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Autore: SkyDream    21/03/2021    5 recensioni
[Ship!SakuAtsu]
Kiyoomi e Atsumu si guardano, si osservano e si studiano a lungo prima di sfiorarsi ma, quando accade, è la fine.
Non è un colpo di fulmine, non è il filo del destino nè sono l'uno l'anima gemella dell'altro.
Sarebbe troppo facile, e quando ci sono Kiyoomi e Atsumu di mezzo niente è mai facile.
Così potrebbe bastare una semplice voce per far crollare tutto.
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Dal testo:"Lo sapeva, se n’era accorto già da parecchi mesi quando aveva avuto la percezione di sentire gli sguardi di Omi entrargli tra i processi spinosi e incastrarsi lì, dentro il midollo, causandogli una scarica infinita che lo colpiva dalla nuca e giù per tutta la spina dorsale."
"Era una figura enorme, sulla savana, e quando Atsumu vide il disegno totalmente finito quasi fu tentato di disfarlo e ricominciare, solo per poter passare ancora serate intere a chiacchierare con Omi.
Ma non ce ne fu bisogno, dopo quel puzzle ne seguirono altri."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali: Sì, ai poveri personaggi delle mie storie non lascio un attimo di pace e mi chiedo perchè, ogni volta, mi ritrovi a inserire scene Hurt/Comfort. Vi giuro che questa legge non scritta sfugge alla mia capacità di comprensione.
Questa è una storia scritta per innamorarsi, o forse per tornare a credere nell'amore oltre i propri difetti, oltre le proprie paure.
E' una storia, anzi è una coppia, che vuole insegnarci ad accettare le nostre paure e i nostri difetti perchè un giorno qualcuno riuscirà ad amarli.

 
 
~ Puzzle ~
[SakuAtsu]
 
Primavera
 
«Lo trovi strano anche tu?».
«Decisamente sì, anche secondo Keiji non è normale».
Bokuto ed Hinata si affacciarono dalla porta dello spogliatoio senza sapere se fosse il caso di cominciare l’allenamento senza aspettare l’arrivo dell’allenatore.
Sarebbe stato davvero rischioso - a detta di chiunque – affrontare un Atsumu Miya intento a colpire tutti e trenta i palloni presenti nel cesto.
In assoluto silenzio.
Con lo sguardo fisso verso un solo punto, come se volesse incenerire proprio quella parte di pavimento.
«Sono giorni che Tsum-Tsum si comporta così. Dovremmo parlargli?» Bokuto approfittò dell’attesa per scartare una barretta ai frutti rossi, Hinata la guardò con un piccolo colpo al cuore.
La sua avrebbe dovuto attendere il post-allenamento, in casa aveva il minimo indispensabile per la sopravvivenza e spendere altri soldi al supermercato era fuori discussione se voleva tornare a Tokyo nel fine settimana.
Avrebbe ripulito la dispensa di Tobio.
«Non credo che Tsumu sia il tipo che parla apertamente dei suoi problemi. Akaashi-san ti ha consigliato qualcosa? E’ lui quello bravo in queste cose».
Bokuto parve ricordarsi solo in quel momento di qualcosa. Uscì un’altra barretta dallo zaino e la lanciò al suo amico, era avvolta da un foglio di carta con un “Mangia!” dai toni vagamente minacciosi.
Era firmata da parte di Akaashi e accanto c’era disegnato un sinistro fuocherello incattivito.
Hinata deglutì, ma in cuor suo ringraziò il Cielo per avere degli amici così speciali.
«Mi ha detto di lasciarlo stare e che presto tornerà come prima, probabilmente il problema non siamo nemmeno noi o non sarebbe qui praticamente all’alba ogni mattina» rispose poi Bokuto grattandosi lievemente la nuca.
Entrambi si affacciarono nuovamente dalla porta, proprio in quel momento videro Kiyoomi Sakusa entrare dalla porta centrale.
 
Un anno prima
 
Kiyoomi Sakusa era entrato quasi subito nei MSBY Black Jackals, d’altronde era uno dei primi tre assi del Paese e poteva vantare la possibilità di entrare dove più gli gradiva.
Aveva valutato la proposta degli Adlers, lì c’era perfino Ushijima – sua vecchia conoscenza con cui poteva vantare di aver scambiato ben quattro frasi – e tutti gli altri sembravano decisamente più tranquilli e pacati di quelle teste calde di Bokuto e Hinata.
Però – c’era un però enorme quanto il campo su cui amava giocare – nei MYSB l’alzatore era decisamente una persona più interessante da studiare rispetto a Tobio Kageyama.
Kiyoomi si era ritrovato Atsumu davanti in un pomeriggio di primavera, aveva la fronte umida di sudore e il ciuffo malamente scombinato sugli occhi.
Aveva sorriso nello scoprire che si sarebbe aggiunto alla ciurma, e proprio durante quel sorriso Kiyoomi aveva notato per la prima volta il canino scheggiato dell’altro giocatore.
Avrebbe scoperto qualche mese dopo che, quell’infortunio, era ricollegato ad una delle lotte più epiche avute con Osamu.
Kiyoomi aveva deciso che, per tenere a bada le sue paure infondate, ogni qualvolta avesse avuto bisogno di un punto fermo, quel punto sarebbe stato Atsumu.
E si sorprese quando, dopo poco più di un paio di mesi, constatò che quel punto non si era mai spostato. Era rimasto lì, sullo stesso lato del campo, ogni giorno, a mostrargli quel sorriso scheggiato.
Atsumu aveva poi cominciato ad avvicinarsi, come un’ombra, senza mai varcare i limiti che Omi aveva imposto col suo silenzio.
Si erano osservati, si erano studiati e forse – forse – Atsumu aveva capito un millesimo della sua importanza su quel campo da gioco.
Forse si era sentito osservato durante le partite, durante gli allenamenti.
Forse si era sentito scoperto, spogliato, scoperchiato da quegli occhi neri che, senza mai urlare, avevano bisogno di molto più supporto di quanto si credesse.
Se n’era reso conto un giorno d’autunno, durante un temporale memorabile che aveva trasformato le strade in lunghissimi fiumi d’acqua.
Kiyoomi era tra i pochi della squadra a possedere un’auto - acquisto dettato perlopiù per la sua avversione verso i mezzi pubblici -, e Atsumu aveva congiunto le mani e stretto gli occhi quando lo aveva supplicato di riaccompagnarlo a casa.
Era stanco di tornare zuppo ogni sacrosanto giorno e, come se non bastasse, si avvicinava una partita importante e non poteva permettersi di stare male.
«Nessuno di voi può permettersi di avere un setter raffreddato in campo!» aveva specificato poi sollevando una palpebra per constatare che Omi, come sempre, gli stava rivolgendo un’espressione scocciata e superficiale.
«Solo se terrai a freno la lingua per tutto il tragitto.» aveva acconsentito, poi, afferrando le chiavi dell’automobile.
Atsumu lo aveva ringraziato con un fiume di lodi fino a quando non si era accomodato sul sedile, da quel momento in poi si era autoimposto di non fiatare fino all’arrivo a casa. Conoscendo Omi, non si sarebbe fatto problemi a mollarlo sul primo marciapiede anche sotto il diluvio universale.
Aveva però notato che, non appena Kiyoomi aveva girato la chiave nel quadrante e si era voltato per poter fare marcia indietro, le sue mani avevano preso a tremare dapprima leggermente e poi sempre più forte.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, forse era il freddo? Potevano accendere il condizionatore con l’aria calda, non era di certo un problema.
Forse stava male? Magari si era bagnato anche lui nei giorni scorsi e si era beccato un raffreddore?
«So cosa stai pensando, non parlare» sussurrò l’interessato senza degnarlo di uno sguardo.
Quella frase colpì Atsumu come uno schiaffo. Così come quel respiro profondo che aveva fatto prima di pronunciarla.
Kiyoomi non era raffreddato, non sentiva freddo. Era spaventato.
Da qualcosa che lui non poteva vedere, ma poco importava. Tutti siamo spaventati da qualcosa che gli altri non vedono, Atsumu ne era consapevole.
I respiri si fecero più profondi e cominciarono ad essere spezzati tra quelle strade affollate, piene di fanali brillanti, di gente che camminava su marciapiedi scivolanti, sciabordanti e l’acqua continuava ad infrangersi contro di loro, contro i tetti di case da cui provenivano voci, suoni, odori.
I lampioni erano scossi dal forte vento, le luci creavano lunghe ombre impetuose sulle auto in sosta, perfino le fronde degli alberi sembravano doversi liberare di tutte le foglie che tenevano addosso.
E più tutto attorno a loro diventava veloce e vorticoso, più il respiro di Omi si faceva rapido, spezzato.
Atsumu notò che il suo isolato era a pochi metri, si chiese se l’altro si sarebbe ricordato di doverlo fare scendere.
«Puoi parcheggiare qui un momento? Non trovo le chiavi di casa.» Atsumu fece finta di perdere tempo infilando una mano dentro il borsone. Kiyoomi apprezzò quella pausa, per quanto non vedesse l’ora di tornarsene a casa e infilarsi sotto le lenzuola.
Spense il motore ed ebbe il tempo di togliere le dita dal quadrante che, come un fulmine, si ritrovò un braccio di Atsumu addosso.
Il ragazzo aveva preso le chiavi dell’auto e non sembrava intenzionato a mollarle.
«Cosa stai facendo, Miya?».
«Non ti lascio andare via così».
In apnea, i loro occhi scuri non si scollarono per interi – infiniti – secondi prima di tornare a respirare.
Atsumu aprì la portiera e tornò nel caos della vita terrena, colma di luci, suoni e pioggia scrosciante. Non aveva intenzione di tornare a casa lasciando Kiyoomi dentro l’auto.
Rimase lì, davanti la portiera aperta, sentiva le gocce scivolare sulla sua pelle, sui capelli incollati alle guance, sulle chiavi che non aveva ancora restituito.
Così come l’altro non aveva ancora mollato lo sterzo, era rimasto a contemplare l’alta figura di Atsumu bagnarsi senza ragione mentre lo aspettava.
E Atsumu avrebbe voluto ridere, perché lo avrebbe aspettato sotto una tempesta per tutta la vita se necessario. E guarda come gli era toccato scoprirlo.
No, in realtà lo sapeva, se n’era accorto già da parecchi mesi quando aveva avuto la percezione di sentire gli sguardi di Omi entrargli tra i processi spinosi e incastrarsi lì, dentro il midollo, causandogli una scarica infinita che lo colpiva dalla nuca e giù per tutta la spina dorsale.
Omi davanti quegli occhi scuri aveva finito per cedere, si era ritrovato dentro il monolocale di Atsumu, in una cucina piccola ma con una vetrata grande che dava sulla strada trafficata.
Il vento si era fatto sempre più forte e la pioggia ormai cadeva quasi in orizzontale, una donna sul marciapiede finì per ritrovarsi con l’ombrello ribaltato e cercò riparo sotto un balcone.
In lontananza i tuoni si avvicinavano, dapprima lenti e poi veloci, lunghe e rapide scariche elettriche ricercavano il suolo.
Omi parve accorgersi solo in quel momento di come l’attacco di panico che fino a poco prima lo aveva travolto sembrava essere sparito.
Oltre alla germofobia – forse a causa della germofobia – Omi a volte si bloccava, la testa sembrava andare in tilt e succedeva sempre in determinate situazioni.
Li chiamavano triggers.
A lui succedeva quando toccava qualcosa di sudicio, quando frequentava luoghi affollati o mezzi pubblici, quando luci e suoni si facevano troppo intensi e quando vi erano tempeste simili.
Semplicemente gli scattava nel cervello un manifesto gigante con la scritta Pericolo! e tutto sembrava acuirsi e gli sembrava di morire lentamente.
Non quella volta. Quella volta si era calmato, quella casa gli dava l’impressione di essere abbracciato e la cosa lo inquietò un po’.
Atsumu uscì dal bagno con un asciugamano tra i capelli e un pigiama dall’aria calda e morbida, diede una rapida occhiata prima al frigo e poi a Kiyoomi, arrossendo appena.
«So che non mangi volentieri cibo a domicilio, ma non credo vi siano altre alternative, credimi».
Omi non mangiava cibo a domicilio da anni, e voleva assolutamente evitare di avere un altro attacco in presenza di Atsumu, per cui optò per la classica fuga dal problema.
«Non preoccuparti, sto benissimo posso anche tornare a casa adesso. Grazie per la gentilezza e scusa per il disturbo».
«E come pensi di guidare? Senza chiavi intendo».
Kiyoomi raggelò di fronte la porta, si voltò in direzione del suo amico che continuava a tamponarsi i capelli con l’asciugamano. Nell’aria vi era un dolce profumo d’argan.
«Dove le hai messe.» Più che una domanda, sembrava un ordine.
«Ah, non ne ho idea. Se vuoi le cerchiamo insieme, ma temo che impiegheremmo tutta la notte. Forse è il caso che tu rimanga qui, giusto per evitare di schiantarti contro il primo palo della luce.» Atsumu aprì il frigorifero e notò quattro birre abbandonate, forse quelle sarebbero andate bene per cominciare la cena.
Ne aveva bisogno molto più di quanto ammettesse a se stesso, aveva letteralmente appena obbligato Kiyoomi Sakusa a dormire da lui, e non aveva un letto in più per cui avrebbe dovuto dormire sul divano.
«Miya, non mi schianterò contro un palo della luce. Sto bene, dove sono le chiavi?».
Atsumu riapparve da dietro l’anta del frigo, gli occhi lucidi a causa della doccia colpirono Omi come fossero un treno ad alta velocità.
«Non voglio che ti succeda nulla».
Quella frase rimase sospesa a mezz’aria, Atsumu poteva vedere lo sguardo di Omi spostarsi su di lui e poi a terra, a fissare le mattonelle bianche.
«Okay. Però cucino io».
 
Atsumu e Kiyoomi cominciarono a passare sempre più tempo l’uno accanto all’altro, senza nemmeno accorgersene.
Omi si sentiva al sicuro se Atsumu gli faceva compagnia al supermercato, così come Atsumu aveva imparato a fare decentemente la spesa grazie a lui (Finalmente non si concedeva solo surgelati e ramen istantanei).
Omi si fermava a dormire da lui, seppur raramente, ma mai aveva messo piede sul suo letto. Aveva sempre utilizzato il divano della cucina, seppur non propriamente comodo.
Di solito si concedevano un film dopo cena, o almeno così facevano finchè un giorno Atsumu non rispolverò un vecchio puzzle che avevano regalato a lui e suo fratello. Chissà perché lo aveva nel suo monolocale, non ricordava nemmeno come ci fosse finito.
Grazie a questo, però, aveva scoperto che Omi adorava i puzzle e che sedersi a tavola a giocare insieme era un ottimo modo per chiacchierare senza che l’aria si facesse pesante.
Era una figura enorme, sulla savana, e quando Atsumu vide il disegno totalmente finito quasi fu tentato di disfarlo e ricominciare, solo per poter passare ancora serate intere a chiacchierare con Omi.
Ma non ce ne fu bisogno, dopo quel puzzle ne seguirono altri.
 
Una sera d’inverno, reduce da una partita decisamente tosta, Kiyoomi decise di andare direttamente a casa per potersi fare una doccia e dormire almeno per dodici ore.
Atsumu non si oppose, più che altro perché è difficile opporsi se si è impegnati a russare e sbavare sul sedile del passeggero.
Omi lo aveva quindi lasciato a casa – lo aveva quasi dovuto prendere a calci per farlo scendere dalla macchina – e aveva dedicato il resto della serata per se stesso e per le sue ore di sonno arretrate a causa degli allenamenti. Non aveva mai amato il suo letto come quel giorno.
Kiyoomi Sakusa, però, aveva il sonno leggero. Menomale.
Dormiva in una stanza non troppo grande, con un letto abbastanza spazioso da permettergli di stendere le gambe comodamente e sul comodino teneva sempre il cellulare ed una bottiglietta d’acqua.
Per cui, non appena sentì qualcosa vibrare con insistenza vicino le sue orecchie, prima di tutto si svegliò di soprassalto e, secondariamente, finì per dare una manata alla povera bottiglia.
Non riceveva spesso chiamate – neanche di mattina – se non da parte di Motoya e, a volte, da sua zia. Raramente da suo padre.
Gli venne istintivo rivolgere prima gli occhi alla sveglia, sull’altro comodino, e poi rispondere alla telefonata.
Leggere il display era fuori discussione, appena sveglio aveva la messa a fuoco di una talpa.
«Omi-kun?» dall’altro lato si sentiva una voce lontana, pigolante, forse di qualcuno che piangeva. Ripeteva il suo nome e di tanto in tanto si fermava per tirare su col naso.
Di sottofondo si sentiva un vociare sparso, forse il rumore di qualche macchinario simile ad un bip-bip continuo.
«Pronto? Chi è?» Kiyoomi si tirò su a sedere e accese la luce, cominciava a svegliarsi del tutto e notò che erano solo le cinque del mattino.
«Omi-kun, mi sento così solo. Voglio tornare a casa, riportami a casa.» la voce pigolante lasciò il posto ad un vero e proprio pianto.
Poi si sentì il rumore di qualcuno che prendeva il telefono e, poco dopo, la voce di una donna.
«Pronto? Parlo con il fratello del signor Atsumu Miya?».
«Ah?» Kiyoomi allontanò l’aggeggio dall’orecchio e si accorse con orrore di aver capito bene da chi arrivasse la telefonata.
Di notte.
«Lei non è suo fratello?».
«Non direi affatto, per fortuna. Potrebbe dirmi lei chi è e cosa sta succedendo?».
Dall’altro lato si sentì un sospiro, poi il tonfo di qualcuno che si siede su una sedia.
«La chiamiamo dall’Ospedale Centrale di Osaka, e il signor Miya non ha decisamente tollerato i sedativi».
Kiyoomi si era quindi ritrovato a dover entrare dentro un ospedale.
(E lui odiava gli ospedali. Però, la cosa che forse odiava più di tutte, era affezionarsi a qualcuno così tanto da riuscire a superare le sue paure in caso di necessità.
Più che altro perché, in questi casi, si considerava spacciato.
Fortunatamente capitava di rado.
Ma sfortunatamente c’era dentro con tutte le scarpe.)
Era lì per andare a recuperare Atsumu, miglior setter dei MYSB Black Jackals e campione indiscusso di “ustione di secondo grado alla mano mentre mi preparo una semplice tisana”.
Aveva trovato Atsumu totalmente ubriaco di sedativi – unico modo per medicargli la mano senza sentirlo urlare come un indemoniato. Se non fosse che decisamente non li tollerava come una persona normale – ed era riuscito, in qualche modo, a portarlo fino a casa e perfino a mettergli il pigiama.
Atsumu lo guardava felice come un bambino, con un sorriso tenero e gli occhi lucidi forse per i farmaci, forse per il dolore.
Lo fece sdraiare sotto le coperte e aspettò di vederlo assopirsi prima di alzarsi per andare via.
O almeno quella era l’intenzione.
Atsumu, infatti, continuando ad articolare parole sconnesse e assonnacchiate, si era accoccolato contro il cuscino e di tanto in tanto si lamentava per il dolore alla mano, corrucciando il viso in un’espressione che Omi trovava particolarmente tenera.
E proprio quell’espressione tenera, associata al profumo di disinfettante e medicine, avevano incantato lo schiacciatore che rimase tutto il tempo con le labbra schiuse ad osservare le guance rosse del suo amico.
Atsumu mugolava, muoveva il palmo della mano contro il cuscino come se cercasse qualcosa – forse un po’ di fresco.
Kiyoomi poggiò le dita sulla sua fronte, scoprendola calda. Più passavano i minuti, più lo vedeva agitarsi, come se il dolore fosse insopportabile.
«Ehi, smettila di fare così. Ora passa.» Omi non era mai stato bravo a rassicurare la gente, in realtà era stato abbastanza fortunato e gli era capitato assai di rado di dover sostenere qualcuno che soffriva.
Eppure, voleva provarci. Atsumu era sempre stato gentile con lui – tantissimo – e sapeva bene come, sotto quel velo di sicurezza ed egocentrismo, si nascondesse un ragazzo assetato di certezze e rassicurazione. Di protezione.
Kiyoomi sospirò, era inutile tentare di non cambiare abitudini con l’uragano Miya nella sua vita.
Raggiunse la cassettiera dei vestiti – quella sotto il grande puzzle della savana che Atsumu aveva deciso di appendere al muro – e prese un paio di pantaloni e una felpa puliti. Non aveva intenzione di andare a dormire con dei vestiti che puzzavano di ospedale.
Sperò che Atsumu non se la prendesse per quel prestito.
Omi si infilò sotto le coperte insieme a lui – per la prima volta – sentendo il calore del suo corpo e la morbidezza delle sue lenzuola profumate d’argan.
Sfiorò le dita della mano bendata, scoprendole fredde, e poi si avvicinò al viso senza però toccarlo.
Impazziva dalla voglia di sfiorare le labbra, ma non sapeva nemmeno lui perché.
Sapeva solo perché non lo aveva ancora fatto. Ma avrebbe superato anche quell’ostacolo.
Accompagnato dai respiri profondi dell’altro, finalmente Omi si addormentò.
Atsumu si era risvegliato poche ore dopo, con le palpebre ancora pesanti e le labbra secche, assetato come un disperso nel deserto.
Aveva messo a fuoco dopo interi minuti, scorgendo una massa di ricci scuri a pochi centimetri da lui e poi un viso rilassato, un respiro profondo.
Kiyoomi dormiva sereno al suo fianco con una mano che sfiorava la sua, quasi non volesse farlo sentire solo.
Atsumu cominciò poi a ricordare: si stava preparando una tisana per cercare di distendere i muscoli dopo la partita, ma mentre versava l’acqua bollente nel bicchiere si era distratto guardando la televisione e l’acqua gli era finita sulla mano sinistra.
Aveva chiesto ai vicini di casa di accompagnarlo, era terrorizzato per la sua sorte come pallavolista e ad ogni secondo che passava sentiva la pelle bruciare sempre di più.
Era arrivato in ospedale urlando, più per il terrore che per il dolore – anche se nemmeno quello scherzava – e l’unica persona che aveva provato a chiamare era stata Kiyoomi. Non suo fratello – per quanto nel delirio ricordava di averlo nominato -, non i suoi genitori, né un amico qualunque.
Omi. Aveva pensato a lui e l’aveva aspettato pigolando e stringendosi sotto le lenzuola fredde, il sedativo che gli scorreva nelle vene aveva alterato tutto attorno a lui in un vortice che non seguiva più la legge spazio-tempo. Improvvisamente ebbe l’impressione di sentire i propri battiti, i propri respiri e ogni centimetro della sua pelle reagire al semplice contatto con i tessuti.
Avrebbe voluto spogliarsi della sua pelle, rimanere con i nervi scoperti e mettere a tacere ogni rumore. Poi, quando pensava che gli sarebbe esploso il cervello, aveva visto Omi di fronte a sé.
 
Andiamo a casa.
 
Non ricordava come fosse arrivato a casa sua, né come mai avesse addosso in pigiama.
Sapeva solamente che Omi stava dormendo al suo fianco e, cavolo, era davvero uno spettacolo a cui non avrebbe mai più voluto rinunciare.
 
E si erano susseguiti i mesi e le stagioni, Atsumu si era lasciato viziare da Omi con la scusa della mano indolenzita, Omi si era lasciato ammorbidire da quel caratterino che tentava di farsi in quattro per farlo sorridere.
Vi era però un MA enorme in quella situazione che, davvero, cominciava ad andare per le lunghe.
Atsumu avrebbe voluto chiedergli cosa fossero, avrebbe voluto avvicinarsi un po’ di più e toccarlo, baciarlo. Nonostante conoscesse bene le sue fobie, voleva sentirlo sotto le proprie dita e sulle proprie labbra.
Ma non sarebbe riuscito a digerire un “no”, così aveva rimandato ancora e ancora. Meglio avere un Omi a metà piuttosto che non averlo del tutto.
Kiyoomi, dal canto suo, avrebbe voluto dire ad Atsumu quello che provava ma – semplicemente – non aveva la più pallida idea di come si facesse e aveva paura di sembrare solo uno sciocco.
Così si erano avvicinati, spalla contro spalla, si erano spogliati delle proprie paure ma senza mai toccarsi veramente.
Kiyoomi, da quando frequentava casa di Atsumu, sentiva una perenne carezza sul viso e cercava di rievocarla quando a volte gli attacchi di panico lo colpivano, imprevedibili, come una marea.
Atsumu invece aveva finalmente smesso di giudicare quella casa troppo grande – nonostante fosse un monolocale – e troppo silenziosa. Avrebbe voluto dirgli di rimanere ogni sera e svegliarsi al suo fianco ogni mattina.
Forse avrebbe dovuto farlo.

 
 Primavera
 
Kiyoomi entrò dalla porta della palestra e vide Atsumu già sudato, i muscoli tesi per lo sforzo e il torace che si spandeva sotto la potenza dei respiri.
«Sono solo le otto del mattino e già sei stanco, Miya?».
«Almeno io lo do a vedere se sono stanco per qualcosa o di qualcosa».
Omi rimase a guardarlo qualche secondo mentre incassava il colpo. Si affrettò a raggiungere lo spogliatoio e disinfettò la panca decisamente in modo più maniacale rispetto al suo solito.
Notò la presenza di Hinata e Bokuto, stretti sulla soglia tra lo spogliatoio e la palestra, indecisi su chi affrontare tra lui e Atsumu.
Li vide optare per lo sgabuzzino dei palloni.
Meglio, avrebbe potuto disinfettare la panca ancora per qualche minuto prima di sedersi e disinfettare il borsone prima di aprirlo.
Forse aveva le mani sporche, aveva toccato la maniglia d’ingresso. Avrebbe dovuto lavarle.
Respirò. Forte, sempre più forte. Non smise nemmeno un momento di strofinare la salviettina con il disinfettante.
O almeno finchè qualcuno non aprì la porta.
Atsumu la richiuse dietro di sé e lo chiamò per nome.
«Hai le mani totalmente bruciate dal disinfettante, Omi, erano tornate normali negli ultimi mesi. Non rovinarle così!» Atsumu si avvicinò ancora e gli rubò la bottiglietta dalle dita. Era certo di averla vista piena solo il giorno prima, mentre ora a stento usciva dal beccuccio.
«Si può sapere che vuoi?» la voce di Kiyoomi era spezzata forse dal panico, forse da qualcosa di decisamente peggio.
«Cosa voglio io?! Nulla, assolutamente nulla, Omi. Forse un minimo di preavviso? Come dovrei sentirmi?!».
«Io come dovrei sentirmi? Casa tua era diventata casa mia e improvvisamente non mi fai più entrare, non mi aspetti per gli allenamenti, scompari dalla mia vita dopo quello!» Omi stava indicando la mano sinistra di Atsumu, lì dove una cicatrice bianca gli ricopriva quasi interamente il dorso.
L’alzatore guardò quella ferita, era un segno indelebile di quella notte passata mano nella mano, di come non aveva fatto altro che nominare Kiyoomi e di come lui si fosse catapultato ignorando ogni sua paura.
«Tu eri diventato parte di quella casa, Omi, e io scopro che cambierai squadra. No, che cambierai regione e che probabilmente se ti rivedrò sarà dall’altro lato della rete».
«E prima di trarre le tue conclusioni non potevi semplicemente chiedermi cosa avrei fatto?!».
Kiyoomi non perdeva mai le staffe, se ne stava di solito a borbottare roba tra sé e sé in un angolo, studiando con meticolosa attenzione ogni suo avversario.
Quando però accadeva, quando sentiva la rabbia e la frustrazione scorrere dentro le vene, cadeva dentro un precipizio che lo costringeva a ripetere ancora e ancora e ancora le stesse azioni. Motivo per cui la panca era ormai diventata lucida e la salvietta utilizzata era usurata fino all’orlo.
Atsumu non ce la fece più e gli strappò dalle dita anche quella, non poteva farcela. Non poteva vederlo farsi del male in quel modo.
«Kiyoomi, sei entrato a far parte dell’EJP Raijin, ti trasferirai a Gunma. Gunma dista quasi due ore con lo shinkansen! Lo so che non è letteralmente come andare dall’altra parte del mondo, ma è stato devastante allo stesso modo, te lo assicuro!».
Atsumu invece perdeva le staffe facilmente, solitamente era suo fratello a riportarlo a terra. Inoltre, era capace di serbare rancore per l’eternità e il manager della EJP Raijin era nella sua lista nera e lo sarebbe stato anche nell’oltretomba.
«Atsumu, mi hanno proposto di entrare in quella squadra. Non ho detto che ci andrò, ma ti assicuro che se non vuoi vedermi più accetto immediatamente e sotterriamo quest’ascia di guerra!».
E Kiyoomi era tremendamente serio.
Aveva afferrato il telefono e aveva ormai deciso di smetterla di sorbirsi quegli sguardi carichi di odio da parte dell’unica persona che fosse riuscito a farlo sentire amato.
Aveva ragione Atsumu, meglio non vedersi più se era bastata una cosa simile per far cadere tutto.
Fece per uscire dallo spogliatoio, ma si sentì afferrare un polso.
Atsumu aveva lo sguardo basso, tremava – forse anche per il freddo considerato che era comunque sudato.
«Credevo che tu non aspettassi altro per ricongiungerti con Motoya. E’ la tua famiglia, è per te ciò che per me è Osamu e io pensavo … mi dispiace, Omi, scusami».
Kiyoomi rimase sul posto, congelato.
Ricongiungersi con Motoya? Era assolutamente vero che suo cugino era tutta la sua famiglia e il suo più caro confidente, ed era vero anche che gli mancava passare del tempo con lui come faceva alle superiori.
Eppure, da questo a voler cambiare squadra ne passava di acqua sotto i ponti.
«Sei un idiota, Miya».
«Osamu sarebbe fiero di te, e in effetti avrebbe ragione».
 
Atsumu si infilò sotto le coperte e si accoccolò vicino al petto dell’altro, quasi cercasse calore. Sentì un braccio cingergli la schiena e stringerlo appena.
Come si incastravano bene, pensò, non dovevano poi essere così differenti dai pezzi del puzzle sulla savana che spiccava alle loro spalle.
«Profumi.» disse Omi senza aprire gli occhi ma aspirando l’odore di argan e sapone che rilasciavano i capelli dell’altro.
«Menomale, temevo che mi avessi messo il patè di tonno nella bottiglietta dello shampoo».
Omi rise appena e, di riflesso, anche Atsumu sorrise.
Ora sapeva cosa fossero. Sapeva che serviva ancora tempo per poter baciare il suo ragazzo, ma poco importava.
Anzi, non gli importava proprio per nulla.
Poteva toccarlo, abbracciarlo, stringerlo, nell’intimità del loro letto e tanto bastava.
Capitava a volte che lo chiamasse, di notte, sussurrando il suo nome e che l’altro rispondesse, con un sorriso un po’ seccato per averlo svegliato.
Capitava, ormai, da un paio di settimane.
Atsumu lo sapeva cosa doveva dire, cercava solo il coraggio di farsi avanti, di esporsi ancora un pochino.
E quale fu la sorpresa quando Kiyoomi lo anticipò.
 
Ti amo anche io, ‘Tsumu.
   
 
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