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Autore: visbs88    21/03/2021    2 recensioni
Partiamo dal presupposto che le case parlino.
Invero, tutto a questo mondo ha una voce. La voce che esiste dentro di te, tu che guardi, osservi e pensi. Ciò che sfiora la tua attenzione può sussurrare o gridare, sorridere o singhiozzare, ma niente è silenzioso nell’istante in cui i tuoi occhi lo sfiorano. Ciò che senti è solo materia di ciò a cui vuoi prestare la tua voce perché racconti.
Le case possono dirti molto. Immagino sia perché sono le mani di spiriti affini al tuo a plasmarle, a intesservi le proprie parole sotto la grezza maschera del legno, della malta o della tela. Ha poca importanza che intendano mentire o mormorare la verità.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Caspar’s Court



 
The tale of an ember’s voice…
 

 
 
Partiamo dal presupposto che le case parlino.

Invero, tutto a questo mondo ha una voce. La voce che esiste dentro di te, tu che guardi, osservi e pensi. Ciò che sfiora la tua attenzione può sussurrare o gridare, sorridere o singhiozzare, ma niente è silenzioso nell’istante in cui i tuoi occhi lo sfiorano. Ciò che senti è solo materia di ciò a cui vuoi prestare la tua voce perché racconti.

Le case possono dirti molto. Immagino sia perché sono le mani di spiriti affini al tuo a plasmarle, a intesservi le proprie parole sotto la grezza maschera del legno, della malta o della tela. Ha poca importanza che intendano mentire o mormorare la verità – non crucciarti: dipende da te più che da ogni altro, sì, discernerlo, ma la mancanza di consapevolezza non è una colpa. Te lo dimostrerò, se mi segui al di là del crinale di questa montagna, e poi ancora oltre una delle sue propaggini lunghe e smussate, come una mano scheletrica consunta dal tempo, ricoperta dalla rada carezza pietosa di pochi alberi verdi.

Appare, senza rumore, senza spettacolo, una casa. Si vede senza sforzo, sotto al cielo plumbeo di questa grigia giornata, solida ed elegante sui suoi robusti piedi infissi nella roccia; un piccolo palazzo, nondimeno, con qualche alta torre sottile a ornarne il tetto ebanino. Se splendesse il sole, le decorazioni dorate, esili, curiosamente discrete nella loro ricchezza, scintillerebbero di più, addolcendo la massa della pietra scura con la loro raffinata luce, attorno agli infissi delle ampie finestre incorniciate da archi, lungo le cornici che marcano i piani, sopra al largo portale d’ingresso. Ghirigori moderati, di eccezionale gusto, ed eppure affermano senza esitare un potere esercitato con mano ferma e nobile; dialogano con le mura invitandole a essere più gentili e vi riescono, senza togliere loro di maestosità – non l’imponenza degna di un re, e nemmeno di un gran funzionario, ma quella di un patrimonio cospicuo amministrato con il giusto equilibrio tra cura e sfarzo; con orgoglio consapevole che sfiora l’arroganza ma allo stesso tempo, nelle proporzioni non eccessive, ammicca di garbo. Nessun verde cortile, che sarebbe uno spreco, nelle terre poco clementi di Zeltennia; ma un’ombrosa foresta le cui ultime radici non distano molto dal fianco del palazzo, sobrie stalle dalle perfette simmetrie sul retro, l’abbaiare di una muta di canidi da caccia come unico debole, ovattato sottofondo, perlomeno da quaggiù.

Se c’è una punta di freddezza, in questa casa, sarà certo dovuto al triste manto di nuvole che la rabbuia. Non perde comunque la sua voce morbidamente profonda, modulata, poco invadente e insieme decisa, che sovrasta allo sguardo anche lo scricchiolio di una carrozza, guarda, percorre il viale cigolando sul ghiaino; una vettura di timbro simile, ma estraneo, e che tuttavia sarà il nostro accesso, se vorrai seguirla per ascoltare ancora. È quasi giunta alla sua destinazione; ecco, adesso si ferma.

Ora che siamo di fronte al portone, alle sue ante lucide e ai battenti intarsiati, ai suoi riquadri scolpiti con scene in bassorilievo che illustrano storie di caccia, di raccolto e di festa, il palazzo ti sembrerà più ampio: è fatto, d’altronde, per intimorire e affascinare gli uomini, tre piani snelli che, pur non troppo alti ciascuno in sé, insieme, da qui, toccano il cielo. Due uomini in perfetta livrea spalancano l’ingresso: è la tua occasione per scoprire cosa si sussurra dentro a queste mura immacolate. Il mio invito è di non lasciarti distrarre dal loro padrone, che ne sta uscendo, a braccia aperte… puoi lanciargli un’occhiata, se vuoi, e tentare di discernere quel che dice il bagliore azzurro dei suoi occhi allegri e calmi, piuttosto che la risata che sboccia dalle sue belle labbra; il mento sottile e sfuggente, cesellato con la mano degli angeli, un raffinato ricciolo castano lasciato ad agitarsi sbarazzino nel vento con la sapienza dell’incuranza, piuttosto che il cerimonioso ma socievole invito ai suoi ospiti; l’assenza di una consorte al suo braccio e l’anello che gli rifulge al dito, piuttosto che l’amabile inizio del suo rituale d’accoglienza. Niente più delle parole degli uomini può rubare la voce di ciò che parla davvero – dono e maledizione, il discorso, forma sempre ingannevole anche quando sincera, creta che si modella sulla realtà senza spesso seguirne i veri contorni, arte e inganno… guarda, piuttosto. Sii tu a parlare. Cosa vedi? Cosa afferma, quest’atrio immenso?

Sorride, di certo; non senza austerità e compostezza. Quasi sgombro di mobili, per accogliere e invitare a spaziare nella sua magnificenza con pupille che si sgranano di meraviglia, la luce che piove dentro dalle finestre alle nostre spalle per riflettersi sul pavimento di lucido marmo, laddove non è coperto di sontuoso velluto verde. Quadri della più classica tradizione scaldano senza intimorire, le cornici dorate composte con quasi con altrettanta maestria delle pennellate dalle tinte brune; lo scalone centrale, con i parapetti di marmo che si concludono con nobili volute a spirale, spalanca a piani superiori con la promessa di un eguale, perpetuo sfarzo. Non soffoca, ma apre il respiro e l’animo, tanta bellezza, e se anche imita i palazzi dei re con un puntiglio d’invidia senza invero raggiungerne le gigantesche proporzioni, il cuore è spinto a perdonare una pecca tanto lieve e sommessa; se non, addirittura, a consolare.

Non vorrei che seguissimo il padrone e i suoi ospiti, tra i salotti i cui divani hanno imbottiture morbide e schienali rigidi, tra gli arazzi di antica fattura e i camini, i trofei di caccia e le suppellettili d’oro e d’argento. Non ritengo che racconterebbero qualcosa di diverso… benché io sappia che tu desidereresti ascoltare. Vorresti continuare a lasciarti carezzare da queste voci, di cui è difficile esser sazi; pensi che non vi sia nulla di male nei loro suoni d’arpa e di violino, nei legni e nei candelabri, nei profumi sommessi, e in fondo sarebbe più facile. Potresti rammaricarti, mentre ti conduco verso i passaggi che solo io, i servi e i pochi eletti conosciamo, e potresti domandarti perché fidarti di me e non di altri. Non so rispondere. In fondo, cercare e scoprire non significa raggiungere la verità… solo una, delle molte verità che ci circondano, mormorando inquiete. È questione di scegliere in quale realtà fermarsi, ed è una scelta importante, perché ciò che senti, ciò a cui darai voce, cambierà anche la tua voce stessa, e resterà da chiedersi se la verità di prima non fosse già perfettamente valida, completa, giusta in se stessa… ma se hai un poco d’anima, continua. Se vuoi sentire, ascolta.

Ora che una serva dalla testa china ne esce, oltrepassa questa porta discreta, nel ventre della casa. Sali una scala ben curata, né troppo ampia né troppo stretta, dalla ringhiera laccata di un verde troppo brillante, e pagliuzze dorate che ammiccano dalle pareti… un momento ci sono, quello successivo fatichi a ritrovare la stessa che ha ridacchiato appena prima, ma scopri una sua compagna. Ti suggeriscono qualcosa, sfuggenti, con discrezione vezzosa, e sta a te scegliere quanta attenzione prestare al loro civettare: se ignorarlo, puntando alla luce fioca del piano che ti attende; se ammirarlo, trovandolo un’intonazione nuova e gradita, femminile, eccitante di mistero… o se accigliarti alla sua volta, nel caso questo mistero ti susciti sospetto, alieno, e ti spinga a guardarti alle spalle, già nostalgico della calda certezza da cui sei stato strappato. Se stai tentando di trovare la nota d’accordo tra due melodie così diverse, il tuo è un orecchio fine, e forse sarà sensibile alla profondità del silenzio al tuo arrivo nel cortile.

La fontana, al centro, non zampilla. L’acqua nella vasca giace pressoché immota, una promessa non mantenuta di giochi e scintillii; solamente le tessere più basse del mosaico del fusto centrale riflettono qualche lucido bagliore rubato a sua volta dal cielo fosco. Una spirale, un torciglio che si leva alto verso un braciere di bronzo spento, sospeso nell’aria al termine di una catena sottile, sorretta a sua volta da fusti metallici che, infissi negli angoli, si allungano a incontrarsi in una croce dall’impeccabile simmetria. Le pareti si levano ripide, altri due piani rimarcati solo da finestre arcuate, ma questa semplice struttura raccoglie e imbriglia. Apre al cielo e insieme chiude e costringe lo sguardo in basso, invitando, chiamando, imprigionando… sia mai che le stelle d’una notte d’estate siano più sontuose, più vellutate e più carezzevoli delle sete e dei cuscini che cospargono i marmi sgargianti del pavimento. Tutto dorme, di un sonno pesante, compresso; un palco vuoto, gabbie vuote, triclini vuoti, ogni cosa è vuota ma se la ascolti si agita e mugola di strani sospiri, storditi, lamenti come di sogno. Li senti, i respiri? Gli odori dei liquori serviti in piccoli bicchieri simili a gemme? I sussurri dietro le colonne, i soffi nei flauti, i tintinnii dei sonagli? Riesci a dare una voce, a tutto questo raschiante silenzio? Cosa ti dice quel trono arrogante, sfrontato, tempestato di rubini, che sopra a gradini di pietra arenaria pare ricambiare il tuo sguardo? Cosa comprendi, dalla sua solitudine, da quel piccolo sedile imbottito che quasi scompare al suo fianco, dai cuscini sparsi ai suoi piedi per ginocchia docili?

Lo odi, questo singhiozzo?

Forse è soltanto un granello di polvere caduto nel bacile della fontana, una lacrima che increspa l’aria e non l’acqua; forse è un alito di vento dai corridoi che serpeggiano nel buio, che va a sfiorare campanelle che rintoccano l’una contro l’altra, miti e sommesse, sole. Un passo, e poi un altro, mentre cerchi questa voce, sempre più a fondo nel ventre freddo di questo indifferente splendore. Un passo, e poi un altro, tra porte chiuse a chiave, alcove dai tendaggi preziosi, tesori nascosti in piena vista, banchetti voluttuosi per la vista, da addentare, scoprire, nel gioco della più piena, bulimica ostentazione. Un passo, e poi un altro, e tutto canta per i tuoi sensi, per distogliere i tuoi piedi, per narrarti storie vacue, ma oramai dovresti sapere, udire con la tua mente e proseguire; un passo, e poi un altro, fino a una serratura d’oro.

Ti lascerò guardare, vedere, ove così pochi hanno potuto. Una camera, magnifica, che cola di profumo da ogni suo drappo, gioiello e stola. Ben due toelette dalle gracili gambe di mogano si curvano sotto allo spalancarsi vorace di specchi imponenti, che si allungano, inutilmente, fino al soffitto, circondati di smeraldi. Il baldacchino si distende al centro, le tende damascate raccolte con cura dai loro lacci, le coperte un groviglio di nappe, strappi, fili e pieghe distorte. Segui il lenzuolo cremisi divelto e teso verso un tappeto spesso e intricato, e troverai lei.

Il suo piccolo pianto, esile e nascosto. Le belle caviglie sottili e inquiete, vesciche e abrasioni vecchie di un giorno o poco più sui piedi eleganti, che bruciano, pulsano, prudono senza lei dia loro cura. Il velo trasparente di una gonna tinge di un viola grazioso i lividi sulle cosce bianche, la macchiolina rossa sull’intimo di seta ancora in parte discosto. Il marchio di un morso attorno alla punta ancora gonfia di un seno rotondo, rimasto scoperto, perché la presa spasmodica delle lunghe dita chiare è errata, errante, il lenzuolo troppo vicino al suo corpo e tenuto lontano – il profumo cola, cola, anche attraverso la cortina di capelli di sole e grano che spiove dalla testa china. Ascolta. Ascolta e sentirai le grida che permeano le pareti della camera di questa puttana; fissa abbastanza a lungo gli specchi e raccogli la disperazione che si agita nelle loro ombre, perdute nel passato, impressa nei loro imperturbabili riflessi. Nota l’anello che riluce al suo dito, troppo stretto per toglierlo – dove ne hai visto il gemello? Riesci a cogliere la nota roca in un pigolio argentino, riesci a contare i tremiti del bel corpo flessuoso, riesci a scrutare oltre la carne e dentro l’anima? Oserai?

Tenta di sollevare il capo dorato, la fanciulla. Labbra gonfie di baci non voluti e di preghiere inascoltate, rossore livido sulle guance dalla pelle sottile. Non so cosa ti dica il suo gesto; ma so che vuoi fuggire, e non potrai.

Non prima di aver visto i suoi occhi, verdi di prati e di futuro, ed esserne stato assordato.

Ti avevo avvisato: anche la tua voce, quando tornerai a prestarla alla casa, sarà cambiata. E dunque io ti chiederò una volta di più, amico: cosa dicono, ora, questo letto e queste pareti? Cosa dicono i corridoi, e la fontana, e il braciere, e il palco e le sete – mentre corri, fuggi indietro, troppo in fretta, un passo e poi un altro, senza poter tendere una mano, arretrando, inciampando sui tuoi piedi, mentre ogni cosa scivola via – cosa dicono le scale, e le scintille, e l’atrio e i suoi quadri, e l’anello al dito di lui mentre li indica, e i suoi lineamenti ridenti, e le porte con i loro intagli, le mura, le torri, i baluginii alle finestre, la foresta e infine il cielo? Li senti, l’inganno, e l’abisso, e la vomitevole menzogna, e il sorriso crudele, e l’infinita solitudine? Hai imparato quanto importino la tua voce, la tua coscienza, il tuo giudizio, e la voce di una casa, degli oggetti, dei passaggi e dei segreti? A quale verità sceglierai ancora di credere, a quali risposte giungerai, ancora spetta a te – te lo dissi all’inizio, te lo ripeto ora. Non sono nessuno, per rispondere. Eppure, a te che hai accettato di seguirmi, non posso che domandare, pregare, ora che puoi sentirmi, e ti imploro di cercare almeno nel tuo cuore…

Cosa dice, ciò che ascolti, ora che lo fai con gli occhi di lei?
 
Ora che lo fai con la mia voce?


 
Nota dell'autrice:
La voce di questa storia si chiama Ember Aultin, un personaggio che sto interpretando cuore e anima in una campagna di gioco di ruolo ispirata a Final Fantasy. Ha voluto essere uno sfogo per lei, nato dalle vicissitudini che l'hanno vista protagonista in gioco, e per me, che me la sentivo mormorare dentro e dovevo lasciarla parlare; pur non essendo una vera e propria backstory, forse neanche una storia in senso stretto, avevo voglia di condividerla e di scoprire se riuscirà a toccare qualcuno. Grazie mille a chi è arrivato fino in fondo e a chi lascerà un segno; se vi va, raggiungetemi pure sulla mia pagina Le storie di Visbs88 per saperne di più su Ember e sulle mie varie altre sciocchezzine. Un bacione ♥
   
 
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