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Autore: FrenzIsInfected    22/03/2021    1 recensioni
Sequel di "Sangue su Chernobyl".
L'UAZ di Feodor, Olga, Anatoli e Vassili è arrivato a Pripyat. Dell'Honker dove viaggiavano Svatok, Irina, Sergei e Boris, però, è scomparso. Un'esplosione fa presagire il peggio.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo capitolo

5

 

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Ospedale nr. 126.

12:31.

Irina Kabakova, Vassili Karavaev, Boris Volkov.

Irina e Vassili hanno accompagnato Boris in ospedale per farsi togliere il proiettile.

 

 

«Fa tanto male?»

Irina era accanto a Boris, allettato dopo l’operazione. I medici dell’esercito avevano allestito un presidio medico nell’ex ospedale principale di Pripyat, il numero 126. Seppur in assenza di condizioni sanitarie idonee, i dottori erano riusciti a rimuovere il proiettile sparato da Irina e ricucire la ferita. Fortunatamente, il colpo non aveva reciso arterie.

«Nulla che non possa sopportare» fece il ragazzo. «Ho fatto lo stupido, è giusto che ne abbia pagato le conseguenze».

«Non dire così, Boris.» cercò di confortarlo Irina. «Dovevo prendere la mira, e non sparare alla cieca.»

«Già… ormai è andata così. Guardiamo avanti.»

I due stettero in silenzio per qualche momento.

«Quindi ce l’abbiamo fatta» disse lui.

La ragazza annuì.

«Quando uscirai, ti farò vedere il mio appartamento. E potrai sistemarti da me, ovviamente.» aggiunse.

«Prima però voglio visitare la città. Voglio vedere i posti dove ho ucciso tutti quegli ultranazionalisti russi con il capitano MacMillan… e dove ho combattuto i Monolith assieme ai membri della Freedom e ai Duty.»

«Calma, stalker. Faremo una cosa alla volta.»

I due risero, per poi fissarsi.

 «Ira... c'è qualcosa di cui vorrei parlarti.» disse Boris. «Io...»

Un dottore entrò nella stanza.

«Signorina, il paziente ha bisogno di riposo. E, a quanto ho capito, ne avrebbe bisogno anche lei, a giudicare dal viaggio che avete fatto per arrivare fin qui» disse.

«Va bene, me ne vado subito.» fece, alzandosi.

Irina volse un ultimo sguardo a Boris, che sorrise amaramente, facendole cenno di andare.

«Starò bene.» proferì.

«Ti aspetto a casa.» disse lei.

E lo baciò in fronte.




Irina si guardò intorno. Lo spettacolo che aveva davanti non avrebbe mai immaginato di vederlo in vita sua. La città dove era nata era stata conquistata dalla natura, stravolgendone tutti i ricordi che aveva. Guardò l’enorme ospedale a pochi metri da lei. Tra quelle mura, il 16 gennaio del 1983, aveva visto la luce. Ora era in condizioni fatiscenti, ma l’esercito se n’era riappropriato, usandolo per fare sporadici controlli medici e, come nel caso di Boris, operazioni chirurgiche, seppur in situazioni disagianti e non adatte.

Si voltò, guardando i palazzi a poche centinaia di metri da lei. Posti che ricordava essere pieni di vita. Ora, guardando attraverso le finestre rotte, le uniche cose che percepiva erano freddo e morte. Notare la presenza di rifugiati ai balconi o alle finestre dei blocchi di appartamenti le ricordava ciò che c’era fuori dalla città, nel resto del mondo.

Pripyat, la città morta tornata in vita. La città zombie.

L’arrivo di Vassili, che la stava aspettando fuori dalla struttura, interruppe il suo flusso di pensieri.

«Cosa dicono i dottori?» chiese.

«Il tempo che i punti facciano il loro dovere e sarà libero di scorrazzare dove vuole all’interno della città.» rispose Vassili. «Ad eccezione del seminterrato dell’ospedale.»

«Perché? Ci sono i mostri dei videogiochi ai quali ha giocato?»

«Durante un giro di perlustrazione hanno trovato degli indumenti altamente radioattivi. Dicono siano le divise dei pompieri che per primi sono intervenuti per domare l’incendio alla centrale nucleare. Inutile che ti dica che stare nei loro paraggi non è esattamente una botta di salute.»

Irina accennò un sorriso.

«Olga è all’hotel ‘Polyssia’. Ti ricordi la strada per arrivarci?»

La ragazza annuì, andando verso il blocco di appartamenti davanti a loro, iniziando a camminare in mezzo agli alberi.

«Vivevi qua vicino?» domandò il poliziotto.

«No. Il mio appartamento non era distante dal posto dove siamo arrivati. Era in una posizione strategica. Vicino a noi c’era la fabbrica dove lavorava papà, la piscina, una scuola elementare, il centro della città era a circa un chilometro…»

Il membro della Militsiya era a dir poco sconcertato.

«Come fai a ricordarti tutto questo?»

Lei abbassò lo sguardo.

«Papà mi diceva sempre di non dimenticarmi da dove venivo. “Ci rende unici, a modo nostro”, diceva. Mi faceva vedere di continuo i posti che frequentava lui, dove mi portava, dove lavorava mia madre. Così che un giorno, quando e se saremmo tornati, mi sarei saputa anch’io orientare all’interno di Pripyat.»

Irina si fermò, osservando nuovamente l’ambiente circostante.

«Se solo potesse vedermi in questo momento…»

Vassili mise una mano sulla spalla della ragazza.

«Lui… sarebbe contento di vederti sorridere.»

I due continuarono a camminare per qualche minuto, fin quando tornarono su una strada asfaltata.

«Via Kurchatov.» annunciò la ragazza. «Quello là è il cinema ‘Prometey’» fece, indicando un edificio sulla destra. Si voltò poi verso sinistra, rivolgendo lo sguardo verso un alto edificio bianco sporco. «E quello è il posto da dove l’allora tenente Price e il capitano MacMillan cercarono di uccidere Imran Zakhaev nell’inverno del 1996.»

«Ovvero?»

«L’hotel ‘Polyssia’. Ero con Boris quando ha giocato le missioni ambientate a Pripyat su Call Of Duty

A Vassili non sfuggì lo sguardo divertito della ragazza.

«C’è del tenero tra voi?» chiese.

Irina non rispose.

 

 

«Irina!»

Olga corse ad abbracciare la ragazza.

«Mi dispiace tanto per Sergei.» disse.

«Sto bene, Olga. Sto bene. Vorrebbe vedermi felice in questo posto, ora che sono tornata a casa.»

Il sergente sorrise.

«Come sta Boris?» chiese a Vassili, abbracciando anche lui.

«Il proiettile non ha danneggiato sensibilmente la gamba. Guarirà presto.» rispose l’agente.

Il caporale Yakovenko si sporse.

«Chi ha detto di essere tornata a casa?»

Irina alzò la mano, sospettosa.

«Sei un’ex cittadina di Pripyat?» continuò il militare. La ragazza annuì.

«Nata all’ospedale 126 di Pripyat il 16 gennaio 1983. Io e i miei genitori abitavamo al sesto piano del numero 10 G, interno 14, in Via dello Sport.»

«Ho una bella notizia per te, figliola.» le annunciò il soldato. «Ti spetta quell’appartamento di diritto. E di gente in Via dello Sport non ne abbiamo molta, quindi è altamente improbabile che qualcuno si sia stabilito lì. Spero per te che non sia stato razziato troppo dai liquidatori o dagli stalker.»

A Irina spuntò un sorriso a trentadue denti.

«Quanto a me, invece? Sono un membro della Militsiya» fece Vassili, esibendo il suo tesserino.

«Militsiya? Dovrebbe esserci la caserma, a nord-ovest della città. Non è distante da dove abita la ragazza, è al numero 5 di Via Lesya Ukrainka. Da quanto dicono è stata abbandonata solo sette anni fa, non dovrebbe essere in cattivissime condizioni.»

«Ti accompagno io» si offrì Irina. Vassili ringraziò.

«Già che ci siete, passate al Palazzo della Cultura. Vi daranno un po’ di cibo e la tessera per richiederlo.» aggiunse Yakovenko, congedandoli.

I due lasciarono l’hotel, e percorsero il colonnato che collegava l’edificio all’Energetyk. Al suo interno, dove una volta sorgeva il teatro, trovarono dei militari, che consegnarono loro le tessere per le razioni, assieme a un fornelletto per cucinare. Per raggiungere le loro destinazioni, i due sopravvissuti scelsero di passare per la “via turistica”. Uscendo dal Palazzo della Cultura, andarono a nord, ritrovandosi pochi minuti dopo al luna park. Furono sorpresi nel trovare una giovane madre con un bimbo in braccio intenta a guardare la ruota panoramica.

«È quella a cui ti riferivi ieri sera?» domandò il poliziotto.

«L’unica e sola» rispose la ragazza. «È quasi diventata l’icona della città, dopo l'abbandono. Ancora pochi giorni, e sarei potuta salirci a fare un giro.»

«Beh, ora puoi. Non si muoverà, ma è meglio di niente.»

Irina iniziò a muoversi come se fosse ipnotizzata. Ignorando le radiazioni, che resero quella zona di Pripyat una delle più contaminate, avanzò verso la ruota divorata dalla ruggine, fino a trovarsi a pochi metri da essa.

È come se fosse tornata bambina, pensò Vassili.

La ragazza salì in uno dei posti a sedere, e chiuse gli occhi.

Vide la ruota partire, iniziare il suo giro. Dall’altro lato, papà Sergei rideva e faceva versi buffi per farla divertire. Piano piano, salivano sempre più su, fino ad arrivare in cima. Vide i blocchi di appartamenti, l’ospedale, lo stadio Avanhard, la piscina Lazurny, il Palazzo della Cultura, Piazza Lenin, l’hotel, il fiume Pripyat costellato di battelli… la centrale nucleare.

La centrale nucleare.

La centrale nucleare.

VNIMANIYE VINIMANIYE.

Irina riaprì gli occhi, e sospirò.

«Tutto bene?»

Vassili la osservava, pochi metri più a destra.

Lei annuì, e iniziò a camminare verso l’uscita del luna park.

 

 

«Non penso di aver mai visto una cosa del genere.»

I due erano entrati nella piscina Lazurny. Vassili osservava stupefatto l’immensa piscina olimpionica vuota, mentre Irina si arrampicava sui trampolini.

«Papà adorava tuffarsi da qui.» disse, una volta arrivata e accomodatasi. «Lo guardavo prendere il volo e finire in acqua, facendo mille schizzi, che facevano infuriare chi nuotava nelle vicinanze o chi era fuori dalla vasca. Era il suo momento di libertà.»

Il poliziotto entrò nella vasca, e camminò in lungo e in largo al suo interno.

«Cosa darei pur di farmi una nuotata.» sospirò. «Quando arriverà l’estate non potrò nemmeno andare a nuotare sul fiume.»

«A meno che tu non voglia radiografie gratuite.»

I due risero, e il loro eco riempì il locale.

«Chissà se hanno rimesso in funzione la cisterna, in qualche modo.» si chiese la ragazza, iniziando a scendere. «Non sarebbe male lavarci, dopo tutto quello che abbiamo passato.»

I due uscirono dalla piscina per non iniziare a fantasticare troppo. Percorsero qualche centinaio di metri, fin quando Irina si fermò davanti a un blocco di appartamenti.

«Io sono arrivata.» annunciò. «Continua fino alla fine della strada e poi gira a destra. La caserma dovrebbe essere sulla destra.»

Vassili ringraziò per l’informazione, passandole la radio.

«Serve più a te che a me.» fece. «Bentornata a casa.»

Il poliziotto si congedò, continuando a percorrere la via. Irina alzò lo sguardo, fissando un balcone al sesto piano di uno degli edifici che aveva davanti.

 

 

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

 

 

Attraversò il portone, e fissò il vecchio ascensore rotto.

 

 

Sergei si alzò dalla sedia e uscì dalla finestra. Il fumo continuava ad alzarsi dalla centrale.

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

Nadiya accorse. Era stranamente tranquilla.

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

«Che succede, Sergei?» domandò.

«Non ne ho idea.»

 

 

Iniziò a salire le scale di corsa, non curandosi del fatto che doveva arrivare in cima all’edificio.

 

 

Anche la piccola Irina corse fuori dal balcone. Dall'altoparlante di un blindato dell'esercito, la voce di una donna gracchiò un messaggio pre-registrato.

«Cari compagni! Il Consiglio Comunale informa che, a seguito di un incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni dell'atmosfera circostante si stanno rivelando nocive e con alti livelli radioattivi. Il Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno adottando le dovute misure. Tuttavia, al fine di garantire la totale incolumità delle persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di Kiev. A tale scopo, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati autobus sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della città. Si raccomanda di portare con sé i documenti, gli effetti personali strettamente necessari e prodotti alimentari di prima necessità.»

 

 

Arrivò al sesto piano col fiatone. Percorse il corridoio, fino a vedere la targhetta col numero 14.

 

 

«Che cosa ha detto, papà?» domandò innocentemente.

«Dobbiamo andarcene, Ira

«Perché?»

«Tranquilla, cucciola. Torneremo tra qualche giorno.»

 

Qualche giorno... da allora sono passati ventitré anni.

 

L’appartamento era stato quasi completamente ripulito. Il tavolo, il televisore, il divano, gli armadi… tutto quello che c’era al momento dell’abbandono era scomparso. Tutto troppo contaminato per essere lasciato dov’era. Restava solo il materasso dei suoi genitori, assieme a una bambola di pezza, sfuggita o lasciata di proposito dai liquidatori.

Lasciò la busta con le provviste a terra assieme alla Makarov e Masha, e si distese sul materasso. Guardò l’orsacchiotto di peluche, e non nascose un sorriso.

Siamo tornati.

L’atomo le aveva tolto la casa. Gli zombie le avevano tolto i genitori. Il suo futuro e quello dell’umanità erano incerti.

Ma Irina era tornata a casa. Aveva esaudito il desiderio dei suoi genitori.

E nient’altro sembrò più importare.

  
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