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Autore: Kim WinterNight    19/03/2021    4 recensioni
[Dedicata a SamHetfield ♥]
Cliff morì in autunno, eppure avrei giurato che fosse inverno.
- Partecipa alla challenge "Seasons Die One After Another" organizzata da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Fluff, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dedicata a SamHetfield,
con il cuore ♥
 
 
 
 
 
 
Ricordi sbiaditi


 
 
 
 
 
 
Cliff morì in autunno, eppure avrei giurato che fosse inverno.
La stessa brina che ricopriva ogni cosa fuori dalla mia finestra era stata artefice del suo triste destino; era stata lei, ma ero stato anche io.
In Svezia l’autunno non esisteva nel 1986. Era inverno, dunque?
La sensazione che provai quando mi resi conto che lui non ci sarebbe stato mai più era simile a una tempesta gelida e impetuosa, capace di immobilizzare il dolore in un solo istante e farlo scivolare sottopelle in un angosciante loop.
Io e Cliff avevamo riso quella sera, avevamo giocato a carte e ci eravamo punzecchiati come al solito; lui mi aveva accusato di essere uno sbruffone perché credevo di poter vincere la partita e di accaparrarmi la cuccetta migliore sul tour bus, ma alla fine aveva avuto la meglio – aveva vinto, cazzo, e noi avevamo perso lui.
Avevamo avuto un rapporto particolare, ma Cliff aveva un rapporto speciale con chiunque avesse la fortuna di incontrarlo e di incrociare i suoi occhi pieni di vita.
E sì, ci eravamo amati in un modo strano, che non avrebbe dovuto far parte di noi.
Erano stati soltanto istanti, attimi, momenti – adesso non erano che ricordi sbiaditi.
E faceva male, mi faceva sentire sbagliato dimenticare, anche se era inevitabile.
 
 
Faceva freddo quella sera.
Cazzo, si gelava.
Un grande concerto dei Metallica si era appena consumato e tutti eravamo su di giri – forse un po’ troppo, considerando tutte le sostanze che avevamo bevuto e assunto durante la serata.
Ma eravamo i fottutissimi Metallica, potevamo permettercelo. Giovani, felici, pieni di successo.
Appollaiato sulla terrazza della mia camera d’albergo, lasciavo che il gelo mi si appiccicasse al viso e alle braccia lasciate scoperte dalla t-shirt a maniche corte.
«Sei un pazzo, amico» commentò qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai e individuai Cliff, uno spinello tra le dita e un bellissimo sorriso sul viso. Si accostò a me e mi porse la canna con la sua solita gentilezza e quello spirito di condivisione che avevo sempre trovato spiazzante.
«Dici? Io non mi ammalo mai» minimizzai, rubando una boccata dalla stecca d’erba.
«Non hai freddo?» domandò, gli occhi immersi nei miei.
«Macché.» Come se il mio corpo avesse voluto tradirmi, un brivido mi colse d’improvviso e increspò la pelle delle mie braccia.
Cliff ghignò. «Beccato. Smetti di fare il supereroe e metti una felpa.»
«Non mi serve» replicai con fermezza.
Era tipico di Cliff: voleva sempre far star bene chi lo circondava, era semplicemente apprensivo e non riusciva a non preoccuparsi per gli altri; a volte anche io ero così, ma i miei tentativi risultavano sempre fin troppo goffi, così cercavo di contenermi il più possibile.
Tornai ad appoggiare gli avambracci sulla balaustra in ferro e un nuovo brivido mi investì. Forse avrei dovuto dar retta al bassista, ma c’era qualcosa che mi tratteneva dall’andarmene.
Quella sera faceva freddo, tutto era ricoperto di brina, eppure io avvertivo un calore anomalo dentro me. Doveva essere per via di quello che avevo bevuto o a causa della spossatezza dovuta al troppo tempo trascorso in tour, altrimenti non sapevo spiegarmelo.
Cliff mi si affiancò e riprese a parlare, consumando pian piano lo spinello che teneva tra indice e medio della mano destra. «Lars vuole uscire a tutti i costi, dice che James ha bisogno di prendere aria.»
«Ha esagerato con l’alcol» commentai.
«James? Non solo con quello.»
Risi e Cliff fece lo stesso.
Ci guardammo negli occhi per un attimo, complici, poi il bassista mi circondò le spalle con il braccio sinistro e mi attirò più vicino a sé.
Sobbalzai per un solo istante, ma non lo rifiutai – non l’avrei mai fatto.
«Lo vedi che stai tremando?» osservò, passandomi la mano sulla pelle scoperta per tentare di riscaldarla.
«Cosa vuoi che sia? Tranquillo» replicai, eppure non ero più tanto convinto, complice anche quella tenera vicinanza tra noi.
Con lui era sempre stato normale lasciarsi andare a gesti d’affetto, perché riusciva a rendere naturale qualsiasi cosa e a scalfire perfino il cuore di pietra di Lars. Non che Lars fosse veramente incapace di provare emozioni, ma certamente le esternava raramente o le incanalava in ondate di rabbia che facevano quasi spavento.
Eppure Cliff era capace di catturarlo in abbracci goffi e pieni di imbarazzo da parte del batterista, che poi finiva per sciogliersi un po’ e ricambiare con gesti impacciati. E io in quei momenti, negli occhi di Lars, leggevo gratitudine e calore nei confronti del nostro amico.
Senza quasi accorgermene, sollevai il braccio destro e lo allacciai alla sua vita, stringendolo a mia volta. Tenevo lo sguardo fisso sulla notte buia e gelida, ma non sentivo più un solo brivido percorrermi la pelle – quelli che la increspavano sotto le dita callose di Cliff erano ben diversi, ne ero consapevole.
Rimanemmo sospesi in quell’istante finché non udimmo Lars irrompere nella stanza e richiamarci a gran voce.
«Muovete il culo, portiamo a passeggio James» strillò, raggiungendoci in terrazza.
Mi scostai da Cliff e mi passai le mani sulle braccia scoperte, già orfano del suo calore. «Dammi il tempo di mettere una felpa.»
«Parli di James come fosse un cane» scherzò Cliff.
«Perché, non lo è?» sibilò Lars, fingendosi irritato all’idea di dover badare al nostro cantante.
Sghignazzai e rientrai in camera, pronto per vivere l’ennesima notte insonne di quell’infinito tour.
 
 
Cliff morì in autunno e l’unica cosa che ricordavo di quella notte era la sensazione di vuoto e d’inverno fin nelle ossa.
Solo poche ore prima stavamo scherzando e ci comportavamo come sempre, poi eravamo andati a dormire con poco sonno e troppa stanchezza addosso.
Il mondo si era capovolto, il tour bus si era capovolto, Cliff si era capovolto.
Poi tutto era tornato alla normalità.
Una normalità nuova, che nessuno di noi era stato pronto ad affrontare.
Affacciato alla finestra, accesi una stecca d’erba e il sapore dolciastro della marijuana mi riportò alla mente il ricordo di Cliff prendeva rapide boccate tra una sessione in studio e l’altra.
Ripensai con dolore a Lars che piangeva tra le mie braccia, forse alla ricerca del calore che aveva permesso solo a Cliff di donargli – forse sperava che un riverbero di quell’affetto fosse rimasto incastrato nel mio corpo.
Rividi James inginocchiato sull’asfalto, immobile, le mani tremanti e lo sguardo assente. Lo sentii urlare d’improvviso con lo sguardo rivolto al cielo, sputare improperi e bestemmie come non lo avevo mai udito fare.
E mi sentii sprofondare ancora, come quel giorno.
Se avessi vinto la scommessa, sarei morto al posto di Cliff.
Quella era una possibilità a cui avevo pensato spesso, ma ero sempre arrivato a una conclusione: ero troppo codardo ed egoista per desiderare che le cose fossero andate diversamente. La verità era che non avrei voluto perdere la vita, così come non avrei voluto che fosse toccato a Cliff.
Invece era successo e io non potevo cambiare un bel niente.
Un brivido mi colse, gelido e impietoso, ricordandomi che ero fin troppo vivo.
L’inverno era rigido e la brina si ispessiva al passo con il mio dolore.
Potevo soltanto aggrapparmi a quei ricordi sbiaditi che avrei voluto ricalcare con forza per imprimerli nel mio cervello e non sentirli più scivolarmi via.
 
 
Seduti sul divano uno di fianco all’altro, aspettavamo.
James e Lars erano in ritardo e non riuscivamo a capire perché; cominciavamo a preoccuparci e a sospettare che al batterista fosse toccato andare a recuperare il cantante in qualche bettola, come capitava spesso ultimamente. James non ragionava e non agiva bene quando era sotto pressione, così ricercava sfogo e conforto nell’alcol.
Noi tutti avevamo capito che aveva un problema, ma facevamo finta di niente perché non eravamo pronti ad affrontarlo. Eravamo i fottutissimi Metallica e, insieme a band come Slayer e Anthrax, rappresentavamo un genere musicale come il thrash metal. Questo significava non dare troppo peso a certi aspetti delle nostre vite, in fondo ubriacarsi era parte del gioco e James – visto da occhi esterni – stava semplicemente ricoprendo il proprio ruolo in quel complicato meccanismo.
Cliff si passò una mano sul viso e sospirò. «Che fine hanno fatto?»
«Non lo so, comincio a pensare che non verranno e ci toccherà fare le prove da soli» dissi, giocherellando con uno dei miei plettri.
Il bassista cercò il mio sguardo e mi fisso con le iridi sgranate. «E se gli fosse successo qualcosa?»
«Se la cavano, non preoccuparti» tentai di rassicurarlo, sorridendo debolmente.
Cliff afferrò di slancio la mia mano e la strinse, continuando a guardarmi negli occhi. «Me lo prometti?»
Avrei voluto ridere perché non avrei potuto prometterglielo, ma i suoi occhi erano colmi di un bisogno viscerale di certezze che non ebbi neanche la forza di rispondere.
«Kirk, mi prometti che non succederà niente ai Metallica? Siamo una famiglia, vero?»
Era entrato a far parte del gruppo solo due anni prima, eppure era già indissolubilmente legato a tutti noi.
Aveva bisogno che gli mentissi e io lo feci.
Strinsi più forte la sua mano e annuii. «Te lo prometto.»
 
 
Cliff morì in autunno e lasciò dietro sé una voragine incolmabile.
Il ghiaccio che l’aveva strappato al mondo era lo stesso che si era annidato nel mio cuore e che non lo aveva più abbandonato da quel maledetto 27 settembre 1986.
Gli avevo promesso tante volte che ai Metallica non sarebbe successo niente, eppure lo avevo visto infrangere per primo quelle stupide promesse infondate.
Non lo aveva scelto, però noi eravamo rimasti soli e distrutti.
Era arrivato Jason, poi Robert. Altri bassisti che mai avrebbero potuto sostituire Cliff, ma che ci avevano aiutato a rimettere in piedi la band e a raccogliere i cocci delle nostre esistenze infrante.
Un attimo prima eravamo quattro ragazzi pieni di vita e aspettative, un po’ sbandati e sopra le righe; un attimo dopo eravamo rimasti in tre, soli anche se stretti gli uni agli altri.
Diedi le spalle alla finestra – avevo lasciato che la stecca d’erba si spegnesse tra le mie dita tremanti – e vidi soltanto oscurità di fronte a me.
La stessa che albergava nel mio cuore e che i ricordi stavano pian piano contribuendo a infittire.
Non mi restava che appigliarmi a quegli ultimi brandelli, ricordi sbiaditi di una vita che non sembrava più appartenermi da un po’.
 
 
«Abbracciami.»
Lo disse con la disperazione nella voce e gli occhi che luccicavano di lacrime.
SI era seduto di fronte a me, irrompendo nella mia cuccetta e sistemandosi con le gambe incrociate sul materasso; mi aveva raggiunto nel cuore della notte e mi aveva trovato sveglio, intento a disegnare con le dita sul finestrino bagnato di condensa.
Guardandolo, avevo capito che qualcosa non andava.
Così avevo continuato a scrutarlo in silenzio finché non aveva ceduto e aveva pronunciato quella parola – una preghiera, un grido d’aiuto sussurrato nella notte gelida.
«Abbracciami» ripeté.
«Vieni qui» mormorai, sistemandomi meglio con la schiena contro la parete della cuccetta.
Cliff strisciò verso di me e si lasciò stringere dalle mie braccia, appoggiando la testa contro la mia spalla. Si rannicchiò e si aggrappò a me, respirando piano e lasciando che le sue dita giocherellassero con qualche ciocca riccia dei miei capelli.
Non gli chiesi cosa fosse successo, non era la prima volta che il bassista si affidava a me in quel modo – forse perché ero sempre stato l’unico all’interno della band a non rifiutare quei contatti tanto affettuosi e decisamente poco virili.
A me non importava, sentivo anche io il bisogno di stare vicino a Cliff in quel modo – qualunque cosa significasse.
Rimanemmo abbracciati per un po’, finché Cliff non sollevò una mano e la accostò al vetro sporco di condensa.
Tracciò qualcosa con la punta del polpastrello in un angolo ancora vuoto, poi sgusciò via e mi lasciò solo – infreddolito, d’improvviso, come sempre quando se ne andava.
Mi chinai per leggere cos’aveva scritto e il cuore accelerò i suoi battiti quando i miei occhi misero a fuoco ciò che aveva scarabocchiato.
Era soltanto il mio nome seguito da un cuore sghembo, ma fu in grado di scatenare in me una tempesta di emozioni.
 
 
Cliff morì in autunno e mi fece sentire infreddolito, orfano della sua presenza come ogni volta in cui avevamo interrotto i nostri abbracci.
Ricordavo fin troppo bene il dolore, le grida, la disperazione.
E ricordavo il gelo che si addensava nelle mie ossa e mi spingeva ad abbandonarmi a esso.
Anche se alla fine a vincere era stato il mio stupido istinto di sopravvivenza; avevo pensato che non avrei mai potuto abbandonare Lars e James, loro non si meritavano di perdere anche me.
Non avevo idea di come avrei fatto a essere forte per tutti e quattro – anche per Cliff, ovunque fosse – né come avrebbero potuto ancora esistere i Metallica.
C’era stata un’unica certezza nella mia mente offuscata: Cliff avrebbe voluto che andassimo avanti, perché quello era stato il sogno di tutti noi e non ci avrebbe mai perdonato un fallimento.
In fondo avevo mantenuto la mia promessa: ai Metallica non era successo niente – a parte qualche piccolo cambiamento – ed erano ancora in piedi, anche se un po’ ammaccati e pieni di dolore.
Stavamo ancora sul palco, a testa alta, pronti ad affrontare il futuro senza mai dimenticare il passato – anche se era fatto di ricordi sbiaditi, c’era e ci teneva vivi.
 
 
Ero ubriaco e fatto, ma tutto sommato ero lucido.
Anche Cliff era su di giri e non faceva che ridacchiare.
Eravamo sdraiati sul tappeto nella camera d’albergo di Lars, mentre lui faceva una doccia.
James era scomparso e non avevamo idea di che fine avesse fatto, ma in quel momento non ci importava.
«Poi è caduto, capito? Stavamo suonando per cinque persone in un locale di merda e Jim è caduto!» raccontò Cliff, gli occhi stretti per le troppe risate.
«Inciampato come un coglione» commentai.
«Sì! Però è un tipo a posto, dovresti conoscerlo.»
«Me lo presenti?»
«Certo! Andiamo a mangiare al messicano insieme? Jim lo adora.»
Risi e allungai una mano per scompigliargli i capelli. «Certo.»
Cliff rotolò su un fianco e in un istante ci ritrovammo vicini, occhi negli occhi e un sorriso ebete sulle labbra.
Sentivo l’acqua della doccia scrociare e Lars fischiettare in bagno, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era guardare Cliff.
Scrutai i suoi occhi sgranati, i capelli lunghi che gli circondavano il viso dai lineamenti non troppo decisi, mi soffermai sulla mascella leggermente squadrata e sulle labbra schiuse e incurvate all’insù.
Lo trovai dannatamente bello e tenero.
Poi avvertii le sue dita sulla guancia e in un istante eravamo talmente vicini da poterci respirare.
Esitai appena, ma non riuscii a impedire che le nostre labbra si sfiorassero per una frazione di secondo.
Allora tornammo a ridere come due ragazzini strafatti – in fondo era quello che eravamo – e a raccontarci aneddoti di tempi in cui non eravamo stati così vicini.
Mentre il mio cuore, tempestoso, palpitava incontrollato nel petto.
 
 
Cliff morì in autunno e tutto ciò che mi rimaneva di lui erano soltanto ricordi sbiaditi.
Erano tantissimi, ma si riassumevano in frammenti di ghiaccio che ferivano impietosi la mia anima.
Erano trascorsi anni – decenni – e io non riuscivo a smettere di sentirne la mancanza.
Cliff non riusciva a perdere la sua importanza, il suo posto nei miei pensieri e nel mio cuore.
Non credevo a certe stupidaggini, ma ogni tanto pensavo che l’unica spiegazione per giustificare quello che provavo era che lui fosse la mia anima gemella, che fossimo legati indissolubilmente da un filo rosso invisibile o qualche altra stronzata del genere.
O semplicemente era stato impossibile tenerlo fuori dal cuore, dalla testa, dall’anima – per chiunque avesse avuto la fortuna di conoscerlo, non solo per me.
Guardai ancora una volta fuori dalla finestra e decisi che avrei conservato per sempre quei ricordi, per quanto sbiaditi e sbrindellati; mi ci sarei aggrappato finché ne avessi avuto la forza e la capacità, perché Cliff non meritava di essere dimenticato.
Richiusi le ante e fui investito da un brivido – stavolta, però, era diverso.
Sorrisi amaramente e notai che i vetri erano bagnati di condensa.
Sollevai l’indice destro e tracciai qualcosa in punta di polpastrello, per poi indietreggiare e ammirare il mio piccolo scarabocchio.
Non era nient’altro che il nome di Cliff seguito da un piccolo cuore sghembo.
Insignificante, ma capace di scatenare in me una tempesta in mezzo alla quiete della notte gelida.
 
 
 
 
 
 
* * *
 
Pacchetto per la challenge di Laila: [Inverno] Brina – Angst / Ricordo
 
 
Ehilà, faccio timidamente capolino in questa sezione e metto le mani avanti: non so tantissime cose sui Metallica e per scrivere questa storia mi sono affidata tantissimo al mio istinto e all’ispirazione.
Spero davvero di non aver fatto porcherie con la caratterizzazione dei personaggi o con eventuali riferimenti a fatti reali ^^”
In caso, sono ben accetti suggerimenti e consigli, grazie in anticipo!
Detto questo, un paio di note su questa storia sono più che dovute!
L’idea è nata principalmente come regalino – spero non sgradito XD – per la cara SamHetfield; ho deciso di ricambiare il suo pensierino per me nella sua raccolta “Cara SamHetfield, per Natale vorrei…”, ovvero la shot Riposo che vi consiglio di andare a leggere – ma vi consiglio di seguire tutta la raccolta in generale, ne vale davvero la pena!
Ma la spinta definitiva per buttare giù questa OS l’ho avuta nel leggere la storia …And Justice For All di carachiel, quindi ringrazio con tanto affetto anche lei, senza la quale probabilmente non avrei saputo dove caspita sbattere la testa specialmente per la caratterizzazione dei ragazzi ^^” anche in questo caso, vi consiglio di passare a leggere la long, merita tantissimo!
In realtà inizialmente avevo pensato a qualcosa di un po’ più allegro, ma ho finito per ricadere in un vortice di angst che non ho saputo fermare… ehm… ^^”
Ammetto che Kirk&Cliff mi piacciono tantissimo, non so, mi fanno tanta tenerezza e ho l’headcanon che fossero veramente tanto tanto legati, così come penso che anche James e Lars siano tipo anime gemelle – ovviamente solo in quanto a BROTP, non li shippo come coppia AHAHAHAHAHAHAHAH!
Piccole cosine tecniche: non so quando esattamente James abbia cominciato ad avere problemi con l’alcol, così nei flashback sono rimasta abbastanza vaga per non sbagliare troppo, ecco. Però, ecco, prendetele un po’ come mie licenze poetiche ^^
Quando Cliff racconta l’aneddoto di lui e il suo amico Jim, faccio riferimento al chitarrista Jim Martin che ha militato per una decina d’anni nei Faith No More, ma che prima conobbe Cliff durante gli anni del liceo e i due diventarono amici inseparabili. È vero che hanno suonato insieme in varie occasioni, ma è di mia invenzione il fatto che Jim sia caduto – voglio sempre male a questo ragazzo AHAHAHAHAH povero! Ed è anche vero che andavano a mangiare al messicano XD
Per quanto riguarda la foto in alto, devo ringraziare Evelyn per averla procurata per me, la trovo veramente fantastica e tenera :3
Mi pare di non avere altro da aggiungere, ma per ogni chiarimento sono a vostra disposizione!
Grazie a chiunque deciderà di leggere/recensire e spero che la storia vi sia piaciuta ^^
Alla prossima, augurandomi che questa non sia la mia unica comparsata nel fandom (magari la prossima volta con qualcosa di più allegro, eh? XD) ♥
  
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