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Autore: Shireith    19/03/2021    2 recensioni
Non gli era bastato, prima, cercare la sua mano tra i loro amici nell’ufficio di Faragonda, e non gli era bastato, poi, l’abbraccio. Quando si trattava di Marion, nulla era mai abbastanza.
Le si fece vicino, di nuovo, e le passò una mano tra i capelli, osservandoli come se volesse contarli uno per uno.
«Sai», la sentì sussurrare (la voce era debole, gli occhi umidi), «forse non lo è mai stata, nostra, Bloom.»
Perché da bambina l’avevano persa così presto che il loro unico merito era averla messa alla luce.

O anche: in cui guardo Il segreto del regno perduto, cerco una fanfiction ambientata subito dopo, non ne trovo nemmeno una e decido di scrivermela da sola.
{Marion/Oritel ⬝ Sky/Bloom}
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bloom, Marion, Oritel, Sky, Winx
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo di chi regna



 Sin da quando aveva appreso della loro esistenza, Bloom aveva passato gli ultimi tre anni ad Alfea accompagnata dal pensiero fisso e costante dei suoi genitori biologici. Si era chiesta se stessero bene, se fossero vivi. Era sicura che, semmai li avesse ritrovati, quello sarebbe stato il giorno più felice della sua vita; da lì tutto sarebbe proseguito in discesa, come nel finale di un film, quando i cattivi sono stati sconfitti e i buoni possono tirare un sospiro di sollievo.
 Eppure aveva sempre saputo che la vita, quella vera, non è come un film.
 L’aveva sempre saputo, e ciononostante si stupì di se stessa quando l’abbraccio con Oritel e Marion (suo padre, sua madre) si sciolse e l’ondata di gioia che le era esplosa in petto, pur non scomparendo, si affievolì, lasciando spazio alle ansie, alle incertezze, ai punti interrogativi che vedeva disseminati ovunque se pensava al futuro.
 Una parola pesante e carica di aspettative, una parola che, per sua stessa natura, nascondeva sempre mille sorprese.
 All’applauso di chi li circondava, abitanti di Domino, fate e Specialisti, seguirono presto mormorii e domande. Bloom sgusciò via dalle braccia di sua madre che sembravano averla avvolta per la prima volta (non lo era davvero, ma per lei sì) e osservò i sovrani di Domino appena tornati alla vita perdersi tra le attenzioni degli altri.
 Guidata più dall’istinto che dalla propria volontà, batté piano le ali e si avvicinò a Sky, fermo a osservare Oritel e Marion tra le prime file. Lui la guardò e le sorrise, ma non disse niente; invece, le cinse la vita con un braccio e le permise di riposare il capo contro la sua spalla. Bloom si chiese se avesse già intercettato le sue ansie solo guardandola, come se quelle si annidassero nel fondo dei suoi occhi, o se fosse un semplice gesto d’affetto. La seconda, probabilmente.
 Decise che andava bene così. Non c’era tempo per dar voce a pensieri che nemmeno lei sapeva come formulare.
 Quello che seguì fu confuso, come se nel frattempo Bloom fosse stata rinchiusa in una bolla e avesse solo osservato il tutto senza viverlo davvero. Ascoltò, senza mai lasciare il fianco di Sky, i sovrani di Domino che rispondevano alle domande dei sudditi, ma le bastò soffermarsi sullo sguardo di sua madre, proprio quando Marion pensava che nessuno stesse guardando, per capire che c’era dell’altro. Suo padre aveva un’espressione più indecifrabile, ma Bloom era sicura che anche lui provasse lo stesso. Erano re e regina, lui e Marion, e il compito di trovare risposte a domande che tutti si ponevano era il loro; eppure era chiaro, almeno per Bloom, che di domande ne avevano più dei loro sudditi, e di risposte molte meno di quanto non volessero.
 Fu Tecna, con poca sorpresa di chi la conosceva, a suggerire l’opzione più logica in quel momento di pura confusione. «Torniamo ad Alfea», disse.
 Bloom s’intenerì quando Timmy secondò la sua proposta con velocità fulminea e Tecna, cercando il suo sguardo, si aprì in un sorriso di ringraziamento.
 Si sentì ancora più vicina a Sky e si liberò di quei pochi centimetri che ancora li separavano, mormorando un «grazie» che esisteva solo per lui. Ebbe la certezza che lui l’aveva sentita quando rinsaldò la presa attorno alla sua vita, carezzandole un fianco.
 Su esortazione degli Specialisti, tutti coloro che dovevano tornare ad Alfea salirono sulle navette di Fonte Rossa. Bloom viaggiò con le Winx; per una pura coincidenza, sulla loro navetta non c’erano né Sky, né Oritel e Marion.
 Per tutto il viaggio, Bloom si chiese se la cosa le generasse più dispiacere che piacere, e se smise di pensare a tutto quello che l’aspettava ad Alfea era solo perché temeva di scoppiare a piangere. Cercò, dapprima invano, di distrarre la mente da tutto ciò che riguardasse Domino, trovando una scappatoia nelle lamentele di Stella. Furono quasi sempre Musa o Aisha a darle corda, spesso per controbattere, e le risate finirono per contagiare persino lei.
 
 
 Marion non poteva staccare gli occhi da Oritel e proprio per questo si accorse che, come lei, le sue dita correvano ovunque, dalle braccia al petto e poi al viso, come per accertarsi che era successo davvero, che erano finalmente liberi.
 Avrebbe voluto toccarlo; capire se al tatto la sua pelle era come se la ricordava, se tuffare le dita tra i suoi ciuffi castani le avrebbe trasmesso la stessa sensazione di un tempo. Ma i sovrani di Domino avevano delle apparenze da mantenere, non potevano abbandonarsi alle effusioni come una coppia di ragazzini, per giunta non di fronte a un gruppo di… ragazzini, per l’appunto.
 E allora Marion sentì di nuovo il peso della tortura di essergli così vicina senza poterlo nemmeno sfiorare, con la differenza che ora niente la fermava se non la sua forza di volontà – quella, e anche il suo contegno di regina.
 Osservò il volto di Oritel illuminato dalla luce che filtrava attraverso il vetro, ne seguì lentamente il profilo come se lo stesse vedendo per la prima volta. Notò che qualcosa era cambiato, anche se non sapeva dire cosa; forse era la barba incolta, meno curata del solito, che gli conferiva un aspetto un po’ trasandato, quasi più umano – Re Oritel non aveva mai amato apparire men che perfetto, agli occhi di chiunque. Sicuramente, rifletté Marion, era invecchiato. Anche lei lo era. Il tempo non li aveva risparmiati nonostante fossero rimasti bloccati per tanti, troppi anni.
 Ma quanti anni erano passati, esattamente? A giudicare dall’aspetto di Bloom, tanti; non sapevano il numero preciso, però. Non lo avevano chiesto.
 Marion si stupì che una questione tanto importante fosse sfuggita a entrambi, anche se, considerato lo shock, non poteva biasimare se stessa, né tantomeno suo marito, per quella mancanza.
 Osservò i giovani nella navetta, segno che la scuola di Fonte Rossa era ancora in piedi; questo le ricordò che avrebbero dovuto chiedere cosa ne era stato di tutti gli altri regni, quando fossero giunti ad Alfea.
 «Scusatemi.» Uno dei ragazzi trasalì, e persino suo marito si stupì del silenzio che venne rotto senza alcun preavviso. «Quanti anni sono passati, dalla caduta di Domino?»
 Marion fece correre lo sguardo sui quattro ragazzi. Identificò il primo come il ragazzo dai capelli lunghi che gli ricadevano sugli occhi, il secondo come il ragazzo imbronciato, il terzo come il ragazzo dalla lunga treccia, e il quarto come il ragazzo che aveva visto stretto a Bloom.
 Questo pensiero la turbò e non per gelosia di madre o istinto protettivo nei confronti di Bloom. Era il ragazzo di sua figlia, quello, e lei non sapeva come si chiamava. Era già tanto se conosceva il nome di Bloom, figurarsi quello dei suoi amici o del suo ragazzo.
 Fu proprio lui a rispondere. «Sarebbe meglio aspettare di arrivare ad Alfea, Vostre Maestà.»
 La sua voce chiara e ferma la distolse dai suoi cupi pensieri e Marion scosse la testa come a volerli scacciare via. Si rese conto di aver osservato il ragazzo con fin troppa intensità e sperò che non se ne fosse accorto.
 «Faragonda si è già messa in contatto con le Winx e vi sta aspettando», proseguì lui, poi sorrise e soggiunse: «Tutti vi stanno aspettando.»
 «Faragonda… è viva?»
 Fu Oritel a parlare, ma per Marion fu come se le sue stesse parole fossero fluite attraverso le sue labbra.
 «Sì, Vostra Maestà. Anche Saladin, Griffin e Hagen lo sono.»
 Marion sentì il cuore farsi meno pesante.
 Per il resto del viaggio, né lei né Oritel dissero niente, ma in più di un’occasione poté giurare che Oritel fissasse il ragazzo dai capelli biondi con un’espressione che nemmeno lei poté decifrare. Ai tempi di Daphne e delle sue prime cotte, Marion si era burlata di suo marito. Ora, sapeva che in quel ragazzo Oritel non vedeva un pretendente che doveva dimostrarsi degno della sua preziosa figlia, ma la prova, l’ennesima, che quella figlia non la conosceva affatto.
 Sentì gli occhi pizzicare e lo stomaco contorcersi come a volerla soffocare.
 
 Alfea era ancora più bella di come se la ricordava, immersa in un verde sconfinato che non stonava affatto con l’imponente scuola che ospitava fate di tutti i regni e ceti sociali. Marion ne avrebbe osservato ogni pilastro, ogni cupola, soffermandosi persino sul modo in cui la luce si rifletteva sulle ampie vetrate e da lì veniva rispecchiata sul parco, dal marmo dei gradini al verde brillante del prato.
 Non riuscì tuttavia a contemplarla più di un minuto, né poté farlo Oritel.
 Appresero, non appena atterrati, che la navetta di Fonte Rossa in cui avevano viaggiato le Winx assieme a due dei sei Specialisti era arrivata poco prima della loro. Marion scese subito dopo Oritel e osservò le ali delle fate brillare al sole. Bloom era in testa al gruppo e la donna con cui conversava era senza ombra di dubbio Faragonda. Quando la preside li notò e andò loro in contro, Marion fu troppo impegnata a onorare la loro amicizia passata per notare che il ragazzo di Bloom superò lei e Oritel per correre da Bloom.
 «Oritel, Marion, io… non ci posso credere.» Faragonda abbracciò lei, poi lui, e quando si fu allontanata non tentò nemmeno di nascondere le lacrime agli angoli degli occhi. Le scacciò con un dito, risistemandosi gli occhiali sul naso. «Mi sono assicurata che Griselda tenesse le mie ragazze nelle loro stanze» – scoccò diverse occhiate in giro, sui vetri dietro i quali si erano già affacciati i primi nasi – «ma dubito che sia servito a qualcosa. Venite, andiamo nel mio ufficio.»
 Marion spostò lo sguardo su Bloom. Bloom aveva lo sguardo fisso su Sky. Capì che Oritel aveva intercettato i suoi pensieri quando le mise una mano sulla spalla, e che anche Faragonda aveva compreso quando soggiunse: «Le ragazze sono molto stanche, le ho mandate a riposare.» La voce s’intenerì. «Le parlerete presto.»
 
 «Le parlerete presto», aveva detto Faragonda prima che salissero nel suo ufficio, e «Avrete tutto il tempo del mondo, con Bloom» quando, ore dopo, lo avevano lasciato. Lei e Oritel avevano rivisto Saladin, Griffin, Hagen; avevano parlato; condiviso gioie e memorie passate, poi dolori e amare consapevolezze quando Marion e Oritel avevano insistito affinché venissero messi al corrente di tutto ciò che era successo negli ultimi anni.
Diciassette anni.
 Diciassette lunghi, interminabili anni di cui Marion aveva sentito ogni secondo, ogni minuto, ogni ora – giorni, mesi, anni di sofferenza passati vicina ma lontana da Oritel; e lontana, soprattutto, dalla sua bambina che bambina più non era.
 Lo era stata (non con loro).
 Aveva imparato a camminare (non con loro).
 Aveva imparato a parlare (non con loro).
 Aveva imparato a leggere e scrivere (non con loro).
 Era Bloom (non la loro Bloom).
 E, su questo, Marion avrebbe potuto versare infinite lacrime, sprecare infiniti pensieri e rimorsi – a nulla sarebbe servito.
 Sentì, alle sue spalle, la porta schiudersi piano e i passi silenziosi di Oritel farsi sempre più vicini. Le cinse la vita con ambe le braccia, congiungendo le mani sul suo ventre, e le lasciò un bacio tra i capelli.
 Faragonda aveva messo a loro disposizione una stanza (la migliore che Alfea potesse offrire!) e finalmente erano soli. Tuttavia la voglia di toccarlo, di ripercorrere ogni centimetro di pelle con le sue dita, era sparita, schiacciata dalla stranezza della loro condizione, una realtà bizzarra quanto immutabile, scolpita a fuoco nelle pieghe del tempo.
 Il tempo, quello non era stato affatto magnanimo, con loro.
 «Mi sono messo in contatto con i membri del Consiglio di Domino, grazie a Faragonda», disse Oritel. «Hanno tutto sotto controllo.»
 «Per ora.»
 Oritel s’irrigidì. «Marion...»
 «Dovremmo tornare a Domino, Oritel? Avremmo dovuto tornare a Domino, anziché accettare l’invito di Faragonda a rimanere?»
 «Un giorno in più non farà la differenza.»
 Stava per dire altro, ma si bloccò. Una consapevolezza, nota a entrambi, sembrò levitare al di sopra delle loro teste, pesante e scomoda, finché ad acciuffarla non fu lo stesso Oritel.
 «E poi Bloom è qui.»
 Sentir pronunciare il nome della figlia fu, per Marion, un colpo fatale, lama di spada che affonda nella carne morbida esposta al nemico. Come se suo marito avesse richiamato un demone dalle profondità della terra su cui poggiavano i piedi, il nome Bloom, solo Bloom, fu la goccia che fece traboccare il vaso: i fragili cocci che ancora tenevano insieme Marion si frantumarono e lei scoppiò in un pianto silenzioso tra le braccia del marito.
 Oritel pianse con lei, presto.
 Sapevano il motivo delle lacrime, non c’era motivo di dar loro un pretesto né una giustificazione; erano lacrime che di ragioni ne avevano tante e il cui unico scopo era quello di sfogare diciassette anni di vita sfuggiti al loro potere come sabbia tra le dita.
 Marion non seppe dire quanto tempo fosse passato, se cinque minuti o mezz’ora, quando chiese: «Sarà ancora la nostra bambina, domani?»
 Non sapeva che suo marito si poneva la stessa domanda da quando erano saliti sulla navetta di Fonte Rossa; non sapeva che Oritel aveva avuto paura a lasciarla andare di nuovo dopo solo un abbraccio, come se significasse perderla di nuovo. Non sapeva, Marion, che Oritel avrebbe voluto non pensare a nulla, né al regno né ai suoi vecchi compagni, e condurre Bloom al castello per mostrarle le stanze, gli affreschi, le fontane, i passaggi segreti.
 Oritel l’aveva sentita parlare una volta sola, una soltanto, e la sua voce gli era ancora estranea. Ne ricordava vagamente il timbro, che aveva tentato di imprimere a fuoco nella mente, ma si chiedeva quali sfumature assumesse quando incrinato dalle emozioni. Di quanto si alzava il suo tono quand’era felice e desiderava poter urlare quella felicità ai quattro venti? E di quanto si abbassava quando, invece, era triste?
 Non avrebbe mai voluto immaginare sua figlia triste, ma aveva vissuto troppo a lungo e aveva visto troppe cose per poter anche solo pensare che la tristezza non fosse parte della vita di chiunque.
 Piuttosto, che cosa la intristiva? Era una ragazza compassionevole, gliel’aveva letto negli occhi. C’era una dolcezza, in quell’azzurro, impossibile da ignorare, forse perché era la stessa della moglie. E Bloom le somigliava tanto, tanto, tanto.
 Se n’era accorto subito, e se ne accorse ancora di più quando Marion si sciolse teneramente dal suo abbraccio e strisciò verso l’unica finestra presente in quella stanza. Oritel ne osservò il profilo bagnato dalla luce lunare e desiderò tracciarne ogni curvatura con le dita, preda dello stesso bisogno di toccarla di quando erano stati prigionieri su Obsidian. Non gli era bastato, prima, cercare la sua mano tra i loro amici nell’ufficio di Faragonda, e non gli era bastato, poi, l’abbraccio. Quando si trattava di Marion, nulla era mai abbastanza.
 Le si fece vicino, di nuovo, e le passò una mano tra i capelli, osservandoli come se volesse contarli uno per uno.
 «Sai», la sentì sussurrare (la voce era debole, gli occhi umidi), «forse non lo è mai stata, nostra, Bloom.»
 Perché da bambina l’avevano persa così presto che il loro unico merito era averla messa alla luce.
 
 
 «Tu non dovresti essere qui.»
 «Nemmeno tu.»
 «Ma se mi ci hai portata tu!»
 «Io? Guarda che ha fatto tutto Kiko.»
 Bloom non aveva tempo né voglia di rinfacciare a Sky l’alleanza con Kiko (alle sue spalle!); era così felice di vederlo che si sarebbe buttata tra le sue braccia pure se l’avesse svegliata scaraventandola giù dai balconi di Alfea, anziché servirsi di Kiko.
 Sky la accolse tra le sue braccia e lasciò che vi si crogiolasse per quanto desiderava, complice quell’intimità che segnava già da un po’ l’evoluzione del loro rapporto da una semplice sbandata adolescenziale a una relazione basata sulla reciproca comprensione e fiducia, sull’onestà, su quella voglia di rifugiarsi nell’altro quando tutto sembrava andare male.
 E se Sky era sgattaiolato via da Fonte Rossa e tornato ad Alfea nel cuore della notte era proprio perché sapeva, sentiva, che qualcosa non andava, solo ne ignorava i motivi.
 «Che cosa ti preoccupa?»
 La mancanza di risposta da parte di Bloom fu l’ulteriore conferma. Anche quando lei parlò, non fu per dare spiegazioni.
 «Ti va se prendiamo un po’ d’aria? Non nel parco di Alfea, chiunque potrebbe vederci.»
 E chiunque, per Bloom, significava i suoi genitori. Non sapeva quale stanza Faragonda avesse affidato loro, ma non voleva rischiare che, nel caso fossero stati ancora svegli, la vedessero anche solo per sbaglio dalla finestra mentre infrangeva due delle regole di Alfea sotto i loro occhi – non era concesso aggirarsi per la scuola di notte, né tantomeno ospitare ragazzi.
 Delle regole, però, le importava meno che mai. Voleva solo parlare con Sky, confessargli ogni suo dubbio, ogni suo timore.
 E lo fece.
 Quando costeggiarono la foresta che circondava Alfea, Sky diede voce ai suoi pensieri: era stata la sua preoccupazione a portarlo da lei anche dopo che Saladin aveva rimandato gli Specialisti a Fonte Rossa, complimentandosi per il valore dimostrato e raccomandandosi che si concedessero il meritato riposo.
 «È successo qualcosa con i tuoi genitori?»
 «No. Per la verità, non ci siamo nemmeno visti, gli parlerò solo domani. Faragonda e gli altri li hanno trattenuti fino a tardi.»
 «Non capita tutti i giorni che degli amici ritornino dal regno dei morti, letteralmente – o quasi.»
 Quel commento le strappò un sorriso, ma durò così poco che Sky quasi dubitò di averlo visto. Cercò, e trovò, lo sguardo di Bloom, tanto triste e smarrito che desiderò potervisi tuffare dentro e cancellare qualunque cosa la turbasse.
 «Bloom? Qualsiasi cosa sia, sai che puoi dirmelo.»
 Il suo tono era così soffice che Bloom avrebbe voluto scoppiare a piangere e lasciarsi consolare da lui finché le lacrime non si fossero esaurite. Per la prima volta, sentì che poté dar voce alle ansie che l’affliggevano da quando erano tornati da Domino, ansie che nemmeno le sue amiche erano riuscite a scucirle di bocca.
 Si strinse nelle spalle, e non per il freddo. «Ho desiderato così tanto ritrovare i miei veri genitori che non pensavo ad altro. Pensavo che tutto sarebbe stato facile, come quei film romantici che vedi in televisione e che… okay, pessimo esempio.»
 Sky scosse il capo. «Mi hai già spiegato cosa sono i film, ricordi? E hai minacciato di farmi vedere tutti i tuoi preferiti, prima o poi.» Le sfuggì una risatina. Sky aspettò che si fosse spenta di sua natura prima di soggiungere: «Far parte della famiglia reale è difficile, non è sempre rose e fiori come fa pensare Stella» – Bloom rise di nuovo e Sky desiderò farla ridere altre cento volte – «ma sono sicuro che sarai fantastica, qualsiasi cosa accada.»
 Il buio della notte nascose solo parzialmente il rossore che le comparve sulle guance. «Non è questo che mi preoccupa. Cioè, solo un po’. Va bene, anche quello. È che non so come comportarmi. Mi sembra di non conoscerli. Voglio dire» – la sua voce si ridusse a un sussurro appena udibile – «chi sono io per loro, se non un’estranea?»
 Continuarono a camminare, sempre più lentamente, senza dire una parola. Bloom interpretò il silenzio di Sky come il segno che i suoi timori erano fondati e che, questa volta, nemmeno lui poteva correre in suo aiuto.
 Si sbagliava.
 Si fermarono. Sky si sedette su una roccia grande abbastanza da ospitarlo e, senza mai lasciare la sua mano, la attirò a sé. Bloom lo lasciò fare e si sistemò sulle sue ginocchia. C’era ancora silenzio, ma non di quelli imbarazzanti e innaturali che implorano di essere riempiti in qualsiasi modo. Bloom era a suo agio con Sky, Sky era a suo agio con Bloom, e il fatto che entrambi lo dessero per scontato indicava che dopotutto era sempre stato così.
 «Non so che cosa si prova a ritrovare i propri genitori dopo diciassette anni di silenzio, però so che anche loro provano quello che provi tu. Ne sono sicuro.» Sorrise, ma allo stesso tempo sentì un brivido percorrergli la schiena quando un pensiero gli si presentò in mente. «Se solo avessi visto come mi mangiavano con gli occhi mentre tornavamo ad Alfea… soprattutto tuo padre.»
 Bloom lo guardò come se all’improvviso avesse iniziato a parlare un’altra lingua. «In che senso?»
 Sky si massaggiò la nuca con la mano libera – l’altra riposava sul fianco di Bloom, carezzandolo piano. «Davvero non te ne sei accorta?»
 Bloom parve confusa.
 «Nemmeno su Domino?»
 Bloom parve ancora più confusa.
 «Be’, diciamo che i tuoi genitori non sono stupidi. Non è che lo stessimo proprio nascondendo.»
 Bloom si ricordò di come, dopo l’abbraccio con Oritel e Marion – l’unico contatto, non solo fisico, che aveva avuto con loro da quando erano tornati – fosse andata da Sky come un cucciolo che cerca rifugio. Era stato un gesto così naturale, così giusto, che solo ora si rendeva conto di cosa doveva significare agli occhi degli altri. Agli occhi di sua madre e suo padre.
 Si sentì arrossire.
 «Ti scoccia che sappiano di noi?» domandò Sky.
 «No, certo che no. È solo che…»
 «È strano?»
 Bloom annuì. Sky provò tenerezza nell’osservarla accigliarsi, come se la mente stesse rincorrendo un pensiero che non voleva farsi acciuffare.
 «Bloom, è normale che tu ti senta così. Sono i tuoi genitori e tu non li avevi mai incontrati prima d’ora. Come se non fosse abbastanza, sono un re e una regina.»
 «E io sono una principessa che non sa nemmeno comportarsi come tale.»
 Sky le scostò un ciuffo che le ricadeva sugli occhi. «Io sono un neo re che scappa da scuola come un ladro per andare a trovare la sua ragazza.»
 E Bloom rise ancora.
 
 
 Quando Oritel si svegliò, la sua mano agì prima della mente e, in un gesto puramente istintivo, vagò alla ricerca di Marion. Non la trovò.
 La vide, invece, che gli volgeva le spalle in piedi alla finestra. Non poteva guardarla negli occhi, ma aveva il sospetto che non stesse davvero osservando Alfea. Dubitava che i timori della notte prima l’avessero abbandonata. Probabilmente, nonostante la stanchezza, non le avevano nemmeno concesso un sonno tranquillo.
 Così era stato per lui, almeno.
 Si alzò e le andò in contro, posando ambe le mani sulle sue spalle. Lei fu percorsa da un brivido quando il gesto di Oritel la restituì alla realtà.
 «Sei sveglio.»
 La sua voce era soffice, ma anche tanto, tanto stanca. E quanto avrebbe voluto, Oritel, poterla liberare da ogni preoccupazione che la rendeva così diversa da quella di un tempo, quando Valtor ancora non c’era e le uniche responsabilità concernevano il regno.
 Decise di non pensarci, concentrandosi invece sul parco di Alfea. Anche se gli sembrò di non vederlo davvero, fu impossibile non notare che la scuola, a differenza loro, ancora dormiva.
 Avevano passato diciassette anni senza mai poter chiudere occhio, eppure avevano dormito meno di chiunque altro – ironico, a dir poco.
 «Forse non sono le parole più adatte a una regina, ma non ci vedo più dalla fame.»
 Oritel non sapeva da quanto non rideva. Aveva riso anche la sera prima, tra i membri finalmente riuniti della Compagnia della Luce, ma con Marion era diverso. Più intimo, forse anche più naturale. Con sua moglie poteva essere se stesso, sempre e comunque. Non c’erano aspettative e non c’erano obblighi se non quelli coniugali, cui adempiva per piacere e non per costrizione, e così il re e il soldato abbandonavano il suo corpo e rimaneva solo l’uomo.
 «Credi che alle fate di Alfea verrebbe un infarto, se ci presentassimo alla loro mensa come dei normali studenti?»
 E allora anche Marion rise.
 Ora che poteva dire di aver raggiunto il suo scopo, Oritel invitò Marion a prepararsi (Faragonda aveva pensato a tutto, quando li aveva sistemati la sera prima). Nessuno dei due disse niente, ma, mentre sbrigavano le ultime cose e uscivano dalla stanza, entrambi ebbero l’impressione che il fardello sulle loro spalle si fosse alleggerito, anche se solo un poco.
 «La sala pranzo dei professori è di qua.»
 Standogli dietro, Marion non poté che inarcare le sopracciglia. «Mio marito ha studiato ad Alfea e io non ne so niente?»
 Lui scosse la testa. «Ti stupiresti di quante cose sa un re, mia regina.»
 «Sempre ammesso che Alfea non sia stata rivoluzionata, in questi ultimi diciassette anni.»
 «In quel caso, ci troveremo davvero a consumare la nostra colazione con delle fate adolescenti.»
 Ci vollero venti minuti di puro vagabondaggio tra i corridoi di Alfea per apprendere che dopotutto Marion ci aveva visto giusto – o forse era solo la memoria di Oritel a fare cilecca, ma il suo orgoglio gli suggeriva la prima.
 E comunque, ne era sicuro, una volta quell’ala della scuola ospitava gli alloggi dei professori e tutto ciò che serviva loro per vivere, con l’accesso vietato alle studentesse. Evidentemente, però, qualcosa era cambiato e la sala pranzo non si trovava più dov’era un tempo.
 «Mio marito, membro della Compagnia della Luce e sovrano di Domino, sconfitto dalla planimetria di una scuola?»
 Oritel accusò il colpo senza ribattere, limitandosi a un sorriso, per due motivi. Primo, perché tecnicamente sua moglie aveva ragione. Secondo, perché qualsiasi presa in giro sarebbe stata tollerabile, se questo significava che potevano continuare a sorridere.
 «L’orgoglio di un uomo ha vita breve, con te.»
 «E la pazienza di una donna ne ha con te, se è per questo.»
 Le loro voci si spensero quando ne sentirono delle altre, lontane e confuse.
 Marion tese l’orecchio. «Saranno Faragonda e Hagen.»
 «Più probabile Faragonda e Griffin, o Griselda. Sono voci femminili.»
 Nessuna delle due era corretta, appresero quando le voci si fecero più vicine e distinte. Su una cosa però Oritel aveva avuto ragione: erano voci di donna. O meglio, di ragazza. Marion credette di riconoscerne una, che presto venne zittita da un’altra più squillante.
 «Non ho capito la metà di quello che hai detto, Tecna.»
 «Ah, tranquilla, non pretendevo certo che sua maestà la principessa di Solaria mi desse retta.»
 «Se parlassi di qualcosa di più interessante, forse…»
 Più voci arrivarono a controbattere – «Ti prego, Stella», seguito da «Non ricominciare», «Vuoi farlo sapere a tutta la scuola?» e, infine, «Probabilmente te lo sei inventato».
 Erano a uno svincolo. In quel momento, dal corridoio in cui si trovavano Oritel e Marion, furono visibili le ombre delle ragazze che si facevano sempre più grandi man mano che quelle si avvicinavano. Poterono vedere una delle ragazze scuotere energicamente l’indice e, persino in quelle condizioni, parve un gesto teatrale.
 «Oh, no, no, no!» disse la ragazza. «Ho visto Sky con questi miei stessi occhi. E poi Bloom stamattina era di ottimo umore, cosa che di certo non è merito del russare di Tecna…»
 «Prego?!»
 «… né tantomeno di Flora che apre le tende alle quattro del mattino.»
 «Erano le otto.»
 «Alle quattro il sole non è nemmeno sorto, e forse la fata del Sole dovrebbe saperlo.»
 «Tecna, a quell’ora dormo. E avrei preferito farlo anche stamattina, piuttosto che essere svegliata perché Faragonda ci convoca a orari indecenti.»
 «Anche Bloom si è alzata prestissimo.»
 «Forse la scappatella di ieri non le è bastata!»
 Lo «Stella» corale che stava per sfuggire a tutt’e quattro morì nell’aria senza mai essere annunciato quando, superato l’angolo, si trovarono faccia a faccia con i sovrani di Domino. Tecna, in testa al gruppo, rischiò di far cadere il suo preziosissimo apparecchio elettronico, ma fu in un certo modo sollevata dal pensiero che la bocca larga di Stella finalmente era stata messa a tacere – dalla più imbarazzante delle situazioni, per giunta.
 La regina Marion e re Oritel avevano tutta la faccia di chi aveva colto, anche solo per errore, l’ultimo stralcio di conversazione.
 Fu Aisha a mettere fine al supplizio.
 «Vostre maestà», salutò rispettosamente, esibendosi in un inchino perfetto. «Sono Aisha, la principessa di Andros, nonché amica di vostra figlia.»
Di cui stavamo parlando un attimo fa, le scivolò quasi via dalla lingua, ma riuscì a trattenersi. Per qualche miracolo, riuscì a trattenere anche la risata che le salì spontanea a quel pensiero.
 La Aisha principessa l’avrebbe trovato fuori luogo, ma quell’Aisha non era mai davvero esistita, era più il riflesso di quello che il regno si aspettava da lei; la Aisha ragazza trovava la cosa niente meno che divertente, soprattutto se, come lei, qualcuno aveva avuto il privilegio di osservare l’espressione di Stella nel momento in cui aveva realizzato la sua gaffe.
 Oritel fece un cenno col capo. «Conoscevo i tuoi genitori. Immagino dunque che Andros sia sopravvissuto al disastro di Valtor. Il primo, almeno.»
 Aisha sbatté più volte le ciglia: dunque i sovrani di Domino erano stati messi al corrente del ritorno di Valtor? Sì, aveva senso, considerati soprattutto i trascorsi che quel nome e tutto ciò che comportava aveva con la Compagnia della Luce e, nello specifico, con i genitori di Bloom.
 «Molti regni sono sopravvissuti a Valtor, Vostra Maestà. Alcuni meglio di altri, forse. Temo che Domino sia stato l’unico a subire un destino tanto terribile.»
 Si chiese se non avesse parlato troppo, ma ormai il dado era tratto. Re Oritel e la regina Marion, comunque, non parevano offesi. Non avevano motivo di esserlo.
 Oritel annuì. «Ed è una fortuna, che nessun altro regno abbia dovuto patire le stesse sorti. Non lo augurerei a nessuno.»
 Marion gli posò una mano sulla spalla, come a volergli infondere coraggio. «Faragonda e gli altri ci hanno raccontato tutto», disse. «Tanti regni ora sono più prosperosi che mai. Andros. Heraklion. Solaria.»
 Nel menzionare Solaria, il suo sguardo corse da una ragazza all’altra quando si ricordò che una di loro, poco prima, aveva fatto menzione della sua principessa. Quando quello sguardo si posò su Stella, Marion seppe che era lei.
 Principessa di Solaria, Fata Guardiana, amica di Bloom e pettegola – una ricetta interessante. Comunque, lei e Bloom erano sembrate buone amiche, e la conversazione che lei e Oritel avevano origliato per sbaglio ne fu la conferma. Al senso di vuoto nel non riconoscere né i nomi né i volti delle amiche della sua secondogenita subentrò la consapevolezza che almeno era stata in buone mani, in loro assenza.
 Decise che non poteva più attendere. «Sapete dove si trova Bloom?»
 Le ragazze si guardarono. «Non proprio», rispose per tutte quella che Marion identificò come la ragazza dai lunghi codini (si ripromise che, a tempo debito, avrebbe imparato i loro nomi e anche tutto il resto). «Stamattina si è alzata molto presto ed è uscita. Faragonda ci ha fatto chiamare da Griselda per farci alcune domande, ma nemmeno loro l’hanno vista.»
 Marion annuì. «Vorrà dire che indagheremo.»
 Le ragazze si congedarono. Dapprima, Oritel e Marion si fecero da parte per lasciarle passare, ma prima che potessero perderle di vista, Marion sollevò una mano. Le ragazze si fermarono. Persino Oritel la guardò stupito, in attesa che parlasse.
 «A nome mio e di mio marito», pronunciò con voce soffice, «grazie per tutto quello che avete fatto per nostra figlia.»
 Le sue labbra si schiusero in un sorriso. Non era il sorriso della sovrana di Domino, né il sorriso della donna diplomatica – solo il sorriso di una madre che ha perso la figlia e non vuole altro che riabbracciarla.
 
 «La principessa di Solaria è in errore. Mia figlia non sarebbe mai ragazza da scappatelle, anche se a crescerla non siamo stati noi.»
 «Proprio perché a crescerla non siamo stati noi, piuttosto. O devo ricordarti il nostro primo anno di fidanzamento?»
 Oritel non rispose.
 
 «Sky. Mh. È un nome piuttosto ordinario.»
 «Oritel.»
 
 I sovrani di Domino riuscirono eventualmente a trovare la famosa sala da pranzo dei professori. Marion si sarebbe accertata che Oritel non dimenticasse mai che i meriti erano solo di Griselda, che li aveva pescati ad aggirarsi per i corridoi come in un labirinto senza inizio né fine.
 Si accomodarono, con Griselda stessa, al fianco di Faragonda, Griffin, Saladin e Hagen, e per un po’ tutto sembrò come un tempo.
 Faragonda si rammaricò di sapere che non erano riusciti a trovare Bloom. Poiché Oritel e Marion tenevano alla riservatezza e il loro ultimo desiderio era aggirarsi tra le studentesse di Alfea come due fenomeni da baraccone, Faragonda assicurò loro che avrebbe provveduto a trovare Bloom tramite le ragazze e che, una volta risolto l’impiccio, avrebbe messo a loro disposizione qualsiasi stanza desiderassero.
 «Anche il tuo ufficio, Faragonda?»
 «A meno che non vogliano sbrigare gli affari di famiglia con qualcuno che li osserva dalla sua scrivania, Griffin.»
 «Pensavo che fossi troppo impegnata ad accettare l’invito di Hagen.»
 Le parole di Griffin generarono alzate di sopracciglia e domande. Per fortuna di Faragonda, Oritel e Marion erano troppo discreti per avanzare insinuazioni, Hagen troppo stoico per accettarle, e nessuno, di certo non Saladin, poteva assecondare le intenzioni maliziose, quasi adolescenziali, di Griffin.
 
 
 Se fosse esistito il premio per il fidanzato migliore della dimensione magica, Bloom era sicura che Sky l’avrebbe vinto senza sforzo alcuno. Non solo, la sera prima, si era presentato da lei come se le avesse letto nel pensiero, ma si era fatto vivo anche quella stessa mattina, accampando come scusa che si trattava solo di una «visita di cinque minuti».
 In realtà, un motivo per essere lì ce l’aveva ed era quello di dover consegnare un messaggio importante a Saladin. Messaggio che, in origine, era stato affidato a Riven; e quando Riven aveva volentieri passato il testimone a Sky, sapeva che Sky non si era offerto spinto da un sentimento d’amicizia.
 «Li vedi oggi, i tuoi?»
 Bloom annuì. «Nell’Archivio Magico.»
 Faragonda era stata così gentile da mettere a loro disposizione l’Archivio Magico, dove nessuno, nemmeno un professore, li avrebbe disturbati. Aveva lasciato il messaggio a Griselda, che l’aveva passato a Stella, che l’aveva detto a lei.
 E ora Bloom si sentiva come in un limbo, a metà tra la sensazione di fluttuare a mezz’aria anche senza l’ausilio delle ali, tanto era contenta, e il timore che la terra sotto i piedi potesse sprofondare, tanto era la paura di perdere tutto, di nuovo. Anche se ormai, complici gli incoraggiamenti di Sky, le sue ansie sembravano essersi sbiadite, e al loro posto era tornata quella voglia matta di abbracciare i suoi genitori naturali, la stessa che aveva provato tante volte nel fantasticare su quel giorno.
 Persi tra le chiacchiere, Bloom e Sky svoltarono l’angolo e si trovarono davanti alle porte dell’ufficio di Faragonda. Fu Sky a bussare.
 «Prego, Griselda.»
 Sky e Bloom si scambiarono un’occhiata e sorrisero.
 «Rimarrà delusa», mormorò lui.
 Comunque, anche se Faragonda si aspettava tutt’altra persona, non c’era motivo di non entrare. Sky spinse un’anta della porta e si fece avanti, Bloom al seguito.
 Era sicuro di trovare Saladin, ma di lui non sembrava esservi traccia.
 «Il preside Saladin non c’è?»
 Seduta alla scrivania, Faragonda scosse il capo. «È partito per Fonte Rossa poco fa, l’hai mancato per un soffio.»
 Fu mentre Sky spiegava il motivo della sua visita che Bloom fece capolino da dietro la figura del ragazzo, che la copriva del tutto, e vide che, nonostante Saladin né Griffin fossero più lì, lo stesso non si poteva dire di Hagen.
 E dei suoi genitori.
 Marion la notò all’incirca nello stesso istante e il sorriso che le rivolse fu così istantaneo, così gentile e caloroso, che Bloom avrebbe potuto giurare di sentire qualcosa nel petto sciogliersi e diventare lava.
 «Ah, Bloom», disse Faragonda, aprendosi in un sorriso che di quello di Marion, per la ragazza, non aveva nulla. Eppure era familiare, molto di più di quello della sua stessa madre, e questa consapevolezza fece così male che sentì il cuore solidificarsi all’istante e farsi pesante come metallo.
 Avrebbe voluto dire che, se Saladin non c’era e loro erano impegnati in conversazioni private, lei e Sky avrebbero tolto il disturbo, ma non riuscì a pronunciare una singola parola, come se quelle le fossero rimaste incastrate in gola.
 Faragonda agì prima di tutti. Sì alzò e, viaggiando con lo sguardo dai sovrani di Domino a Bloom, annunciò che li avrebbe lasciati soli. Mentre superava Oritel e Marion lanciò un’occhiata eloquente ad Hagen, che la seguì all’istante.
 Sky rivolse a Bloom un’espressione carica di affetto e le sfiorò una mano come a volerle infondere il coraggio che, di nuovo, sembrava esserle venuto meno. Poi seguì Faragonda e Hagen, richiudendosi la porta alle spalle.
 Bloom rimase lì, ferma come una statua di pietra, a osservare Oritel e Marion (papà, mamma). Era strano, stranissimo; ogni qualvolta pensasse o pronunciasse quelle due parole, si materializzavano dinanzi a lei le figure sorridenti di Mike e Vanessa. Oritel e Marion sembravano quasi due intrusi, estranei agli occhi, estranei alla bocca, estranei alla loro stessa figlia.
 Il nuovo giorno aveva portato con sé una flebile speranza, come se il sorgere del sole al mattino cancellasse i peccati e oscurasse il dolore. Ma ora che il momento della verità era arrivato, quando più nessuno avrebbe potuto frapporsi tra figlia, madre e padre, quella flebile speranza era evaporata come neve al sole; e il dolore, quello era più vivo che mai, pulsante come se una lama l’avesse trafitta in petto.
 C’era così tanto da dire (esperienze da raccontare, sentimenti da confessare), che Bloom non sapeva nemmeno da dove iniziare. Avrebbe voluto parlare finché le labbra non si fossero stancate e continuare anche dopo, ignorando persino il passare dei giorni e le responsabilità che, lo sapeva, attendevano Oritel e Marion. Perché, per quanto una principessa non potesse concedersi un tale egoismo, voleva tenerli tutti per sé, rubarli a quel mondo cattivo che glieli aveva strappati senza chiedere e glieli aveva restituiti solo dopo diciassette anni.
 Non erano passati che pochi secondi, ma a Bloom parve aver vissuto un’eternità in quelle condizioni quando vide la regina Marion muoversi nella sua direzione. Bloom ne studiò la camminata degna di una sovrana, lenta e precisa, tradita però dalla fretta della madre che, spodestata la regina, subito era stata attirata da quegli occhi blu, da quei capelli così simili ai suoi che le sembrava di guardarsi in uno specchio proiettato nel passato, quando aveva la stessa età di Bloom.
 Diciassette.
 Lunghi.
 Anni.
Quasi una donna, la sua Bloom.
 Era sua, sua e di Oritel soltanto, poco importava cosa dicesse la logica o l’opinione di chiunque. Certo ad averla cresciuta erano stati altri, un uomo e una donna che per lei non avevano né nome né volto ma verso i quali provava estrema gratitudine. Li avrebbe ringraziati, presto, non appena se ne fosse presentata l’occasione – non ora.
Ora c’era solo Bloom, il viso raccolto tra le sue mani mentre la osservava come il gioiello più prezioso, gli occhi umidi e la gola annodata in un groppo, tanto che, se avesse parlato, sarebbero usciti solo singhiozzi.
 Non era tempo di parole, tuttavia; solo di abbracci, di riconciliazioni, di lacrime. Tempo di tirare quel sospiro di sollievo che l’era nato nel petto e lì era rimasto, nel timore che esternare il proprio sollievo per l’incubo finito potesse riportarlo indietro, quell’incubo.
 Marion era tornata a respirare nel momento stesso in cui era stata liberata dalla spada di Oritel, ma le sembrò di aver trattenuto il fiato fino a quel momento, quando avvolse Bloom in un abbraccio forte e materno, ancora più intimo di quello su Domino.
 Forse perché ora erano soli, al riparo dagli occhi dei più, o forse perché avevano la mente più libera e un quadro più chiaro della situazione – per Marion, quell’abbraccio parve il primo. Per Oritel, che si unì subito dopo, fu paragonabile solo al momento in cui aveva preso in braccio la piccola Bloom per la prima volta, quando le urla di dolore di Marion si erano spente nell’aria per lasciare il posto alla gioia e alla commozione.
 Il padre spodestò il re, buttandolo giù dal piedistallo, e non osò pensare a nient’altro che a Bloom – né al regno, né alla corona, né ai doveri. Il tempo, che tanto li aveva ostacolati, avrebbe dovuto essere paziente, e se non lo voleva, Oritel l’avrebbe costretto.
 Bloom era tra le sue braccia (così fragile, così diversa dalla fata che aveva ritrovato e salvato il regno), e nient’altro importava.
 
 
NOTE ➺ Ciaaao!
 Oddio, c’è ancora qualcuno, qui, nel 2021? Mah, lo spero!
 Allora, ve la faccio breve; questa storia doveva essere molto più corta. Figuratevi che, quando ho portato la comitiva ad Alfea, mi sono detta: «Ok, e ora che faccio?» Avevo in mente una cosa un po’ diversa, ma ho preferito lasciarmi trasportare… ed eccoci qui. Si è scritta da sola, questa one-shot. Sicuramente perché, dopo aver visto il film Il segreto del regno perduto, avevo una voglia matta di leggere qualcosa ambientato subito dopo e sono rimasta delusa quando non ho trovato niente di quello che stavo cercando. Gli italiani non hanno provveduto, gli inglesi nemmeno, e neanche i russi e gli spagnoli! (Non chiedete, non volete sapere dove mi sono infilata pur di cercare quello che volevo.)
 E quindi, be’, me la sono scritta da sola, la storia. Già. Seimila parole, quasi settemila, puramente guilty pleasure, tra angst familiare e Stella che fa figure in modi molto cliché. Adoro i rapporti complicati tra genitori e figli e dovevo assolutamente scriverci qualcosa.
 Per amor di cronaca, sappiate che non ho complicato le cose tra Bloom e i suoi genitori biologici giusto per avere un po’ di angst. Penso solo che, per quanto Bloom possa averli cercati, è comunque impossibile ignorare i problemi che possono subentrare a seguito di una situazione tanto particolare. Quello che penso l’ho già espresso scrivendo questa storia, nello specifico i pensieri e le ansie di Bloom e Marion (e Oritel, su cui tuttavia mi sono concentrata di meno), dunque ritengo superfluo ripetermi.
 Due informazioni di servizio veloci prima di lasciarci. Nonostante il film sia ambientato dopo la terza stagione, Nabu non è presente; io ho deciso comunque di inserirlo, nonostante la sua comparsa si limiti a quando Marion lo identifica come «il ragazzo dalla lunga treccia». Quanto alla suddivisione di Alfea con un'intera sezione dedicata al corpo docente, è una mia invenzione.
 Be’, è tutto. Se avete letto fin qui, io non posso che ringraziarvi!
 Buona giornata,
Shireith
   
 
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