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Autore: crazy lion    22/03/2021    1 recensioni
Crossover scritto a quattro mani con Emmastory tra la mia fanfiction Cuore di mamma e la sua saga fantasy Luce e ombra.
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti vissuti da Demi e dalla famiglia, raccontati nel libro di Dianna De La Garza Falling With Wings: A Mother's Story, non ancora tradotto in italiano.
Mackenzie Lovato ha sei anni, una sorella, un papà e una mamma che la amano e, anche se da poco, una saga fantasy che adora. È ambientata in un luogo che crede reale e che, animata dalla fantasia, sogna di visitare con i suoi. Non esita perciò a esprimere tale desiderio, che in una notte d’autunno si realizza. I quattro vivranno tante incredibili avventure con i personaggi che popolano quel mondo. Ma si sa, nemmeno nei sogni tutto è sempre bello e facile.
Lasciate che vi prendiamo la mano, seguite Mackenzie e siate i benvenuti a Eltaria, un luogo per lei e la famiglia diviso tra sogno e realtà.
Disclaimer: con questo nostro scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendiamo dare veritiera rappresentazione del carattere dei personaggi famosi, né offenderli in alcun modo.
Quelli originali appartengono alle rispettive autrici.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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I’ve battled demons that won’t let me sleep
Called to the sea but she abandoned me
But I won’t never give up, no, never give up, no, no
 
No, I won’t never give up, no, never give up, no, no
And I won’t let you get me down
I’ll keep gettin’ up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
I won’t let you get me down
I’ll keep gettin’ up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
(Sia, Never Give Up)
 
 
 

CAPITOLO 26.

 

IL FUTURO IN QUEL MONDO

 
Mentre si dirigevano alla porta, un campanello risuonò per tutto l’orfanotrofio.
Eliza sospirò.
“Qualcuno ha abbandonato un bambino.”
La Direttrice li raggiunse correndo e, senza fiatare, aprì la porta e il cancello. Lì fuori trovarono una lanterna con dentro un folletto già trasformato in neonato, forse di quattro mesi. Piangeva forte e di fianco a lui c’era una lettera.
“Possiamo?” domandò Demi con un filo di voce.
Theresa annuì e la ragazza lo sollevò piano. Era vestito bene, con una tutina azzurra non troppo leggera, in modo che non prendesse freddo a causa della brezza frizzante che stava soffiando. Il suo visetto era paffuto e il piccolo appariva ben nutrito, non pareva sudare, né al contrario avere freddo. Chi l’aveva lasciato lì doveva amarlo. La ragazza si isolò per un momento da tutto e tutti, concentrandosi solo sul bambino che, intanto, aveva smesso di piangere.
“Ciao” mormorò Demi. “Dov’è la tua mamma?”
Il bimbo le sorrise ed emise qualche gorgoglio.
Andrew, intanto, aprì la lettera e lesse a voce alta.
Gentilissimi,
so che qui vi occupate dei bambini con amore in attesa che trovino una famiglia. Io non sono la mamma di questo bimbo, ma la nonna. Il padre se n’è andato quando mia figlia è rimasta incinta. Ma ci sono state delle complicazioni, lei ha avuto un’emorragia dopo il parto e i guaritori non sono riusciti a salvarla nonostante i vari tentativi. Per me è e sarà sempre il dolore più terribile di tutti.
 
Ho provato a prendermi cura di mio nipote, sul serio. Ma sono vecchia, presto morirò, lo sento e non ho più le energie che avevo a vent’anni. Ne ho compiuti ottanta l’altro giorno e, pur avendo avuto mia figlia a cinquanta e, non essendomene mai pentita, nemmeno per un singolo istante, crescerla non è stato semplice. Le avevo promesso di prendermi cura del suo piccolo, ma non ce la faccio. Non ho un lavoro ormai da tempo, non avrei nemmeno le forze di trovarne uno. Continuo a vivere coltivando a fatica il mio orto e mangiando le uova delle mie tre galline, non ho persone che possano aiutarmi in quanto vivo in un posto isolato. Non conosco molta gente e mi ammalo spesso di influenza, bronchite e altri disturbi che mi indeboliscono sempre di più. Non posso crescere un bambino in queste condizioni, lui ha bisogno di una madre. Una madre vera.
 
Ho pensato per mesi a questa decisione, la più ardua della mia intera vita. Ho passato notti insonni e non solo a causa del suo pianto, mi sono sentita e mi sento ancora adesso in colpa per fare così schifo da abbandonarlo. Ho pianto, mi sono detta che avrei dovuto essere più forte, che dovevo essere uscita di senno per pensare a cose simili. Ma non ho il coraggio di prendere altri provvedimenti.
 
Spero possiate, almeno in parte, comprendermi e trovare una famiglia meravigliosa al mio nipotino, che è quanto di più bello mia figlia mi abbia lasciato. Si chiama Seth, vorrei che non gli cambiaste nome, né che lo facessero i genitori adottivi, perché l’ha scelto mia figlia ed è una cosa che li lega.
 
Gli lascio alcuni oggetti della mamma, in suo ricordo.
Seth, amore mio, perdonami per quello che ho fatto, ma ho agito pensando al tuo bene, anche se tu forse non lo capirai. Non potevo darti una vita degna di questo nome e ho pensato prima di tutto alla tua felicità, che non avresti avuto rimanendomi accanto.
Ti voglio bene,
la nonna Paris.
La tua mamma si chiamava Margaret. Se puoi, perdonami. E sappi che ti amavamo entrambe.
Non dimenticarci.
Vicino alla lanterna Andrew trovò anche un sacchetto con un paio di orecchini e una collana d’argento, il peluche di un gattino marrone che, presunsero tutti, la ragazza aveva comprato per lui e una tutina azzurra per l’inverno, con calzini abbinati.
Rimasero in silenzio per qualche minuto. Il lieve lamento del piccolo l’unico rumore che si udiva oltre al canto degli uccelli e alle voci lontane, dei bambini rimasti dentro. Nessuno riusciva a capire il gesto di quella donna, né lo condivideva, ma le situazioni per le quali qualcuno abbandona un bimbo sono tante e diverse e non si sentivano di condannarla del tutto.
Ha comunque sbagliato pensò Demi. Avrebbe potuto almeno provare a chiedere una mano alla poca gente che conosceva. Forse, però, si vergognava. Sono una brutta persona se penso queste cose?
Perlomeno l’aveva vestito e non l’aveva abbandonato di notte, quando faceva più freddo. Quello sì che l’avrebbe fatta incazzare. Aveva sentito parecchie storie di bambini abbandonati in quel modo nei cassonetti o in altri luoghi e non ne poteva più. Non immaginava nemmeno la disperazione che portasse a compiere un atto simile, ma perché lasciarli là se c’erano altri posti in cui portarli, come gli ospedali?
“Mmm, mmm” mormorò il bambino, stringendo forte un lembo della maglia della ragazza.
Demi sorrise.
“Sta’ tranquillo, non sono triste” mormorò.
Il bimbo ricambiò il sorriso e lanciò un gridolino di rimando. Sembrava apprezzare il suono della voce della ragazza. Si voltò verso di lei e le afferrò una ciocca di capelli, senza tirarla.
Eliza e la Direttrice erano abbattute. Situazioni come quelle non capitavano spessissimo, lì a Eltaria, ma quando succedeva comprendevano ancora di più che per alcuni le cose non andavano. Le ninfe, in particolare, cercavano di aiutare la gente povera che si rivolgeva a loro, o lo faceva la comunità in cui queste persone vivevano, ma non tutti trovavano la forza di chiedere aiuto, per loro o per i propri familiari. Sapere che una società in armonia e in pace come quella aveva ancora dei problemi, per la maggior parte invisibili agli occhi, provocava una fitta al petto.
Andrew si diceva che, se la donna fosse rimasta di più, avrebbero potuto parlarci e magari aiutarla, convincerla a non farlo.
“Deve riuscire a volare veloce, se già non c’era più quando siamo usciti” constatò la Direttrice. “Manderò comunque alcune volontarie a fare un giro qui in zona, magari non è troppo tardi.”
Tornò dentro e poco dopo uscì con alcune ragazze, alle quali spiegò la situazione e disse che avrebbero dovuto cercare una fata che presumibilmente volava veloce e sembrava scappare. Più di questo non seppe che dire, dato che non aveva altre informazioni.
Demi si sedette su un muretto lì accanto. Il bambino si succhiava le dita, non la smetteva di produrre suoni che facevano sorridere tutti e con lei sembrava a suo agio. Appoggiò la testolina contro la sua spalla.
“Se non altro, l’ha lasciato qui e non in altri posti. Insomma, voleva che qualcuno lo trovasse” considerò.
“Sì, infatti. Nella sfortuna è stato fortunato” aggiunse Andrew.
Avrebbe voluto prenderlo in braccio, ma lo vedeva così tranquillo tra le braccia della fidanzata che non se la sentì di disturbarlo. Non resistendo, gli fece comunque qualche carezza sul viso.
I due rimasero a coccolarlo e a fargli il solletico per una buona mezz’ora.
“Ah, ah” mormorava ogni tanto il bambino.
“Però, quanti vocalizzi!”
“È normale, Andrew. Verso i quattro mesi iniziano ad allungare le vocali e a produrre più suoni per comunicare e tra l’altro provano anche piacere nell’ascoltarsi.”
La ragazza diede il biberon a Seth e poi lo portò dentro, sia perché la brezza si era fatta più fredda e non voleva che si ammalasse, sia per cambiargli il pannolino, chiedendo al fidanzato di aiutarla per fare prima.
“È stato bravo?” chiese Theresa entrando nel bagno mentre lei lo rivestiva.
“Un po’ scatenato ma sì, pensavo peggio” rispose Andrew.
“Sono entrata qui per dirvi che Seth dev’essere visitato. Scusate l’intrusione improvvisa. Prima non ho parlato perché vedevo che stava bene e che non c’era urgenza di una visita, anche ora sembra tutto a posto, ma per sicurezza…”
“Certo, capisco benissimo” rispose Demi, lo riprese fra le braccia e, in quel momento, tornarono le fate.
“Niente, Theresa” disse una di loro. “Abbiamo scandagliato un’ampia zona del bosco palmo a palmo, ci siamo anche divise andando in luoghi diversi. Abbiamo chiesto in giro, ma nessuno ha visto una fata scappare. Certo poco meno di un’ora di ricerche non è molto, se vuoi riproveremo nel pomeriggio.”
La Direttrice sospirò.
“Non è la prima volta che capita una cosa del genere e non riusciamo a trovare nessuno. A volte funziona, altre invece chi abbandona i figli si volatilizza e fa di tutto per sparire per sempre.” Aveva mandato proprio loro perché in altre occasioni avevano fatto ricerche. Quelle ragazze volavano veloci e non tralasciavano nulla. “Riprovate più tardi, ma se non troveremo nulla, il bambino resterà qui. E manderò qualcuno a chiamare Amelie. Si tratta della cugina di Aster, non so se la conoscete” continuò rivolgendosi a Demi.
“Ci ha aiutati quando siamo arrivati qui.”
“Bene. Amelie spesso ci dà una mano. Non è medico di professione, ma se ne intende di bambini, ne visita molti anche con l’aiuto della magia.”
Si avvicinò a Demi, accarezzò il bambino e gli diede il benvenuto.
La cantante strinse ancor di più al cuore il piccino, sussurrandogli parole dolci per calmarlo.
“Adesso sei al sicuro, va tutto bene.”
Lui agitava braccia e gambe, la guardava, lanciava gridolini ed emetteva semplici vocalizzi. Era attivo. Buon segno: significava che, almeno in teoria, stava bene. Le accarezzò una guancia con una manina. Demi sorrise e gli sfiorò i capelli lisci e morbidi come seta. Julie accorse e lo portò via.
“Dove…” iniziò la ragazza.
“Lo metterà in una stanzetta apposita per le visite” spiegò loro Eliza. “Adesso lei e altre guaritrici si laveranno bene le mani, se le disinfetteranno e lo visiteranno.”
Theresa Hudson chiese alla donna di andare a chiamare Amelie e seguì Julie.
“Ragazzi, vi lascio soli per un po’.”
“Non preoccuparti Eliza, noi restiamo qui a vedere come si evolve la situazione.”
“Devo andare a prendere le bambine” fece notare Demi ad Andrew. Era ormai l’una e non aveva chiesto a Isla o Oberon di portargliele a casa, perciò doveva occuparsene di persona. “Mi racconterai come sono andate le cose, pregherò per lui nel frattempo, ma adesso devo proprio scappare” concluse.
“Giusto, amore, non mi ero accorto dell’orario. Ci vediamo dopo a casa, e Demi, tranquilla.” Le prese una mano e gliela accarezzò. “Starà bene, non preoccuparti.”
Lei sorrise e fece un cenno d’assenso, salutò e partì.
Sperò di ricordarsi bene il percorso e di non perdersi nelle numerose, piccole curve che deviavano la strada da una parte o dall’altra. Non era lì da molti giorni e il suo senso dell’orientamento non granché spiccato. Durante il tragitto non fece altro che pensare a Seth. Come per gli bambini, tenerlo in braccio era stato meraviglioso. Aveva cercato di trasmettergli, in quei pochi minuti, tutto il suo affetto e una sicurezza di cui, lo sentiva nel cuore, il piccolo aveva avuto un estremo bisogno. Chissà cos’aveva pensato, quando si era ritrovato lì da solo nella sua lanterna, in un posto sconosciuto. Una lacrima le bagnò il volto mentre ripensava a sua nonna e alla difficile decisione che era stata costretta a prendere dalle circostanze e si disse che, se avesse potuto, l’avrebbe volentieri aiutata. Ma forse era tardi. Sperava che le fate l’avrebbero trovata, ma anche che, nel caso in cui non fosse stato così, Seth stesse bene e che si sarebbe ambientato presto in un luogo che, anche se non era una vera e propria casa, aveva comunque molte persone che davano tutto l’amore che potevano ai bambini e anche di più.
“Signore, fa’ che trovino tutti quanti una casa nel più breve tempo possibile” pregò.
Immersa in quei pensieri si concentrò comunque sulla strada da seguire e, con sua grande sorpresa, non si perse nemmeno una volta, ritrovandosi infine davanti al cancello già aperto. C’erano genitori, nonni e altri parenti lì ad aspettare e tanti bambini che li stavano raggiungendo, con o senza insegnanti. La ragazza si fece largo fra loro e, con difficoltà, riuscì a entrare, dirigendosi verso l’ala dedicata all’asilo. Il giorno prima aveva trovato lì entrambe le sue figlie e accadde anche in quell’occasione.
 
 
 
Durante il tragitto, le bambine raccontarono senza sosta ciò che avevano fatto quel giorno e anche Demi diede qualche dettaglio, evitando di parlare di Seth per non sconvolgere Mackenzie per il fatto che fosse stato abbandonato.
Una volta a casa, la ragazza andò a farsi una doccia, mentre Sky aiutò le piccole a infilarsi una tuta da ginnastica per stare più comode.
“Ho preparato una sorpresa per voi, oggi” annunciò, mentre Mackenzie e Hope facevano uscire Lilia e Agni dalle loro gabbiette. “In realtà per tutti, ma più che altro per voi. Non ditelo a nessuno, d’accordo?”
Le piccole risero: se quella sorpresa era soprattutto per loro, doveva essere qualcosa che piaceva ai bambini.
Che cosa? Che cosa? domandò Mackenzie, saltellando.
“Il salame al cioccolato, non so se l’avete mai mangiato.”
La bambina negò e Hope, che non aveva capito bene, la imitò. Ma la più grande pensò che il fatto che in quello che credeva essere un dolce ci fosse il cioccolato era già un buon inizio.
“Bisogna aspettare fino a domani per mangiarlo, a colazione.” Vedendo che Mac si intristiva, si affrettò ad aggiungere: “Lo so, tesoro, ma non manca molto tempo e poi ha bisogno di riposare in frigo per diverse ore. Oggi pomeriggio chiederò a Kaleia di preparare con me qualcos’altro di buono per tutti, va bene?”
L’altra ritrovò il sorriso e la ringraziò sia con le parole che con un fortissimo abbraccio, cosa che fece anche Hope.
La fata aiutò Mackenzie a dare da mangiare e da bere a Lilia, che aveva finito il proprio cibo nella gabbia da tempo. Lasciarono che Agni uscisse per nutrirsi e, quando la cagnolina finì, la portarono fuori per i bisogni.
“Hope, ti va di giocare con me?” le chiese Noah e la bambina corse subito da lui.
Cercarono qualcosa nel cesto e trovarono un Arylu e una lepre di peluche, iniziando poi a mettere in scna un finto inseguimento.
“Loro…” Hope indicò i due animali, mentre si muoveva sul tappeto per sfuggire all’Arylu. “Loro amici.”
“Sì, sono amici. Si vogliono bene e stanno giocando.”
Nel frattempo Mackenzie dava una mano a Sky a preparare la tavola, mettendo i bicchieri, i tovaglioli e le posate che lei le passava.
“Sei stata gentile ad aiutarmi, piccola, ti ringrazio” le disse alla fine accarezzandole una guancia.
Di niente. Anche a casa lo faccio, qualche volta.
“Bravissima! Cerca di aiutare sempre la mamma, quando te lo chiede.”
Va bene.
In salotto, Hope e Noah avevano smesso di giocare. La bambina era stanca e non ne aveva molta voglia, per cui adesso il ragazzo la teneva in braccio seduto sul divano.
“Sono teneri” sussurrò Sky, dubitando un istante dopo della sua sanità mentale.
Ma che le stavano facendo quelle due bambine? Già Lucy e Lune erano adorabili anche se l’avevano infastidita come quella volta in cui la più grande, il giorno del volo delle pixie nel quale aveva ritrovato i suoi genitori, non aveva fatto altro che ripeterle:
“Sai che oggi è un giorno speciale?”
Mackenzie e Hope la facevano sorridere sempre di più. Non c’era dubbio che si fosse affezionata a loro, poteva negarlo ma era la verità.
Sky, tutto bene?
“Sì Mac, stavo solo pensando a quanto voglio bene a te e a tua sorella.”
La bambina le sorrise con calore.
Anche noi te ne vogliamo. Hope a volte lo dice, ma più che altro lo fa vedere.
“Lo so.”
Stavano per abbracciarsi di nuovo, quando sentirono dei passi avvicinarsi alla cucina. Era Demi, lavata, vestita comoda e pettinata, con i capelli castani che le scendevano lungo il collo come una cascata lucente. Chiese alla figlia se gli insegnanti le avessero dato compiti e lei rispose di no.
Sky, anche tu e Kaleia siete andate alla Penderghast?
“No Mac, noi abbiamo studiato dalle fate anziane.”
E perché?
“A Primedia la scuola non c’era, quindi nostra madre ci ha educate in un altro modo.” La fata mise la pentola sul fuoco. “Cucino la pasta, una delle poche cose che so fare senza combinare disastri” ridacchiò, contagiando le altre due.
 
 
 
La risata di Mackenzie si sentì appena, ma le ragazze non se l’erano immaginata. Qualche tempo settimana prima la bambina aveva confessato alla mamma che l’aveva sempre tenuta allenata, ridendo un po’ ogni giorno senza motivo, per non perdere quel piccolo barlume di speranza che le ricordava che aveva ancora una voce, che riusciva a produrre un suono anche se lieve. Demetria era rimasta colpita. Non l’aveva mai sentita ridere in camera sua o di nascosto e non credeva lo facesse. Ciò significava non solo che voleva comunque conservare la propria voce, ma anche che ridere le piaceva, il che era positivo, e che le sue corde vocali non erano messe così male. Funzionavano ancora, anche se poco e sarebbe bastato che ricordasse e un percorso lungo da una logopedista per sbloccarle del tutto.
Sì, ma non è così semplice.
Non lo era, infatti, però Demi sperava che al massimo alla fine dell’anno seguente Catherine avrebbe detto alla bambina che la vedeva stare meglio, ricordi o meno, e quindi pronta per intraprendere un percorso logopedico. Mackenzie aveva sei anni, non parlava più da quasi due. C’erano ragazzi che avevano ripreso a farlo dopo tanti anni, come aveva letto nel libro, che parlava di una storia vera, Come in una gabbia di Torey L. Hayden, ma un anno e nove mesi era già un tempo considerevole e sperava che Mackenzie non avrebbe dovuto aspettare tantissimo per ricominciare a parlare. D’altro canto, la sua salute mentale era la cosa più importante e per guarire dal PTSD ci sarebbero voluti diversi mesi se non di più, considerando che aveva scoperto di soffrirne molto dopo il suo inizio. La cosa più importante era che lei stesse bene, con o senza la parola o i ricordi.
“È bello sentirla ridere” commentò Sky quando la piccola corse in salotto a giocare con la sorella.
“Moltissimo. La prima volta che l’ha fatto era a casa da qualche tempo. Mi ha resa così felice, non credevo ci riuscisse.”
Dopo un momento di esitazione, Demi raccontò alla fata quanto era successo all’orfanotrofio prima che lei se ne andasse. Sky ascoltò con attenzione.
“Non capisco come abbia potuto anche solo pensare di abbandonarlo!” proruppe infine. “Ha scritto che non conosceva molta gente, ma significa che aveva comunque dei contatti, no? Non avrebbe potuto chiedere una mano a quelle persone? O andare dalle ninfe? Aster è sempre gentilissima, come l’ha fatto con voi non l’avrebbe certo negato a una signora anziana con un bambino. Dannazione, non capisco!”
Per questo non volevo dirglielo, per non farla soffrire pensò Demi.
“In un certo senso hai ragione e non voglio giustificarla, ci mancherebbe altro, ha comunque fatto una cosa che non ritengo giusta, ma noi non sappiamo cosa ci fosse nella sua testa. Guarda il lato positivo: avrebbe potuto abbandonarlo avvolto in una copertina, o anche no, nel bosco, dove forse sarebbe stato trovato troppo tardi, invece è venuta fino all’orfanotrofio, dove sapeva che qualcuno se ne sarebbe preso cura. Un ultimo gesto d’amore, non credi?”
“Ma l’ha abbandonato” ruggì la ragazza. “L’ha lasciato solo. E anche se, come hai detto, forse non aveva molta scelta e se si è vista sola e disperata, non mi convincerai mai che l’abbandono per il suo bene sia un gesto d’amore. Avrebbe dovuto avere più forza di volontà e chiedere una mano anziché dire:
“Oh, sono povera e vecchia, non conosco molta gente e quindi lo abbandono.”
Questo non è amore, è non provare a risolvere una situazione chiedendo una mano, è scappare dalle proprie responsabilità!” urlò, stringendo le mani a pugno.
Si era piantata le unghie nella pelle, lasciando alcuni segni.
Demi sospirò.
Concordava con lei sul fatto che abbandonare un bambino fosse sempre e comunque una cosa orribile, ma nessuna di loro era nella testa di quella donna e, comunque, perlomeno non l’aveva lasciato perché non lo voleva più. Nelle parole della fata leggeva un dolore ancora vivo, di quelli che marchiano a fuoco la pelle e non se ne vanno più. Stava di certo pensando a quanto accaduto a lei e Kaleia in passato e Demetria si pentì ancor di più di aver tirato fuori l’argomento.
“Non so cos’altro dirti, Sky. Non credo l’abbia fatto a cuor leggero, anzi, nessuno si comporta così immagino. È un tema delicatissimo.”
“Sì, hai ragione su tutto” concordò l’altra abbassando il tono. “Non avrei dovuto scaldarmi tanto. Io parlo così a mente fredda, ma non conosco la situazione, anche se non farei mai una cosa del genere, ne sono sicura. Vero, bisogna trovarsi nelle situazioni per capire fino in fondo, ma piuttosto chiederei una mano cercando di superare la vergogna o ciò che mi frena e, se ho forze, lavorerei ore ed ore per mantenerlo. Speriamo solo stia bene.”
Chissà come si sentirà male quella donna, adesso.
Demi non osò dirlo.
“Scusami, Sky” mormorò.
“Non importa.”
Andrew ed Eliza rientrarono quando il pranzo era pronto e le due ragazze lo stavano servendo.
“Come sta il piccolo?” chiese Demetria alla donna.
“Bene, non è ferito né ha danni interni o di nessun altro genere. L’hanno idratato dandogli da bere perché aveva la lingua secca, ma per il resto è attivo, risponde agli stimoli e la temperatura corporea è normale per la sua età. Jacqueline l’ha registrato con tutti i dati ed ora è nella stanza giusta con gli altri. Si ambienterà presto.”
La cantante e la fata tirarono un sospiro di sollievo.
“Gli ho dato un bacio per te e detto che tornerai a salutarlo domani” le sussurrò Andrew.
“Grazie, amore!”
Mentre mangiavano, le piccole ripresero a parlare della loro giornata informando anche Andrew ed Eliza, ma una volta finito persero la loro energia e i genitori le portarono a letto per un riposino lasciando la porta socchiusa in modo che, se Hope avesse pianto, sarebbero riusciti a udirla.
 
 
 
“Erano proprio distrutte” commentò l’uomo rientrando in cucina, mentre Demi aiutava Eliza a lavare i piatti.
Si ritrovarono tutti seduti fuori, su un muretto, con le finestre aperte per udire le piccole. Prima ancora che potessero dire qualcosa, arrivarono Isla e Oberon, soli. Li salutarono ed Eliza chiese loro dove fossero le bambine.
“A casa con una mia amica” disse la fata.
“Verranno più tardi,” intervenne Oberon, “abbiamo pensato di farvi una visita adesso, in modo da parlare con più tranquillità e andare a prenderle quando Mackenzie e Hope si sveglieranno.”
In quel momento li raggiunsero anche Christopher e Kaleia.
“Come state, ragazzi?” domandò ancora Isla.
“Oggi meglio, ieri ho avuto un piccolo crollo” disse Demi e spiegò cos’era successo durante il pranzo. “Per capire chi sono, dovrei raccontarvi qualcosa in più.”
Parlò di ciò che era successo all’orfanotrofio, comprese le prese in giro che Kady aveva subito e ciò che lei aveva detto a Eliza. Isla, Oberon, Christopher e Kaleia si dispiacquero per il bambino, ma considerarono una gran fortuna il fatto che fosse stato abbandonato di giorno e trovato subito e guardarono a lungo Demetria.
“Mi dispiace che tu abbia sofferto e sia arrivata a farti del male a causa di persone del genere” mormorò Isla, riassumendo il sentimento di tutti, mentre il cuore le si stringeva.
Le si avvicinò e le accarezzò una mano per confortarla. Demi le sorrise.
“Ti ringrazio. Un po’ di tempo fa ho incontrato Denise, la ragazza che aveva lanciato la petizione. In tutti questi anni non ho mai dimenticato, farlo sarebbe impossibile, ma speravo che prima o poi sarei riuscita a perdonarla. Mi sono resa conto che quella gente non ha il diritto di chiedere né di ricevere perdono, speravo però di provare meno rabbia nei suoi confronti. Non è stato così, purtroppo.”
“Hai ragione,” intervenne Noah in tono grave, “certe cose non si possono perdonare.”
Rivedere il viso di quella stronza e sentire la sua voce, seppur cambiata, aveva riempito a Demi la testa di ricordi che l’avevano tormentata giorno e notte per anni. A ogni taglio, strenuo allenamento o comportamento sbagliato per dimagrire, tutto ciò le tornava in mente. Lo raccontò ai suoi compagni.
“Mia mamma ha avuto problemi di anoressia per molti anni, per questo mangiava poco come vi avevo detto. Si tratta di una malattia a causa della quale una persona, che soffre tantissimo per qualche motivo, pensa che dimagrendo risolverà il problema. Essere più magra equivale a sentirsi meglio con se stessa, a credere di avere pieno controllo sulla propria vita, ma questa malattia fa sì che la persona mangi e vomiti, si pesi di continuo, si alleni anche per dieci ore al giorno in casi estremi e soprattutto sia magrissima, e intendo davvero magrissima, trentotto chili o anche meno.”
Kaleia spalancò la bocca.
“Lei però si vede sempre grassa,” riprese Demi, “imperfetta, sbagliata e sta male. Si odia. Si dà degli obiettivi di peso e se non li raggiunge riduce il consumo di calorie, se invece lo fa desidera andare ancora più sotto. Le sue difficoltà non si risolvono, ma per un po’ lei si sente meglio per poi ripiombare nel baratro. E per gli altri non è sempre facile rendersi conto che una persona ne soffre. Quelle con disturbi alimentari sanno essere manipolative e nascondere bene il proprio stato.”
Eliza restò immobile; il giorno prima aveva capito che c’era qualcosa che non andava, ma non si sarebbe mai aspettata tutto ciò. Già la parola anoressia era orribile e, nel pensarla, un brivido di freddo le percorse l’intero corpo, viverla doveva essere un inferno.
Kaleia si augurò che nulla del genere sarebbe accaduto mai al suo bambino e Isla fece lo stesso, anche se era improbabile che succedesse qualcosa. Quei mali erano estranei al loro mondo.
“Sarebbe troppo lungo spiegare perché mia madre lo faceva,” riprese Demetria, “ma ha nascosto bene tutto questo per molti anni o, se qualcuno notava qualcosa, lei inventava scuse, non dimagriva mai eccessivamente o si vestiva a strati per nascondere il suo problema e avere meno freddo, uno dei tanti sintomi dell’anoressia.”
Demi aveva notato spesso che si era truccata per nascondere il pallore del suo viso e aveva trovato altre soluzioni per camuffare la propria malattia, così come la depressione post partum della quale aveva sofferto dopo la nascita sua e di Madison.
“Quindi è ereditaria?”
La ragazza rifletté un momento. In parte sì, rispose a Eliza, lei credeva di essere nata con quella malattia, ma anche causata dai problemi che aveva avuto. Fin da piccola aveva voluto essere sempre perfetta come la mamma anche se lei, da bambina, non si era resa conto che Dianna avesse pensieri simili. Sotto quel punto di vista e molti altri avevano tante cose in comune. Si rivedeva, a tre anni, davanti allo specchio a sospirare di fronte alla sua immagine, a palparsi lo stomaco e a domandarsi se un giorno sarebbe mai stato piatto. Dopodiché si fissava con una smorfia di disgusto e andava via. Crescendo, lavorare come attrice le aveva fatto capire che era necessario apparire in un certo modo. Ma quello era stato il problema minore, aveva contribuito solo in piccola parte ai suoi disturbi alimentari.
“Leggevo commenti su di me,” continuò, “dicevano cose brutte sul mio aspetto e ciò mi ha condizionata.”
Qualche silenziosa lacrima le scivolò lungo le guance. Nel suo cuore c’era un piccolo buco causato da tutto il dolore che l’aveva scavato ma che, adesso, si stava trasformando in una voragine. Omise molte cose della sua storia, altrimenti avrebbe dovuto scriverci sopra un’autobiografia e, chissà, forse un giorno si sarebbe cimentata in quell’impresa.
La porta, rimasta socchiusa per far passare i cuccioli, si aprì con un leggero scricchiolio e Lilia zampettò verso di loro, andandosi a sedere proprio sule gambe della ragazza come se avesse capito che aveva bisogno di lei, compagnia e conforto. Demi prese ad accarezzarla e le grattò le orecchie, mentre la cagnolina alzava la testa per ricevere sempre più coccole.
“A nove anni mangiavo troppo,” riprese, “per controllare l’ansia per aver iniziato a lavorare recitando in un cartone, non andare più a scuola e la nascita di Madison, per non essere più la piccola di casa. Questo disturbo si chiama binge eating. Mia mamma pensava si trattasse di una fase della crescita e non ci ha fatto granché caso.”
Demi fece una pausa. Eliza la stava fissando, gli occhi socchiusi, la fronte corrugata e la ragazza le chiese a cosa pensava.
L’altra sospirò.
“Al fatto che chissà se me ne sarei accorta se fosse successo alle mie figlie.”
“Non sarebbe stato semplicissimo, ma prima o poi l’avresti notato dal fatto che sarebbe sparito troppo cibo in poco tempo o dal loro aumento di peso” rispose Andrew.
La cantante fece un cenno d’assenso, poi continuò.
“A undici, dodici anni ho cominciato a non mangiare, o a farlo poco e poi vomitare per sopportare il dolore che le parole dei bulli mi provocava. Ho pensato:
Allora è perché sono grassa che non ho amici.
E mi sono detta che se fossi dimagrita ne avrei avuti, ma non è stato così. Non a scuola, almeno, perché Andrew c’è sempre stato. Mia mamma, troppo presa dalla sua malattia, notava qualcosa, ma si diceva che era solo una fase della crescita. I bulli hanno fatto il resto.”
Inspirò ed espirò in fretta e si batté le mani sulle cosce mentre un tremito la scuoteva. Percependo l’agitazione e le altre mille emozioni che sconvolgevano la ragazza, Lilia abbaiò piano e le leccò il viso, cosa che la fece scoppiare in una fragorosa risata. Demi si sorprese: non credeva ci sarebbe riuscita, in quel momento. Gli animali, pensò, sono in grado di risollevarti anche nei periodi più duri, pur non capendo appieno ciò che stai passando. Per questo a volte li giudicava migliori delle persone, che invece non vedono l’ora di dirti cosa devi o non devi fare.
“A un certo punto, quando ero più grande, sono arrivata a vomitare sei volte al giorno e a fare due pasti in una settimana, credendo che anche un bicchiere di succo mi avrebbe fatta ingrassare.”
Tornò un po’ indietro con il racconto. Un giorno, a undici anni, finita la scuola, era tornata a casa e aveva pianto chiusa in camera, lontano da orecchie e occhi indiscreti, poi aveva preso una lametta. All’inizio l’aveva fatto dopo averlo visto in televisione e a scuola ne aveva sentito parlare, ma poi era diventato un modo per cercare sollievo dalla sofferenza e si era tagliata sempre più in profondità ogni volta, con tagli corti o lunghi per provare meno senso di colpa. Perché doveva esserci qualcosa che non andava in lei, se tutti le si accanivano contro con cattiveria. La cosa era andata avanti per anni.
A tutti si bloccò il respiro. Vedere le cicatrici era una cosa, sentirne parlare in modo tanto approfondito un’altra. Quella ragazza si era fatta del male di sua volontà. Come era stato incomprensibile per Eliza lo fu anche per gli altri, e Demetria dovette rispondere a domande simili a quella che le aveva posto la donna per spiegare il suo punto di vista.
“Per noi è fuori da ogni logica” commentò Oberon.
“Già.” Christopher si sfiorò la testa. “Nessuno qui ha mai pensato di mutilare il proprio corpo, ne sono sicuro. L’idea non ha nemmeno sfiorato le nostre menti, né quelle degli altri abitanti. Tutto questo è irreale, è troppo strano.”
I suoi compagni non la guardavano con paura o disprezzo, ma i loro occhi confusi colpirono Demi più di quanto avrebbe mai immaginato. Li vedeva persi, con le lacrime che rischiavano di scendere e, sospirando, si diede della stupida. Forse avrebbe dovuto andarci più piano, capire che li avrebbe scossi. Ma con tematiche come quelle non si può né scherzare, né sorridere o restare sul leggero, l’aveva capito sin dai suoi undici anni. Certe parole andavano dette, se si voleva spiegare la propria situazione agli altri, nonostante il rischio di turbarli. Avrebbe voluto scusarsi, ma non ne trovò il coraggio.
“Qui al bosco non…” Sky scoppiò in lacrime rifugiandosi fra le braccia della madre. “Mamma!” singhiozzò. “Mamma, perché persone così buone devono soffrire tanto? Perché? Non è giusto!” urlava, piantandole le unghie nella schiena.
“Hai ragione, tesoro. Purtroppo è successo, ma ora stanno meglio e hanno trovato in noi dei confidenti, questo conta molto. Shhh, tranquilla.”
Le passò un pacchetto di fazzoletti e la ragazza ne prese uno con mani tremanti.
Andrew rifletté ad alta voce sul fatto che la vita a Primedia e a Eltaria doveva essere più semplice, con le sue difficoltà, ma non grandi come quelle del loro mondo. Anche per questo si trovavano così bene lì.
“In seguito, verso i quindici anni,” riprese Demi, “c’è stata la fase nella quale mi abbuffavo e poi vomitavo, la bulimia, che ha come obiettivo sempre quello di dimagrire. Queste due malattie si sono alternate nel tempo.” Non era facile riesumare tali ricordi, sapere che si era fatta violenza non dicendo niente a nessuno, o quasi. I problemi che si era portata dietro l’avevano imprigionata con catene invisibili delle quali a volte, ancora adesso, percepiva la stretta se ne parlava. “Alla fine, quando avevo dodici anni mamma ha capito che il bullismo era serio, benché all’inizio non ci avesse dato peso, e ho studiato a casa.”
Si era nascosta in un bagno, sentendo le ragazze che la cercavano, che dicevano:
“Picchiamo la puttana”
e aveva chiamato la mamma, corsa a prenderla mentre Demetria era filata più veloce che poteva nell’ufficio del Preside per non essere presa dalle altre. Dianna l’aveva trovata tremante, su una sedia, e portata via. Prima, però, la figlia le aveva mostrato quello che aveva definito “il muro dell’odio”, una parete piena di offese rivolte a lei.
“Ti ha aiutata a superarlo?” chiese Christopher.
La cantante sospirò.
“Non ha compreso quanto profonde fossero le mie ferite, quindi no, ma non la incolpo. Non ne abbiamo parlato più, io mi sono chiusa e ho seguitato a tagliarmi e non solo, mi pareva l’unico modo per affrontare la cosa. Quanto abbiamo sbagliato!”
In quel momento uscì anche Agni che, dopo essere andato a mangiare, prese a correre e a volare attorno a loro mentre la cagnolina, scesa dalle gambe di Demetria, lo inseguiva e saltava per cercare di prenderlo, non riuscendoci mai. L’altro era più veloce e schivava ogni tentativo di assalto. Tutti sorridevano nel pensare che si divertivano come bambini. A Demi quella pausa fece bene, perché prese qualche respiro profondo godendosi l’aria fresca che avevano trovato sotto l’ombra di quell’albero, un vento leggero che le trasmise energia.
Ma i problemi alimentari erano continuati così come il bisogno incontrollato di farsi del male. Si era sempre vista troppo grassa, brutta, sbagliata, le frasi dei bulli le erano rimaste in testa qualunque cosa avesse fatto per scacciarle, le loro parole le avevano marchiato la mente a fuoco. Lavorando come attrice e crescendo, aveva preso come modello alcune ragazze. Con le loro foto aveva fatto un collage: sotto quelle grasse aveva scritto che non voleva essere così ma che lo era, e con le altre, magrissime, che aspirava a diventare come loro: perfetta.
“Anche questo era un comportamento sbagliato. Vedevo il mio corpo in modo distorto.”
“Se già stavi male, perché procurarti tutto questo dolore? Non capisco.”
Lei sorrise amaramente.
“Noah, i disturbi alimentari sono bastardi. Non è una questione di piacersi o meno, di voler dimagrire, di non voler mangiare, l’anoressia e la bulimia non sono delle diete come molti, anche nel mio mondo, pensano. Soffrirne non è una scelta. Non puoi decidere se ammalarti o meno quando hai l’influenza, giusto? Ecco, è lo stesso per queste malattie.”
Sono problemi subdoli, partono dalla mente. Non si mangia, si vomita, o ci si abbuffa e si rimette e si vuole dimagrire per sopire un dolore, una difficoltà più grande di tutto che non si è capaci di superare chiedendo aiuto. Le anoressiche, le bulimiche – ma ci sono anche maschi che soffrono di queste malattie – o chi è vittima di altri disturbi alimentari, non vogliono farsi curare perché pensano che vada bene così, che sia tutto okay. È un discorso meramente psicologico. E la testa è la più difficile da curare.”
In clinica aveva capito che il cibo non era il suo nemico, ma lei di se stessa. Demi e le altre ragazze avevano fatto ore di terapia di gruppo e attività nelle quali avevano tirato fuori le loro emozioni attraverso il disegno e le parole, affrontando il modo in cui si vedevano, la maniera nella quale erano sicure le percepissero gli altri e scavando, in particolare nelle sedute individuali con lo psicologo, nei problemi familiari o in ciò che avrebbe potuto causare tali difficoltà. Nel suo caso, oltre al passato travagliato, vivere in una famiglia con una mamma che soffriva di anoressia era stato un altro fattore scatenante.
Noah sospirò.
“Capisco, o almeno, tutti ci stiamo provando. In pratica, non basta dire di mangiare a una persona che soffre di anoressia o asserire di non abbuffarsi a una che sta male per la bulimia, giusto?”
“Esatto, non è quello il problema. Bisogna cambiare modo di pensare, di vedersi per curare il proprio aspetto e capire che è necessario occuparsi di se stessi nel modo corretto, io l’ho imparato ma ci è voluto tanto.”
Per moltissimo tempo aveva pensato a cosa mangiare o meno, a quello che le sarebbe piaciuto mettere in bocca o al cibo che si pentiva di aver ingurgitato, pesandosi spessissimo e facendo diete ed esercizi fisici per ore ed ore, inventando scuse per non mangiare e rimanendo fuori il più possibile.
“E poi cos’è successo?” chiese Sky.
“Alla fine sono andata in clinica, un posto dove dei dottori mi hanno aiutata per tutti questi problemi. Il percorso è stato lungo e non facile, anche una volta fuori. L’anno dopo ci è entrata mia mamma. Ora stiamo entrambe molto meglio.”
“Dev’essere stato stancante fare tutti questi ragionamenti sul cibo, come un’ossessione” commentò Isla.
Demi si limitò ad annuire, aggiungendo che la sua mente non aveva mai smesso, in quel periodo, di pensare a esso e al peso.
“Mi sentivo come se qualcosa non andasse nel mio cervello, quasi non umana. E credevo che la mia carriera fosse finita.”
Parlò della sua ripresa, di quanto era stata dura anche per ciò che concerneva l’autolesionismo, delle ricadute terribili che aveva avuto e Andrew raccontò di quello che aveva ricordato a riguardo poche ore prima.
“Quando una persona soffre di questi problemi, non è facile né per lei né per chi le sta accanto” disse, l’immagine di Demi con i tagli aperti ancora vivida nella sua memoria. “Quella notte l’abbiamo convinta a mangiare, ma ha fatto una fatica immensa.”
“L’anoressia, la bulimia e l’autolesionismo erano come delle voci nella mia testa che mi parlavano e mi mormoravano o urlavano quello che dovevo o non dovevo fare, che erano le mie uniche amiche e cose del genere. Il binge eating, invece, non mi ha mai sussurrato nulla. Skyscraper, la canzone che avete già ascoltato, parla della mia ripresa, di come sono risalita dal fondo. Sono stata fortunata: in certi casi l’anoressia può portare alla morte.”
Quella parola cadde su di loro come un macigno, tutti piegarono la testa e la schiena come se ne sentissero sul serio il peso e facessero fatica a sostenerlo.
“Allora è molto grave” mormorò Eliza.
“Sì.”
Isla si portò una mano davanti agli occhi, Kaleia e Sky respiravano a malapena e gli uomini si guardavano inquieti.
Demi appoggiò una guancia contro la mano. Si sentiva svuotata di ogni energia, soprattutto mentale. Anche se raccontare quello che aveva passato aiutava tanta gente, nonostante lei sentisse di volerlo fare anche con i suoi compagni, parlarne non era mai semplice. Quanti anni aveva sprecato a causa di quelle malattie? Quanta vita?
“Ma sapete una cosa? Rialzandomi a fatica, mi sono resa conto di essere molto più forte di quello che credevo. Ho imparato tanto su me stessa a causa della mia sofferenza, sui miei limiti, su come prendermi cura di me, sul modo in cui posso aiutare le altre persone raccontando cosa mi è capitato.”
I due fidanzati decisero che, per il bene della ragazza, sarebbe stato meglio se avesse riposato, anche perché non c’era altro da dire.
Christopher preparò per tutti una tisana ai frutti di bosco. La cantante e il fidanzato andarono a letto. Non parlarono, ma si addormentarono abbracciati come per darsi conforto e trasmettersi coraggio. L’insicurezza la faceva da padrona quando erano soli, a volte, ma sapevano di avere anche una grande forza che, se stavano insieme, aumentava.
 
 
 
Intanto, gli altri rimanevano in silenzio.
“Che ne pensate?”
“Che sono tematiche particolari per noi, Noah, per il nostro mondo e mi risulta difficile capirle” commentò Oberon.
Tutti concordarono e alcuni sospirarono, mentre ripensavano alle peripezie della ragazza.
“Al suo posto non so se sarei sopravvissuta, come avrei potuto resistere” disse invece Kaleia. “Forse sarei morta.”
“Io impazzita, sorellina.”
“Non ho idea di come sarebbe stata la mia vita. Soprattutto se mi fossi ammalata avendo già Lucy e Lune, o prima, come nel caso della mamma di Demi. Immagino che mangiasse normalmente, o almeno si sforzasse di farlo, quando era incinta. Tutti quegli anni di segreti, come sono riuscite a sopportarlo? Per sua mamma sarà stato scioccante sapere che la figlia aveva questi problemi, si sarà sentita in colpa e preoccupata da morire.”
Isla era madre e si metteva le mani nei capelli al solo pensiero, non immaginando nemmeno cosa sarebbe successo se fosse capitato a Lucy o a Lune. I genitori cercano sempre di aiutare i propri figli, di proteggerli dal dolore e dalla cattiveria del mondo, dai problemi, ma non ci riescono mai del tutto, lo sapeva. Era conscia anche di un’altra verità: in parte è giusto così, altrimenti questi non faranno mai le loro esperienze, d’altro canto però per loro vederli soffrire è uno dei colpi più duri, sapere di non esserci stati abbastanza nei momenti critici nonostante gli sforzi.
“Hai ragione, tesoro, anch’io mi sentirei come te.” Oberon le circondò le spalle con un braccio. “Ma vedrai che qui non accadrà nulla di tutto questo. Le nostre figlie avranno altri problemi, però, dobbiamo metterlo in conto.”
Si augurarono che l’adolescenza, per le piccole, non sarebbe stato un periodo troppo critico. Pregarono che Lucy e Lune non si sarebbero chiuse in loro stesse e avrebbero trovato il coraggio di parlare, se si fosse presentata qualche difficoltà, ma sapevano che non sempre sarebbe accaduto.
“Comunque,” intervenne Eliza, “è bello che Demi abbia trovato qualcosa di positivo in tutto questo dolore.”
“Vero” sussurrò Kaleia. “Non dev’essere facile arrivarci.”
“Chissà cos’è successo ad Andrew. Secondo voi ce ne parlerà? Ieri ci diceva di un lutto ma non ha aggiunto altro.”
“Non ne ho idea, Sky, ma se vorrà lo ascolteremo.”
“Certo, mamma. Kia, che ne dici se prepariamo una merenda golosa per tutti? Sono sicura che tirerà su il morale a ognuno di noi.”
“Perché no?”
Mentre Isla e il marito andavano a prendere le figlie, le due sorelle tiravano fuori gli ingredienti necessari per preparare un cibo che adoravano.
“Niente sciroppo d’acero, vero?”
“Direi di no, Sky. Alle piccole potrebbe non piacere e non so se ci sta bene con questa” rifletté Kaleia, indicando un gran barattolo ancora chiuso appoggiato sul tavolo.
“Bene, facciamoli e poi riempiamo, allora.”
Ma oltre a controllare con precisione le dosi e leggere più volte la ricetta, sapevano che come per ogni piatto bisognava metterci anche l’amore, così sarebbe diventato più buono. Tenersi impegnate le aiutava a non pensare, anche se non sempre era possibile. A volte serviva loro un po’ di tempo. Se lo sarebbero preso quella sera, parlandone con i loro fidanzati. Demi aveva aperto loro il suo cuore e desideravano fare un piccolo gesto affinché le spuntasse un sorriso. Ciò non sarebbe servito a scacciare il suo dolore, ma quantomeno a rasserenarla. Eliza, intanto, venne in cucina a preparare un caffè per tutti, dato che aveva sentito dei movimenti nella camera dei suoi ospiti. In silenzio, pregò affinché i giorni seguenti, per Andrew e Demi, sarebbero stati più sereni e si augurò lo stesso per il resto della loro vita. Meritavano un po’ di pace e lei, le figlie e tutti gli altri avrebbero cercato di far vivere loro esperienze indimenticabili.
 
 
 
CREDITS:
la frase “Sai che oggi è un giorno speciale?” è tratta dalla storia Luce e ombra: Il bosco delle fate di Emmastory. L’ho messa in corsivo perché si tratta di una citazione.
Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story
La frase “Picchiamo la puttana” è tratta dal libro e la versione originale è “Let’s beat that bitch up”. “Il muro dell’odio”, invece, è “the hate wall”.
 
 
 
NOTE:
1. le informazioni sui bambini di quattro mesi, anche quelle future, sono tratte dal sito www.nostrofiglio.it.
2. Dianna ha davvero sofferto di anoressia e depressione post partum, ha avuto anche altri problemi che qui non abbiamo menzionato. Scrive di tutto ciò nel suo memoir.
3. Denise è inventata, ma l’episodio di bullismo per cui poi Demi ha lasciato la scuola è vero.
4. Demi ha rivelato a People che si tagliava, all’inizio, perché l’aveva visto in televisione, e a 20/20 che sapeva che alcune persone a scuola lo facevano e si era detta che poteva essere un modo per controllare la sofferenza.
5. Dianna parla dei motivi del binge eating e dell’anoressia della ragazza nel libro, anche se alcuni si intuiscono e basta vista la situazione. È vero anche il fatto che la donna non capisse le difficoltà della figlia, sia con i bulli che con il cibo, ne parla in diverse pagine.
6. Sempre a People Demi ha detto che ha smesso di mangiare, a dodici anni, perché non aveva amici e pensava che facendolo le cose sarebbero state diverse. Ha accennato anche ai blog, ai commenti e al lavoro alla Disney. Ha anche spiegato:
“[…] When I was about 15, I was only eating two meals a week, but I wasn’t losing any more weight because my body adjusted to that. So I tried new things: laxatives, fasts-nothing was working. I decided maybe I should start throwing up. At my worst, I was doing it five times a day. I threw up so hard and so much, it was just blood in the toilet.”
 
Traduzione:
“[…] Quando avevo circa 15 anni, mangiavo solo due pasti al giorno, ma non perdevo più peso perché il mio corpo si era abituato a ciò. Così ho provato nuove cose: lassativi, digiuni – niente funzionava. Ho deciso che forse avrei dovuto vomitare. Nel momento peggiore, lo facevo cinque volte al giorno. Vomitavo così tanto che c’era solo sangue nel water.”
Poco dopo c’era scritto che la bulimia è iniziata a quindici anni.
7. Al Katie Couric Show ha rivelato che il succo la faceva ingrassare, che da piccola si metteva la mano sulla pancia e che crede di essere nata con quel problema.
8. Ecco la differenza, spiegata più nel dettaglio, tra anoressia, bulimia e binge eating dal sito www.psicologo-parma-reggioemilia.com.
In genere l’Anoressia Nervosa si esprime con un controllo rigido e costante sull’alimentazione. Chi ne soffre non “sgarra” mai con il cibo: conta le calorie di ogni porzione e sa con esattezza di quali nutrienti è composta. Se l’Anoressia si manifesta in questa forma, è facile distinguerla dalla Bulimia in cui si hanno, invece, episodi più o meno frequenti di abbuffate, cioè di perdita di controllo sulla quantità di cibo ingerito. Esiste, però, un particolare sottotipo, definito “Anoressia Nervosa con abbuffate/condotte di eliminazione”, in cui si hanno le abbuffate e la messa in atto di azioni compensatorie che, come nella Bulimia, comprendono il vomito autoindotto, l’esercizio fisico compulsivo e l’uso di diuretici o lassativi. Le condotte del paziente anoressico e di quello bulimico possono apparire, quindi, molto simili. Ciò che distingue sempre uno dall’altro, tuttavia, è che il primo si presenta in sottopeso e manifesta il rifiuto, a parole o con i fatti, di recuperare o mantenere il proprio peso al di sopra del minimo normale. Il paziente bulimico, invece, è spesso normopeso o in leggero sovrappeso.
[…] nella Bulimia sono attuate condotte compensatorie allo scopo di disinnescare la preoccupazione di aumentare di peso o il senso di colpa per aver violato regole alimentari. Il paziente con Binge Eating, al contrario, non attua tali condotte. Un’altra differenza sta nelle conseguenze sulla forma fisica. A differenza di chi soffre di Bulimia, chi soffre di Binge Eating è sempre in sovrappeso.
9. Le ore di allenamento, le diete, il fatto che Demi stava fuori per non mangiare sono eventi presi da alcune interviste. Per quanto riguarda la terapia, si tratta di tecniche delle quali ho sentito parlare su YouTube.
   
 
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