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Autore: Soul Mancini    18/03/2021    3 recensioni
Tre momenti della vita di Bess.
La storia di una ragazza ferita dalla vita, nata in un luogo sbagliato, la cui infanzia è stata strappata via troppo presto. Tra prime esperienze. rabbia, lacrime represse e amici fedeli, imparerà a trovare la sua strada anche se nessuno gliel'ha indicata. Una bambina fragile che si tramuterà pian piano in una giovane donna piena di cicatrici sul cuore, ma più forte e matura.
- Il primo capitolo, "Forsaken", si è CLASSIFICATO PRIMO al contest "Let's Cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Bess
Forsaken
 
 
 
 
I piatti rimasero pieni quella sera. Esattamente come la sera precedente.
Mi ero seduta a tavola ed ero rimasta a fissare la mia porzione di sformato che qualche vicino ci aveva regalato – non ricordavo chi fosse stato esattamente. C’era un viavai continuo in quei giorni attorno a casa nostra: conoscenti, amici di famiglia, persino qualche parente che non si faceva vivo da anni. Io salutavo tutti in maniera meccanica, ma non li guardavo nemmeno in faccia e non li ascoltavo parlare; per quanto mi riguardava, erano tutti uguali e tutti anonimi.
Anche papà e Yelena lasciarono il loro piatto pieno. Mia sorella provò a mandar giù qualche boccone, ma poco dopo si arrese.
Quella sera a tavola c’era silenzio. Esattamente come la sera precedente.
Di solito all’ora di cena la piccola zona giorno si riempiva di musica. Uno di noi si sarebbe potuto alzare e avrebbe potuto poggiare la puntina sul vinile, ma sul piatto del giradischi era situato ancora Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane, uno degli album preferiti di mamma. Non avevamo il coraggio di sostituirlo con qualche altro disco, ma non avevamo nemmeno il coraggio di ascoltarlo senza di lei.
“Questa è la canzone che hanno suonato a Woodstock” ci spiegava sempre con entusiasmo appena le prime note di White Rabbit raggiungevano le sue orecchie. “Mi sarebbe piaciuto partecipare al festival, ma all’epoca avevo già messo la testa a posto: ero sposata con vostro padre e voi eravate già nate.”
Pensava sempre fuori dagli schemi, mia madre. Ascoltava la musica delle nuove generazioni ed era una ribelle, un po’ come me.
Mi guardai attorno e mi accorsi, forse per la prima volta, che oltre al vinile c’erano un sacco di altri oggetti che le erano appartenuti sparsi per la casa e che nessuno aveva avuto il coraggio di toccare: la giacca leggera era ancora appesa sull’attaccapanni all’ingresso, le sue caramelle alla menta preferite stavano dentro una ciotolina sulla mensola del camino, sul bracciolo del divano era poggiato un libro letto per metà – sicuramente un classico inglese.
Distolsi lo sguardo: non ci volevo pensare. Preferivo credere che da un momento all’altro mamma avrebbe fatto il suo ingresso nella stanza, si sarebbe scusata per il ritardo, avrebbe cenato con noi, avrebbe scartato una caramella alla menta e poi avrebbe ripreso in mano quel volumetto per portarlo a termine, per sapere come sarebbe andata a finire la storia.
All’improvviso mio padre spezzò il silenzio, lasciando andare la forchetta sul piano del tavolo e trascinando la sedia all’indietro. Sobbalzai e mi voltai a guardarlo: mentre si metteva in piedi, lo vidi barcollare appena e strizzare le palpebre.
“Che c’è?” gli domandò Yelena preoccupata.
“Sto bene” replicò lui in tono piatto, mentre si passava una mano tra le ciocche corte e scompigliate. Nella penombra della stanza le sue occhiaie risaltavano ancora di più, ed era evidente che non stesse affatto bene.
Papà era un bell’uomo: io l’avevo sempre ammirato perché non dimostrava affatto la sua età, anche se qualche volta lo prendevo in giro perché le sue origini inglesi gli si leggevano in faccia. Aveva i capelli biondo cenere proprio come i miei, gli occhi grigio-verdi proprio come i miei e il viso delicato ma dai tratti ben definiti. La perfetta rappresentazione della sua personalità mite e tranquilla: papà era un tipo misurato, raramente perdeva la pazienza e non alzava mai la voce.
Tutto l’opposto di mamma, insomma. Forse era proprio quella diversità che li aveva fatti innamorare l’uno dell’altra – e si erano amati tanto, ma davvero tanto.
Ma ormai non sembrava neanche più lui. Era come se fosse invecchiato di colpo e non guardava più me e Yelena in viso mentre ci parlava.
Lo osservai mentre strascicava i piedi fino al camino e afferrava un mazzo di chiavi. Sembrava un automa più che una persona.
“Cosa stai facendo?” gracchiai, la voce roca. Chissà da quante ore non aprivo bocca; la gola nel frattempo mi si era seccata.
“Mi sono appena ricordato che devo fare una cosa” borbottò. La sua voce pareva provenire da un altro mondo.
“A quest’ora?” incalzò Yelena dubbiosa.
Lui non si voltò a guardarci, si diresse a passo strascicato verso l’ingresso. “Devo andare in un posto. È importante.”
Quando posò le dita sulla maniglia, pronto a spalancare il portoncino d’ingresso e uscire, lo stomaco mi si contorse e sentii le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi; saltai in piedi e corsi da lui, afferrandolo per un braccio. “No, papà, ti prego, non andartene!” lo supplicai.
Non era da me implorare in quel modo, ma a quella vista il terrore mi aveva aperto in due il petto.
Non mi importava ciò che aveva da fare, non mi interessava se si fosse trattato di vita o di morte: almeno lui doveva stare con noi, in quella casa che era già troppo vuota e mi metteva i brividi.
E poi quale padre avrebbe lasciato le figlie da sole in una situazione del genere?
“Ha ragione Bess” intervenne mia sorella, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo avanti. “E poi come ti salta in mente di andare in giro da solo in queste condizioni? Non stai bene, papà!”
Lui allora si voltò lentamente e guardò entrambe con sguardo vuoto, come se non ci vedesse nemmeno. “Torno presto, ve lo prometto. Non mi succederà niente.”
Si divincolò dalla mia stretta – impresa quasi impossibile, visto che le mie dita stritolavano fortissimo il tessuto della sua manica – e uscì, lasciandoci confuse e spiazzate.
Non avevamo fatto in tempo a fare niente e ad aggiungere altro; forse nessuna delle due credeva che se ne sarebbe andato davvero.
E invece eravamo sole.
Mi voltai a guardare Yelena, nel silenzio più assoluto. La stanza, rischiarata solo dalla luce calda e debole di una lampadina, mi sembrava ancora più buia e piena di ombre.
Quel vuoto non lo sopportavo, assomigliava troppo al buco che avevo al centro del cuore. Lo dovevo riempire con qualcosa, con qualcuno.
Se tendevo l’orecchio, in mezzo a quella quiete potevo sentire la voce di mamma che canticchiava mentre lavava le stoviglie, potevo udire l’acqua scrosciare e le posate che tintinnavano e si urtavano a vicenda. Potevo sentire i suoi passi nella zona notte, quando faceva i suoi soliti giri di controllo per verificare se le camere da letto fossero in ordine.
E la potevo perfino vedere davanti al piano cottura, seduta sul divano, di fronte alla finestra con lo sguardo rivolto all’esterno. Ogni riflesso somigliava al suo sorriso, ogni luce somigliava ai suoi occhi, ogni ombra era il suo profilo. E ogni filo d’aria tiepida che mi sfiorava la pelle era una sua carezza.
Era tutto così bello, ma anche così finto. Lei non c’era, e ora non c’era nemmeno papà.
Allora mi resi conto che tremavo fortissimo – che diamine, l’estate stava per arrivare, faceva un caldo impossibile e io stavo tremando come una foglia! – e che le mie guance erano bagnate, incrostate di lacrime bollenti.
Non mi mossi finché non sentii le braccia di Yelena avvolgermi e attirarmi al suo corpo. Mi strinsi a mia sorella con tutte le forze che avevo, mi aggrappai alla sua maglietta leggera e gliela bagnai tutta. Le nostre lacrime e i nostri singhiozzi si fondevano insieme, perché anche lei aveva cominciato a piangere – forse anche lei aveva paura di quella casa e di quel silenzio, anche se faceva finta di essere forte per me.
“Perché è andato via? Perché ci ha lasciato qui da sole? Io voglio che papà torni adesso, e voglio che torni anche la mamma!” mormorai, ma a ogni parola un singhiozzo mi costringeva a riprendere fiato.
“Oh, Bess” sospirò mia sorella mentre mi carezzava i capelli.
Avevo il capo posato sul suo petto e lo sentivo sobbalzare.
“Mi prometti una cosa?”
“Tutto quello che vuoi” mormorò lei, tenendomi così tanto stretta da farmi quasi male.
“Promettimi che almeno tu non te ne andrai mai.”
Lei mi afferrò per le spalle e mi scostò appena da sé, in modo da potermi guardare negli occhi.
I suoi erano arrossati e pieni di sofferenza – erano così da quando, tre giorni prima, mi aveva preso da parte e tra i singhiozzi mi aveva detto che mamma aveva avuto un incidente stradale e non ce l’aveva fatta. Quello sguardo e quelle parole avevano segnato inesorabilmente la fine della mia infanzia.
“Ricordatelo sempre, Bess: qualsiasi cosa accadrà, sarai sempre la mia sorellina e nulla ci separerà. Io ci sarò sempre, affronteremo tutto insieme; ovunque sarai, io sarò con te. Te lo giuro.”
“Per sempre?”
“Per sempre.” E la sua voce era rotta dal pianto.
Ci abbracciammo ancora e rimanemmo in quella posizione per tantissimo tempo – a me parve l’eternità.
Chissà se mamma poteva vederci, ovunque si trovasse. Chissà quanto doveva ferirla vederci così e non poter fare niente per noi.
Quando ci separammo, ci guardammo ancora una volta negli occhi.
“E adesso che facciamo?” le chiesi.
“Mmh… innanzitutto potremmo sciacquarci il viso, che dici?” propose lei, accennando un sorriso.
Annuii e mi diressi verso il bagno. “Tu non vieni?”
“Sparecchio la tavola e ti raggiungo.”
Il bagno era illuminato soltanto dal chiarore della luna piena per tre quarti; non mi preoccupai nemmeno di accendere la luce, mi fiondai al lavandino e inondai il mio viso già fradicio con l’acqua fresca. Magari mi avrebbe aiutato a svegliarmi da quel brutto incubo.
Mi rimisi dritta e, senza nemmeno asciugarmi, guardai nello specchio davanti a me. Tra le ombre alle mie spalle mi sembrava quasi di scorgere il viso di mamma mentre si pettinava con cura i lunghi capelli castano scuro, uguali a quelli di Yelena.
Un capogiro mi costrinse a reggermi al bordo del lavandino per non cadere e il respiro mi si mozzò. Non ce la facevo più.
Tornai nella zona giorno e, ferma sulla soglia, osservai Yelena mentre raccoglieva i bicchieri ancora disposti sulla tavola.
“Senti” esordii col tono più fermo che mi venne in quel momento, “io non so a che ora torna papà, ma in ogni caso qui non ci voglio rimanere. Non voglio restare a casa.”
Yelena si voltò per scrutarmi con attenzione, poi annuì lentamente. “D’accordo.” Tacque per qualche altro secondo, probabilmente in cerca di una possibile soluzione. “Possiamo andare dalla signora Townsend. Ti ricordi cosa ci ha detto oggi?”
Cercai di riportare alla mente la conversazione che avevamo avuto con la nostra vicina quando era venuta a trovarci quel pomeriggio, ma non mi era rimasto impresso nulla in particolare. Scossi la testa.
“Che potevamo chiedere a lei se avessimo avuto bisogno d’aiuto, a qualsiasi ora del giorno e della notte.”
“Allora andiamo da lei.”
Sapevo che a mia sorella non piaceva chiedere aiuto agli altri, quindi se aveva proposto una cosa del genere doveva essere davvero disperata. Alla fine, anche se ai miei occhi era sempre stata una specie di supereroe, era soltanto una ragazzina di neanche diciott’anni che aveva appena perso la madre e doveva prendersi cura della sua sorellina di undici anni.
Quando qualche minuto dopo ci chiudemmo la porta alle spalle, sentii subito il cuore più leggero. Per la prima volta realizzai che potevo sentirmi a casa ovunque nel mondo, tranne che dentro la mia vera casa.
 
 
 
Papà non tornò quella sera.
Io e Yelena non chiudemmo occhio: anche se la signora Townsend ci aveva gentilmente lasciato una camera con due letti singoli che era appartenuta ai suoi figli, noi rimanemmo in soggiorno ad aspettare con gli occhi sgranati.
Lo vedemmo soltanto la mattina dopo, sul presto, e a giudicare dallo sguardo annacquato e dall’alito pesante che aveva, doveva aver alzato parecchio il gomito. Ci riconobbe a stento quando ci vide.
La sera dopo andò esattamente allo stesso modo. “Torno presto” ci disse mentre usciva, ma rincasò soltanto all’alba.
Allora cominciai a vedere mio padre come un bugiardo e smisi di fidarmi di lui. Non sapevo più a cosa credere, ora che il mio mondo stava cadendo a pezzi.
Yelena era arrabbiata. Non riusciva a sopportare che, al posto di stare con noi nel momento in cui avevamo più bisogno di un padre, lui andasse a stordirsi con l’alcol per tutta la notte.
Io invece ero soltanto disperata. Ogni volta che lo vedevo uscire era una pugnalata e non esisteva un modo per dissuaderlo, per riportarlo indietro, per convincerlo a non andarsene. Suppliche, pianti isterici, grida: nulla serviva ad attirare la sua attenzione.
Eravamo sole, io e Yelena. Io ero con lei e lei con me, ma a nessuno importava di noi. E ben presto anche quel viavai di persone che erano sembrate così gentili e bendisposte si dissipò, lasciando il vuoto attorno a noi e alla nostra casa.
Io stavo sempre peggio, giorno dopo giorno. All’inizio ero rimasta sotto shock, in maniera talmente profonda da non riuscire nemmeno a soffrire; ma man mano che il tempo passava una voragine mi si apriva nel petto. Confondevo la realtà con gli incubi che sognavo di notte, mi svegliavo tra le lacrime, cercavo mia madre ma non la trovavo mai. E, giorno dopo giorno, realizzavo che lei non c’era più.
Era l’estate più fredda della mia vita. Avremmo dovuto fare tante cose: ci saremmo dovuti trasferire in una casa più bella e in un quartiere migliore, perché entrambi i miei genitori avevano trovato un lavoro ed erano riusciti a risparmiare un po’ di soldi, e forse avremmo fatto pure le nostre prime vacanze in famiglia.
Ma ormai era tutto sfumato. Io non credevo più a mio padre.
Circa una settimana più tardi, ricominciò a uscire anche di giorno e io diedi per scontato che fosse tornato al lavoro. Non lo vedevo quasi mai, a volte non tornava per niente a casa; le poche volte che lo incrociavo, era ubriaco marcio.
Una volta, sbirciando tra gli scaffali della piccola dispensa, mi ero accorta che aveva conservato un sacco di alcolici anche a casa. Quando non usciva, stava comunque attaccato alla bottiglia per tutto il tempo: le sue scorte finivano in un battito di ciglia.
Yelena era sempre più incazzata. Gli insulti che rivolgeva a nostro padre quando lui non era presente facevano venire i brividi, era quasi impossibile credere che una figlia li stesse rivolgendo al loro padre.
Io, invece, ero sempre più disperata. Cominciavo a vedere tutto con una lucidità che una ragazzina di undici anni non avrebbe dovuto avere, ma la mia mente e il mio cuore non erano pronti ad accettare queste consapevolezze.
 
 
 
Quel giorno eravamo andate a fare una passeggiata al tramonto, come spesso capitava. Nessuna delle due voleva rimanere a casa per troppo tempo, ci veniva il voltastomaco.
“Bess, devo dirti una cosa molto importante” annunciò a un tratto Yelena in tono basso ed estremamente serio.
Mi voltai a guardarla e notai che faceva fatica a ricambiare lo sguardo, fissava l’asfalto bollente su cui stavamo passeggiando.
Doveva essere grave davvero.
“Che c’è?” domandai. Avevo il cuore in gola, ma cercai di darlo a vedere.
“Ho cercato di posticipare il più possibile questo momento, speravo di poter aspettare almeno qualche altro mese. Ma non posso più rimandare.”
Le mie gambe stavano cominciando a tremare, ma mi imposi di andare avanti. “Che cazzo stai dicendo?”
Avevo cominciato a parlare come mia sorella. Mi aveva contagiato.
Lei sospirò. “I soldi in casa stanno finendo: devo cercare un lavoro, se non vogliamo morire di fame.”
Sgranai gli occhi e mi immobilizzai in mezzo alla strada. “Non è possibile. Papà va a lavorare ogni giorno, è lui che porta i soldi in casa, e poi c’erano i risparmi che lui e mamma avevano…”
“Papà non va a lavorare.”
Puntai i miei occhi nei suoi e non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a bere.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a spendere tutti i soldi che avevamo a fondo – e anche quelli che non avevamo. Perché quello di bere era un vizio che costava tanto.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a sottrarre qualcosa dalle nostre vite, oltre all’affetto che non ci dava più da mesi.
“Non è giusto. Cazzo, non è giusto!” esclamai, la voce già incrinata da un pianto che avrei voluto trattenere.
Yelena mi regalò uno dei sorrisi più tristi che le avessi mai visto sulle labbra. “Da tre mesi non c’è una sola cosa giusta. Ma ce la caveremo, in un modo o nell’altro.”
Yelena era l’unica che si impegnava davvero per noi – per me. Mi aveva fatto una promessa e l’aveva mantenuta; avrei sopportato la sua lontananza se avessi dovuto, se lo meritava.
Annuii e nel frattempo serrai la mascella e i pugni, sperando che mia sorella non se ne accorgesse. Adesso anche io cominciavo a essere incazzata con nostro padre – cominciavo a capire Yelena.
 
 
 
Ero molto più debole di quanto dessi a vedere e di quanto io stessa fossi disposta ad ammettere.
Ero stata convinta fino all’ultimo che avrei potuto sopportare l’assenza di mia sorella – l’ennesima assenza nella mia vita –, ma quando arrivò il suo primo giorno di lavoro ero tremendamente agitata.
Era stata assunta come cameriera in uno squallido bar che si trovava ai margini dal quartiere; non era l’ideale, la paga era bassa e i clienti erano per la maggior parte delinquenti, gente poco raccomandabile, ma avevamo urgente bisogno di soldi e Yelena si accontentò.
Non aveva dei turni fissi: certe volte doveva lavorare di mattina, certe volte nel pomeriggio. Il caso volle che il primo giorno le assegnassero la fascia oraria pomeridiana.
Mi ero svegliata con l’ansia, avevo trascorso la giornata scolastica con un groppo in gola ed ero tornata a casa col terrore di trovarla vuota. Ma avevo tirato un sospiro di sollievo quando mi ero resa conto che papà era in bagno e si stava facendo una doccia.
Mi lasciai cadere sul divano e mi concentrai sui suoni che oltrepassavano la finestra spalancata della zona giorno. Fuori si respirava ancora l’afa estiva, ma dentro casa nostra regnavano perennemente penombra e gelo.
“Beatrix.” La voce di mio padre mi fece sobbalzare e mi voltai a guardarlo: era sulla soglia, coi capelli ancora umidi e i vestiti leggeri e puliti – anche se un po’ spiegazzati. Mi bastò guardarlo negli occhi per capire che era sobrio quel giorno.
Sembrava quasi quello di un tempo, bello come l’avevo sempre visto, anche se aveva pronunciato il mio nome in una maniera distante che mi aveva fatto male.
“Ciao papà.” Cercai di utilizzare lo stesso tono distaccato. In fondo non sapevo nemmeno io come comportarmi: da una parte volevo correre ad abbracciarlo e chiedergli di rimanere con me per sempre, dall’altra volevo gridargli in faccia che era uno stronzo perché per colpa sua Yelena lavorava in uno squallido bar.
“Dov’è Yelena?” mi domandò.
“Al lavoro.”
E la conversazione crollò. In fondo da tre mesi a quella parte non avevamo tanto da dirci, eravamo come degli sconosciuti.
Lo seguii con lo sguardo mentre apriva le ante della credenza, rovistava in tutti i mobili della cucina e poi si recava in dispensa, alla ricerca di chissà cosa.
In realtà lo sapevo benissimo, ma non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa.
Ogni secondo che passava, la voragine che avevo al centro del petto si allargava. Non provava nemmeno a rivolgermi la parola, anzi, non mi guardava nemmeno.
La mamma mi chiedeva sempre: “Com’è andata a scuola?”. Ogni giorno, non appena rientravo. Invece papà forse nemmeno lo sapeva, che era ricominciata la scuola.
Lo vidi tornare presso il tavolo a mani vuote, mentre con lo sguardo cercava freneticamente qualcosa sulle mensole e sui piani dei mobili. Quando individuò ciò che gli interessava, scattò in avanti e lo afferrò come farebbe un affamato con un piatto di cibo; il suo mazzo di chiavi tintinnò nel silenzio, il suono più atroce che le mie orecchie avessero mai udito.
Allora capii. Mi ero fidata un’altra volta, mi ero persa nel suo sguardo così colmo di lucidità, mi ero illusa che lui sarebbe stato con me perché l’avevo trovato a casa.
Avevo addirittura pensato che mi stesse aspettando.
E invece, ancora una volta, voleva lasciarmi da sola. Veramente sola, perché stavolta non c’era Yelena accanto a me.
Sola coi fantasmi del mio passato, sola con l’ombra di mamma che abitava ancora a casa nostra, sola con i ricordi e col cuore a pezzi, sola come una bambina di undici anni non avrebbe mai dovuto essere – ma ormai non ero nemmeno più una bambina, anche io ero invecchiata di colpo come mio padre.
“Papà, non andartene” mormorai. Non l’avevo mai più supplicato da quella prima volta in cui era uscito, ma quel giorno non riuscii a trattenermi.
Lui sospirò e si diresse verso l’ingresso, ma non disse niente. Probabilmente non sapeva nemmeno lui cosa dire.
“Perché mi vuoi lasciare da sola? Perché non rimani qui con me?” Il mio tono di voce salì di un’ottava e le ultime sillabe vennero soffocate dal singhiozzo di un pianto che era in procinto di esplodere.
“Beatrix, tesoro… devo andare, è una cosa importante” bofonchiò.
“Non è vero!” Mi sarei potuta alzare, sarei potuta andare da lui e bloccarlo, artigliarlo per un braccio e impedirgli di uscire. Avrei potuto fare qualsiasi cosa per trattenerlo accanto a me, ma avevo preso a tremare e a singhiozzare talmente forte che non riuscivo a controllare il mio corpo: i muscoli non rispondevano, sentivo soltanto un dolore opprimente all’altezza del petto e i polmoni che si riempivano di piombo.
Osservai mio padre – quell’uomo sciupato e pieno di rughe, particolari che prima di allora avevo ignorato – attraverso gli occhi appannati, la sua immagine era sfocata come la sua anima.
“Non andartene, non andartene… rimani…” continuavo a piagnucolare disperata. Non riuscivo nemmeno a passarmi le mani sul viso per asciugare le lacrime e scostare le ciocche.
“Torno presto, promesso.” Anche la sua voce era sfocata.
“Non è vero neanche questo! Sei un bugiardo, un fottuto bugiardo! Te ne stai andando come la mamma, mi lasci anche tu! Io non voglio che tu te ne vada!” strillai isterica. Sembravo una bambina piccola, piangevo fortissimo e mi colava il naso.
Solo che un brivido di gelo mi correva lungo la schiena, e quella era una sensazione che nessun bambino provava.
Ma mio padre uscì lo stesso. Fu talmente egoista da lasciarmi lì, in quelle condizioni, talmente sconvolta che non riuscivo nemmeno ad alzarmi.
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola fino a farmi bruciare i polmoni, conficcai le unghie nei palmi fino a farmi bruciare la pelle, ma dentro stavo gelando.
Il cuore mi batteva nella testa, le orecchie mi si riempivano del suono del mio stesso respiro corto, gli occhi erano serrati e incrostati di lacrime. Il divano sembrava una trappola per il mio corpo squarciato dai tremiti, intorpidito.
“Mamma… mamma…” Lo mormoravo senza rendermene conto, le chiedevo dove fosse.
Era tutta intorno a me, in quella casa che mi avvolgeva e mi soffocava: era lì, mi guardava, mi parlava, mi accarezzava, mi rassicurava – io lo sapevo.
Solo che mamma era morta.
E anche io mi sentivo morire. E piangevo, e la chiamavo, ed ero lontana da tutto e tutti.
Ero sola, vuota, morta, perché lei non era con me. La chiamavo ma non rispondeva, la cercavo con le dita ma non la trovavo, la volevo ascoltare ma non la sentivo.
Ero sola.
Tremavo, volevo urlare ma non ci riuscivo più.
Ero sola.
Tremavo, volevo alzarmi e andare via ma non riuscivo a muovermi.
Ero sola. Sola. Sola.
Sola.
Sola.
Sola.
 
Yelena mi trovò così.
Tremante, incapace di parlare, fradicia delle mie stesse lacrime.
Ci misi un po’ per tornare alla realtà, per capire che il volto che vedevo era il suo e che le mani che mi stavano toccando erano le sue.
Mi chiese come stavo e risposi con un singhiozzo, perché non riuscivo a parlare.
“Oh mio dio, ha un attacco di panico” mormorò preoccupata. Poi si sedette accanto a me, mi prese tra le braccia e mi cullò finché non mi calmai.
La mia prima volta a casa da sola era stata un disastro.
 
 
 
Cominciai a soffrire abitualmente di attacchi di panico. Mentre tutti gli undicenni giocavano tra loro e si preoccupavano di apparire più fighi degli altri, ecco i problemi che dovevo affrontare io.
A volte mi sorprendevano quand’ero a scuola, altre volte quando ero in giro con mia sorella; nella maggior parte dei casi mi accorgevo del loro arrivo e cercavo di reprimerli o limitarli, ma non era sempre così semplice.
Allora mi allontanavo da tutto e da tutti, mi nascondevo in un angolo e aspettavo che il senso di oppressione, ansia e terrore passasse da solo.
Quando stavo a casa da sola – certe volte ero costretta, visto che mio padre non tornava e Yelena aveva da lavorare – la situazione peggiorava: l’unica soluzione era allontanarmi, uscire di lì e fare una passeggiata.
Alla fine, pur di non restare chiusa tra quelle quattro mura, stavo diventando una nomade. Conoscevo a memoria le strade del mio quartiere – anche se non erano decisamente il luogo più adatto per una ragazzina di undici anni – e imparai le tecniche per passare inosservata. Non studiavo più, non mi importava quale direzione stesse prendendo la mia vita: pioggia, sole, vento o neve, a qualunque ora e in qualunque giorno della settimana, io ero sempre in giro.
Anche se le strade erano inondate di ragazzi come me – molti li conoscevo, frequentavano la mia stessa scuola – io non mi avvicinavo a nessuno e non mi facevo notare: volevo stare da sola.
Ciò che mi disgustava maggiormente di casa mia non erano tanto i ricordi legati a mia madre – certo, anche quelli continuavano a far male –, quanto la possibilità di incontrare quello stronzo di mio padre. Lui non c’era mai, era vero, ma di certo se fosse rincasato non mi avrebbe trovato lì ad aspettarlo. Mi metteva il voltastomaco.
Adesso sì che ero davvero incazzata con lui, adesso sì che capivo mia sorella: da quando mi aveva lasciato sola quella volta, il risentimento che provavo verso di lui si era trasformato in odio vero e proprio, profondo e viscerale.
Era talmente stronzo che non riusciva nemmeno a capire il male che stava facendo a me e Yelena. Per avere un padre del genere, avrei preferito che anche lui fosse morto – o che magari la mamma fosse stata al suo posto. Lei in una situazione del genere ci avrebbe dato tutto l’amore che le era possibile donare, ne ero certa.
 
 
 
Quel giorno di metà ottobre sarebbe stato il compleanno di mamma.
La mattina mi ero svegliata con un nodo in gola e, rigirandomi tra le coperte e sbirciando verso la finestra, avevo avuto l’impressione di scorgere il suo viso attraverso il vetro sporco.
Dovevo fare qualcosa per lei, per festeggiarla. Tutti gli altri giorni ero stata codarda, ma quella volta avrei resistito.
Ero da sola, come ogni pomeriggio.
L’occhio mi cadde sul giradischi abbandonato sul mobile accanto al camino, che nessuno aveva più toccato e usato da giugno. Per fortuna qualcuno – probabilmente Yelena – aveva tolto dal piatto il vinile dei Jefferson Airplane per evitare che si rovinasse; comunque la custodia era ancora là accanto, leggermente impolverata.
Mi accostai al mobile di soppiatto e, con dita tremanti, portai fuori il disco e lo osservai con devozione. L’avevamo ascoltato talmente tante volte che alcuni punti sulla superficie erano rovinati, ma era ancora uno degli oggetti più belli che avessi mai visto.
Misi su il lato A – quante volte mamma aveva compiuto quello stesso gesto! – e posizionai la puntina, col cuore in gola. Non ero certa di riuscire ad affrontare tutto ciò, ma ero certa di volerlo fare.
Non appena l’inizio di She Has Funny Cars riempì il silenzio, gli occhi cominciarono a bruciarmi e una voragine mi si aprì al centro del petto. Ricordavo perfettamente le domeniche mattina piene di sole in cui mi mettevo in piedi sul divano e saltellavo seguendo quel ritmo così contagioso, finché mamma non mi intrappolava tra le sue braccia e mi rimproverava, perché il divano così si sarebbe rotto e se l’avessi sfondato ci sarei finita dentro e mi avrebbe inghiottito. Ridevamo tantissimo.
Brividi di emozione mi correvano lungo le braccia, la schiena, il cuore, e potevo quasi percepire la presenza di mamma accanto a me. Era una sensazione stupenda e devastante allo stesso tempo.
Rimasi lì impalata per un tempo incalcolabile, a osservare il disco e lasciarmi riempire le orecchie da quelle note così familiari, senza avere il coraggio di sedermi o compiere qualsiasi altro movimento. Solo quando il primo brano dell’LP giunse al termine realizzai che erano trascorsi solo poco più di tre minuti.
Ma il vero colpo al cuore lo ebbi quando Somebody To Love esplose nella stanza con la sua proverbiale energia. Avevo sempre adorato quella canzone e avevo sempre amato sentire mamma che la canticchiava per me.
Mi diceva sempre che quella era la mia ninna nanna, che la intonava tutte le volte che mi cullava tra le braccia per farmi addormentare, e forse era per quello che ero così tanto affezionata a quella canzone.
Resistetti solo fino alla seconda strofa. Poi, tremando come una foglia e con le lacrime a rigarmi le guance, sollevai la puntina e corsi fuori, via da quella casa e da quei ricordi, lontana dal panico che minacciava di stritolarmi lo stomaco.
Una volta all’aria aperta mi sentii subito meglio; corsi per qualche altro metro e poi mi fermai per riprendere fiato, i singhiozzi a squarciarmi il petto e gli occhi che bruciavano per le lacrime e la luce rossastra del tramonto. Camminai, camminai e camminai ancora, tenendo lo sguardo basso, cercando di non pensare a niente.
“Ehi! Hadley!”
Sobbalzai nel sentir pronunciare quelle parole ad alcuni metri da me, ma non mi voltai: avevo ancora gli occhi arrossati e le lacrime secche sulla pelle, non volevo che qualcuno mi vedesse in quelle condizioni.
Tanto sapevo già di chi si trattava: solo una persona mi chiamava per cognome e con quell’inconfondibile accento. Pensai che, se avessi finto di non aver sentito e avessi continuato dritta per la mia strada, avrei potuto scamparla.
Ero stata poco attenta a non farmi notare quel giorno.
Ma tutte le mie speranze andarono in fumo quando avvertii una presenza più vicina a me, alle mie spalle. “Beatrix! Non fare la stronza, tanto so che mi hai sentito!”
Fui costretta a fermarmi e sbirciare al mio fianco quando mi sentii sfiorare la spalla: proprio come immaginavo, Viktor mi scrutava attentamente e mi rivolgeva uno dei suoi soliti sorrisetti ironici.
Era da almeno un anno e mezzo – da quando non frequentavamo più la stessa classe – che non ci avevo davvero a che fare, ma lui non era cambiato per niente: spalle larghe, capelli castano chiaro sempre scompigliati, lineamenti decisi ma non troppo duri, leggero accento dell’Est Europa. Andavamo davvero d’accordo alle elementari, ma poi ci eravamo persi di vista – soprattutto da quando mia madre era morta e io avevo smesso di frequentare chiunque.
“Che c’è?” ribattei bruscamente, infastidita dalla situazione più che dalla sua presenza.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ma tu hai pianto!”
“Non è vero” mi affrettai a chiarire, ma ormai aveva visto i miei occhi e aveva capito.
“Non ci casco! Cos’è successo?” Mi afferrò per un polso – quanto detestavo quel gesto! – e mi strattonò leggermente per potermi osservare meglio in viso.
“Non ci parliamo da una vita. Che te ne importa?” sputai acida, divincolandomi dalla sua presa.
Avevo sempre avuto un caratterino deciso, ma nell’ultimo periodo mi capitava spesso di rispondere in maniera scontrosa, complice tutta la rabbia che avevo accumulato dentro in quei mesi.
Lui sospirò e piegò appena il capo di lato, in cerca delle parole da utilizzare.
“Mia madre è morta, lo sapevi?” sbottai a un certo punto.
Perché l’avevo fatto?
Lui annuì e abbassò lo sguardo. “Lo sanno tutti nel quartiere.”
“E allora perché mi chiedi cos’ho se sai già la risposta?”
“Senti… mi è venuta un’idea.”
Incrociai le braccia al petto e lo scrutai attentamente, aspettando che parlasse.
“Ti porto nel mio posto preferito, dove ci sono tutti i miei amici. È un luogo in cui tutti si possono divertire come vogliono senza mai essere giudicati… credo che ti farebbe bene distrarti un po’, ora che sei giù.” Sorrise appena sulle ultime parole, come se volesse contagiarmi un entusiasmo che invece non mi arrivò per niente.
Ci pensai su per qualche istante: non avevo la più pallida idea di dove volesse portarmi, ma in fondo cos’avevo da perdere? Mi fidavo di Viktor, era un ragazzino a posto, e poi ovunque sarebbe stato meglio che a casa mia.
Annuii appena, al che Viktor mi strizzò l’occhio e mi fece strada lungo la via, nella direzione opposta rispetto alla mia dimora.
 
Squallore fu la prima parola che mi venne in mente non appena mettemmo piede dentro quel locale. Ma era uno squallore che, in qualche modo, sapeva di casa.
Tutto era sudicio e immerso nella penombra: l’insegna appesa all’ingresso, su cui campeggiava la scritta Alibi, era scrostata e sbiadita; il bancone era ricoperto di aloni sospetti, i tavoli erano incrostati e pure i vetri di porte e finestre avevano una patina di sporcizia. A giudicare dal suo aspetto, pure il barista – che, come mi aveva rivelato Viktor, era anche il gestore del locale – non doveva vedere una doccia da parecchio tempo.
Eppure c’era qualcosa di affascinante e magnetico in tutto ciò. I vinili di Led Zeppelin, Rolling Stones e Pink Floyd appesi alle pareti ingiallite, il giradischi addossato in un angolo e il piccolo palchetto su cui erano stipati batteria e amplificatori davano un tocco rock all’atmosfera, facendo somigliare il locale a uno di quei pub in centro dove andavano a suonare le band importanti. Risate e imprecazioni si mischiavano alla musica, riempivano l’aria insieme al fumo che pizzicava gli occhi e che odorava di tabacco e marijuana.
In un primo momento provai una sorta di paura verso quel luogo e la gente che lo frequentava, ma nel guardarmi attorno una seconda volta mi resi conto che si trattava di ragazzi come me, miei coetanei o poco più grandi, e la maggior parte li conoscevo già, anche se solo di vista. Erano ragazzi di cui giravano voci davvero tristi, che avevano alle spalle un passato difficile – del resto tutti in quel quartiere dovevano lottare contro qualche demone – e, anche se si ostinavano a ridere e bere tutti insieme, non erano davvero così felici come apparivano.
“Mio fratello mi sta chiamando.” La voce di Viktor mi riscosse dalle mie riflessioni. Eravamo ancora fermi vicino all’ingresso.
Gli lanciai un’occhiata spaesata.
“Mi avvicino un attimo a sentire che vuole. Tu intanto vai al bancone, ordina qualcosa. Ti raggiungo subito, okay?”
Annuii e lo osservai mentre si allontanava, dirigendosi verso Bogdan – suo fratello – che stazionava in un tavolino dall’altra parte del locale, vicino al palchetto.
Non mi soffermai troppo a osservarli – preferivo che Bogdan non mi notasse perché, a differenza di Viktor, non mi ispirava troppa fiducia: si diceva fosse immischiato in qualche affare losco che aveva a che fare con la droga – e mi diressi al bancone, senza però mettermi in fila. Non sapevo nemmeno cosa ordinare: non avevo mai assaggiato nulla di alcolico, ma avevo l’impressione che in un luogo del genere fosse d’obbligo. Quindi decisi di aspettare Viktor prima di combinare qualche disastro.
Nel frattempo ne approfittai per esaminare ancora i presenti: erano tutti così diversi, così spontanei e disinibiti. C’era chi si vestiva in maniera eccentrica, chi sfoggiava la maglietta della propria band preferita, c’era chi si acconciava i capelli in maniera bizzarra, se li tingeva o se li ossigenava, poi c’era chi si era riempito la pelle di piercing e tatuaggi.
E le ragazze… erano così belle! Truccate, vestite in modo da mettere in risalto i punti più forti del loro corpo, così sorridenti e così maliziose, sempre con la situazione sotto controllo. Erano delle dee in confronto a me, piccola e sciatta, magra e senza forme, così bassa che col mento arrivavo a malapena al piano di marmo del bancone.
Mi sarebbe piaciuto essere come quelle ragazze.
Qualunque fosse il demone che tutte quelle persone si portavano appresso, erano riuscite in un modo o nell’altro a metterlo da parte ed erano diventate esattamente ciò che volevano essere.
“Ehi, biondina!” esclamò una voce fin troppo squillante, facendomi sobbalzare.
Mi voltai e aggrottai le sopracciglia. “Non c’è bisogno di gridare, sono qui a fianco, ti sento” misi in chiaro in tono diffidente.
La ragazza che mi aveva appena rivolto la parola scoppiò a ridere e mi sorrise. Era davvero bella: pelle olivastra, lineamenti ispanici, capelli lunghi e scuri, abiti colorati che le calzavano a pennello. “Scusami, hai ragione! Ti ho visto entrare con Vik poco fa… sei nuova?”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono nata qui.”
“Come ti chiami?”
“Bess” risposi automaticamente, utilizzando l’abbreviativo con cui mi chiamava sempre Yelena.
“Io invece sono Fanny. Senti un po’… prendi qualcosa? Una birra?” mi chiese, accennando al barista che armeggiava con qualche bottiglia nella sua postazione.
“Ma veramente i minorenni non potrebbero comprare alcolici” le feci notare dubbiosa.
“Ah, ma qui non si fa caso a queste cose, Charles non chiede mai i documenti! Per questo l’Alibi è il locale più frequentato del circondario: pur di vendere e guadagnare, Charles dà via la roba a chiunque.”
“Oh, beh, se la mettiamo così…” Mi guardai attorno alla ricerca di Viktor e lo avvistai che ancora conversava con suo fratello e qualche altro ragazzo, poi tornai a scrutare la mia interlocutrice. “Ma credo che non prenderò niente. Anzi: si sta facendo tardi, penso che me ne andrò a casa.”
All’improvviso mi sentivo inadeguata. Non era il posto la causa di questa sensazione: ero io, il mio aspetto, il mio atteggiamento.
“Sei sicura?” ribatté Fanny, ma non c’era traccia di scherno nella sua voce. Era dolcissima.
Annuii e mossi un passo verso la porta. Non mi preoccupai di avvisare Viktor: avrebbe capito.
“Ma tornerai?” mi chiese Fanny quando le davo già le spalle.
Mi voltai giusto il tanto per rivolgerle un’ultima occhiata. “Tornerò.”
Solo mentre ero già per strada realizzai che avevo buttato fuori quella risposta senza neanche rifletterci. Non ne avevo avuto bisogno: lo sapevo, nonostante tutto, malgrado la mia iniziale diffidenza. Non sapevo quando e in quali circostanze, ma sarei tornata all’Alibi.
Ora capivo come mai Viktor lo considerava il suo luogo preferito: mi si era incollato sulla pelle dal primo momento in cui vi avevo messo piede.
Quella sera capii di avere un angolo di mondo a cui appartenevo veramente. Quella sera capii chi sarei voluta diventare.
 
 
 
Mi guardai allo specchio e per la prima volta mi detestai.
Mamma mi diceva sempre che ero una bambina bellissima, ma ora lei non mi diceva più un cazzo e io ero stufa di essere una bambina.
Odiavo quel visetto pulito e dai tratti ancora infantili, odiavo quei capelli biondo cenere così anonimi, odiavo i miei occhi sgranati e tristi, odiavo le mie spalle sottili e il petto troppo piatto.
Ma c’erano dettagli del mio aspetto che non si decidevano a cambiare, altri che non sarebbero cambiati mai. Ma c’erano tanti altri dettagli che potevo raddrizzare per far emergere ciò che ero – o meglio, ciò che ero diventata.
Aggrottai le sopracciglia sottili con disappunto, mi osservai nuovamente allo specchio e mi piacqui: più dura, più incazzata, più adulta.
Se nessuno – incluso mio padre – mi notava, avrei fatto in modo di attirare l’attenzione a modo mio.
Distolsi lo sguardo dallo specchio e improvvisamente mi sentii più forte.
Se ce l’avevano fatta tutti quegli altri ragazzi, ce l’avrei fatta anch’io.
 
Cominciai a rubare i soldi dal fondo comune e dai portafogli di mio padre e Yelena. A volte mia sorella mi dava qualcosa di sua spontanea volontà, ma non mi bastava mai.
Forse mi sarei dovuta sentire in colpa, ma non era così: del resto mio padre faceva la stessa cosa per alimentare il suo vizio di merda, quindi perché non potevo farlo anch’io? Perché non potevo spendere tutto ciò che volevo per delle cose futili? Nessuno mi avrebbe rimproverato, anzi, forse semplicemente nessuno se ne accorgeva: ero diventata la ragazzina fantasma a casa.
Comprai dei vestiti nuovi, mi rifeci il guardaroba: lasciandomi guidare dall’istinto e dal gusto personale, trovai nelle tinte scure e negli indumenti dallo stile un po’ gotico ciò che mi rappresentava davvero. Non sarei stata alla moda, certo, ma sarei stata me stessa e avrei spiccato tra tutti gli altri.
Acquistai anche dei trucchi e mi esercitai parecchio per applicarli al meglio. Adoravo il modo in cui certi make-up riuscivano a rendere la mia faccia più cattiva, mentre altri mi facevano apparire più provocante e maliziosa.
Cominciai a frequentare abitualmente l’Alibi e spesso mi ci recavo anche dopo cena, anche perché di sera la casa era sempre vuota e nessuno mi imponeva di restarci. Di mio padre lo sapevo, ma in quel periodo anche mia sorella cominciò a uscire più spesso: dopo essere tornata dal lavoro – da uno dei suoi tanti lavori, per essere precisi – del pomeriggio, si truccava, si agghindava e usciva. Non avevo idea di cosa andasse a fare, ma non pensavo mai di chiederglielo – del resto anche lei si faceva i fatti suoi e non indagava sulla mia vita.
Inizialmente mi affidavo a Viktor e a Fanny, che diventò la mia amica più stretta, ma ci misi davvero poco tempo a conoscere tutti gli altri ed entrare a pieno titolo nella cerchia. Mi era sempre venuto semplice fare nuove conoscenze e andare d’accordo con tutti, ma negli ultimi sei mesi me n’ero completamente scordata, tanto ero stata sopraffatta dalla sofferenza e dal dolore. Ma ora era tutto diverso: mi presentavo per ciò che volevo essere, mi comportavo e interagivo in base a come gli altri mi avrebbero dovuto vedere, ben presto costruii il mio personaggio e questo mi conferì la sicurezza che mi era mancata fino ad allora.
E soprattutto ottenni ciò che agognavo di più: quando arrivavo io, si voltavano tutti. Non passavo mai inosservata.
Le spese aumentavano giorno dopo giorno: cominciai a fumare e mi servivano i soldi per le sigarette, assaggiai i miei primi alcolici e mi servivano i soldi per le birre, andavo in giro per la città e mi servivano i soldi per i mezzi pubblici, cercavo di rendere il mio look sempre più eccentrico e mi servivano i soldi per vestiti e accessori. E rubavo senza scrupoli dalle tasche della mia famiglia, ormai non mi sarebbe importato nemmeno se mi avessero scoperto.
Ormai la mia famiglia era altrove. Yelena era l’unica persona che mi teneva ancorata al passato.
 
 
 
Quel giorno avevo un mal di pancia devastante e mi girava la testa. Era cominciato tutto nel primo pomeriggio e non avevo saputo come spiegare quei sintomi: avevo pensato che si potesse trattare di un qualche strano attacco di panico, che mi si stava presentando sotto un’altra forma, ma scartai quasi subito l’idea.
Avrei voluto parlarne con qualcuno, magari con Yelena, ma lei ovviamente non c’era.
Mi recai all’Alibi con tutte le intenzioni di trovare un modo per placare quel dolore. Entrai, salutai i miei amici con un cenno e mi diressi subito al bancone, posando i gomiti sul ripiano in marmo con fare deciso. “Una birra, grazie.”
“Wow, che determinazione! Se cominci a bere già da ora, tra qualche ora sarai fottuta!” commentò Viktor mentre mi passava accanto.
Gli rivolsi un sorrisetto. “Fatti i cazzi tuoi.”
“Non era una critica, anzi! Non vedo l’ora di vederti sbronza!”
“Ammesso che tu rimanga sobrio abbastanza!”
“Bess, tesoro, ciao!” mi affianco Fanny, regalandomi uno dei suoi sorrisi magnetici.
“Ehi.” Afferrai la mia birra, che nel frattempo era comparsa di fronte da me, ne presi un lungo sorso e poi mi voltai a guardare la mia amica. “Oggi mi voglio sconvolgere.”
Lei mi scoccò un sorrisetto complice. “Quanto?”
“Voglio andarci giù abbastanza pesante.”
“Allora non ti basterà un’innocente birra” affermò, intrecciando le dita sotto il mento e lanciando un’occhiata a Charles, che stava servendo due ragazzi. “Ti fidi di me?”
“Chi non si fiderebbe di te?” ironizzai, dandole di gomito e sghignazzando.
Fanny era una pazza, faceva tutto ciò che le saltava in mente e provava qualsiasi sostanza le capitasse a tiro; spesso tirava su anche cocaina e usciva completamente di testa. Tutto sommato però era uno spasso.
“Bene, allora allontanati e aspettami: ti porterò qualcosa di forte, uno dei miei drink preferiti!” esclamò.
“E cosa cambia se rimango qui?”
“No, dai, è una sorpresa!”
“Come vuoi.” Mi strinsi nelle spalle e mi allontanai, dirigendomi a passo spedito al tavolo di Viktor e i suoi amici.
Le sedie erano già tutte occupate: oltre al mio vecchio compagno di scuola c’erano Bogdan – ormai avevo superato il timore iniziale nei suoi confronti –, Jeff – il migliore amico dei fratelli polacchi – e alcune ragazze con cui avevo già stretto amicizia.
Scostai bottiglie e bicchieri vuoti e mi accomodai con nonchalance sul piano del tavolino. “Ehi, che si dice?”
“Ciao bimba! Non hai una bella cera” commentò Bogdan, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla biondina che gli sedeva sulle ginocchia.
“Quando mai ha una bella cera?” mi sbeffeggiò Viktor, prendendo una boccata dallo spinello che stringeva tra le dita.
Tirai un piccolo calcio a entrambi. “Che stronzi! Andate a fanculo!”
Effettivamente però mi pareva di avere una guerra nucleare dentro la pancia e no, non stavo affatto bene, anche se cercavo di nasconderlo e comportarmi come al solito.
“Allora… sapete chi suona oggi?” domandai, accennando al palchetto su cui era in corso un viavai di persone e strumentazione.
Una cosa che mi aveva colpito dell’Alibi era che si tenevano piccoli concerti praticamente ogni sera.
“Dei tizi… non saprei.” Jeff si strinse nelle spalle.
“Saranno pure dei tipi a caso, però li avete visti?” commentò Becky in tono malizioso, sporgendosi appena verso di me.
“E allora?” incalzò Bogdan in tono fintamente offeso.
“No, dico… il chitarrista, quello con gli occhi verdi e i capelli mossi… da uno così mi farei scopare volentieri” proseguì la bionda con un sorrisetto.
Becky sapeva il fatto suo. Aveva quindici anni e probabilmente era già stata a letto con tutti i frequentatori di sesso maschile dell’Alibi.
“Beh, ma allora lo voglio vedere anch’io questo chitarrista!” esclamai, aprendomi in un sorrisetto complice.
“Ma guarda te questi stronzi che vengono a rubarci le donne…” bofonchiò Bogdan, voltandosi a guardare prima suo fratello e poi Jeff.
Stavo per ribattere a tono con un commento ironico, ma improvvisamente una fitta alla pancia mi fece strizzare gli occhi e mordere il labbro. Mi portai una mano sul ventre e serrai la mascella. “Merda.”
“Che cazzo hai? Sei bianca in faccia…” si preoccupò Viktor, scrutandomi attentamente.
“Ho detto che non ho niente, porca puttana!” sbottai.
“Nervosa la ragazza” aggiunse Bogdan.
“Senti, vuoi fare un tiro? Così ti rilassi un po’” propose allora il fratello minore, accennando alla sua stecca d’erba.
Aggrottai le sopracciglia e ci riflettei su per qualche istante. Non avevo mai provato a fumare nient’altro oltre alle sigarette, ma in fondo che avevo da perdere? La pancia mi faceva un male tremendo, avevo la mente incasinata e piena di pensieri negativi, avevo voglia di dimenticare tutto e divertirmi.
“Vediamo un po’.” Mi sporsi per sfilargli lo spinello dalle dita e presi una lunga boccata, senza pensarci troppo.
“Eccomi qua! E, Bess, ti presento la tua prima tequila!” esplose la voce di Fanny, attirando l’attenzione di tutti.
Si sedette accanto a me, sul tavolino, e mi porse un bicchierino.
Bogdan fischiò d’approvazione. “La nostra bimba perde la verginità alcolica!”
“Ma veramente bevevo già da prima” gli feci notare.
“Una birra ogni tanto non equivale a bere” puntualizzò Viktor.
“Mi raccomando: giù tutta d’un sorso!” Fanny mi batté su una spalla e mi sorrise.
Non potei fare a meno di essere contagiata dall’entusiasmo generale. Avevo il mio primo shot di tequila tra le dita, l’erba stava cominciando a fare effetto e sentivo che quella sarebbe stata una serata memorabile.
 
Ridevo, così tanto che non riuscivo nemmeno a parlare. Senza motivo. Il mondo girava tutto intorno a me e mi faceva ridere.
Misi faticosamente a fuoco la faccia di Fanny, illuminata solo dalle luci dei lampioni. Mi guardava e sorrideva.
Forse c’era freddo lì fuori, ma io non me ne accorgevo.
“Cazzo! Volevamo vederti sconvolta ed è ciò che abbiamo ottenuto!” commentò la mia amica ridendo.
Anche io sghignazzavo senza interruzioni, sentivo la testa leggera ed era bellissimo.
Sollevai lo sguardo al cielo. “Fanny?”
“Sì?”
“Ma siamo in piedi o sedute?”
Lei lanciò un gridolino e mi spintonò leggermente. “Ma che cazzo di domande fai?”
Rotolai di lato sul marciapiede – ah, forse eravamo sedute! – e continuammo a ridere. Io non riuscivo nemmeno a rimettermi dritta con la schiena.
Ormai non sentivo più nessun dolore, avevo solo una strana sensazione di caldo tra le cosce.
“Oh cazzo… Bess?” si ricompose Fanny dopo un po’.
La guardai di sbieco. “Che c’è?”
“Guarda i tuoi pantaloni.”
Cercai di risedermi meglio che potevo, abbassai lo sguardo e allora notai una macchia scura sul tessuto dell’interno coscia.
Forse mi sarei dovuta vergognare, e invece scoppiai di nuovo a ridere, senza motivo. “Ah, ecco perché mi faceva male la pancia…”
“È la prima volta che ti vengono?” mi domandò Fanny, strattonandomi per un braccio in modo che mi rimettessi dritta.
“Sì.”
“Allora congratulazioni: sei ufficialmente diventata donna! Ora… come cazzo facciamo? Ti devo riaccompagnare a casa, prima che questo marciapiede si trasformi in uno scenario da film horror…”
“No, col cazzo! Io voglio rimanere qui, mi sto divertendo tantissimo!” protestai.
Proprio in quel momento lo stomaco mi si contorse all’improvviso: mi chinai in avanti e cominciai a vomitare. Forse avevo bevuto un po’ troppo…
Da una parte mi veniva da ridere perché sembravo una cretina, ma i conati mi scuotevano tutto il corpo e me lo impedirono.
Solo quando smisi mi resi conto che Fanny mi stava sorreggendo e mi aveva tenuto i capelli perché non si sporcassero.
“Porca puttana” mormorò.
Trascorsero alcuni secondi di silenzio, poi io ricominciai a ridacchiare. “Che schifo, adesso mi devo comprare un paio di scarpe nuove…”
“Prima sbronza e prime mestruazioni in un colpo solo: benvenuta nel mondo degli adulti, Bess.”
Tra poco meno di un mese avrei compiuto dodici anni.
 
 
 
Nei giorni successivi fui costretta a restare a casa.
Qualche volta mi era capitato di bere la sera e risvegliarmi il giorno dopo con un leggero mal di testa, ma quello era il mio primo hangover in piena regola.
E anche quando i postumi della sbornia cominciarono a sfumare, le fitte lancinanti alla pancia rimasero lì e continuarono a torturarmi.
Stavo di merda. L’unica cosa che riuscivo a fare era stare a letto, tremare e cercare la posizione in cui sembrava andare un po’ meglio.
Yelena veniva da me e mi accudiva tutte le volte che non era al lavoro, praticamente in quei giorni viveva dentro la mia camera. Non poteva essere tanto presente, ma faceva quel che poteva e io sapevo che ci metteva il cuore e tutta la buona volontà.
A volte ci pensavo: se ci fosse stata la mamma, sicuramente si sarebbe presa cura di me. Le avrei parlato dei miei sintomi e lei mi avrebbe consolato, le avrei fatto le domande più stupide sul ciclo e su cosa comportasse diventare donna, anche se molte informazioni già le sapevo grazie a Yelena e alle ragazze dell’Alibi. Ma mi sarebbe piaciuto essere ancora per un po’ una bambina che andava a cercare conforto tra le braccia della mamma.
Se ci fosse stata lei, forse non mi sarei nemmeno ubriacata così.
Formulare quei pensieri era inevitabile, ma subito cercavo di scacciarli perché mi facevano male.
Potevo cambiare esteriormente, potevo crearmi una maschera e convincere tutti che ero una ragazza forte, ma quella era una ferita che mi sarei portata appresso per sempre.
Di mio padre, ovviamente, nemmeno l’ombra. Era troppo impegnato a far fronte alle sue sbronze per preoccuparsi anche delle mie.
 
Era il terzo giorno di chiusura forzata in casa e io stavo cominciando a stufarmi. Non ero più abituata e quel posto mi piaceva sempre meno.
Yelena mi aveva portato la cena, si era seduta sul bordo del letto ed era rimasta a chiacchierare con me.
Non le avevo detto che mi ero presa una sbronza epocale, era convinta che il problema fossero soltanto i dolori dovuti al ciclo.
A un tratto, mentre ridevamo tra noi, mia sorella adocchiò l’orologio e subito si alzò.
“Devo andare” affermò mentre raccoglieva i resti del mio pasto.
Aggrottai le sopracciglia. “Dove?”
“Al lavoro.” Non mi guardò mentre lo diceva.
“Ah. Okay.”
Già da qualche tempo avevo un sospetto riguardo a quelle sue uscite notturne, ma non avevo mai avuto il coraggio di esprimerle. Però detestavo quando mi si nascondevano le cose e alla fine, lo sapevo, la mia curiosità avrebbe avuto la meglio.
“Yelena?” la richiamai, quando mia sorella mi dava già le spalle e si accingeva a uscire dalla stanza.
“Che c’è?”
“Girati.”
Mi diede ascolto e lasciò che i nostri occhi si incrociassero.
“Dimmi la verità” ordinai in tono mortalmente serio.
“Su che cosa?”
“Quando esci di sera vai a battere, non è vero?”
Lei tacque e abbassò di colpo lo sguardo. Non disse niente per interminabili secondi.
Quella risposta mi bastò.
“Lo sapevo” affermai.
“Bess, per favore… scusami! Lo so che ti ho deluso, ma i soldi in casa non bastano mai, il lavoro non è mai stabile e mi pagano una miseria! Io non volevo, però ho pensato che…” cominciò a giustificarsi, quasi in lacrime.
“Ma io non ti sto giudicando, cos’hai capito?” la interruppi.
“Cioè… non ti importa se sono una prostituta?” mormorò.
Mi strinsi nelle spalle. “Se a te va bene, allora va bene anche a me.”
“Grazie.” Tornò indietro e mi strinse in un lungo abbraccio.
Non ce l’avevo con lei, davvero: sapevo che era stata una scelta obbligata, che non aveva avuto alternative. Ai miei occhi, qualsiasi lavoro sarebbe potuto essere rispettabile se lo era il fine a cui serviva. E Yelena si stava sacrificando per me.
Non ebbi il coraggio di chiederle se questo la facesse star male: lei non smentì e non confermò.
Eppure sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Eppure la rabbia nei confronti di mio padre continuava a crescere, perché se sua figlia era costretta a fare sesso con degli sconosciuti era soltanto causa sua, e con i soldi che lei guadagnava lui continuava a comprare da bere.
Certe volte la mamma mi mancava così tanto.
 
 
 
“Sono un po’ indecisa però.” Presi una boccata dalla mia sigaretta e posai lo sguardo sulle mie amiche.
“Il rosso potrebbe donarti” propose timidamente Muriel.
Avevo legato parecchio con quella moretta da quando era arrivata all’Alibi: somigliava tanto a me nel primo periodo e io l’avevo presa sotto la mia ala protettiva.
“Ma quale rosso! Vorrei qualcosa di più… particolare, appariscente. E scuro, soprattutto.”
“Ma cos’ha il biondo che non va? Hai dei capelli stupendi!” cinguettò Fanny, prendendo una mia ciocca liscia tra le dita.
“È anonimo. Fa cagare! Allora… che ne dite del viola?”
Fanny scoppiò a ridere. “Ti prego, no!”
“Secondo me invece le starebbe bene!” obiettò Muriel.
“Ehi ragazze! Quanto prendete a botta?” esplose la voce di Viktor, intrisa di ironia.
Sollevai lo sguardo e lo vidi avvicinarsi lungo la strada insieme a Ives e Ethan – due ragazzi della nostra cerchia – con la solita stecca d’erba tra le dita.
Faceva sempre questa battuta idiota quando ci vedeva accomodate sul gradino del marciapiede.
Gli mostrai il dito medio. “Una botta devi averla presa tu da piccolo, in testa.”
“Era un complimento! Non capisci mai un cazzo!” mi punzecchiò.
I tre si fermarono davanti a noi.
“Sì, vabbè… fammi fare un tiro e taci!” lo liquidai con un sorrisetto.
Lui mi passò lo spinello.
“Ragazzi, noi stavamo pensando di andare al mare domani” se ne uscì Fanny.
“Figo! Noi ci siamo!” esclamò Ives con entusiasmo, per poi voltarsi a guardare Ethan.
Lui si strinse nelle spalle. “Nel dubbio io entro e mi prendo un Jack.”
Gli strizzai l’occhio. “Ma domani ti voglio al mare, eh!”
“Certo, in bikini” ribatté in tono scherzoso prima di sparire all’interno del locale.
Era molto affascinante, Ethan.
“Sbaglio o sul lungomare c’è quel chioschetto dove andavamo sempre l’estate scorsa?” domandò Viktor.
“Sperando che sia ancora tutto intero” ironizzò Muriel con una risatina.
“Io dovrei comprare un costume nuovo” affermò Fanny con una smorfia.
“Sapete dove si ferma il bus diretto al lungomare?” si informò Ives.
“Tra l’altro dovrò vendere un rene per comprare i biglietti…” bofonchiai.
Lui sorrise. “E chi lo paga il biglietto?”
Era il 3 giugno 1981, era l’anniversario di morte di mia madre e io me ne stavo seduta su un sudicio marciapiede: pensavo al colore di cui mi sarei tinta i capelli e progettavo un piano per andare al mare senza spendere un soldo.
Un anno era stato capace di stravolgere del tutto la mia vita: la mia famiglia si era distrutta e ne avevo trovato un’altra, ero stata strappata via dall’infanzia e mi ero scontrata con la vita vera, mi ero chiusa in un guscio e poi l’avevo spaccato, uscendone più forte di prima. O forse ero più debole, perché avevo perso me stessa e mi ero imposta di non guardare più al passato.
Ero giovane – troppo giovane – e incazzata col mondo, cercavo sorrisi e sguardi in ragazzi distrutti come me, forse con la stupida speranza di ritrovare, un giorno, il sorriso di mia madre.
Nessuno mi aveva dato delle indicazioni su come vivere, nessuno mi aveva mostrato la strada giusta da percorrere, così io ne avevo costruito una tutta mia.
Non sapevo come, non sapevo se in modo giusto o sbagliato, ma sarei andata avanti giorno dopo giorno, passo dopo passo – dolore dopo dolore.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Ciao a tutti e benvenuti al primo capitolo della mia prima raccoltina incentrata sul personaggio di Bess!
Capitolone, visto che sono quasi diecimila parole… SCUSATEMI, vi giuro che non pensavo che sarebbe uscito così lungo, ma per come ho intenzione di strutturare la raccolta non lo potevo proprio dividerlo! A maggior ragione perché la shot partecipa a un contest, quindi dovevo dire tutto in questa sede XD
E… fa schifo. Lo detesto. Ci ho messo una vita a scriverlo e man mano che andava avanti mi convinceva sempre meno, quindi mi scuso doppiamente perché davvero… lo stile fa schifo, la struttura fa schifo e probabilmente è la storia più brutta di tutta la serie AHAHAHAH!
Ma la smetto di lamentarmi (come mio solito) e passo alle note veramente importanti!
Innanzitutto vi lascio il pacchetto che ho scelto per il contest di Vintage:
 
Genitori fantasma:
Ovviamente i genitori in questa storia non devono esserci. Possono essere morti, lavorare e viaggiare spesso e quindi lasciare il povero protagonista da solo, senza uno straccio d’affetto familiare. Per chiunque sceglierà questa storia, dunque, i genitori sono off limits.
 
Che poi questo pacchetto si prestava praticamente a tutti i miei personaggi X’D
Per quanto riguarda i personaggi e le loro vicende, non credo di dover aggiungere altre grandi spiegazioni: spero sia comunque tutto chiaro anche per chi non conosce la serie!
Unica precisazione: Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane è un album pubblicato nel 1967 ed è il simbolo del rock psichedelico di quegli anni. Contiene, tra l’altro, due dei più grandi successi della band (Somebody To Love e White Rabbit).
Vi lascio di seguito i link delle canzoni che ho menzionato (bellissime, vi consiglio di darci un ascolto se non le conoscete *-*):
White Rabbit (è vero che l’hanno cantata a Woodstock, per inciso)
She Has Funny Cars
Somebody To Love
La prima è contenuta nel lato B dell’LP, le ultime due nel lato A (come detto nella storia, sono rispettivamente la prima e la seconda traccia).
Spero che la storia vi sia piaciuta più di quanto piaccia a me XD e spero che il personaggio di Bess vi abbia intrigato!
Non garantisco tempi brevi per quanto riguarda gli aggiornamenti di questa raccolta, ma spero davvero di riuscire a buttar giù un secondo capitolo decente XD
Grazie mille a chiunque sia giunto fin qui e alla prossima! ♥
 
 
   
 
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