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Autore: Ciuscream    21/03/2021    10 recensioni
Nell’arcipelago di Pentidad, vi è una leggenda: quando i protetti di Oyàla e Seruh si incontreranno, uno dei due dovrà sconfiggere l’altro e mettere fine alla guerra secolare che i due Dei conducono lontano da occhi mortali. Izar è soltanto una ragazza come tante, nell’Isola degli Stracci; non sa cosa la Dea, il destino o chiunque tessa le trame della sua sorte, abbia in serbo per lei. E, soprattutto, cosa possa fare per cambiare le carte in tavola.
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte, ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Huracàn
 
CAPITOLO I. FIGLIA DELLA DEA
 
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte,
ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
 
L’odore che esalava dalle fiamme era dolciastro ed inebriante; aveva l’incoerente e incontrollato sapore del sale, del sandalo, della potenza della Terra e del Mare, del loro proteggere ed intrappolare. Le nenie delle donne salivano leggere oltre gli strepitii del grande fuoco, le preghiere del Santero si inframmezzavano a queste, le sovrastavano per volume e per importanza e s’indirizzavano in ogni dove. La circonferenza umana stava stretta attorno a quello spettacolo usuale e, al contempo, magicamente nuovo ad ogni anno che si succedeva al precedente. Il rituale aveva la sacralità delle tradizioni divine e la cadenza di quelle terrene, la loro folkloristica abitualità, la loro febbricitante attesa.
Sette ragazzi, due maschi e cinque femmine, stavano allineati – tremanti, ebbri di paura e di quelle effusioni stucchevoli e narcotiche – al centro di quello scudo umano, in attesa che venisse svelato loro chi, nei cieli, avrebbe vegliato sul loro destino, li avrebbe mossi con dita di burattinaio e protetti con materno o paterno ardore. Izar – così era chiamata la ragazza alla fine della breve fila – era una di queste: suo padre, il Santero, fin dalla nascita l’aveva preparata a quel momento che avrebbe legato, indissolubilmente, la sua anima a quella di uno degli Dei che proteggevano l’arcipelago di Pentidad. Le aveva raccontato ogni più piccolo dettaglio del loro essere, i loro vezzi ed i loro capricci, le loro virtù ed i loro difetti, non mancando mai di sottolineare come sarebbe stato per lei onore ed onere essere scelta da uno qualsiasi di quelli. L’aveva educata fin da piccola ad una fede cieca, incorruttibile, ad una vita prostrata ai loro voleri, per fedeltà e, Izar lo aveva capito maturando considerazioni meno acerbe di quelle di bambina, per personale tornaconto. Le aveva anche narrato di una leggenda, una di quelle che, nelle comunità povere e arretrate dell’Isola degli Stracci, fluivano di bocca in bocca da secoli, serpeggiando da orecchio ad orecchio, con la solennità della verità e con il mormorio etereo delle favole della buonanotte. Le aveva spiegato come mai la figlia maggiore e il figlio minore di Trunt, Dio padre di tutti gli Dei, non avessero più scelto giovani da proteggere nelle terre dell’arcipelago perché troppo impegnati in una guerra logorante ed intestina, che non aveva fatto altro che accrescere superstizioni e paura nelle popolazioni, ingrandendo ed attizzando storie che avevano come sfondo le tinte fosche della fine del mondo. Si mormorava – suo Padre lo faceva con lei nella stanza che condivideva con i molti cugini – che, una volta che i loro figli si fossero incontrati, sarebbero stati destinati uno a mettere fine all’esistenza dell’altro, sancendo così la vittoria di uno dei due Dei e la successione al trono di Trunt.
Izar si era sempre chiesta come mai gli Dei lasciassero in mano a esseri volubili e vulnerabili come gli uomini, il districarsi del loro Destino; suo padre l’aveva ripresa per quelle domande singolari, tarpando velocemente le ali della sua sfavillante curiosità, sottolineando come il volere degli Dei non fosse cosa su cui era ammesso disquisire. In realtà, il Santero non riteneva quei racconti molto più che una leggenda: Oyàla e Seruh erano troppo occupati a farsi la guerra per addossarsi l’incombenza dell’educazione di umani fragili e volatili; erano troppo presi per ascoltare le loro suppliche e le loro preghiere, i mugolii feriti dell’amore e della fame. Questa era la sua misera e pragmatica spiegazione: non avevano lasciato i loro destini nelle mani di nessuno; si erano semplicemente disoccupati di esseri mortali e lontani regni dalla loro casa e dal terreno della loro inesauribile battaglia.
Per consolarla di quella lontananza che le faceva sorgere così tante, irriverenti domande, i suoi racconti avevano spesso ad oggetto Marlia, la figlia mediana di Trunt, che aveva deciso di appoggiare e proteggere quanti più fanciulli possibili, per supplire alle mancanze dei suoi due fratelli – lei, protettrice della prosperità e della fertilità, aveva aperto le braccia armoniose di Dea, così come avevano fatto i figli suoi ed altri dèi minori. Aveva promesso che nessuno che avesse offerto il suo cuore e le sue mani al servizio di un Dio, sarebbe rimasto senza la protezione di questo.
Le parole di suo padre l’avevano rincorsa per tutta l’infanzia, avevano impregnato i suoi sogni delle vicende di quelle donne meravigliose e forti e di quegli uomini coraggiosi ed intrepidi che immaginava essere gli Dei. Aveva bisbigliato nel cortile, giocando con bambole raffazzonate con pezzi di stoffa, scenari che scrivevano i loro destini, li aveva intrecciati, rotti, raccolti, mescolati. Aveva dipinto spesso l’immaginaria e temibile guerra tra Oyàla e Seruh, ne aveva vividamente descritto le più terribili conseguenze, aveva tratteggiato i volti e le azioni di quei loro figli destinati allo scontro. Ai giochi, però, ben presto si erano intervallate le incombenze di giovane donna che sboccia: il rammendo, la cucina, le faccende domestiche, che avevano tolto a quelle fantasie ogni tempo e ogni guizzo d’immaginazione. Erano rimaste le preghiere, quelle che in quella sera rimbombavano attorno a lei, prorotte dalla bocca di suo padre e dalle centinaia di altre che attorniavano il manipolo di giovani, rendendolo protagonista della nottata appena iniziata.
 
Quella sera, nel giorno dell’Iniziazione, tutti i ragazzi dell’arcipelago che avessero compiuto il dodicesimo anno di età, erano chiamati a prestare la loro fedeltà al Pantheon, in cambio del supporto incondizionato degli Dei; erano pronti a dirsi servitori leali e alleati terreni, figli degni d’amore e protezione. Il brulicare d’eccitazione e paura animava ognuno di loro e li mescolava uno all’altro; erano cresciuti vicini, nelle case semplici e spoglie del loro quartiere. Avevano, fino a quel momento, avuto la confortante sensazione di essere ancora dei bambini, di potersi nascondere dietro le sottane colorate delle madri, di reclamare il loro soccorso. Quella sera, però, sarebbero diventati anche figli di qualcun altro; non sarebbero più stati fanciulli ma giovani uomini e donne, avrebbero lacerato il cordone ombelicale una volta per tutte e sarebbero divenuti grandi. Questo pensiero rendeva umide le mani di Izar molto più dell’afa asfissiante che da giorni teneva in trappola l’intera Pentidad.
 
Era immersa nelle trame e nei sentieri sconnessi di quei pensieri quando la voce di suo padre risuonò sopra tutte le altre e spense il vociare leggero delle nenie ed ogni chiacchiera amichevole. Il silenzio scese morbido ma densissimo su quella circonferenza fatta di occhi curiosi e cuori scalpitanti. I ragazzi si scambiarono una fugace sbirciata tra loro e poi quelle sette paia d’occhi si posarono, senza più altalenare, sul Santero. Questo allargò le braccia con fare volutamente teatrale, beandosi di quella sconfinata attenzione, e poi parlò di nuovo.
«Benvenuti, miei fratelli, ad una nuova cerimonia di Iniziazione. Presto, i nostri figli conosceranno chi, tra gli Dei, sarà la loro guida ed il loro faro.» Gli occhi si posarono su Izar per un brevissimo istante, instillando in lei – in quella brevissima frazione di secondo – il peso di un’aspettativa covata dalla sua nascita fino a quel finale istante, che le premette sul petto un fastidioso peso di macigno.
«Vi invito ad essere come sempre rispettosi e pazienti: la festa arriverà presto. Prima, prendiamo tutto il tempo necessario ad introdurre questi giovani uomini e queste giovani donne, nel posto che spetta loro nella nostra comunità. Iniziamo!» Un applauso si levò gioioso dalla folla; Izar fissava alcuni dei volti mulatti scavati dalla fame e dalla miseria, cotti da lavori sfiancanti sotto al sole o distrutti dalla fatica della miniera, che ululavano una felicità ed una trepidazione che erano ben lontane da quella fedeltà sacrale che suo padre le aveva rimembrato per anni. Era piuttosto un’attesa estenuante per la festa ed il ricco banchetto – ricco, per le loro possibilità – che vi sarebbe stato una volta terminata la celebrazione; probabilmente sarebbe stato l’unico pasto degno di questo nome del loro intero anno.
Suo padre fece cenno al primo della fila di avanzare; era Gabre, amico di ogni avventura nella terra brulla intorno al quartiere, complice di forzieri di pirite nascosti, delle vicende degli Dei immaginate da bambini. Era alto, per la sua età: aveva le spalle grandi di chi si è già fatto uomo da un pezzo, le mani callose di chi è abituato a stringere la pala ma il viso dai tratti morbidi non ancora induriti dalle prove della vita. Gli occhi neri del giovane si posarono per una frazione di secondo su Izar, prima di tornare sul Santero; non fece in tempo a scorgere il sorriso che lei gli donò in risposta.  Tremavano tutti nella loro breve fila, nonostante il caldo torrido dell'estate imperlasse la loro fronte con gemme d'acqua e sale e le lunghe tuniche bianche aderissero ai loro corpi bagnati. Come chiamò lui, fece anche con gli altri due che gli stavano a fianco, creando un piccolo gruppo di tre persone – come era usanza. Uno ad uno, vennero benedetti di fronte agli Dei, venne invocata la loro massiva misericordia e il loro sconfinato potere. La formula era sempre quella, sempre era stata quella, le aveva detto il padre; parole semplici e dirette, un attestato vibrante e solenne di fede: 
«Giuri di onorare il Dio tuo padre o la Dea tua madre e tutto quello che loro ti hanno così generosamente offerto e generosamente ti offriranno?»
«Lo giuro.»
Così, le voci maschili e incerte della pubertà si mischiarono a quelle cristalline delle ragazze – in entrambi i casi, tremule, eccitate, pronte ed impaurite al tempo stesso.
I primi tre si avvicinarono al Santero: da una pila di pietre benedette poste sopra un artigianale tavolo in paglia, ne estrassero una a testa; la portarono tutti alle labbra, posando sulla stessa la copia pallida di un bacio e le avvicinarono alle fiamme il tanto che bastava a fare sentire alle stesse le lingue del fuoco, facendole solleticare di calore e di scintille. Le posarono, poi, delicatamente ai piedi del Santero, che si chinò a leggervi sopra la lingua degli Dei, a loro sconosciuta; per loro erano solo ghirigori, un personale e imperscrutabile linguaggio che solo alla più alta carica sacerdotale era concesso conoscere. Ogni runa impressa sulle pietre fiammeggianti era il simbolo univoco che riconduceva ad una divinità – il padre del ragazzo o della ragazza che le aveva avvicinate alle fiamme.
«Gabre…» Proclamò il padre di Izar con sguardo e tono solenne, osservando la prima pietra che era stata poggiata ai suoi piedi. Il ragazzo allargò le pupille di un’impazienza palese mentre i secondi ticchettavano dentro il suo petto e il cuore martellava fuori fase. Il Santero prese un piccolo, finale, respiro; il ragazzo, invece, sembrava quasi in apnea.
«È Fukh a volerti come figlio. Fukh, dio del lavoro e della fatica, protettore dei fabbri e degli spadaccini.» Alzò lo sguardo sul ragazzo che sorrise, sollevato che il suo turno stesse scemando e che l’attenzione sarebbe stata morbosamente rivolta ad un altro paio di occhi spaventati. Prese finalmente fiato, abbozzando una smorfia che sembrava avere l’intenzione di assomigliare ad un sorriso.
«Un grido ed un ringraziamento per Gabre, figlio di Fukh!»
La folla rispose con grida ed applausi, in ululati al cielo e a quel Dio che doveva essere lì, in ascolto, mentre migliaia di cerimonie di Iniziazione si svolgevano in tutte le comunità dell'arcipelago, abbagliando la notte di fuochi e clamore. Izar batté le mani, ancora intorpidite dalla paura, con meno slancio di quello che avrebbe voluto; Gabre le sorrise comprensivo: sembrò aver apprezzato lo sforzo.
Il secondo trio avanzò verso le fiamme e le urla, gli strepiti, le fiumane di applausi, non si stancarono presto. Venne poi il turno di Izar, rimasta vittima solitaria di tutta quella sconsiderata attenzione. Non era per la sua solitudine, però, che le centinaia di occhi le serpeggiavano addosso occhiate cariche di interesse, avide di dettagli da far scivolare l'indomani con schiocchi di lingua. Chi avrebbe preso in figlia la vera figlia del Santero? La nobile Marlia, secondogenita di Trunt, protettrice feconda delle messi che sfamavano la loro gente? O l'ignobile Akas, dio della lussuria e del buon vino, disattento padre ed indecoroso figlio?
Questa era la succosa storia che molti di loro avrebbero voluto raccontare, il giorno a venire. Avrebbero voluto dirsi, fra le risa e fra i bisbigli, che quella fanciulla dalle labbra piene e dallo sguardo fermo, freddo, con quelle iridi che sfumavano in un chiarore così stridente con l'incarnato ambrato, non era la degna figlia di suo padre, né degli Dei. Avrebbe fatto dormire qualcuno con un sordido sorriso sulle labbra, per la sconcertante visione di quella capitolazione.
Suo padre era stato molto duro, con molti di loro: aveva requisito refurtiva, aveva scacciato i mendicanti dalle vicinanze di ogni luogo di culto e preghiera, aveva cercato di ripulire una comunità insozzata dalla miseria e dalla carestia. Ma l'Isola degli Stracci aveva quel nome per un motivo preciso: nessuno stava meglio, nessuno stava peggio. Erano tutti immersi nel grigiore di un'esistenza povera e mediocre, in cui le invidie erano distrazioni confortanti e consolatorie, dove gli uomini si spezzavano la schiena e, con loro, donne e bambini. La loro comunità non era diversa dalle tante altre che affollavano l'Isola. Per questo, Izar non capì e non giustificò quel brulicare eccitato che si mosse tra la folla, adesso caduta in un silenzio totalizzante, talmente denso che le sembrava facesse rumore anche l'afa sfiancante o la goccia che attraversava, con debole attrito, un angolo della sua fronte. Ogni suo passo era uno scalpiccio che pestava erba secca e rametti e scandiva l'incedere verso la risposta che tutti aspettavano, appetivano. Lei per prima.
Si avvicinò a suo padre ma non alzò gli occhi su di lui; sentì comunque lo sguardo dell’uomo pesare su di lei, scrutarla attento e guardingo, con una curiosità che non era meno febbrile di quella che animava il pubblico intorno a loro. Cercò di fare più in fretta possibile: si limitò ad acchiappare, stringere e far aderire alle labbra la pietra; la avvicinò al fuoco un istante dopo – la vicinanza era insostenibile in quel clima soffocante. Restò con la mano tesa lo stretto necessario e poi si ritrasse dalle fiamme. Un leggero alito di vento si alzò sulla folla, dando respiro e rigenero alle decine di visi sudati: dapprima, non sembrò che soltanto un soffio volatile ma poi crebbe d'intensità, scompigliando i capelli lunghi di Izar stretti in mille, sottili, trecce e facendo danzare in modo improvviso le lingue del fuoco. Molte delle fiammelle in mano alla folla si spensero, così come i loro sorrisi che fecero posto ad espressioni di stupore per quell’improvviso ed insolito spostamento d’aria. Il clima era caldo e pesante da giorni: Izar poteva sentirlo premere sulle sue spalle magre e piccole, sul seno acerbo, sul collo sottile e scoperto.
Un brivido leggero la colse e la attraversò con delicatezza; era come se quel fiato l'avesse svegliata da un torpore in cui non si era accorta di essere immersa: affrettò il passo verso suo padre, ai cui piedi posò la pietra. Con gli occhi bassi, tornò in fila dagli altri, accelerando tanto che il suo incedere parve quasi una breve corsa. 
Il Santero si chinò a prendere quella risposta e la folla trattenne il fiato all'unisono. Il viso dell'uomo e la sua espressione erano, come sempre, imperscrutabili; solo nei suoi occhi, Izar colse uno scintillio sinistro, inusuale. Poteva essere paura o rammarico, poteva essere disappunto. Sentì le gambe crollare: cosa avrebbe detto se fosse stata davvero figlia di Akas? Quale destino vi era in serbo per lei? La prostituta, la ballerina in qualche squallida taverna disadorna? Trattenne il fiato lei stessa, in quella disamina che le parve infinita. Sentiva il suo stomaco strizzarsi e contorcersi per la paura e l'attesa.
Doveva sapere, voleva sapere. 
Suo padre fissò la pietra per un ultimo, interminabile, istante e poi poggiò gli occhi su di lei. Non parlò alla folla, non si mosse con la sua teatrale confidenza, con il suo modo accogliente di dirigere quello spettacolo. Solo la voce era la solita: forte e chiara, ma non calma - vibrante, tesa. La folla non sembrò accorgersene; solo lei e sua madre sembrarono notare che vi era qualcosa di storto, di disallineato, in quella proclamazione così composta.
«Izar...» Nella sua testa, la ragazza si ripeteva soltanto un interminabile ritornello: “Non Akas, non Akas…”
«Izar...» Ripeté ancora, come se stesse scavando nelle pieghe del cervello a ritrovare qualche formula che sembrava perduta. Pareva smarrito, quasi spaventato, come se vi fosse qualcosa che non riusciva a comprendere appieno. Poteva essere incredulità, poteva essere sconcerto; Izar non sapeva dirlo, non aveva abbastanza ossigeno nei polmoni per ragionare lucidamente e le esalazioni del fuoco l’annebbiavano leggermente. Si riscosse quando il Santero parlò di nuovo.
«È...» Sembrava un balbettio. Molti nel pubblico presero a bisbigliare parole con il vicino, scambiando supposizioni per quell’emozione che si era fatta più palese. Vergogna? Tensione nell’officiare l’Iniziazione di sua figlia? Era impossibile, per alcuno di loro, dirlo per certo; era impossibile anche per lei.
«È Pedira a volerti come figlia.» Izar sentì lo stomaco allagarsi di una sensazione di benessere talmente disarmante che quasi non esplose in un gridolino. Anche la folla sembrò aver ricominciato a respirare più compiutamente; qualcuno accennò già un piccolo applauso, qualcuno sembrò deluso per la normalità di quella scelta.
«Pedira, dea delle arti e della bellezza, protettrice di scrivani e pittori. Un grido ed un ringraziamento per Izar, figlia di Pedira!»
Un nuovo forte vento si alzò tutt’intorno; vento che alimentò ancora il fuoco, zampillante fiamme dalle vette alte e dalle lingue roventi, protese verso il cielo limpido di quella notte.
Gli occhi del Santero erano allargati e puntati su sua figlia, adesso oggetto degli applausi di giubilo della folla, pronta a banchettare e cantare per l'intera notte a venire. La maschera che lo animava aveva in sé i tratti di troppe emozioni; più di tutte, quella che Izar gli leggeva trapunta in viso, era probabilmente la paura. Lo fissò di rimando mentre i lunghi capelli corvini, oscillati dal vento, le screziavano il viso di una texture informe, che cambiava ad ogni nuovo soffio la sua geometria. Sapeva che avrebbe preferito fosse la grande Marlia, figlia di Trunt, a sceglierla. Ma che cosa vi era di così sbagliato, di così ingiusto, in quella decisione? Era davvero paura o era delusione? Era l’espressione sofferente del fallimento? Non fece in tempo a rispondersi che il fluire impazzito dei suoi pensieri venne interrotto da una mano che le puntellò leggera il fianco; si scostò impaurita e Gabre rise della solita risatina roca ed irriverente. Le allungò la sinistra.
«Izar, figlia di Pedira.» Il tono era volutamente solenne e altrettanto canzonatorio; il sorriso dalle labbra carnose era tagliato verso sinistra, in un ghignetto divertito. Izar era ancora smarrita; fissò la mano del ragazzo con la confusione del dormiveglia, come se quei pensieri l’avessero avvolta talmente tanto da trascinarla quasi in un sonno alienante. Cercò gli occhi neri di lui con i propri; le iridi della ragazza sfumavano da un color nocciola ad un turchese plumbeo, che ne affogava la parte inferiore.
«Mi concedereste il primo ballo della serata?»



 
Nda: Alcune - brevissime, lo giuro - note alla storia: questa è la mia prima storia originale; è una storia di cui ho in testa l'ossatura ma la cui stesura è ancora tutta in divenire. Spero di essere il più costante ed ispirata possibile, così da aggiornare, se non con cadenze precise, nemmeno troppo sporadicamente. Ogni consiglio ed ogni pensiero sono più che ben accetti; anche i pomodori lo sono, basta che almeno dentro abbiano un messaggino con una critica costruttiva.
Premetto già che il rating potrebbe subire un po' di innalzamento, andando avanti con la narrazione. Nel frattempo, vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Un abbraccio
   
 
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