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Autore: Woody Lee    18/03/2021    0 recensioni
Il lavoro dello scrittore è assai difficile, Aiden Rowe lo sa bene.
Spera che la sua esistenza non sia affatto terribile pur sapendo che dovrà crearsi il lavoro per continuare a mangiare.
Da quando Lewis Lynom, un misterioso scienziato mise sul mercato un nuovo prodotto che sconvolse la vita della popolazione mondiale, Aiden ripercorrerà sui suoi passi e attraverso i suoi ricordi tutta la sua esistenza. Dalla morte di suo padre alle sue avventure da giovane, magari ritrovando la felicità perduta chissà dove.
Uno scritto fantascientifico di cui risulta essere un bel ricordo per i più grandi e un sogno da poter realizzare per i più giovani.
Ogni critica e ogni commento positivo verranno accettati e amati per migliorare di capitolo in capitolo la storia che ne verrà fuori.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il giorno dopo la laurea, un gruppo di studenti decise di andare al mare a festeggiare. Ai tempi nessuno ti impediva di accendere un falò e di portare litri di alcol per una buona causa quale l’inizio del resto della nostra vita. Molta della gente presente collassò sulla sabbia fredda. Qualcuno fece pure il bagno nudo. Carl Besly portò la droga e lo aiutai a rollare qualche spinello. Non ricordo molto altro, tranne che per il momento in cui qualcuno fece partire dallo stereo una vecchia canzone di Phil Collins di cui vagamente ricordo il testo.

  Well, the hurt doesn’t show, but the pain still grows
  It’s no stranger to you and me.

Elena e Steve erano presenti alla festa ed essendo una coppia, stettero insieme tutta notte ed essendo io da solo e triste, li guardavo con malinconia. Steve, delle volte, entrava molto nel dettaglio se doveva raccontare una storia, seguiva un percorso tortuoso, riuscivo a immaginare la punteggiatura nella mia testa e tirava fuori nomi di persone che conoscevamo ma che non mi sarei mai aspettato facessero parte di quelle vicende. Come quando passò la notte con Elena nel dormitorio femminile:
“Eravamo io e lei a letto. Scopavamo di brutto e sai che a Elena vengono quegli acuti imbarazzanti quando è particolarmente eccitata...come quella volta che ha incontrato Stephen King alla macchinetta del caffè, sai, quando è venuto a farci la lettura. Ecco, le esce un acuto talmente forte che, Stacy Williams, la biondina della mensa, te la ricordi? La sua camera è al di là del muro e quindi stava sentendo tutto. Ad un certo punto, entra correndo in camera credendo che qualcuno stesse uccidendo Elena. Aveva in mano una cazzo di mazza baseball e mi colpisce dritto nel culo. BAM. Sulle chiappe. Per fortuna avevamo su il lenzuolo che ci copriva, se no non sarei più riuscito a sedermi su una sedia per il resto della mia vita. Il giorno dopo Stacy non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi, in mensa. Che puttana, non mi ha nemmeno chiesto scusa.”
Io, con la testa tra le mani, annuivo e ridevo, fingendo, ovviamente, di essere interessato alla sua storia. Col passare del tempo, iniziai ad apprezzare di più i racconti di Steve. Mi potevano cambiare la giornata in meglio, se ne avevo bisogno potevo chiamarlo e farmi raccontare qualcosa. Che sia vera o no, una storia di Steve va ascoltata oppure vissuta se ritorno sul discorso dell’AU. Potevamo rivedere qualsiasi ricordo che ci venisse in mente.

Per collegarsi al forum dell’AU, bisognava terminare l’intero tutorial seguendo le indicazioni di Lewis Lynom. Dopo aver dettato il punto di log-in e dopo aver creato la mia stanza privata, Lynom mi insegnò a inviare le richieste di amicizia, a scrivere messaggi privati e come trovare le persone nel programma. La barra di ricerca spuntò davanti a me, all’altezza della mia testa e l’ologramma di una tastiera apparì davanti alle mie mani. Lynom mi disse di scegliere un username a piacere ma non volendo complicare troppo le cose, decisi di scrivere il mio nome. Aiden86. Dopo aver premuto invio, Lewis Lynom mi strinse la mano e mi diede il benvenuto nel programma.
“Che l’orizzonte possa esserti sempre più vicino” mi disse. 
“Ma cosa vorrebbe dire?” Gli chiesi poco prima che ogni centimetro della sua pelle, compresi i vestiti, iniziassero a trasformarsi in minuscoli pixel per poi svanire letteralmente nell’aria, seguito da un leggero fruscio.
“Lo chiederò a qualcun altro!” esclamai. 
Mi trovavo nella mia casetta in legno a Torhop, sul Tanafjorden. Uscii sul balcone e ammirai il paesaggio per qualche istante volendo realizzare che tutto quello che stavo vivendo era reale, o meglio, una realtà virtuale talmente avanzata che a volte dimenticavo di essere ancora vivo e di avere un lavoro, degli amici, un gatto di nome Jackie Brown e una madre che viveva sulla west coast che non vedevo da un anno. 
Mi arrivò un messaggio privato di Steve. Aprii il palmo della mano e su di esso, a qualche millimetro dalla mia pelle, si accese un display. 
“Se hai finito con LL, passa da me”. 
Seguii i suoi ordini e venni trasportato tramite quello che chiamo un ‘buco nero’ anche perché non saprei come descriverlo. In un lampo mi trovai davanti alla porta d’ingresso della stanza di Steve. Una grossa porta in legno con il pomello d’oro, ai miei piedi uno zerbino con scritto ‘scarpe vietate’, perciò me le tolsi.
Steve aveva eseguito qualche cambiamento alla sua stanza, la rese molto più grande. Al posto dell’erba decise di volere la sabbia, provai una bella sensazione ai miei piedi, era calda e il suo colore mi riportò per un attimo in Portogallo, a Cabo da Roca. Trasformò la sua stanza in una spiaggia. C’erano divani e poltrone di sabbia messe in cerchio attorno ad un falò sempre acceso, strumenti musicali sotto gli ombrelloni, impressionanti palme con annesso frigobar alla cima e un bar completamente in legno. Appoggiai le mie scarpe accanto a quelle di Steve e lo trovai sulla sua poltrona rossa, davanti al maxi schermo, dove riconobbi Elena ai tempi del college. Stava riguardando un ricordo, in particolare una partita di bowling datata maggio 2005. Mi sedetti accanto a lui senza dire una parola, gli diedi una pacca sulla spalla per salutarlo e ci guardammo il suo ricordo. C’ero anche io quel giorno. Steve ed Elena mi convinsero ad uscire dalla mia stanza, una sera, e mi portarono a giocare a bowling con loro. Mi venne da ridere vedendo Steve perdere contro Elena e lui rise di me per il modo docile e scoordinato con cui lanciavo la palla verso i birilli. Mi giustificai dicendo di non essere mai stato bravo negli sport e Steve mi diede della femmina e dello sfigato per aver chiamato il bowling uno sport. Elena rimproverò il suo ragazzo per il primo epiteto. Rivedendo il ricordo è chiaro che non stesse difendendo me dall’essere chiamato femmina ma invece non accettò il fatto che il suo sesso venga così dispregiato. Steve si scusò e le diede un bacio prima di segnare uno strike, quello vincente. Alla faccia mia.
“Bel ricordo” gli dissi.
“Grazie, è uno dei miei preferiti.” Disse schioccando le dita. Il maxi schermo sparì come una folata di vento.
“Ah. E come mai?”
“Non lo saprei. Forse per il fatto di averti stracciato.” Mi spinse.
“Tutta fortuna la tua, se mi fossi messo a giocare seriamente avresti pianto”
“Ma non dire cazzate!” Mi urlò e mi lanciò della sabbia in faccia.
Dopo essermi ripulito, seguii Steve al bar e notai che dietro al banco c’era Jennifer Aniston, così le ordinai un mojito. Poggiai il sedere sullo sgabello.
Jennifer prese la menta in mano e Steve andò a scegliersi una chitarra.
“Perché Jennifer Aniston mi sta facendo un mojito? E perché indossa il più piccolo dei bikini?” Chiesi a Steve che teneva in mano una bellissima Gibson SJ-200.
“Perché questo è un mondo migliore Aiden, il mio volere è uno script di Java.” 
“Ma che belle parole” dovetti riconoscerglielo. Mi sedetti sullo sgabello e lo guardai suonare I’ll Be There for You a Jennifer che completò il mio mojito. Ci scolammo i drink e salutai Rachel e le chiesi se veramente lei e Ross erano in pausa ma non ha saputo rispondermi. 
Steve aprì la mappa dell’AU sul palmo della sua mano. Era palesemente l’isola di Manhattan e lèssi sopra Central Park la scritta ‘Forum’.
“Stammi vicino” mi disse. Appoggiai la mia mano alla sua spalla, appena il suo dito toccò la scritta, svanimmo nel nulla seguito da un lampo, esattamente come Lewis Lynom fece davanti a me. Il programma ci fece catapultare a Times Square a New York, davanti ad un palo con quattro cartelli che segnavano a nord la Piazza Rossa di Mosca, a ovest piazza Tienanmen, a est la Macroplaza di Monterrey e il centro di Tokyo a sud. Attorno a me un assembramento di voci, gente che correva, che saltava, che rideva. Palazzi altissimi costeggiavano le strade, quasi non riuscivo a vederne la fine. All’orizzonte, davanti a me, riuscivo a intravedere i pinnacoli della cattedrale di San Basilio e Steve mi urlò di seguirlo in mezzo a quella calca di persone senza apparente meta. 
“Questo è il forum?” Gli gridai. Sopra la mia testa, un trampoliere mi scavalcava seguito da altri trampolieri che raggiungevano l’altezza di ben venti metri. Si stavano divertendo da matti. 
“È solo il punto di caricamento, non fermarti!” Mi urlò Steve che era davanti a me di qualche metro e guardava il palmo della sua mano senza che nessun ologramma fosse presente. Pensai che probabilmente fosse in modalità privata cosicché nessuno poteva leggere ciò che vedeva lui. 
Alla mia sinistra, un gruppo di donne atterrò col paracadute sul retro di un furgone e tutto sparì in un lampo lasciando spazio ad un bambino con una dozzina di cani e gatti attorno a lui che correvano nella direzione opposta alla nostra. Attraversammo la 49a strada e osservando sulla destra, sempre all’orizzonte, notai delle montagne russe ridicolmente alte. Sulla sinistra la strada era chiusa per lavori, dietro ai cartelli vi erano cumuli di macerie di edifici abbattuti in chissà quale modo. Steve mi prese la mano e mi tirò verso di se. Non riusciva a comprendere che vedevo quel posto per la prima volta, che non era la New York alla quale ero abituato.
“Mi spieghi dove dobbiamo andare?” Gli urlai nell’orecchio. Il frastuono era tale da coprirmi la voce e tutti i miei pensieri. 
“Dobbiamo salire. Ti faccio conoscere un po’ di amici!”
“Salire dove” Le mie urla graffiavano la gola e non ebbi tempo di aspettarmi una risposta che Steve fece un salto e sparí in aria ad una elevata velocità. Non potevo credere ai miei occhi, scomparve oltre la cima di un grattacielo e rimasi immobile quasi come se il mio cervello si fosse offuscato e cercasse una spiegazione ragionevole a ciò che abbia appena visto. Mi guardai attorno, vedevo solo facce estranee e divertite. Mi appoggiai ad un muro, sul lato della strada, volevo sparire da quel posto e ritrovare il silenzio a cui sono abituato. 
Ma Steve tornò, trasformandosi dall’apparire come un punto nel cielo alla sagoma di un uomo, cadendo in posizione eretta davanti ai miei occhi. I suoi piedi toccarono terra e mi disse qualcosa spazientito, purtroppo l’udito era andato letteralmente a puttane, mi prese la mano, piegò leggermente le ginocchia e saltò di nuovo. 
Sentii il suolo staccarsi dai miei piedi e appena puntai gli occhi verso il basso, la strada su cui camminavo diventava sempre più piccola e lontana, come tutte le persone ammassate tra loro. Mi sentivo leggero, senza peso. Una forza a me sconosciuta lanciò Steve e me in aria ad una velocità assurda. Riconobbi il mio riflesso e quello del mio amico sulle finestre a specchio del grattacielo che stavamo salendo perpendicolarmente. Urlai, Steve mi guardò dall’alto ridendo. Arrivammo finalmente alla cima del palazzo e finalmente il peso del mio corpo ritornò ad essere normale. Sul tetto riconobbi le sagome di altre persone, poi il luogo attorno a loro mi sembrò prendere forma. 
Steve mi lasciò la mano appena i nostri piedi toccarono il suolo. Lui andò avanti mentre io mi accasciai per qualche secondo, toccando il pavimento freddo, molto grato di essere ancora intero. Mi tirai su e guardai Steve avvicinarsi ad un gruppo di persone sedute a dei tavoli, dando il cinque a tutti. Deglutii e camminai barcollando verso la loro direzione.
Quel posto era interessante. I tavoli erano sotto degli ombrelloni multicolore e alle spalle di quelle persone, vi erano quattro arcade molto vecchi. Riconobbi Pac-Man e Sonic poiché erano gli unici che conoscevo. Non c’erano mura attorno ma una lunga siepe, ben curata e verde che delimitava il perimetro di quell’attico. Una radio emetteva della musica in sottofondo e un gatto nero, accomodato sulle gambe di una ragazza, mi giudicava con gli occhi socchiusi.
“Chi è quello?” Sentii quella voce farsi sentire più delle altre e tutti rimasero in silenzio, guardandomi. Forzai il mio sorriso migliore.
“Lui è il mio migliore amico, Aiden, è ancora un novellino. Siate buoni”. Mi avvicinai ai tavoli. Erano tutti più giovani di me di almeno dieci anni o così sembrava, li salutai con un cenno della mano e Steve mi fece sedere accanto ad un giovane coi capelli rasati. 
“Io sono Jonathan. Piacere” gli strinsi la mano.
“Che cos’è questo posto?” Chiesi ottenendo l’attenzione di tutti.
“Ma come Steve, non gli hai detto niente?” Davanti a me una donna con una piccola cicatrice sulla guancia destra sbatté il pugno sul tavolo guardando Steve.
“È più divertente così, fidati!” Allargò le braccia e andò a giocare agli arcade. La donna sbuffò.
“Io mi chiamo Debbie, piacere. Questo, Aiden, è il Covo della Cinquantesima. Il nostro punto di ritrovo.” Piroettò entrambi gl’indici volendo indicare tutti i presenti. 
“E quello è l’unico modo per salire?” 
“No, c’è l’ascensore” rispose dietro di me un’altra ragazza di cui non notai la presenza all’inizio.
“Aiden giusto? Michelle” mi diede la mano, la strinsi debolmente. Non superai ancora lo shock di pochi attimi fa. “Dove ti colleghi?” Mi domandò spostandosi la treccia bionda dal retro della sua testa alla spalla. 
“Io sono di New York. E voi?”
Steve abbandonò un arcade dopo averci giocato per pochi secondi, imprecando, e si abbandonò su una sedia. 
“Intende dire dove hai la casa nel programma” mi disse. 
“Oh, ma certo. Norvegia, vicino ad un villaggio chiamato Torhop, sulle rive di un fiordo.”
“Wow” esclamò Jonathan tirando una striscia di cocaina. Cercai di non guardarlo mentre lo faceva, Michelle mi fissava imperterrita. 
Volendo continuare le presentazioni, puntai lo sguardo sul tipo col cappello di paglia, dread  e canottiera che leggeva un grosso libro.
“Lui è Roger” mi disse Debbie “è muto ma molto simpatico”.
Infine, i miei occhi caddero sulla ragazza col gatto. Sembrava non essersi accorta della mia presenza poiché continuava ad accarezzare il felino. Jonathan si alzò e si diresse verso Steve che gli chiese una striscia e lo guardai con rabbia. Michelle si sedette al posto di Jonathan, osservando il mio sguardo su quella ragazza.
“Puoi parlarle! È solo timida, come te!” Mi bisbigliò nell’orecchio.
“Ma io non sono timido”. Il suo sopracciglio si alzò.
“Ti mostro”
Steve tirò su di naso e si alzò in piedi, facendo cadere la sedia all’indietro. 
“E che cazzo!” Gridò. Lo ignorai e mi avvicinai a quella ragazza.
Aveva i capelli neri, lisci e lunghi fino alle spalle. Appena alzò gli occhi su di me notai il suo colore, un intenso grigio nel quale riuscivo a distinguere la mia sagoma. Sorrise e non trovai nessuna parola, la mia bocca si aprì ma non uscì niente. 
“Puoi accarezzarla se vuoi. Si chiama Ethel”. Disse infine.
Con lentezza allungai la mano e passai le dita sul pelo della gatta. Era morbida e le sue fusa mi intenerirono del tutto. Il delicato suono gutturale che emetteva ad ogni suo respiro, i suoi occhi socchiusi, la lunga coda che seguiva la forma del suo corpo mi ricordavano il mio gattino, Jackie Brown, che amavo più di me stesso. Era a suo agio, nulla al mondo l’avrebbe smossa da quella posizione. Mentre passavo il dito sulla zampina di Ethel, tornai a guardare la ragazza che osservava attentamente i miei movimenti.
“Io sono Aiden. E tu?” Lei sorrise. 
“So chi sei, Steve ci ha parlato molto di te. Io sono Anna.” Ci stringemmo la mano. La sua era calda, la mia fredda. Mi diede sollievo.“Ah si? E che vi ha detto su di me?”
“Ha detto che siete amici dall’università e che sei uno scrittore” 
“Tecnicamente non lo sono ancora ma ci sto lavorando”

Quando a sedici anni, il mio medico curante, mi prescrisse per la prima volta gli antidepressivi, la mia mente era in un posto buio e tenebroso, niente mi suscitava curiosità e la vita non era poi così buona con me. Dunque, essendo in uno stato catatonico con l’ansia che mi assaliva ogni giorno per futili motivi, anche i miei racconti divennero sempre più dark e controcorrente. Le parole che utilizzavo sconvolgevano il lettore che veniva immerso in quei mondi molto simili al nostro ma che risultavano senza speranza e dimenticati da Dio, o qualcosa del genere.
A Elena piacevano quegli scritti. Certo, li trovava logoranti e politicamente scorretti e anche un po’ strani dal punto di vista umano ma adorava la loro  struttura, mi invogliava a scrivere di più, mi aiutava a trovare le parole giuste per trasportare le immagini, che vedevo del mio subconscio, su carta e creare trame sempre più complesse.
Riuscii a pubblicare dei capitoli su dei magazine dedicati a tema horror e il mio editore e manager ai tempi, Mark Quinson, il quale mi scoprì su internet dopo aver letto qualche trafiletto dal mio blog che aggiornavo settimanalmente, mi dedicò molto del suo tempo riguardo al tipo di scrittore che sarei dovuto diventare. Mi fece leggere molti libri autobiografici di scrittori e registi del passato per farmi un’idea di come la vita giochi scherzi di merda affinché uno possa reagire nel modo giusto. Quando venne pubblicato “Everywhere at the End of Time” sul ‘New York Times’, un breve racconto horror introspettivo che celava la mia incomprensione per la vita e soprattutto parlava della fine del mondo moderno poiché la guerra nucleare sterminò tutta la popolazione mondiale, il mio malessere raggiunse il picco. 
Ero all’ultimo anno di università e mi ero distanziato dagli amici, dalla famiglia e dallo studio. Non praticavo più esercizio fisico, non riuscivo più a leggere, evitavo il contatto fisico ed emotivo con chiunque e alla fine decisi di finirla lì, tagliandomi i polsi come un codardo, nel bagno della 109, la stanza che io e Steve condividemmo al college. Che cosa mi portò a quel gesto? Come avrei potuto evitarlo? Everywhere at the End of Time poteva avere un finale diverso, quindi con uno spiraglio di luce in fondo a quel tunnel dell’orrore?
 Mi salvarono in extremis, dopo aver perso litri di sangue, contro la mia volontà. In ospedale mi diedero l’aiuto che mi serviva e anche se la convalescenza risultava più lunga del previsto, riuscii a laurearmi in lettere. Avevo tutti al mio fianco, tutti coloro con cui ho ricordi bellissimi, di cui non potrei farne a meno e proprio non capisco come possa non essermene reso conto prima di diventare ‘quello che cercato di uccidersi nel bagno della 109’. 

“Come mai la Norvegia?” mi chiese Anna che giocava con le orecchie della sua gatta. Mi grattai la fronte.
“A dire il vero, non lo so. È un posto lontano, silenzioso e poco abitato, per questo mi piace. Tu invece?”
Mi ascoltava con un accenno di sorriso e non potei far altro che emularla.
“È un po’ una sorpresa. Nessuno l’ha mai visto. Devo essere sicura di quello che ho creato, ma a Ethel piace...vero piccolina?” Alzò la gatta al livello del suo viso e Ethel le leccò la punta del naso.
“Cambierei ancora qualcosa” disse Ethel. Io la guardai con sgomento.
“Ethel parla?” Chiesi ad Anna che non fece in tempo a rispondere poiché la gatta si dimenò dalla presa della sua padrona per saltare sul tavolo. Si stiracchiò le zampe posteriori e prese a fare stretching.
“Certo che parlo. Secondo te la mia Anna non mi avrebbe dato una voce?” Guardai Anna che mi fece spallucce.
“Non sapevo che gli animali potessero parlare nell’AU! Ti chiedo...scusa.” Mi resi conto di aver chiesto scusa ad una gatta che mi rispose con un inchino. Non dissi più niente. Era così strano parlare con un gatto, la sua voce era piccola e i movimenti così innaturali per un felino. Sgranai gli occhi e li puntai su Steve che mi guardava ridendo.
“Devi vedere la tua faccia” mi disse. 
“Dovresti vedere la tua” gli risposi. Sembrava sciupato e stanco. La cocaina, come tutte le altre droghe e l’alcol non hanno effetto dentro al programma, ma crea solo l’illusione di essere sotto stupefacenti. Ogni tanto ci fumavamo qualche canna io e Steve e il programma mi rallentava, quasi impercettibilmente, i riflessi, i colori erano più saturi e, in un certo senso, i pensieri scivolavano nella mia testa come gocce d’acqua su un finestrino di una macchina in autostrada.
Debbie, temo si stesse annoiando, prese la parola e aggiunse di volere visitare la mia stanza, tutti gli altri concordarono con lei e in un attimo mandai l’invito a tutti i presenti. Uno per volta sparirono nel nulla, seguiti da piccoli lampi di luci. Prima Debbie, poi Jonathan, Michelle e Steve. Roger rimase a leggere il suo librone senza alzare lo sguardo . Anna rimase un po’ a discutere con Ethel del perché lei non poteva venire con noi e che l’avrebbe raggiunta nella loro stanza, più tardi.
Ethel mi squadrò da capo a piedi, mi fece la linguaccia e infine prese fuoco. Le sue ceneri volarono in aria e guardai inorridito Anna.
“Tranquillo, sta bene. Andiamo?” 
“Ok” deglutii e sparimmo dal quel luogo in un lampo.

La spiaggia di Torhop era silenziosa, proprio come la descrissi ad Anna poco prima. Il cielo azzurro e il sole alto, un leggero vento estivo. Tutto rendeva quella giornata perfetta per essere passata in compagnia.
“È un posto meraviglioso Aiden” mi grido Debbie che correva con Michelle sulla riva, bagnandosi i piedi nudi. 
Jonathan e Steve entrarono nella mia casa e non uscirono da lì dopo ore.
Anna e io, invece, ci sedemmo sulla sabbia a guardare il mare in silenzio. Potrebbe sembrare un cliché ma non ci servivano parole, anzi, in qualche modo ci capivamo solo tramite i nostri timidi sguardi. Lei mi piaceva, la sentivo simile a me, non c’è altro da dire su quei sentimenti verso una mezza sconosciuta.
Sopra il rumore delle onde e del vento, la voce di Anna squillò nella mia testa.
“Vuoi fare un giro in mongolfiera?”
“Hai una mongolfiera?” Le chiesi.
“Certo, l’ho comprata! A caro prezzo oserei dire. Allora?”
“Assolutamente si” 
Anna si alzò in piedi, aprì il suo inventario oleografico e materializzò come per magia, un’immensa mongolfiera rossa a pochi metri da noi. 
“Andiamo” allungò la sua mano, la afferrai e mi tirò su in piedi. 
Il cesto era abbastanza spazioso per due persone e la gola, cioè il buco alla base del pallone era largo il doppio. Il bruciatore sparava aria calda dentro al pallone ed eravamo già pronti per salire.
“Sei capace di guidarlo?” Le chiesi.
“No.” Mi rispose con tutta la sincerità del mondo
“Si guida da sola. Rilassati” disse quando il cesto si staccò dal suolo. Debbie e Michelle ci guardavano dalla spiaggia e ci salutarono. Pochi secondi dopo apparve una seconda mongolfiera, questa volta blu, a pochi metri dalle due ragazze. Anna mi osservava, sentivo i suoi occhi addosso. Non so cosa volesse captare ma ero sia affascinato che terrorizzato dall’idea di una mongolfiera con l’auto pilota.
Raggiungemmo un’altezza incredibile e potevo notare benissimo il disegno che il fiordo creava. 
“È ora” gridò Anna. Si aggrappò alle funi che teneva ancorato il pallone al cesto e si sollevò in piedi sul bordo.
“Ma che fai?” Le urlai. Invece di rispondermi, Anna mi allungò di nuovo la sua mano. Dopo aver esitato, la presi, aiutandomi anche con le funi e tastai con cura i piedi sul bordo di ferro. Sentivo il calore del bruciatore riscaldarmi le spalle e la testa e più guardavo in basso, più il sudore mi bagnava la fronte.
“Sii concentrato su te stesso e non su quello che ti sta attorno” mi disse Anna.
“E come?” Strinsi di più la sua mano.
“Fa’ quello che faccio io” e fece il passo nel vuoto tirandomi con se.
Iniziai ad urlare, sprigionando tutta l’aria che avevo nei polmoni. Io e Anna stavamo cadendo almeno da dieci mila metri di altezza e non c’era nulla che poteva fermarci, nulla di ovvio.
Anna prese entrambe le mie mani e le strinse forte. La nostra caduta decelerava e la frizione del vento diminuiva. 
“Immagina di volare” mi gridò Anna in faccia. Eseguii i suoi ordini e mi spremetti le meningi per cercare di visualizzare nella mente l’immagine astratta della parola volare. 
Mi sentii strattonare e l’aria mancare. Ci fermammo a mezz’aria, a chissà quanti metri di altezza. Anna mi guardava e assicurò che tutto sarebbe andato bene. Mi disse di aprire gli occhi e quando lo feci la vidi sorridermi. Eravamo fermi, in aria. Accanto a noi saliva la mongolfiera blu di Debbie e ci salutarono.
“Stai volando Aiden! Stai volando!” Mi gridò Michelle.
Dal mio petto uscì una piccola luce che si trasformò in una grossa coppa argentata, sollevata sopra la mia testa. Sotto di essa, apparve la scritta “sto volando Jack” e mille punti AU. La coppa svanì dietro centinaia di piccoli fuochi d’artificio e per finire, uscì la scritta in oro “il trofeo è stato aggiunto al tuo inventario”.
Porca puttana, stavo volando! Feci qualche piroetta in aria e Anna rise divertita, emulandomi poco dopo.

Passai la giornata a volare con Anna e a divertirmi con gli altri fino a quando dovetti effettuare il log-out dal programma.
Andai a letto con l’immagine del sorriso di Anna nella testa, sorrisi anch’io e chiusi gli occhi.

  
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