.”

Forse per un uomo di politica era facile pronunciare simili parole, ma Ango non avrebbe più riposato per il resto della sua vita. Per quanto insopportabile fosse il peso della fatica, non era paragonabile a ciò che lo avrebbe atteso nei suoi incubi, se solo avesse osato chiudere gli occhi. 

“Ci sono dieci corpi nell’ingresso,” disse un agente di cui Ango non ricordava il nome - era troppo stanco. “E abbiamo trovato evidenti segni di un’esplosione da quella parte,” indicò un punto alla loro destra, ma Ango seguì il cenno con occhi vuoti.

Sapeva come si lavorava a un rapporto conclusivo ma che senso aveva contare fino all’ultimo foro di proiettile quando quel luogo - la villa abbandonata che la Mimic aveva scelto come quartier generale - era una tomba a cielo aperto?

Tutti quegli uomini erano veterani di guerra, caduti in nome di una vendetta contro il mondo stesso, e molti di loro sarebbero stati cremati senza un nome scritto accanto alla loro data di morte. 

“Il Boss vuole che tutte le famiglie siano avvertite non appena le salme saranno arrivate al quartier generale.” 

Ango sollevò lo sguardo sull’uomo col cappotto nero fermo sulla porta d’ingresso - o ciò che ne rimaneva. Hirotsu incrociò brevemente i suoi occhi, poi continuò a dare istruzioni a chiunque fosse dall’altro capo della linea. La Port Mafia raccoglieva i suoi morti in silenzio, con discrezione, come se gli uomini intorno a loro non fossero agenti del governo. Ango pensò che ai loro occhi fossero invisibili.

Certo, tacere e andare avanti era il miglior tipo di condotta in quella situazione. Solo un uomo ebbe la presunzione di comportarsi diversamente. 

“Sakaguchi Ango.” Mori Ougai chiamò il suo nome comparendo in cima alle scale che portavano al piano superiore. Ango lo guardò scendere quei gradini come se non vi fossero riversi una decina di uomini morti. “Non sono sorpreso di trovarti qui.”

Ango ingoiò a vuoto e chinò la testa con rispetto. “Boss…” 

“Non sentirti obbligato a farlo,” lo rassicurò Mori.

Il più giovane non replicò e dovette sforzarsi per guardare il leader della Port Mafia dritto negli occhi. Mori Ougai non era certo a disagio, ma non era divertito dal macabro spettacolo che li circondava. Fece per aggiungere qualcosa, ma un agente pronto a salire le scale attirò la sua attenzione: “la prego di non andare di sopra.” Era un ordine, ma Mori seppe travestirlo di cordialità. “Immagino che il signor Sakaguchi preferisca occuparsi della scena di sopra da solo.”

Era un invito a cui Ango non poteva sottrarsi ma un nodo gli strinse la gola non appena salì il primo gradino, facendosi sempre più stretto dopo ogni passo. Il salone al piano superiore era inondato dalla luce dorata del mattino, rendendo l’immagine davanti ai suoi occhi molto chiara. 

Sapeva che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Ango ingoiò a vuoto ma il nodo non si allentò, bensì gli bruciò la gola. Incapace di fare i conti con le emozioni che si agitavano nel suo petto, poggiò un ginocchio a terra e chinò la testa, piegato dal peso di un peccato che non sarebbe mai riuscito a perdonare a se stesso.

“Perdonami…”

Oda Sakunosuke non poteva più rispondergli.

 
-3 giorni dopo la sconfitta della Mimic-


Dazai Osamu lasciò la Port Mafia al tramonto di un giorno di fine inverno. Nessuno se ne accorse fino a che il silenzio non divenne assordante. 

Nakahara Chuuya fu solo il secondo a notare quell’insolita assenza ad alta voce. 

Nessuno lo aveva richiamato alla base per prendere parte alla guerra contro la Mimic. “Resta pure a Kyoto,” lo aveva rassicurato il Boss. “La situazione è sotto controllo.”

Tanto sotto controllo che Dazai non lo aveva chiamato per rovinargli l’umore neanche una volta, segno che Mori doveva averlo messo in prima linea. Non c’era nulla di cui sorprendersi: capitavano periodi alla Port Mafia in cui ci si augurava un nuovo nemico all’orizzonte solo per tenere occupato il giovane Esecutivo. Un Dazai con troppo tempo libero era un Dazai più pericoloso degli standard, per se stesso e chi gli stava intorno. 

Chuuya sospettava che il Boss gli avesse affidato un lavoro a Kyoto proprio per disinnescare la situazione. La giornata alla Port Mafia non poteva finire senza che lui e Dazai si fossero urlati addosso almeno una volta, ma c’erano dei limiti che non andavano superati. Per il Boss, loro due lo avevano fatto abbondantemente. Nel periodo precedente alla storia della Mimic, i loro litigi, se possibile, erano raddoppiati e aumentati di ferocia. Come un genitore che divide due fratelli litiganti, Mori aveva messo Chuuya su un treno per Kyoto e tenuto Dazai a casa, sotto il suo occhio vigile. Il diciottenne dai capelli rossi aveva interpretato quel gesto come un premio, segno che il Boss dava ragione a lui e che Dazai doveva restarsene in un angolo, in punizione.

Tuttavia, al suo ritorno a Yokohama, Chuuya non lo aveva trovato né in punizione né tantomeno a casa, in un angolo. 

“Dove sta?” Domandò sospettoso, non appena mise piede nell’ufficio del Boss.

Mori non si tolse dalla faccia il sorriso con cui lo aveva accolto, ma non gliela fece passare liscia. “Anche io sono felice di rivederti, Chuuya.”

Il diciottenne strinse le labbra e mascherò l’imbarazzo chinando rispettosamente la testa. “Boss…”

“Così va meglio.” Mori intrecciò le dita e vi appoggiò il mento. “Ho letto il rapporto di Kyoto: un lavoro eccellente.”

“Grazie, Boss.”

“Ora, per rispondere alla tua domanda, Dazai non è qui e non ho idea di dove sia.”

Chuuya storse la bocca in una smorfia: non solo la prima cosa che aveva fatto al suo ritorno era stata chiedere di Dazai, ma ora doveva anche aspettarsi un suo agguato prima della fine della giornata. 

“E se temi che ti porti ancora rancore per il vostro ultimo litigio,” aggiunse Mori, “tranquillo, credo proprio che l'abbia dimenticato.”

“Non m’interessa.”

Mori continuò a sorridere, indulgente. “Sei il secondo a chiedere di lui oggi. Prima è passato Akutagawa.”

Chuuya alzò gli occhi al cielo. “Per carità, potrebbe scordarsi di respirare se Dazai non glielo ordina!”

“Suvvia, Chuuya, sii gentile. Akutagawa è il primo in linea di successione per il comando delle nostre forze armate, non lo dimenticare.”

Chuuya rise. “Boss, entrambi sappiamo che Dazai dovrebbe sparire dalla faccia della terra perché questo accada, ma i fatti ci suggeriscono che manco la morte se lo vuole prendere!”

Mori non commentò in alcun modo quella battuta di pessimo gusto. “Troverai un mio regalo nella tua stanza,” disse. “Per congratularmi dell’ottimo lavoro svolto a Kyoto. Sei libero di andare. Bentornato a casa, Chuuya.”


La bottiglia di vino appoggiata al centro del tavolino del suo salotto privato era invitante come un’amante. Il Boss sapeva di certo come premiare i suoi uomini migliori, ma Chuuya andò contro la sua natura: ignorò il regalo in favore di una doccia calda.

Era stanco e non riuscire a prevedere la prossima mossa di Dazai lo sfiancava. Si era aspettato uno dei suoi benvenuti da rompicoglioni a cui Chuuya era, suo malgrado, abituato. Quel silenzio gli chiudeva la bocca dello stomaco, rovinandogli anche la prospettiva di godersi un calice di vino prelibato. 

C’era del senso di colpa in quel malessere e Chuuya se l’era trascinato dietro prima di Kyoto, da quell’ultimo momento con Dazai che il Boss aveva definito litigio.

Secondo Mori, Dazai lo aveva già scordato.

Per Chuuya era difficile dimenticare quello che non aveva fatto.

Uscì dalla doccia sbuffando e indossò gli abiti più comodi che aveva: non sentiva il bisogno di uscire, né di vedere nessuno. Mentre attraversava la camera da letto, pensò di dare una seconda possibilità al regalo di Mori: nel peggiore dei casi non si sarebbe goduto il gusto del vino, ma avrebbe annegato i pensieri per un paio d’ore.

Un’ospite inattesa - ma non inaspettata - gli rovinò i piani.

“Oh, Chuuya, non guardarmi così.” Kouyou si accomodò sulla poltrona di pelle rossa senza che l’avesse invitata a farlo.

“Non ti sto guardando in nessun modo,” borbottò il giovane, buttandosi sul divano con meno grazia possibile. Era di malumore e voleva che si notasse.

“Come è andata a Kyo-”
“Lo sai già.”

Una spada penetrò lo schienale del divano da parte a parte, ad appena un palmo dalla testa di Chuuya. 

“Non essere arrogante, ragazzino,” lo rimproverò Kouyou. Chuuya riprese a respirare solo quando il Demone della sua maestra ritrasse la lama. “Come stai?” Aggiunse lei, come se non lo avesse appena minacciato apertamente. 

Chuuya prese un respiro profondo e si mise a sedere composto. “Dov’è, che cosa ha fatto e dove devo andarlo a riprendere?”

Kouyou continuò a sorridergli, paziente. “Pensi che io sia qui per affidarti una nuova missione?”

“Non farmi dire ad alta voce perché sei qui.”

La donna si portò le mani in grembo. “Ti ho cercato mentre eri a Kyoto.”

“Me l’hanno detto.”

“Ti sei sempre negato.”

“Non avevo voglia di parlare.”

Mori lo aveva mandato via prima che ciò che era successo tra lui e Dazai divenisse un affare di stato. Così quel loro ultimo litigio era rimasto un evento a porte chiuse, inducendo Chuuya a non parlarne nemmeno con la sua maestra. Tuttavia, non aveva dubitato per un solo istante che Mori lo avrebbe fatto al suo posto.

“Ti ha mandata il Boss?”

“No.”

“Ti ha mandata Dazai?”

“Mi sopravvaluti se pensi che lui verrebbe mai da me di sua volontà.” Kouyou scosse la testa. “Non ha mai avuto bisogno di intermediari per affrontarti, Chuuya. Non ha mai avuto paura di te, non l’avrà mai.”

Era il genere di rassicurazione che Chuuya temeva di ricevere. “Non me ne frega un cazzo.”

Kouyou sospirò. “Chuuya, Dazai ha dimenticato tutto.”

“Lo ha detto anche Mori.” Il diciottenne la guardò dritto negli occhi. “Non mi aspettavo tanta comprensione da te.”

“Io non mi aspettavo il tuo silenzio.”

“Che avrei dovuto dirti, Kouyou?” Domandò Chuuya, esasperato. “Che ho fatto una cosa schifosa, che provo vergogna per me stesso e che mi sento una merda perché, per una volta, la vittima in tutto questo è Dazai?” Lo ricordava molto bene il modo in cui il suo partner lo aveva guardato un momento prima che Mori lo tirasse via - o forse era stato Hirotsu, non ne era sicuro.

Quello sguardo sul viso di Dazai lo avrebbe tormentato per tutta la vita.

“Ho solo l’impressione che tu ne sia uscito più ammaccato di lui, tutto qui,” ammise Kouyou.

Chuuya sbuffò. “Falla finita.”

“Ti assicuro che non ci ha pensato nemmeno la metà del tempo che stai impiegando tu a torturarti.”

“Non mi torturo affatto!”
“Ah no?” Kouyou lo conosceva bene, più di Mori, più di Dazai. “Se oggi Dazai non è qui, non è per colpa tua.”

Chuuya inarcò le sopracciglia, certo di essersi perso qualche dettaglio di quella conversazione. “Dov’è Dazai?”

Non era certo di voler sentire la risposta, ma Kouyou non ne aveva una da dargli. “Non lo so,” disse. “Tu lo conosci, gli piace sparire di tanto in tanto, ma alla fine trova sempre un motivo per tornare.”

E Chuuya ebbe la sensazione che tra quelle parole si celasse una menzogna, ma scacciò il pensiero afferrando la bottiglia sul basso tavolino che li separava. 

“Vino?” 

Kouyou scosse la testa e Chuuya procedette a farsi del bene.

Dopo il secondo calice, riuscì a convincersi che Dazai poteva anche essersi affogato per quel che gli interessava. 

 
-5 giorni dalla sconfitta della Mimic-


Era la terza notte che Hirotsu sedeva al bancone del Lupin nelle vesti di un cliente occasionale, occupato a bere il suo drink in un angolo e ad ascoltare le chiacchiere della sala. L’esperienza gli aveva insegnato che essere invisibili era un’ottima forma d’indagine, e quel locale dalle luci basse e l’aria impregnata di fumo aveva molto da raccontargli. Alcuni, i più ingenui, si chiedevano che fine avesse fatto quello strano ragazzino coperto di bende, che spesso avevano sorpreso a parlare con un gatto randagio del quartiere.

Hirotsu lo aveva davanti agli occhi quel ragazzino, e non poteva smettere di chiedersi dove si fosse cacciato dall’ultima volta che aveva voltato lo sguardo. Dazai gli era sfuggito molte volte e, anche se Mori non gli aveva mai dato un ordine preciso a riguardo, si sentiva responsabile per quell’adolescente tanto consumato dalla vita da desiderare la morte.

Era una routine quasi quotidiana: Dazai spariva - a volte, dopo aver litigato con Chuuya - Mori aspettava un tempo minimo prima di mandare qualcuno a cercarlo e il ragazzino tornava quasi sempre da solo, o trascinato da Chuuya stesso, o accompagnato da quell’Oda che Hirotsu aveva invitato più volte a entrare nella Black Lizard. 

Questa volta era diverso.

Nello stesso giorno in cui la Mimic era stata sconfitta, Oda era stato ritrovato morto sul luogo dello scontro finale e di Dazai si erano completamente perse le tracce. 

Da leader pragmatico, Mori si era occupato di far seppellire il suo uomo caduto in missione, ma non aveva mosso un dito per Dazai. “Tornerà,” aveva detto. “Torna sempre in un modo o nell’altro.”

Non era accaduto. Quando era divenuto chiaro che Mori avrebbe continuato a far finta di nulla, Hirotsu aveva fatto qualcosa d’inedito: aveva scavalcato il suo Boss.

Ecco perché sedeva da solo al Lupin, aspettando che il bartender tornasse con la sua ordinazione. Le sue indagini non lo avevano portato più lontano di lì. Quella notte, qualcuno si premurò che non andasse altrove.

“Buonasera, Hirotsu.” Mori Ougai comparve in fondo alle scale d’ingresso del Lupin come un demone ammantato di tenebra. Sorrideva, cordiale, ma Hirotsu era troppo maturo per illudersi che vi fosse qualcosa di amichevole in quell’espressione.

“Buonasera a lei, Boss…”

Mori si sedette al bancone senza troppe cerimonie. Elise non era al suo fianco e questo non faceva che confermare la natura minacciosa di quell’incontro.

“Serata malinconica, vero?” Domandò Mori.

“Boss?”

“Sei siamo entrambi qui e nessuno dei due è felici di vedere l’altro, abbiamo fatto lo stesso buco nell’acqua.”

“Non comprendo, Boss.”

“Oh, invece sì.” Mori si guardò intorno, incuriosito. “Veniva qui spesso, vero?”

Hirotsu rilassò le spalle, recuperando il pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. “Così dicono le mie fonti,” rispose, accendendone una.

Mori lo guardò. “E che altro dicono?”

“Non dove si trovi ora, Boss.”

“Quella che sento nella tua voce è sincera preoccupazione?”

Hirotsu buttò fuori una nuvola di fumo e trovò il coraggio di guardare quel demone vestito da uomo dritto negli occhi. “Ha diciotto anni…”
“E si muove tra le ombre come se ne fosse il Principe.”

“Non credo di essere insolente, se dico che io e lei siamo i soli a vedere il ragazzino dietro le ombre di cui parla.”

Il sorriso di Mori scomparse come la nuvola di fumo uscita dalle labbra dell’altro. “Non era affatto un ragazzino quando mi ha voltato le spalle e se ne è andato.”

Hirotsu fu preso in contropiede dal quelle parole, tanto che si dimenticò della sigaretta tra le sue dita, fino a che la cenere non cadde sul bancone. 

“Certo, non si può dire che i sentimenti che l’hanno spinto a farlo siano altrettanto maturi, ma hai ragione: hai diciotto anni… Dovresti spegnere quella sigaretta o ti brucerai.”

Hirotsu la schiacciò nel portacenere di fronte a sé. Gli occhi fissi sul viso del signore della Port Mafia. 

Mori annuì, soddisfatto. “Prima di cominciare questa conversazione, sappi che sei il primo a conoscere tutta la verità.”

“E la signorina-?”

“Lei lo saprà a tempo debito, ma Chuuya non dovrà mai scoprire nulla, tantomeno Akutagawa. Al momento opportuno, saprò io cosa dire a entrambi.”
Al leader della Black Lizard non piacquero quelle parole. “Gli avete fatto del male?”

“Sì,” rispose Mori con espressione impossibile da definire.

Hirotsu si concesse solo il tempo di un respiro, prima della sua domanda successiva: “lo ha ucciso?”

Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso abbastanza triste da conferirgli un aspetto umano. “No,” rispose. “Ma Dazai lo avrebbe di sicuro preferito.”

 
-7 giorni dalla sconfitta della Mimic-


“È davvero una sorpresa ritrovarmi qui a bere qualcosa con voi!” Esclamò Kaji con troppo entusiasmo. 

“Sapessi quanto lo è per me,” disse Chuuya, fissando un punto nel vuoto. Non era mai stata sua intenzione coinvolgere il maniaco dei limoni in una serata di bevute con Hirotsu e altri veterani. Era stato un semplice errore di cui incolpare l’assenza di Dazai e lo stramaledetto silenzio che si era lasciato dietro. Chuuya era tornato da appena una settimana e d’allora non aveva fatto altro che ringhiare verso ogni angolo buio, aspettandosi di vedere la faccia da cazzo di Dazai emergere dalle tenebre. Non era mai successo e lo stato d’ansia di Chuuya era andato via via peggiorando. Kouyou continuava a preoccuparsi per il suo umore instabile e Mori a far finta di niente. E lui, Chuuya, alla fine rimaneva da solo con un pugno di nulla e la spiacevole sensazione che tutti gli stessero nascondendo qualcosa. Aveva anche preso in considerazione l’idea di chiamare Dazai e, addirittura, cercarlo.

Per ovviare a quella follia, era sceso fino agli uffici più bui e polverosi della Port Mafia alla ricerca del quattrocchi Sakaguchi Ango. Chuuya aveva avuto il dispiacere di fare la sua conoscenza a sedici anni, per lavoro. Disgraziatamente, Dazai era divenuto un loro punto in comune, e Chuuya si era illuso di poter trovare da lui qualche risposta chiara. 

Alla fine, non aveva trovato un bel niente, nemmeno Ango, bensì Kaji che si appropriato del suo ufficio per farne un laboratorio. 

Ah, giusto, aveva anche scoperto che Ango il quattrocchi era un doppiogiochista di merda mandato sotto copertura dal Governo. In fondo, che ci si poteva aspettare dalle compagnie che frequentava Dazai?

Piuttosto… Mentre Kaji continuava a parlare di tutto e niente, Chuuya diede un’occhiata al locale, esaminando le facce dei colleghi presenti. Da quando era tornato, non aveva più incrociato quel tizio insopportabilmente alto intorno a cui Dazai orbitava da quasi tre anni. 

Sparito Ango, il traditore.

Sparito il tizio.

Sparito Dazai.

Cominciava a esserci un’allarmante fuga di personale alla Port Mafia.

“Chi cerchi, Chuuya?” Domandò Kaji.

“Un nostro collega che non incrocio da un po’.”

“E sarebbe”

“Conosco solo il suo soprannome. Il nome vero l’ho dimenticato. Parlo del tipo coi capelli rossi che Hirotsu ha cercato più volte di reclutare nella Black Lizard.”

“Ah, Oda!” Esclamò Kaji, poi divenne serio. “Non ti hanno informato?”
“Di cosa?”

“Oda Sakunosuke è morto,” intervenne la voce di un uomo maturo. 

Chuuya si voltò e incontrò lo sguardo stanco di Hirotsu un paio di sgabelli più in là. Era la prima volta che gli rivolgere la parola dal giorno del suo litigio con Dazai. Chuuya era persuaso a credere che ce l’avesse a morte con lui. Non lo biasimava. Non era un mistero che Dazai fosse sempre stato il suo preferito. 

“Morto?” Ripeté. “Come?”

“Non hai letto il rapporto del caso Mimic?” Domandò il leader della Black Lizard. 

Chuuya scosse la testa e si rese conto della grave superficialità che stava dimostrando.

“Dovresti,” concluse Hirotsu, poi si voltò verso l’ingresso del locale. “Sembra che qualcuno ti stia cercando.”

Chuuya seguì la linea del suo sguardo e ci mancò poco che facesse sprofondare l’intero locale nel terreno pur di evitare quel che stava per accadere. “Oh, no.” Si prese la testa tra le mani, dando le spalle all’ingresso. “Lui no.”

Kaji non fece nulla per appoggiare la sua causa. “Ehi, Akutag-”

“E sta un po’ zitto!” Chuuya lo afferrò, obbligandolo a tacere. Era troppo tardi.

“Chuuya…” Quella voce monocorde era forse più insopportabile di quella stridula di Dazai.

Il diciottenne contò fino a dieci, poi si voltò molto lentamente: Akutagawa Ryuunosuke era smorto, rinsecchito e vestito di merda. Beh… Almeno qualcosa era rimasto lo stesso dalla sua partenza per Kyoto.

“Devo parlarti,” disse il sedicenne, un po’ troppo imperativo per i gusti di Chuuya. Pazienza, non avrebbe perso mezzo secondo a tentare di mettere in riga il cane di Dazai. 

“Che cosa vuoi, moccioso?”

Akutagawa spostò lo sguardo su Kaji, che sentendosi di troppo scivolò lentamente verso Hirotsu. “Si tratta di Dazai,” disse il giovane dai capelli scuri. “

Chuuya combatté con l’istinto di sollevare uno degli sgabelli e spaccarglielo in testa. “Ovviamente…”

“Non so dove si trovi.” L’umiltà con cui Akutagawa lo ammise aumentò il desiderio dell’altro di prenderlo a pedate. 

“Nemmeno io!” Esclamò Chuuya. “E va benissimo così. Approfitta di questa grazia, perché io ho tutte le intenzione di farlo!”

Akutagawa evidentemente no. “Ha lasciato la Port Mafia.”

Chuuya scoppiò a ridere. “Ma che stronzate ti passano per testa?”

Ma il sedicenne era terribilmente serio. “C’è troppo silenzio,” disse. “A Dazai non piace il silenzio.”

Chuuya lo odiò perché aveva terribilmente ragione. “Se fossi in te, spererei di essermi liberato di lui una volta per tutte.” E odiò se stesso perché non lo pensava realmente. 

“Dazai se n’è andato,” insistette Akutagawa. “O ha tradito la Port Mafia, o è morto.”

Chuuya batté il pugno sul bancone con tanta forza che tutte le voci nel locale si spensero. “Potrebbe essere!” Tuonò. “Potrebbe essersi buttato a mare. Oppure si è impiccato in un tunnel abbandonato della metro e ora è cibo per topi e larve. So solo che a me non frega un cazzo, come a lui non frega un cazzo di te, di me o di chiunque altro!” 

Alla fine, si ritrovò senza fiato, rosso in volto e con gli sguardi di tutti puntati addosso. Vide la rabbia accendersi negli occhi grigi di Akutagawa, insieme alla voglia di fargli male, molto male. 

“Calmi ragazzi.” Hirotsu intervenne, afferrando la spalla di Chuuya e quella di Akutagawa. “Abbiamo appena vinto una guerra, non c’è ragione di farne scoppiare un’altra.”

Sì, ma a che prezzo avevano ottenuto quella vittoria? 

Chuuya arrivò alla conclusione che doveva assolutamente leggere il rapporto del caso Mimic.


Se qualcuno avesse chiesto a Mori Ougai qual era la cosa più preziosa che aveva ottenuto divenendo il Boss della Port Mafia, lo avrebbe invitato cordialmente nel suo ufficio per mostrargli la vista da lassù. Yokohama era splendida da quelle vetrate e Mori adorava osservarla dall’alto. Lo aveva fatto anche quella sera, quando Dazai lo aveva cercato chiedendo aiuto per quell’amico corso incontro alla morte. 

Mori non glielo aveva negato. E perché avrebbe dovuto? Quello che doveva succedere era successo comunque. Dazai se ne era ricordato solo un istante troppo tardi.

“Cominci a passare un po’ troppe notti in questo ufficio.” 

Mori allontanò lo sguardo dal panorama per portarlo alla porta: Kouyou era entrata senza permesso e senza far rumore, come l’assassina fuori classe che era. 

Mori non se la prese. Non poteva permettersi amici nella sua posizione - e la vita gli aveva spesso ricordato quanto fossero pericolosi quei legami - ma Kouyou era riuscita a conquistarsi un ruolo al suo fianco che ci andava piuttosto vicino.

“Anche tu torni tardi dal lavoro, vedo,” disse. 

Kouyou nascose il ventaglio sporco di sangue tra le pieghe del kimono. “Il mio mio datore di lavoro mi assegna turni discutibili,” replicò, ma non si stava realmente lamentando.

Renderla un Esecutivo della Port Mafia era stata una delle prima azioni di Mori in veste di Boss. Lei non gli aveva mai dato motivo di pentirsene.

Indicò una delle poltrone di fronte alla sua scrivania, invitandola tacitamente a sedersi. Kouyou si avvicinò dando l’impressione che non avesse peso, quasi fosse sospesa a un palmo da terra. Con una simile eleganza, nessuno avrebbe sospettato del torbido passato che celava, né dell’oscuro mondo da cui proveniva. Troppa grazia e bellezza per essere una portatrice di morte.

Mori la stimava e non si era mai disturbato a nasconderlo. Mentre si sedeva, Kouyou si guardò intorno. “Mi sorprende trovarti da solo,” ammise, e aggiunse: “ora che ci penso, è da qualche giorno che la piccola Elise non si vede.”

Mori scrollò le spalle. “I bambini si annoiano in compagnia degli adulti impegnati a lavorare.”

Lei sorrise, tagliente come un pugnale. “E di recente ti sei trovato con un sacco di lavoro da gestire da solo, vero?”

A cosa alludesse era evidente, e Mori accettò che quella conversazione non si poteva rimandare ulteriormente. “Chuuya sta bene?”

Fu in quel momento, dopo che il boss ebbe nominato il suo pupillo, che Kouyou smise di essere cordiale. “Dipende,” rispose, non sorrideva più. “Ha motivo per stare male?”

“Sei qui per conto suo?”

“Sono qui per lui, ma Chuuya non mi manderebbe mai avanti in sua vece. Lo conosci.”

Mori si rilassò contro lo schienale della poltrona, rivolgendo un sorriso amaro al panorama notturno. Sì, Yokohama era davvero bella vista da lassù.

“Persino Hirotsu ha dubitato di me,” raccontò il Boss della Port Mafia. “Il buon vecchio, leale Hirotsu. L’uomo che mi è stato tanto grato per aver fatto mio questo posto.” Strofinò i palmi contro i braccioli della poltrona. “Tutto per lui.”

“Non è un crimine avere dei favoriti, Mori,” disse Kouyou. “Forse non lo sai, ma è un fenomeno comune affezionarsi ai bambini che si vedono crescere sotto i propri occhi.”

Mori inarcò le sopracciglia. “Bambini?”

“Lo è,” insistette Kouyou. “O lo era?”

“Anche tu sospetti che lo abbia ucciso?”

“Lo hai fatto?”

“Credevo mi conoscessi.”

“Lo credevo anche io, Boss.”

Mori reclinò la testa da un lato. “Sei arrabbiata con me?”

Kouyou perse parte della sua compostezza, ma questo non la rese meno minacciosa agli occhi del suo superiore. “Che cosa hai fatto, Mori?”

“Non credevo che gli volessi così bene.”

“Voglio bene a Chuuya. Non è mai stato un mistero.”

“Non gli farò recuperare il cadavere del suo partner, tranquilla.”

“Lo hai ucciso, dunque?”

“No.” Mori era un assassino. Non aveva alcun problema ad ammetterlo e non avrebbe mai finto che le sue mani non fossero sporche di sangue innocente. Ma non quello di Dazai. Mai di Dazai.

“Che senso avrebbe avuto ucciderlo?” Anche Mori aveva smesso di stendere le labbra in sorrisi forzati. 

Kouyou sospirò. “Tu non vuoi davvero che ti risponda.”

“Se credi che abbia mai temuto che un bambino potesse eliminar-”

“Oh, ora è un bambino,” lo interruppe lei. “Un bambino che ha regalato alla Port Mafia vittorie di cui non ha potuto vantarsi per anni.”

Mori sapeva dove voleva arrivare e non glielo avrebbe impedito, ma si concesse il privilegio di alzarsi per guardarla dall’alto in basso. Non la intimorì, ma non ci aveva sperato.

“Che cosa è Chuuya per te, Kouyou?” Le domandò.

Dal modo in cui la chiamò per nome, la donna si rese conto che quella conversazione aveva virato sul personale anche per il Boss della Port Mafia. 

“Ti ho già detto che gli voglio bene,” ripeté.

“Come un allievo?” Mori si allontanò dalla scrivania. “Un fratello minore o un amico?” Si fermò di fronte alla vetrata. La prima volta che si era affacciato da lì, lo aveva fatto all’alba e aveva guardato le luci della città spegnersi una a una. Al suo fianco, silenzioso quanto lui, Dazai aveva assistito allo stesso spettacolo con la mano sana premuta contro il vetro. In quel momento, a distanza di più di quattro anni, Mori se lo ricordò terribilmente piccolo.

“Non l’avevo mai guardata da così in alto.” Quell’innocenza inaspettata lo aveva colpito come una pugnalata alla schiena. 

“Neanche io,” aveva risposto con un sorriso. Al tempo, Mori aveva anche sperato che Dazai lo liberasse dalla sua presenza in autonomia. Buttandosi da un ponte forse - lo aveva fatto e Hirotsu glielo aveva riportato bagnato come un pulcino. Oppure impiccandosi - aveva provato ad appendersi a un lampadario della clinica. Era venuto giù lui, il lampadario e anche parte del soffitto. Solo una volta Dazai era quasi riuscito a morire sotto ai suoi occhi e nel momento in cui Mori aveva scelto di salvarlo, si era preso una responsabilità che mai si sarebbe augurato. 

“Come un figlio?” Aggiunse Kouyou.

Mori la guardò da sopra la spalla.

“Tutti gli orfani hanno bisogno di una famiglia, di quel senso di appartenenza che è stato negato loro troppo presto. Credo che Chuuya lo cerchi da me, dalla Port Mafia e anche da Dazai.”
Mori sorrise amaramente. “Dazai può essere un orfano, ma ha sempre guardato la vita con troppo disincanto per cercare negli altri quello di cui stai parlando.”

Se di disincanto si poteva parlare con un quattordicenne che progettava la propria morte da quando si alzava a quando andava a dormire. 

“Non hai idea delle volte che l’ho drogato perché si addormentasse,” confessò Mori, gli occhi fissi sull’orizzonte scuro. “O meglio, c’è stato un periodo, proprio all’inizio, in cui non apriva mai bocca. Se ne stava ore a leggere e poi mi fissava da un angolo buio, manco fosse un demone uscito fuori dall’inferno. Era a dir poco inquietante.”

“Disse il raggio di sole,” lo prese in giro Kouyou.

“Parlavo io la maggior parte del tempo. Un giorno devo aver detto qualcosa che lo interessasse… Allora abbiamo cominciato a parlare e a parlare.” Mori sorrise al ricordo. “Abbiamo continuato a parlare per un sacco di tempo.” Premette le labbra fino a farle divenire una linea sottile, prendendosi una pausa. “Parlava della vita, del fatto che per lui non avesse valore. Parlava di Chuuya e Akutagawa, di quanto non sopportasse il primo e fosse deluso dal secondo. Poi un giorno è venuto da me e mi ha detto che la compagnia di Oda Sakunosuke era un balsamo per l’anima per lui.”
Kouyou inarcò le sopracciglia. “Oda Sakunosuke…” Ripeté. “Il nostro uomo caduto contro il leader della Mimic.”

Lei non aggiunse altro e quando Mori si voltò, capì dalla sua espressione che aveva trovato la risposta che aveva trovato la risposta al quesito che l’aveva portata da lui. Tuttavia, forse per incredulità, glielo chiese un’ultima volta. “Che cosa hai fatto, Mori?”

Il Boss della Port Mafia strinse i pugni e le diede l’unica risposta possibile: “quello che andava fatto.”

 
-16 Giorni dalla sconfitta della Mimic-



Il cielo era terso, l’aria era tiepida e la voce dei gabbiani donava al tutto un che si poetico, che Chuuya distrusse non appena aprì bocca: “vuoi muovere quel culo secco o devo prenderti a calci fino a che non arriviamo?” 

Akutagawa non voleva essere lì e lo dimostrava con ogni passo che faceva. Ci mancava solo che si mettesse a trascinare i piedi per sottolineare ulteriormente il suo malessere. 

“Perché siamo venuti con del vino in un posto come questo?” Domandò, guardando in cagnesco la bottiglia stretta nella mancina del diciottenne.

Chuuya la nascose sotto il braccio, come se fosse un tesoro prezioso. “Questa è in caso di emergenza.”

“Siamo in un cimitero, Chu-”

“Oh, adesso, improvvisamente rispettiamo i morti!”

In realtà, Chuuya lo aveva sempre fatto e Akutagawa si era sempre mostrato educato durante le cerimonie funebri dei compagni caduti - cosa che non poteva avergli insegnato Dazai. Tuttavia, quelli erano giorni all’insegna del nervosismo per entrambi. 

“Che cosa stiamo cercando?” Domandò Akutagawa, infilando le mani nelle tasche del cappotto. 

Ci mancò poco che Chuuya riducesse a pezzi il suo cappello per la frustrazione. “Siamo in un cimitero! Che cazzo vuoi mai cercare in un cimitero?”

Il sedicenne sgranò gli occhi. “Dazai è-?”

“No.”

“Allora che ci faccio io-?”

Chuuya lo prese per quella sua cravatta discutibile e lo trascinò tra le lapidi, sordo a qualsiasi obiezione. Impiegò mezz’ora per individuare la tomba che stava cercando e la trovò sotto un albero, lontana da tutte le altre. 

Non appena lesse il nome che vi era scolpito, Akutagawa fu svelto a voltarsi per andarsene. 

“Fermo lì!” Chuuya lo afferrò per il braccio. “Adesso io e te staremo qui fino a che non avremo chiarito due o tre cose.”

Akutagawa lo guardò in cagnesco ma non sollevò ulteriori obiezioni. Si ostinò a non guardare le quattro lettere scolpite sulla lapide.

Chuuya, al contrario, lo fece con attenzione: S. Oda.

“Oda Sakunosuke,” disse con tono grave. “Sepolto con tutti gli onori che la Port Mafia concede ai suoi uomini migliori.” Poggiò con cura la bottiglia di vino per terra, accanto ai suoi piedi.

“Cioè una lapide spoglia con un nome puntato?” Domandò Akutagawa, non privo di sarcasmo.

Chuuya scrollò le spalle. “Ho cercato un po’ di lui nell’archivio. Era praticamente un tutto fare, nulla di più. Non faceva nulla per passare di grado e si rifiutava di uccidere per lavoro. Non ho trovato nulla sul suo passato.”

“Idiota…” Sibilò Akutagawa tra i denti. 

“Eppure, un giorno si è alzato e, armato di due pistole, ha massacrato da solo un’organizzazione composta da veterani di guerra.” Chuuya fece una smorfia. “Bella merda, eh?”

Akutagawa guardò la lapide con la coda dell’occhio. “Hai letto il rapporto?”

“Sì, c’è scritto tutto, anche che Dazai lo aveva mandato al museo d’arte a salvare il tuo culetto secco.”

Il sedicenne digrignò i denti. “Quell’uomo non mi ha-” S’interruppe da solo, sapendo di non poter negare l’evidenza. “Mi hai portato qui per parlare di quel giorno?” 

Chuuya alzò gli occhi al cielo. “Ti sorprenderò: non tutti vivono per umiliarti,” disse. “No, voglio sapere perché lo stronzo ha mandato proprio lui a recuperarti.”

Akutagawa scrollò le spalle. “Non parlava di altro.”

“Chi?”
“Dazai. Lo chiamava Odasaku e lo infilava in qualsiasi discorso. Lo definiva il più forte della Port Mafia.” 

“In un certo senso…” Commentò Chuuya, ricordando il numero dei cadaveri riportato nel rapporto. “Nessuno ha sospettato dell’assenza di Dazai come te. Sei andato a chiedere di lui al Boss già dal giorno dopo la sconfitta della Mimic. Perché?”

Akutagawa indicò la lapide con un cenno del capo. “L’obitorio è vicino alle camere di tortura.”

Chuuya inarcò un sopracciglio. “Eri preoccupato per Dazai?”
“Sapevo che quest’uomo non poteva morire e Dazai rimanere in silenzio.”

“Silenzio…” Ripeté Chuuya. “È la prima cosa che ha colpito anche me quando sono tornato a casa.”

Akutagawa si umettò le labbra. “Tu lo conoscevi, no? Oda, intendo.”

“Non proprio,” rispose Chuuya. “L’ho visto la prima volta durante il conflitto della Testa di Drago. Poi abbiamo lavorato insieme per un casino combinato da Dazai… Tu ancora non c’eri.”

“Hai detto che dovevo chiarire qualcosa…”

“Lo hai già fatto,” ammise Chuuya, mentre l’aria profumata di mare gli scostava i capelli del viso. “Quando hai detto che Dazai non poteva rimanere in silenzio dopo la morte di Oda.” Raccolse la bottiglia di vino da terra e l’aprì.

“Che stai facendo?” Domandò Akutagawa.

“Onoro un compagno caduto,” rispose Chuuya, versando il liquido scuro sulla lapide spoglia.



Oda Sakunosuke viveva in quello che sarebbe potuto essere un attico, se si fosse trovato in un palazzo più alto e fosse stato arredato a dovere. Non era grande, non era piccolo e dal balcone s’intravvedeva il mare… Tra due grattacieli ben più alti e lussuosi di quello.

Il quartier generale della Port Mafia era a circa mezz’ora a piedi, dieci minuti con i mezzi o con l’auto. A Mori bastò guardarsi intorno per capire che Oda era un tipo a cui piacere risparmiare.

“Eppure, sono convinto di pagarli più di così,” disse, tamburellando le dita su di una penisola su cui non avrebbero potuto mangiare più di due persone. “Non ha comprato nemmeno il tavolo della cucina.”

Hirotsu uscì dal bagno, seconda e ultima stanza della casa. “Qui non c’è nulla da cercare, Boss.”

Mori storse la bocca in una smorfia. “Neanche Dazai potrebbe sparire in questi cinquanta metri quadri…Scarsi,” commentò con disprezzo. “A meno che non si sia nascosto nella credenza.” Aprì lo sportello del mobile in questione, tanto per essere sicuro. “In compenso è in ordine.”

Attraversò la zona cucina e si sedette sul divano. “Dormiva qui?” Si domandò, indicando il divano grigio scuro. “Non lo pagavo abbastanza neanche per comprarsi un letto?”

“Si tratta di un divano-letto, Boss,” lo informò Hirotsu. “Direi a due piazze.”

Quel due piazze a Mori piacque meno del televisore di quaranta e qualcosa pollici. “Hirotsu, credi che Dazai passasse qui molto tempo?”
“Difficile dirlo, signore,” rispose il leader della Black Lizard, studiando i titoli disposti sulla libreria che occupata la parete tra la tv e la porta d’ingresso. Le altre - esclusa quella della cucina - erano vetrate. Di giorno, quel piccolo appartamento doveva essere inondato dai raggi di sole. 

“Difficile immaginare Dazai in mezzo a tanta luce, vero?” Mori sembrò avergli letto nel pensiero con quelle parole. Hirotsu allontanò lo sguardo dalla libreria per portarlo sul viso del suo superiore.

Mori non lo guardava, gli occhi rivolti alla porzione di Yokohama visibile da quelle finestre. “Quando gli ho chiesto di spiegarmi la ragione per cui voleva andare da Oda, Dazai mi ha risposto: perché è mio amico,” raccontò. “Ma il modo in cui lo ha detto… Lo sguardo che aveva…” Poggiò la nuca allo schienale del divano. “Conosco bene quell’espressione, ma non avrei mai pensato di vederla sul suo viso.”

“Posso farle una domanda, Boss?”
“Uhm-Uhm…”

“Se lo avesse saputo prima, avrebbe agito allo stesso modo?” 

Mori allontanò lo sguardo dal panorama per rispondere a quello del suo sottoposto. Gli sorrise e tanto bastò a Hirotsu per capire che non avrebbe mai avuto una risposta, ma non perché il leader della Port Mafia non la conoscesse. 

“Leggeva un sacco, eh?” Cambiò discorso Mori, indicando la libreria con un cenno del capo. “Prima di mandarlo alla ricerca di Ango, sono andato a cercare il suo fascicolo in archivio. Non c’erano molte informazioni. La sua era la scheda tipica di un orfano cresciuto per strada.”
“So che si è guadagnato da vivere come assassino su commissione fin da giovanissimo,” aggiunse Hirotsu. “Per questo era un guerriero abile, nonostante si rifiutasse di uccidere.”

Mori si alzò dal divano per avvicinarsi al suo sottoposto. Passò gli occhi sui titoli disposti ordinatamente sui ripiani della libreria. “Letture impegnative…” Se ne sorprese. Oda non aveva certo ricevuto un’educazione accademica, e molti ragazzi col suo passato a stento sapevano scrivere il proprio nome. “Non aveva proprio la faccia adatta per avere gusti del genere.”

“A una prima occhiata, sembrano divisi per genere,” disse Hirotsu. “E vi sono parecchi generi.”

Mori annuì, distrattamente. “Stava imparando da solo.”
“Che cosa?”

“Non lo so.” Gli occhi del Boss della Port Mafia caddero su un volumetto più piccolo degli atri posto all’inizio del ripiano di mezzo. Non presentava alcun titolo sul dorso e fu quel dettaglio a spingere Mori a sfilarlo per dargli un’occhiata. Era un quaderno dalla copertina rigida. Al suo interno, trovò quelli che sembravano appunti per una storia, alternati a bozze di scene, descrizioni, dialoghi. Oda Sakunosuke era un uomo pieno di sorprese: non solo leggeva libri di ogni genere, ma sembrava possedere uno spiccato interesse per la scrittura.

Ricapitolando: Oda Sakunosuke, detto Odasaku, aveva lavorato come tutto fare nella Port Mafia per qualche anno; nonostante avesse l’esperienza di un sicario professionista, non aveva mai tentato di far carriera all’interno della malavita ma, al contrario, si era rifiutato di uccidere fino a che non era corso incontro a un’ultima impresa suicida. Il suo tempo libero, invece, lo aveva dedicato ai libri: a leggerli e anche a scriverli.

In conclusione: l’intera esistenza di Oda Sakunosuke non aveva alcun senso, e proprio per questo Dazai si era legato tanto a lui. 

Mori chiuse il quaderno di colpo e il rumore che provocò fu terribilmente simile allo scoppio di un colpo di pistola. “Se dovessi giudicarlo dalle parole che scrive, direi che era un uomo con una sensibilità insospettabile.”

Hirotsu inarcò le sopracciglia. “Insospettabile?”
Con quella faccia che si ritrovava, pensò Mori. “Con la vita che ha vissuto,” disse, invece. Ripose il quaderno nella tasca interna del suo cappotto. “Sono sollevato.”

Hirotsu non comprese nemmeno quell’affermazione. “Posso saperne il motivo, Boss?”

Mori scrollò le spalle. “L’aspetto era un po’ trasandato ma, bene o male, era uno spettacolo gradevole per gli occhi.” 

“Temo di non capire, Boss.”

“Parlo di Oda. Ammetto che fosse esteticamente piacevole, forse bello per i gusti di qualcuno… Il problema è che non sospettavo che Dazai quei gusti li avesse.”

“Se prendiamo per vere le parole di Dazai, lui e Oda erano amici.”
Il Boss della Port Mafia storse la bocca in una smorfia. “Se prendiamo per vere le parole di Dazai, Oda era un balsamo per l’anima.” Sbuffò e si girò a guardare il piccolo appartamento: da quella nuova prospettiva, il frammento di mare tra i due grattacieli era ben visibile. “A quattordici anni non era interessato alla vita, figurarsi alla vicinanza con un’altra persona. Tra i diciassette e i diciotto ha cominciato a parlare di ragazze che, ne sono certo, non sono mai esistite. Chuuya però cadeva così bene in quegli scherzi. Da parte mia, dopo il caso De Sade…” Guardò il suo sottoposto. “Sai cosa intendo, vero?”

Se anche Hirotsu avesse vissuto per altri cinquant’anni, sarebbe stato impossibile per lui dimenticare il caso De Sade. Il commercio umano era uno dei livelli più bassi e oscuri della malavita, ma quella volta era stato diverso: c’era mancato poco che Dazai divenisse il prodotto di punta di quel genere di mercato. 

Hirotsu ricordava il Mori di quei giorni drammatici, di come il soldato aveva preso il posto del Boss della Port Mafia. Erano arrivati in tempo per riportare Dazai a casa, ma non ne era uscito del tutto incolume.

“Forse non lo ricorda,” intervenne Hirotsu, “ma Oda Sakunosuke era lì quando abbiamo recuperato Dazai.”

Mori girò il viso di scatto, sorpreso. “Non lo ricordo,” ammise, cercando di rammentare la notte in cui aveva trovato Dazai più nudo che vestito, lo aveva avvolto nel suo cappotto e lo aveva portato via di peso, risparmiandogli un’ulteriore umiliazione. “C’eri tu… C’era Chuuya…”

“Sì, Oda era insieme a Chuuya.”

“Non l’ho notato.”
Hirotsu non ne era sorpreso: con Dazai drogato quasi a morte tra le braccia, il Boss della Port Mafia non aveva perso tempo a guardarsi attorno. Si era voltato solo per inchiodare al suolo il colpevole di tutto - un europeo conosciuto col titolo Marchese De Sade - con un colpo di pistola in testa. 

“Oda Sakunosuke lo ha cercato seppur nessuno glielo avesse ordinato,” aggiunse Hirotsu. “Dazai è stato sincero: erano amici.”

“Sì, amici…” Mori sbuffò. “Oda Sakunosuke era l’amico per cui Dazai ha mandato al diavolo tutto. Ogni cosa. Sono certo che non abbia un piano B. Dazai non ha mai avuto bisogno di un piano B. Io ho condannato il suo amico a morte e lui se n’è andato. Ad averlo un amico così…”

Non c’era altro che quel posto potesse raccontare loro, e Hirotsu decise di sviare il discorso sul lato pratico della questione: “che devo fare di questo appartamento, Boss?”

“Brucialo…”

“Boss?”

“Scherzavo. Rendilo uno dei nostri rifugi. Di sicuro, nessuno penserebbe che un uomo della Port Mafia possa vivere qui.”



Ufficialmente, Mori aveva smesso di leggere i giornali più o meno quando era divenuto il medico personale del suo predecessore. Lo irritava quello spreco di carta per riportare alla gente comune notizie pilotate.

Tuttavia, nella realtà dei fatti, quello era il miglior modo che aveva per ottenere velocemente il conto dei corpi senza identità che venivano ritrovati in città. Già aveva mosso alcuni uomini per tenere sotto controllo gli obitori degli ospedali, ma era facile non notare la salma di un giovane recuperato in condizioni pietose nei bassi fondi. La morte poteva essere democratica, ma di certo non lo era il rispetto della gente per quelle vite spezzate. Mori aveva combattuto la guerra, aveva visto soldati semplici venir buttati in fosse comuni per praticità, mentre interi squadroni venivano richiamati dal fronte solo per scortare un generale morto, deposto con cura in una bara.

“Se è andata come mi hai raccontato, deve aver lasciato questo con tale disprezzo per te che solo il pensiero che tu ti occupassi del suo cadavere lo disgustava.”

Mori abbassò il giornale: Kouyou era di fronte a lui, ma non l’aveva neanche sentita entrare. Le sorrise. “Siamo tornati a parlarci, ne sono lieto.”

Kouyou lo guardava come se fosse uno scarafaggio da schiacciare. Si accomodò di fronte alla sua scrivania senza che l’avesse invitata. “Se ha fatto quel che temi, non lo troverai.” 

Il sollievo che Mori aveva provato nel vederla, scivolò via velocemente. “Pensi davvero che lo abbia fatto?”

La giovane donna scosse la testa. “Se lo farà, sarà dopo aver ucciso te.”

Il Boss alzò gli occhi al cielo. “Sì, sì, la storia di Dazai che mi uccide è roba vecchia.”

“Beato te che la prendi con filosofia.”

“No.” Mori lasciò cadere il giornale sulla scrivania. “La prendo molto seriamente.”

Kouyou lo studiò con sguardo penetrante, ma fu come fissare un estraneo. “Ma chi sei tu?”

Mori inarcò le sopracciglia. “Prego?”

“Sto riflettendo da giorni,” ammise la giovane donna, aggiustandosi il kimono sulle gambe. “Hai ottenuto la complicità del Governo al prezzo di Dazai.”

“Se la metti in questi termini…”

“Perchè?” Kouyou proprio non riusciva a darsi pace. “Tutti dicevano che Dazai ti avrebbe succeduto quando gli avrebbe fatto più comodo. Entrambi sappiamo che non gli interessava. Strappandogli il cuore dal petto, hai creato l’unico nemico in grado di distruggerci tutti.”

“Dazai può odiare me, ma non ha nulla contro di te, di Hirotsu… Nemmeno di Chuuya, se vogliamo essere onesti.”

Kouyou assottigliò gli occhi. “Sa essere crudele come te, Mori. Ci farà pagare il prezzo che riterrà più giusto.”

Per quanto la stimasse, il Boss della Port Mafia cominciava a essere stufo di quel genere di discorsi. Oda Sakunosuke era morto e non si poteva tornare indietro. Qualunque errore di calcolo Mori avesse commesso, ormai era troppo tardi. Il fine giustificava i mezzi, certo, ma Dazai era sempre stato bravo a rendergli le cose difficili quando decideva di fare i capricci.

“Gli passerà,” disse, come la sua unica colpa fosse quella di aver buttato via un giocattolo vecchio, inutile, ma molto caro a un bambino. “Devo solo capire dove si è andato a cacciare.”

Kouyou sgranò gli occhi. “No, non so più chi sei.”

“Ti piace essere romantica, oggi,” disse Mori, sarcastico, cominciando a impilare tutti i quotidiani sulla sua scrivania con cura. 

“Davvero non credevo che fossi tanto stupido!” Kouyou non si era mai permessa ad alzare la voce con lui. Mori fu costretto a smettere di fare quello che stava facendo.

“Che ho fatto?” Domandò, come se fosse un ragazzino consapevole della sua colpevolezza ma per nulla intenzionato ad ammetterla.

“Mori, tu hai una vaga idea di quello che gli hai fatto?” 

Sì, ce l’aveva, ma la realtà dei fatti lo aveva investito dopo, quando Dazai gli aveva voltato le spalle per correre da Oda.

“Sai, Kouyou, anche io vedevo il mio erede quando guardavo Dazai. Certo, non è una sorpresa. Quello che nessuno sa è che a me piaceva che quel ragazzino mi assomigliasse.”

Quel senso di appartenenza di cui Kouyou aveva parlato riferendosi a Chuuya, Mori lo aveva sfiorato con Dazai. Questo lo aveva aveva fatto sentire meno solo in un mondo in cui solo Elise era sempre rimasta al suo fianco - e solo perché non aveva la facoltà di prendere una decisione differente.

“Ho assistito impotente mentre scivolava via dalle mie dita,” ammise con amarezza, guardandosi i palmi vuoti, segnati da una vita in guerra contro la morte - o come suo alleato. “Io so che dovevo fare quello che ho fatto e non me ne pento. E so che Dazai mi ha capito… Ciò nonostante, mi ha rifiutato e tutto per un uomo che ho sottovalutato dal primo giorno.”

Mori guardò la sua interlocutrice negli occhi. “Tu di non sapere chi sono… Beh, io so che Dazai è migliore di me, tanto d’avere un cuore da spezzargli. E io non me ne sono mai accorto…”

Per la prima volta da quando era entrata in quella stanza, Kouyou mise da parte l’ostilità in favore di un sentimento di pena che le fece abbassare lo sguardo. “Quanto è difficile imporsi un ruolo al punto di far passare la propria interpretazione per realtà?” Gli domandò con voce gentile, quasi dispiaciuta.

Mori accettò la sua pietà di buon grado. Sorrise con amarezza e non rispose.

Kouyou sospirò. “Hanno inventato internet nello stesso periodo, sai?” Indicò i quotidiani sparsi sulla scrivania.

L’aria si era fatta molto più rilassata.

“E rischiare che Chuuya veda la mia cronologia attraverso il wi-fi? Troppo pericoloso.” 

La porta dell’ufficio si aprì senza che nessuno avesse chiesto il permesso.

“E qui nessuno si ricorda più come bussare,” commentò Mori, ma mise da parte il sarcasmo non appena incrociò lo sguardo del nuovo arrivato.

Hirotsu aveva l’aspetto di qualcuno giunto fino a lì dopo aver risalito tutto il grattacielo usando le scale. 

“Boss…” Disse col fiato corto. “Lo abbiamo trovato.”


Chuuya guidò fino al parcheggio sotterraneo della Mori Corporation senza dire una parola. Akutagawa fece lo stesso, gli occhi vuoti fissi fuori dal finestrino, ma fu lui a parlare per primo quando il motore si spense. 

“La prossima mossa?” Chiese, serio come se stessero discutendo della pianificazione di una missione importante.

“Per cosa?” Chuuya si slacciò la cintura.

“Per trovare Dazai,” chiarì il sedicenne, come se fosse una cosa ovvia. 

Chuuya avrebbe dovuto aspettarselo da parte sua. “Nessuna.”

“Cosa?”

“Oh, cazzo, Akutagawa, mi hai sentito benissimo!”

Ed ecco che quel ragazzino taciturno tornava ad assomigliare a un cane rabbioso. “Stai pensando di lasciar perde-!”

“Stammi un po’ a sentire: mi dispiace che tu abbia trovato in Dazai l’anima gemella, ma io vivo benissimo anche senza. Se devo rovinarmi il fegato, preferisco farlo con del buon vino!” Chuuya stava per scendere dall’auto e mettere un punto a quella conversazione.

“Non puoi usare corruzione senza di lui!” Ma Akutagawa aveva scelto proprio quell’occasione per divenire uno stronzetto ragionevole.

Chuuya allontanò la mano dalla maniglia della portiera e prese un respiro profondo. “Akutagawa, io ho sempre avuto di te questa immagine del cagnolino addestrato male da Dazai, bravo solo a ringhiare e sbranare ma senza grandi facoltà intellettuali… E, no, quella volta che ti sei piantato in mezzo al museo d’arte, deciso a studiarti le didascalie di ogni cazzo di quadro, non mi ha fatto cambiare idea.”

Akutagawa aprì la bocca per obiettare, ma Chuuya non gli diede il tempo: “quindi tu ora rimani un cagnolino rabbioso e un po’ scemo, capito? Non approfitti di questa situazione del cazzo per cominciare a riflettere come si deve!”

“La Port Mafia ha bisogno di-“

“No! No! No! Nessuno qui ha bisogno di Dazai. Nè io nè te… Anche se questa parte faccio fatica a crederla. Senti, vuoi uscire qualche sera con me e quell’idiota di Kaji? Lui parla di continuo e tu neanche un po’, potresti dargli il buon esempio!”

Ma il sedicenne non lo ascoltava. “Perché siamo andati in quel cimitero, allora? Perché disturbarti per qualcosa di cui non t’importa nulla?”

Dovevo giustificare la sua assenza, pensò Chuuya. E ora che ho capito, un po’ me ne pento.

“Scendi da questa cazzo di macchina,” sibilò. “A differenza tua, la mia esistenza non dipende da quello stronzo!”

“Se a te va bene essere buttato, non significa che questo valga anche per me!” Akutagawa scese, sbattendo la portiera.

Chuuya rimase a fissare il posto vuoto accanto a sé per una manciata di secondi, poi scese dalla vettura a sua volta. Era sul piede di guerra. 

“Vieni qui!” Sbraitò, e la sua voce rabbiosa riecheggiò contro le pareti del parcheggio vuoto. “Fatti spaccare la faccia, moccioso!”

Akutagawa nemmeno si voltò.

“Se ti senti come un cazzo di scarto di Dazai, non venire a buttare merda su di me. A differenza tua, non mi serve Dazai per sentirmi forte. Corruzione o non Corruzione. E guardami in faccia quando ti parl-“

L’auto alle sua spalle esplose e lo zittì.


Santoka Taneda era un uomo rispettabile e integerrimo.

Tanto rispettabile e integerrimo che quella era già la seconda volta in un mese che sedeva al tavolo dell’uomo più pericoloso del paese. 

“Questo suo invito è giunto inaspettato.”

“Ma prego, diamoci del tu. Siamo ormai soci in affari, dico bene?” Mori Ougai sorrise, perfido. “Qualche incontro diplomatico, seppur in amicizia, è di prassi nella nostra posizione.”

Taneda ricambiò l’espressione con poca difficoltà. “Dunque, a cosa devo questo caffè diplomatico tra amici?” 

Soci, non amici,” lo corresse Mori. “Di recente, la parola amico è divenuta tra le mie sfavorite del vocabolario.”

Un colpo di tosse simulato obbligò il Boss della Port Mafia a porre attenzione alla donna seduta alla sua destra. Kouyou gli sorrise cortese, intimandogli in silenzio di smetterla di fare l’idiota. L’incontro in barca dell’ultima volta era stato divertente, certo. Questa volta, però, Mori Ougai aveva fatto le cose come più gli piacevano. Il suo invito era arrivato all’ospite nella forma di una guardia del corpo corrotta. Una dose di gas narcotico e mezz’ora di viaggio in auto dopo, Taneda si era risvegliato legato in una sala da pranzo con un lungo tavolo. I due candelabri su di esso conferivano al tutto un’atmosfera vittoriana dalla sfumature inquietanti. 

Non ci voleva un genio per capire che Taneda non era stato convocato nelle vesti di un socio in affari. “Posso consigliare di non prolungare troppo questo caffè amichevole. Sakaguchi Ango è ancora sotto il mio comando e, come ben sai, è un esperto di complotti.”

Muri sbuffò. “Complotti, che parolona! Hirotsu, versa al nostro ospite del caffè.”

“Certo, Boss.”

Il leader della Black Lizard emerse dall’oscurità per far scivolare una tazza di porcellana bianca sotto gli occhi del Direttore. Mori si stava prendendo gioco del suo ospite, dato che con i polsi legati dietro la schiena non poteva fare alcunché.

Taneda si stancò presto di quel gioco infantile. “Che cosa vuoi, Mori?”

“Formula breve?” Propose il Boss, divertito. In quegli atti derisori c’era una rabbia che il direttore non fece fatica a notare. “Rivoglio ciò che è mio. Mi sembra logico, no?”

Taneda reclinò la testa da un lato. “Non ricordo di averti rubato qualcosa.”

Mori si alzò in piedi e prese a vagare per la stanza, le mani nascoste nelle tasche del lungo cappotto. “Mio malgrado, credo di doverti parzialmente dare ragione,” ammise. “Mia è la colpa di non aver avuto cura di qualcosa di estremamente prezioso per la Port Mafia, ma questo non giustifica la tua illegittima appropriazione.”

Taneda inarcò le sopracciglia. “Temo dovrai essere meno vago.”

Mori incrociò brevemente gli sguardi di Kouyou e di Hirotsu, poi si fermò accanto alla sedia del loro ospite, torreggiando su di lui. “Dov’è Dazai?”

Il barlume della comprensione illuminò il viso del Direttore. “Oh, le voci corrono in fretta.”

A Mori non piacque per niente quel tono rilassato. “Le voci parlano di un vostro incontro casuale in un luogo pubblico.”

“Per me è stato davvero casuale. Lui è venuto da me.”

E quel dettaglio gli piacque ancora meno. “Dove si trova?” Il perché Dazai era andato da quell’uomo e di cosa avevano parlato era secondario.

Taneda simulò alla perfezione un sorriso rassicurante. “Non sta agendo contro di voi, se è questo che t’interessa.”

No, non gli interessava. Mori non voleva sentirsi dire da quell’uomo che Dazai non avrebbe mai agito contro Chuuya, Kouyou e Hirotsu. Se voleva la testa di qualcuno, era la propria e Mori era certo che l’avrebbe ottenuta senza minacciare altri.

“Conosco Dazai. La mia domanda era un’altra.”

“Se chiedi a me dove si trova, non lo conosci così bene,” replicò Taneda, sarcastico.

Mori sentì su di sé gli sguardi di Kouyou e Hirotsu: entrambi gli stavano dicendo di mantenere la calma. 

Taneda fu saggio: non tirò la corda ulteriormente. “Si sta occupando Ango di lui. Perché tutto funzioni, nemmeno io devo essere a conoscenza dei dettagli.”

“Dettagli di cosa?” Domandò Mori, anche se lo aveva intuito.

Taneda parve sinceramente confuso. “Le cose sono due: o il ragazzino sta facendo il doppio gioco e questa è tutta una tua montatura. Oppure è mio l’ingrato compito di dirti che il tuo ragazzo ti ha voltato le spalle.”

No, non era necessario. Mori glielo aveva visto fare fisicamente nel momento in cui aveva capito che Oda Sakunosuke era il prezzo da pagare per dare alla Port Mafia più potere. 

Il Boss evitò il confronto cambiando argomento. “Sakaguchi Ango, eh?” Non era l’ipotesi peggiore che avesse preso in considerazione. Poteva quasi ritenersi soddisfatto. Quasi. “È in gamba.”

“Lo so,” confermò Taneda con orgoglio. 

“Fossi stato tu, avrei anche potuto tentare una ricerca. Ma Sakaguchi…” Scosse la testa. “Provarci sarebbe soltanto uno spreco di risorse.”

Taneda era deluso. “Tutto qui? È stata una resa facile.”

Mori strinse il bisturi nascosto nella tasca del cappotto, ma lo lasciò dov’era. “Non è a te che mi sto arrendendo,” chiarì. Se doveva lasciare a Dazai quella vittoria, se ne sarebbe fatto una ragione. Nessuno gli impediva di avere una rivincita a tempo debito.

Dazai aveva dei progetti e tanto bastava a tenerlo lontano dalla morte ancora per un po’. Mori se lo sarebbe fatto bastare. Per ora…

“Molto bene…” Il Boss della Port Mafia afferrò lo schienale della sedia del suo ospite e spinse fino a che quest’ultimo non si ritrovò a gambe all’aria. Sebbene le stesse dando le spalle, Mori sentì Kouyou sospirare con rassegnazione, ma percepì anche il suo sollievo nello scoprire che Chuuya non avrebbe dovuto recuperare il cadavere di Dazai. 

“Hirotsu, pensi tu a riaccompagnare il nostro ospite?” Mori si sentiva di colpo allegro, quasi euforico e più Taneda gridava improperi contro di lui, più stava bene. “Mi è tornato il buon umore, penso andrò a fare shopping con la mia Elise.”

Un’esplosione molti piani più sotto fece tremare il pavimento, cancellando il sorriso dal viso del Boss della Port Mafia.



L’aria era bollente e privò Chuuya di quel poco di aria nei polmoni che la caduta non gli aveva tolto. Le orecchie gli fischiavano dolorosamente e la testa gli girava troppo perché potesse alzarsi in piedi. Quando i soccorsi arrivarono, scacciò via la mano che cercò di aiutarlo.

“Chuuya!” Mori gli prese il viso tra le mani, riportandolo bruscamente alla realtà. Al suono del suo nome, tutto riprese forma e colore intorno al diciottenne. Tremante, si aggrappò alle braccia del suo Boss e si accorse che anche Kouyou era lì, intenta a scostargli i capelli dal viso con premura. 

L’aria era intossicata dal fumo.

Poco più in là, Chuuya vide Hirotsu inginocchiato a terra, la mano posata tra le scapole di un Akutagawa in preda a un attacco di tosse. Il moccioso era vivo. Bene, lo avrebbe preso a calci più tardi. Chuuya si accorse di star tossendo a sua volta e rimase sulle ginocchia per riprendere fiato. Le mani di Kouyou era rassicuranti sulle sue spalle. Mori era ancora accanto a lui, ma si era sollevato in piedi.

Chuuya seguì la linea del suo sguardo: la sua auto era ridotta a un ammasso di lamiere divorate dalle fiamme.

“Volevano ucciderci.” Chuuya era abituato a quel genere d’incidenti e così Akutagawa, ma non nel parcheggio della Mori Coorporation, così vicini al cuore della Port Mafia. 

“No, non era quello lo scopo,” replicò Mori, mentre altri uomini comparivano sulla scena - forse chiamati da Hirotsu - per domare l’incendio. “È esplosa solo dopo che vi siete allontanati,” aggiunse. “Questo è un dispetto, non un tentato omicidio.”

Alla parola dispetto, Chuuya sentì il cuore infiammarsi di rabbia. “Dazai!” Urlò, poi un altro colpo di tosse lo costrinse ad abbassare la testa.

“Piano…” Lo rimproverò Kouyou, accarezzandogli la schiena.

Nell’udire quel nome, Akutagawa scattò come una molla. “Era qui?” Urlò, avvicinandosi a loro. “Dazai era-“

“Penso sia arrivato il momento giusto per fare un annuncio!” Esclamò Mori, giulivo, come se un auto non stesse andando a fuoco alle sue spalle. “Hirotsu, assicurati che i ragazzi stiano entrambi bene, poi salite tutti nel mio ufficio.”



Stavano bene, certo che stavano bene. Chuuya e Akutagawa erano sopravvissuti alla quotidianità con Dazai, cos’era una bomba a confronto?

“C’è una grande novità!” Esclamò Mori, sedendosi dietro la sua scrivania. “In seguito al nostro contributo per liberare Yokohama dalla Mimic, il Governo ci ha conferito il permesso ufficiale per mandare avanti i nostri affari usando le abilità che possediamo.”

Chuuya non sapeva che cosa si era aspettato, ma di sicuro non quello. Sbirciò l’espressione di Akutagawa ma quella notizia fu del tutto ininfluente per lui. Alle loro spalle, Hirotsu e Kouyou non commentarono quella notizia in alcun modo. Tutto contribuì a far sentire Chuuya un completo idiota. “Quindi… La Mafia non è più la Mafia.”

“La Port Mafia resta la Port Mafia,” lo rassicurò Mori con un sorriso crudele. “Il Governo ha solo deciso di premiarci con la legalità.”

“La vita di un tuttofare avere un tale valore?” Domandò Akutagawa, scettico.

Chuuya lo guardò storto per l’arroganza nascosta nella sua voce.

Mori non se la prese. “La sconfitta della Mimic ha avuto un tale valore,” lo corresse.

Ma Akutagawa era un cane sciolto e Mori Ougai non era il suo padrone. “E il tradimento per Dazai è il prezzo per cosa?”

Chuuya sbuffò. “Piantala con queste teorie del cazzo. Probabilmente è rimasto nell’ombra solo per rendere quell’esplosione più di suo gusto.” Si accorse, però, che Mori non lo ascoltava. 

Lo sguardo del Boss era rivolto al più giovane. “Come lo hai capito?”

Chuuya sgranò gli occhi.

“Il silenzio,” rispose Akutagawa. 

Il diciottenne passò lo sguardo dal ragazzino al suo fianco al Boss di fronte a lui. “Ma di che cazzo state parlando?”

Alle sue spalle, Kouyou fece un passo in avanti per intervenire. Mori la pregò di non dire niente con un discreto gesto delle dita. “Chuuya…”

“No!” Il ragazzo dai capelli rossi esaurì la distanza che lo divideva dalla scrivania. “Boss, non scherziamo…” Aggiunse a bassa voce.

“Il tradimento è parte di questo mondo, Chuuya, soprattutto del nostro. Tu lo sai bene, ci sei già passato.”

Chuuya scosse la testa. “Qui non stiamo parlando di un gruppo di ragazzini di strada che giurano fedeltà al miglior offerente.”

“Infatti, non credo sia quello il motivo del suo tradimento.”

“E allora qual è?” Urlò Chuuya.

Mori si alzò in piedi e il ragazzo fece due passi indietro. Non chinò la testa. Si scambiarono un lungo sguardo silenzioso, fino a che il Boss della Port mafia non aprì bocca. “Hirotsu, potresti gentilmente accompagnare fuori il giovane Akutagawa.”

Il sedicenne aveva altro d’aggiungere, ma non era uno stupido e sapeva quando era meglio non osare troppo. Hirotsu gli strinse la spalla mentre mettevano piede in corridoio. “Tutto bene?” Domandò.

Un gesto di eccessiva premura per quel giovanissimo cane randagio, raccolto dalla strada e abbandonato di nuovo. 

“Lo sapevo che se ne era andato.” Fu tutto quello che disse.


Rimasti soli, Kouyou smise di restare in silenzio. “Siediti, Chuuya.”

“Col cazzo che mi siedo!” Sbottò il diciottenne, cominciando a vagare per la stanza come una bestia in gabbia. 

Mori fece il giro della scrivania, avvicinandosi alla donna. “So che le circostanze non sono le migliori, ma le cose dovranno cambiare.”

Chuuya scosse la testa, come un bambino pronto a negare un’evidenza scomoda. “Non ci sarà bisogno di cambiare un cazzo!”

Kouyou provò a toccarlo. “Chuuya!”

“No!” Il diciottenne si scostò, guardandoli entrambi. “Ma non lo capite? È questo che quello stronzo vuole! Ci porta tutti all’esagerazione per poi tornare e riderci in faccia!”

“Non è così, Chuuya,” disse Mori con tono grave ma fermo. “Non questa volta.”

Non sarebbe stato giusto punire quel ragazzino per la rabbia che provava, ma Mori aveva bisogno che Chuuya capisse e accettasse che Dazai non sarebbe tornato.

La Port Mafia non si poteva permettere di perdere entrambi in un colpo solo.

“Avrei voluto che questo giorno arrivasse per te come è stato per Dazai,” ammise Mori, “con tutta la Port Mafia presente, pronta a brindare.”

Kouyou lo guardò con la fronte aggrottata ma non disse nulla. 

Chuuya, invece, intuì perfettamente quello che stava per accadere e non lo accettò: “fallo e rado tutto al suolo,” sibilò.

“Chuuya!” Lo rimproverò la sua maestra.

“Tranquilla.” Mori strinse amichevolmente la spalla di Kouyou. “Ho perso il conto degli Esecutivi morti sotto il mio comando. Nessuno prenderà il posto di Dazai, né ora né mai. Tuttavia, Chuuya, ora la tua famiglia e i tuoi amici hanno bisogno che tu combatta per loro. La Port Mafia ha bisogno di un nuovo Generale, se mi è concessa una digressione militare, e la persona più giusta per questo compito sei tu.”

Lo sguardo storto che le lanciò Kouyou, gli fece capire che gliel’avrebbe fatta pagare cara per non aver discusso di quella decisione con lei, ma era la reazione di Chuuya quella che più gli importava in quel momento.

Il diciottenne scuoteva la testa, tenendo le labbra strette. “Tornerà e ci sentiremo tutti degli idioti. 

“Mi aspettavo una reazione simile da parte di Akutagawa, non da te,” ammise Mori. “Perché pensi che non fosse così sorpreso?”

“Perché è il suo cagnolino, porca puttana!” Sbottò Chuuya. “Crederebbe a qualsiasi cosa lui voglia!”

“E perché tu non credi a noi?”

“Perché io lo conosco!” La voce di Chuuya era incrinata dalla disperazione. Mori la percepì chiaramente perché la ragione dietro quel sentimento tormentava anche lui. Avevano sempre avuto Dazai sotto gli occhi, accanto a loro. 

Mori lo aveva visto cambiare, divenire più alto di Chuuya, sbocciare in qualcos’altro.

Ma nessuno di loro lo aveva mai conosciuto davvero.

“Lo credevo anche io,” disse comprensivo, quasi paterno.

“Sapete adesso cosa faccio?” Chuuya sorrise, isterico. “Adesso metto il guinzaglio a quel cagnolino del cazzo di Akutagawa e lo vado a cercare. Sì, lo vado a cercare… E quando l’avrò trovato, ve lo porterò qui gonfio di botte e allora vedremo chi sarà l’idiota tra noi!”

Se ne andò sbattendo la porta. Né Mori né Kouyou provarono a seguirlo. 

“Beh…” Commentò il Boss della Porta Mafia. “Non ha raso tutto al suolo con noi dentro. L’ha presa bene.”

Si guadagnò un sonoro ceffone alla base del collo.



Chuuya sapeva che Akutagawa non gli sarebbe stato di alcun aiuto, ed era troppo incazzato per giocare a nascondino con Dazai. S’infilò in ascensore e le vetrate gli regalarono una splendida visuale dall’alto di Yokohama. Si portò il cellulare all’orecchio.

Non dovette attendere molto per una risposta.

“Pronto?”

“Sono io…”

L’ascensore cominciò a scendere.



La villa di Arthur Rimbaud - o ciò che ne rimaneva - era un luogo sospeso nel tempo. Mori non aveva fatto nulla per ristrutturare l’edificio e riutilizzarlo in alcun modo. Chuuya si era dimenticato presto della sua esistenza - non della storia di cui faceva parte - ma quando l’uomo dall’altra parte della linea gli aveva chiesto di scegliere un posto sicuro, quell’indirizzo era stato il primo che gli era venuto in mente.

Non vi era più una porta d’ingresso, ma ciò che rimaneva del grande salone era lo stesso di tre anni prima.

Erano le prime ore del pomeriggio e i raggi del sole illuminavano la polvere che si sollevava con ogni passo che faceva. Anche la poltrona dall’alto schienale era ancora lì, di fronte al caminetto ormai spento ma ancora pieno di cenere - segno del passaggio di qualche barbone, probabilmente.

Lì, nella stessa stanza in cui lui e Dazai avevano trovato l’uomo conosciuto dalla Port Mafia come Rando, che Sakaguchi Ango lo stava aspettando.

“Sei in ritardo,” si lamentò il quattrocchi. La faccia di merda l’aveva sempre avuta, ma Chuuya notò che i segni scuri sotto i suoi occhi erano decisamente più marcati. Le sue otto ore di sonno alla settimana dovevano essersi drasticamente dimezzate.

Non c’era da sorprendersi: non tutti gli agenti infiltrati nella Port Mafia sopravvivono per raccontarlo.

Se Chuuya avesse dovuto esprimere un’opinione, avrebbe detto di trovarsi di fronte a un cadavere ambulante. “Dovevo assicurarmi che nessuno mi stesse seguendo,” disse il diciottenne, infilando le mani nella tasche del cappotto. “So che Mori ti ha dato il via libera, ma se gli arrivassero voci che sei ancora in contatto con un membro della Port Mafia-“

“Grazie,” disse Ango, la sua gratitudine era sincera. “Sarebbe opportuno non costringere i nostri superiore a organizzare un altro incontro diplomatico.”

“Puoi anche chiamarlo rapimento diplomatico, non mi offendo.”

Chuuya avrebbe dovuto ringraziarlo per avergli risposto al telefono, ma non era nel suo carattere. “Tu sai dove si trova.” Non lo domandò, non aveva bisogno di farlo.

Ango si aggiustò gli occhiali sul naso. “Chuuya, con calma…”

“Se non stessi mantenendo la calma, questo luogo sarebbe ridotto a un enorme buco nel terreno,” ribatté il diciottenne. “Ho già perso troppo tempo e una quantità di fiato allarmante. Tutto per quello stronzetto del cazzo.”

“Va bene.” Ango si allontanò di un paio di passi dalla poltrona. “Chiariamo che non posso dirti tutto. Non dovrei nemmeno essere qui.”

“Concordo…” Quando aveva composto il suo numero, Chuuya non si era aspettato una risposta. Aveva provato e basta. Il quattrocchi, invece, gli aveva reso le cose straordinariamente semplici. “Perché sei qui, allora?”

“Dovere,” rispose Ango.

“Nei confronti di chi?”

“Di Dazai.”

Nel sentire pronunciare quel nome, Chuuya strinse i pugni fino a ferirsi i palmi. La sua intuizione si era rivelata giusta: Dazai non era corso ad ammazzarsi, ma era andato dalla sola altra persona che soffriva per la morte di Oda Sakunosuke. 

“Mi dispiace per il tuo amico.” Era sincero. “Siamo quelli che siamo, ma non credo faccia piacere seppellire l’uomo che ha ti ha salvato la vita. Condoglianze.”

Per un attimo, Ango cedette a abbassò lo sguardo. “Sei gentile.”

“Sono rispettoso, è diverso. Eri coinvolto e deve far male,” disse. “Non so quanto tu sia responsabile per quello che è successo con la Mimic, ma-”

“È un peccato di cui porterò il peso per tutta la vita,” lo interruppe Ango. “Ecco quanto sono responsabile.”

Fu il turno d Chuuya di abbassare lo sguardo: non aveva importanza che l’uomo che aveva di fronte fosse un doppiogiochista, il dolore per la perdita di un amico andava rispettata. Era la reazione dell’altro amico che non gli portava. “Allora perché è corso da te?”

“Non è corso da me. Per due settimane non ho saputo dove fosse… Ero preoccupato quanto te e ho pensato il peggio.”

“Io non sono preoccupato, sono incazzato!” Tuonò Chuuya. “È uno stronzo, non un codardo. Se ci odia tanto, perché non ci affronta, invece di nascondersi?”

Ango scosse appena la testa. “Lui non ti odia, Chuuya.”

“Certo che mi odia!” Insistette con forza il diciottenne. “Come io odio lui! È stato così fin dal primo giorno e non c’è nulla che possa cambiarlo!”

Ango non replicò, ma c’era comprensione nei suoi occhi stanchi. E Chuuya non la voleva, non sapeva che farsene. Voleva solo sapere dove era Dazai per spaccargli la faccia una volta per tutte e trascinarlo a casa.

“Dove si trova?”

“Non posso dirtelo, Chuuya.”

“Dove cazzo si trova?” 

Le pareti della casa tremarono e nuove crepe si aprirono su quei muri già messi a dura prova dall’esplosione di tre anni prima. 

Sakaguchi Ango non cedette. Rimase fermo, con le spalle dritte e lo sguardo deciso. “Non vuole che tu lo sappia.”

“Non m’interessa cosa cazzo vuole lui!”

“Invece, devi accettarlo!” Urlò Ango.

Chuuya lo aveva esasperato molte volte nel corso delle missioni a cui avevano lavorato insieme, ma non gli aveva mai urlato addosso, nemmeno quando se lo sarebbe meritato. Quell’attacco di rabbia lo prese di sorpresa, ma non era ingiustificato: Chuuya aveva perso una persona, Ango ne aveva perse due.

Se Oda era morto, Dazai era ormai fuori dalla portata di entrambi.

“Non c’è nessuno da riportare a casa!” Insistette Ango. “Il Dazai che conoscevi è morto e non puoi fare niente per cambiare questo!”

Morto.

Morto come lo era Oda Sakunosuke. 

Morto, ma non come Dazai aveva sempre desiderato. Nessuna condizione irreversibile lo aveva portato via, solo una sua scelta. 

E questo faceva male. Cazzo, quanto faceva male…

“Morto...” Ripeté Chuuya. Tremava, aveva bisogno di un appiglio e lo trovò nella parete polverosa al suo fianco. “Morto per noi, ma vivo da qualche parte.”

Ango percepì il caos che rendeva le sue gambe instabili e si avvicinò per offrirgli un aiuto che non voleva. 

“Non mi toccare…” Sibilò Chuuya, scivolando fino a ritrovarsi seduto a terra. “Hai detto che non puoi dirmi tutto. Cosa puoi dirmi?”

Ango rispettò la sua volontà e rimase a distanza di sicurezza, ma poggiò un ginocchio a terra per poter vedere il suo viso. “Sta bene,” gli assicurò. “Non gli succederà nulla di brutto.”

Chuuya poggiò la nuca alla parete, gli occhi azzurri persi nel vuoto. “Gli è già successo qualcosa di brutto.”

Ango non poteva che concordare.

“Non è nemmeno venuto a cercarmi per dirmelo in faccia, l’idiota,” aggiunse Chuuya, stancamente. La rabbia che aveva provato di fronte a Mori e Kouyou era passa in un istante, si era tramutata in una forza più quieta ma non meno distruttiva.

Delusione? Difficile dirlo. Avrebbe dovuto credere in Dazai per rimanere deluso da lui. Avrebbe dovuto riconoscere nel loro legame qualcosa al di là di un’intuizione di Mori per vivere la fuga di Dazai come un tradimento.

Eppure, tradito e deluso erano le due parole che meglio descrivevano quello che provava in quel momento. La rassegnazione sarebbe arrivata di lì a poco, doveva solo essere pronto ad accoglierla, invece che combatterla. Ma Ango non aveva bisogno di saperlo, come Chuuya non poteva sapere la versione integrale della storia.

“L’ultima volta che l’ho visto l’ho quasi ammazzato,” raccontò Chuuya. Da quando era tornato in città, per la prima volta affrontò ad alta voce la questione che aveva spinto Mori a mandarlo via. “Te lo ha detto?”

Ango dischiuse le labbra, ma abbassò lo sguardo con imbarazzo.

Chuuya sorrise amaramente. “Non ha detto una cazzo parola su di me.” Non ne era sorpreso. Ormai era chiaro come il sole che il solo che poteva vantare di essere importante per Dazai giaceva tre metri sotto terra, all’ombra di un albero a pochi metri dal mare.

“Non litigavamo più,” raccontò Chuuya. “Lo provocavo e m’ignorava. Ogni volta che ero in sua compagnia avevo quella spiacevole sensazione di qualcosa che scivola via inevitabilmente, inesorabilmente. Mi sono reso conto che l’unica cosa che avevo di lui era il suo silenzio. Non l’ho sopportato e l’ho affrontato. E sai lui cosa a ha fatto?”

Ango non rispose.

“Mi ha deriso.” Chuuya sentiva ancora sulla pelle l’ustione lasciata dall’umiliazione. “Ero niente per lui, né un rivale, né un compagno… Cazzo, non ero neanche uno stronzo a cui urlare insulti.” Si passò una mano tra i capelli, fissando la ragnatela di crepe sul soffitto. “L’ho colpito alle spalle, da pezzo di merda. Siamo finiti a terra e ho continuato a colpirlo, strappandogli di dosso quelle bende del cazzo… Sapevo che non aveva alcuna possibilità di difendersi contro di me, sapevo cosa nascondeva sotto quelle medicazioni fasulle… Ma non mi sono fermato. Volevo fargli male, volevo umiliarlo. Volevo impedirgli d’ignorarmi ancora.”

Erano stati Hirotsu e Mori a dividerli. Uno aveva afferrato lui e l’altro aveva soccorso Dazai. Due giorni dopo, il Boss della Port Mafia lo aveva mandato a Kyoto con la scusa di una missione solo per lui.

Quella era stata l’ultima volta che aveva visto Dazai.

Dazai, che il suo compagno lo aveva già scelto da sé e non era lui.

Una cosa era certa: tutti loro sarebbero stati un po’ più soli da quel giorno in avanti.

“Che altro puoi dirmi, quattrocchi?”

“Non cercarlo. Non lo troverai.”

Chuuya alzò gli occhi al cielo: Mori glielo aveva ripetuto abbastanza. “Che cosa farà adesso?”

Ango rimase in silenzio, ma gli stava chiedendo scusa con lo sguardo.

“Ho capito.” Chuuya si alzò in piedi e così fece l’altro. “A quanto pare, dovrò abituarmi al silenzio.”

Non c’era altro che dovessero dirsi. In quanto a Dazai, il silenzio che si era lasciato alle spalle era fatto di parole non dette e Ango non aveva il potere di colmare quel vuoto per Chuuya. 

Riuscì a fare una decina di passi, prima che Ango chiamasse il suo nome: “Chuuya?”

Il diciottenne gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla.

“Non pensare che se ne sia andato per quello che è successo tra voi,” disse Ango. “Non è colpa tua.”

No, non lo era, ma Chuuya non era certo che questo lo facesse stare meglio. 

“Già… Appunto…” Sorrise con amarezza. “Buona vita, cane del Governo.”

Ango lo guardò allontanarsi, uscire dalla stanza, poi si voltò verso le alte finestre e lo osservò scendere le scale fino al giardino. Quando fu lontano dalla sua vista, attraversò l’ampio salone fino a tornare a fianco della poltrona dall’alto schienale.

“Sei soddisfatto?” Domandò in un sibilo.

Il diciottenne rannicchiato contro il bracciolo polveroso sollevò i grandi occhi scuri. Dalla sua espressione, era impossibile indovinare che cosa stesse provando in quel momento. 

“Non è mai stata una questione di soddisfazione,” disse Dazai, alzandosi in piedi per affacciarsi alla finestra. “Mio malgrado, glielo dovevo.”

Ango lo squadrò da capo a piedi: non era ancora abituato a vederlo vestito di un colore che non fosse il nero. Si spostò al suo fianco, guardando la porzione di Yokohama visibile da quella villa in rovina.

“È diversa,” commentò Dazai.

Ango osservò il suo profilo, soffermandosi sul sorriso appena accennato sulle sue labbra. 

“Tutto è diverso ormai…”

E sarebbe continuato a cambiare, ancora per un po’. Indietro non si poteva più tornare.

“Dobbiamo andare, Dazai,” disse Ango con voce grave. “Non possiamo restare alla luce del sole per mol-“

“È una bella giornata da passare in riva al mare,” disse Dazai, con un’allegria tanto finta che ad Ango spezzò il cuore. “Mi porti da lui?”

Ango dischiuse le labbra. Esitò.

“Un’ultima volta,” promise Dazai. “Un ultimo addio prima di sparire dal mondo delle tenebre, della luce… Da tutto e tutti.”

Ango gli concesse quell’ultima grazia con un cenno del capo.

Il giorno dopo, Dazai sarebbe sparito anche dalla sua vita come da quella di Chuuya. Avrebbe lavorato ogni giorno, in fretta, per dargli la seconda possibilità che gli doveva - come la doveva a Oda Sakunosuke.

Chuuya aveva ragione: in una vita senza Dazai Osamu, a loro non restava che abituarsi al silenzio.

 
-30 giorni dalla sconfitta della Mimic-


A un mese di distanza dall’incidente che aveva reso la galleria d’arte teatro del primo scontro diretto tra Oda Sakunosuke e il leader della Mimic, le mostre ricominciarono con una dedicata ai maggiori artisti europei. Chuuya non ne capiva assolutamente nulla di arte, ma persino Mori aveva proposto a Kouyou di andare a visitarla. 

Dal suo punto di vista, l’Europa era solo fonte di di guai - Andrè Gide era stato solo l’ultimo - ma c’era un altro membro della Port Mafia che non si sarebbe lasciato scappare l’occasione di ammirare quegli scarabocchi incorniciati; e prima di dichiarare quella storia chiusa una volta per tutte, Chuuya aveva bisogno di un ultimo confronto con lui.

Trovò Akutagawa Ryuunosuke proprio dove se lo era aspettato: fisso come un chiodo di fronte a un quadro dalle sfumature inquietanti. 

Chuuya si fermò al suo fianco, conscio del fatto che il ragazzino si era accorto della sua presenza nel momento in cui era entrato nella grande stanza. 

“Ma che schifo è?” Domandò il diciottenne con una smorfia.

Lasciò passare lo sguardo di sufficienza che Akutagawa gli lanciò. “È l’opera più famosa di Edvard Munch.”

“Oh, adesso è tutto chiaro,” disse Chuuya, sarcastico. “Ha un titolo questa roba?”

L’Urlo.”

“E io che mi aspettavo qualcosa di metafisico.”

“Non è metafisico, ma psicologico,” ribatté Akutagawa. “Quel volto deforme altro non  è che la disarmonia e lo squilibrio che caratterizzano l’esistenza stessa dell’essere umano. E il malessere dell’animo non si rispecchia solo nel singolo individuo, ma anche nel mondo che lo circonda.”

Chuuya inarcò le sopracciglia. “L’arte non dovrebbe rallegrare l’anima o qualche stronzata simile?” Domandò, poi reclinò la testa da un lato. “Io vedo solo un sacco di onde colorate dipinte insieme per dare la vaga impressione di una figura, ma se tu ci vedi una lezione di vita, non sarò io a contraddirti.”

“Hai un ordine per me, Chuuya?” Akutagawa non era uno di molte parole. Gli piacevano i discorsi diretti, poi si perdeva in quei labirinti di arte e simboli. Era una contraddizione vivente, un po’ come Dazai. 

Chuuya dubitava che fosse la cosa giusta da dirgli in quella circostanza, così si limitò a parlare del perché lo aveva seguito fino a lì. “Vorrei che tornassi a casa, ma ti sarei grato se non dovessi ordinartelo per davvero.”

Akutagawa si era escluso dalla scena per due settimane. Hirotsu non aveva dato l’allarme e questo aveva persuaso Chuuya a credere che Gin sapesse dove si trovava il fratello. Il cucciolo nero di Dazai non era sparito a sua volta, aveva solo preso le distanze per metabolizzare l’abbandono del suo padrone.

“Sei andato a cercarlo?” Domandò Chuuya. 

Il silenzio del più giovane fu una risposta più che eloquente.

“Risparmiatelo,” aggiunse. “Non lo troverai, lo sai.”

“Non è morto.”

“Su questo siamo d’accordo.” Chuuya non poteva raccontargli di Ango e di quel poco che gli aveva rivelato. Ci mancava solo che Akutagawa perdesse la testa e decidesse di lanciarsi contro il Governo in piena autonomia. “Ma sia io che te dobbiamo accettare che ci ha traditi e che non tornerà.”

Akutagawa strinse i pugni. “Non resterà nell’ombra per sempre.”

Anche quello era un punto su cui Chuuya gli dava completamente ragione, ma era un’eventualità a cui non voleva ancora pensare. “E tu non meriti di restare nella sua di ombra per sempre.” Lo credeva davvero. Quel ragazzino aveva del potenziale, ma nessuna idea di come sfruttarlo.

Se la vita non lo aveva rovinato abbastanza, Dazai aveva fatto il resto.

Chuuya non poteva dichiararsi immune dal suo passaggio, ma col cazzo che lo avrebbe dimostrato. “Dimenticalo, Ryuunosuke. Cresci e lasciatelo alle spalle.”

Il sedicenne lo fissò. “Tu lo farai?” Lo chiese senza ostilità. 

A quel punto, Chuuya poteva mentirgli o stare zitto e lasciare che il silenzio urlasse tutte le verità che avrebbe taciuto per il resto dei suoi giorni. “Ti dico cosa faremo ora, io e te,” cambiò argomento. “Resteremo qui, davanti a L’Ansia-“

L’Urlo.”

“Quel che è! Resteremo qui ancora per un po’, poi torneremo a casa, il Boss ci riceverà e ci inginocchieremo di fronte a lui, accettando i nuovi ruoli che ci sono stati assegnati.” Chuuya fece una pausa, fissò il quadro di fronte a sé e, suo malgrado, gli parve che lo rappresentasse. “E prenderemo il suo posto senza farlo davvero.”

Akutagawa non disse nulla.

Nessuno dei due aveva altro d’aggiungere.

Avrebbero dilatato il momento ancora un po’, lasciando che il silenzio che Dazai si era lasciato alle spalle li avvolgesse un’ultima volta.


A trentuno giorni dal tradimento di Dazai Osamu, Nakahara Chuuya si covinse che il silenzio non lo disturbava più.


 
“Skrik” 
Autore,       Edvard Munch
Data,                1893 - 1910
Tecnica,    tempera, pastello su cartone
Dimensioni,    91×73,5 cm
Ubicazione,    Galleria Nazionale, Oslo


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