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Autore: ShinyNeko    25/03/2021    0 recensioni
Stanotte ho fatto un sogno e ho deciso di riscriverlo. Parla di Saima, una ragazza dal passato tormentato che decide di affrontare un viaggio per tornare al Parco dei Pesci, il luogo della sua infanzia. Un'esperienza surreale che la porterà a scavare dentro la sua anima ed a comprendere alcune sfumature della sua vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Ancora qualche ora e sarò al Parco dei Pesci. Erano mesi che desideravo andarci e dopo svariati tentativi sono riuscita ad organizzarmi una giornata libera. Era il mio parco preferito da bambina nonostante possa essere considerato un luogo totalmente semplice e banale. Probabilmente la sua vera bellezza è contenuta nei ricordi che ho a riguardo. Alzavo lo sguardo ogni volta per vedere l’arco del cancello principale, la sua vernice verde iniziava già a dare segni di vecchiaia e ruggine, cosa che adoravo osservare verso l’ora del tramonto quando i raggi del sole illuminavano quelle sue parti rovinate quasi facendole brillare, come se volesse accentuarle. D’estate le persone prendevano il sole sul prato vista la lontananza di una spiaggia da quelle parti, altri ballavano, bevevano, si baciavano. C’era una coppia di alberi a destra del parco e spesso quel punto era occupato da un ragazzo ed una ragazza. A volte leggevano a voce alta passi di alcune poesie interpretandole con gesti e alzando la voce per creare più pathos. La ripenso spesso come un’opera teatrale, adoravo guardarli ed ascoltarli. Altre giornate legavano un filo tra questi due alberi per camminarci sopra cercando di mantenere l’equilibrio. Credo si chiami funambolismo questa pratica. Se non fossi stata una bambina così timida gli avrei sicuramente chiesto di provare. Forse avrebbero anche accettato. Sembravano molto gentili e davvero legati tra loro. Avevano spesso vestiti larghi e colorati, quasi usciti dagli anni ’60. Lei sorrideva sempre, aveva i capelli raccolti in una bandana color smeraldo, lui invece aveva continuamente una sigaretta tra le labbra, già alla mia età pensavo che fumasse davvero troppo e che questo gli avrebbe fatto male. Ma sembrava non importargliene, era felice. Ricordo che era solito accarezzare la schiena di lei, attendere che i loro sguardi s’incontrassero e dire «In questo momento non vorrei essere da nessun’altra parte.».
Non ero solita giocare con gli altri bambini, ritenevo più divertente sedermi o camminare silenziosamente guardandomi attorno. Riconoscere piccoli dettagli che gli altri non notavano, vedere le persone da lontano ed immaginarmi la loro storia. Ero taciturna, a detta di molti nemmeno molto divertente. Ma a me andava bene così. L’unica attività che tendevo fare con gli altri era disegnare sul pavimento. Sulle mattonelle del parco c’era sempre disegnato qualcosa, i bambini amavano decorarle con i gessi, un vero peccato che una volta arrivata la pioggia si sarebbero tutti cancellati. Una volta disegnai Zucchero, il mio pesce preferito di tutto il parco e quando il giorno dopo sparì a causa della pioggia piansi davvero tanto. Ricordo che Zucchero nella fontana restava sempre in disparte, era l’unico pesce grigio mentre tutti gli altri, rossi e gialli, se ne stavano sempre raggruppati. In qualche modo lo ritenevo il mio migliore amico, sembrava aspettarmi e nuotarmi incontro quando mi vedeva. Anche lui, come la ruggine del cancello, quando era illuminato dal sole brillava. E sembrava fatto di zucchero. Anche quando morì piansi molto, alcuni bambini mi presero pure in giro per questo.
«Era solo un pesce e poi non era nemmeno tuo, era del parco!» mi disse quel giorno un bambino che non ho mai sopportato. Nemmeno sapevo il suo nome, non mi era mai interessato e penso che nemmeno a lui interessasse il mio. Eppure era importante per lui ricordarmi quanto ritenesse inutile piangere per la morte di un pesce.
Per quanto possano apparire dei ricordi tristi di una bambina troppo solitaria per giocare normalmente con gli altri non ne ho un amaro pensiero. Stavo bene così e ne ho nostalgia. Ma ciò di cui sono più curiosa nel tornare in quel parco è tentare di ritrovare il mio messaggio d’addio per Zucchero. Questa volta era con un pennarello indelebile e in un punto in cui nessuno avrebbe potuto vederlo, così sarebbe stato sempre protetto dalla pioggia e dalle persone. Lo scrissi sotto un tavolo, quello più vicino alla sua fontana. Tremavo nel farlo, non volevo che qualcuno si accorgesse che stavo sporcando, qualche adulto sarebbe sicuramente venuto da me per dirmi che era sbagliato. Ma con tutto il mio impegno, e ancora la scarsa capacità nello scrivere correttamente, disegnai un piccolo pesce e sotto il suo nome:
zUcchƎɹO
 
L’autobus parcheggia alla sua fermata, accanto si trova la stazione ferroviaria, il treno sarebbe partito tra pochi minuti. La mattina appare uggiosa, tra poco inizierà sicuramente a piovere. Distolgo lo sguardo dal finestrino e mi giro verso Kami, ha lo sguardo perso da quando ci siamo incontrati. È pensieroso, distratto, sembra che sia seduto da solo, o forse sono io ad essere seduta da sola. Allungo una mano verso di lui toccandogli il braccio.
«Ehi, tutto bene? È da ieri sera che fai così. Se è successo qualcosa puoi dirmelo.».
I suoi occhi cadono su di me, sembra essersi appena svegliato da una sorta di trance.
«Io sto bene. Tu piuttosto? Non dici una parola da quando siamo partiti!».
Queste parole mi colpiscono e vorrei ribattere ma non lo faccio, non mi sento abbastanza forte nell’avere un confronto con lui.
Eravamo soliti chiamarci fino a tardi ogni sera, eppure ieri non è successo. Non una scusa, una motivazione, se chiedevo spiegazioni stava sempre sul vago. Sapeva che per me questo è un giorno importante e nonostante abbia deciso di accompagnarmi sembra che in questo momento voglia essere da tutt’altra parte. Cerco di non riconoscere che la situazione sia un problema, tolgo la mia mano su di lui, abbasso lo sguardo e tiro fuori da sotto il sedile il mio zaino. Lo apro fingendo di cercare qualcosa, in realtà sto solo cercando di soffocare le lacrime e i singhiozzi.
Le porte del veicolo si aprono e in contemporanea i passeggeri si alzano dai loro posti per mettersi in fila ed uscire. Kami non proferisce parola, non mi guarda ed anche lui si alza e si dirige verso l’uscita senza aspettarmi. Smetto di frugare inutilmente nello zaino perciò lo richiudo, mi alzo e lo metto sulle spalle. Cerco di seguirlo, ma una famiglia con tre bambini passa davanti a me impedendomi di andare in fila. Uno dei tre, il più piccolo probabilmente, alza il suo piccolo viso e comincia a fissarmi. Il suo viso tondo, i suoi enormi occhi azzurri, dalla sua espressione capisco che ha notato il mio pianto, d’istinto mi copro con le mani. Resto ferma così qualche secondo e la mia mente continua ad evidenziare quanto sia imbarazzante tutto questo, ma una volta che ritorno a vedere noto che quel bambino, nonostante sia andato avanti, resta girato a guardarmi, si ferma. La madre lo strattona dal braccio per istigarlo a muoversi. Infine scende le scale e sparisce dal mio campo visivo.
Sono quasi tutti scesi e finalmente riesco a dirigermi alla porta. Lentamente scendo le scale e vedo il mondo esterno. Il mio cuore involontariamente sobbalza. Qualche metro più avanti vedo Kami e il suo stato di noia ed indifferenza totalmente trasformato. Ora sorride, anzi, sta addirittura ridendo. E parla con una ragazza che sembra uscita da una rivista di moda. I capelli castani lisci e per nulla fuori posto, la pelle illuminata da un make up ben curato e le labbra rosse. Un corpo da modella evidenziato dai vestiti aderenti che indossa. Sulla spalla sinistra regge una borsetta di qualche marca costosa che francamente non conosco. Sembra molto sicura di sé, come sembra conoscere Kami da molto tempo. Lei lo spinge amichevolmente con una mano mentre ride di gusto, leggo le sue labbra «Ma smettila, scemo!».
Mentre tutte le persone attorno a me recuperano le valigie dal portabagagli dell’autobus e si dirigono verso la stazione io rimango bloccata ad osservare la scena senza saper cosa fare. Vorrei camminare verso di loro e magari gridare a lei chi diavolo sia, gridare a Kami perché mi sta facendo questo. Ma non lo faccio, quindi resto lì, inerme, mentre un peso nel petto mi schiaccia ancora più nel baratro e mi fa sentire sempre più stupida e fuori posto. Continuano a conversare, a ridere, sembrano divertirsi molto.
Si salutano, lui si gira e cammina a passo svelto verso la stazione ferroviaria. Nuovamente non si cura della mia presenza, come se questo sia un suo viaggio in solitaria. Lo seguo con lo sguardo e d’istinto alzo la mano gridando «Kami! Aspettami!» non curante degli sguardi straniti degli altri su di me. M’incammino verso di lui continuando a pronunciare il suo nome, ma lui sembra non sentirmi. Forse finge. E la folla di gente inizia ad aumentare. Mi faccio strada tra loro, a volte ritrovandomi totalmente pressata. Chiedo il permesso per passare e mi guardo attorno per non perdere di vista la sagoma di Kami ormai sempre più lontana. Ed involontariamente osservo sulla mia testa l’orologio della stazione. Segna le 7:25, tra due minuti il treno sarebbe partito. Rifletto che forse sarebbe stato più prudente salire e cercarlo tra i vagoni. Sempre se fosse salito. Ma il mio dubbio viene risolto dopo svariati tentativi nel ritrovarlo, finalmente lo trovo e si sta incamminando verso la testa del nostro treno, cerco di accelerare. La confusione circostante e la mia angoscia che ormai stavano prendendo il sopravvento, una voce rauca alle mie spalle grida «Stai attenta, ragazza! Qui passano i treni in transito!». D’istinto mi giro per collegare quella voce ad un viso. È un ragazzo che appare sulla trentina, la barba ormai troppo lunga che lo rende ancora più vecchio di quello che probabilmente è, indossa una camicia marrone e dei jeans scoloriti per i troppi lavaggi. Le scarpe di vernice nere sporche di fango. Sotto il braccio ha un giornale. Riconosco che la sua presenza mi riporta qualcosa di familiare, ma senza che io abbia molto di pensarci su, improvvisamente un treno a tutta velocità passa tra noi due. Ci sono più vicina di quanto credessi, il suo rumore assordante e l’aria che lo accompagna mi spaventa, indietreggio ed inciampo, lo zaino dietro le mie spalle attutisce la caduta a terra. Nel tentativo di rialzarmi il treno finalmente finisce. Sento il suono diminuire mano a mano che si allontana. Dall’altra parte non c’è più traccia di quel ragazzo. Penso comunque alla fortuna che ho avuto avendomi avvertito. Devo stare più attenta. Non ho assolutamente guardato dove stessi mettendo i piedi e non mi ero accorta di essere finita sui binari. Un metro in meno e sarei stata spacciata.
È rimasto solo il suo giornale a terra, presa dalla curiosità lo raccolgo. Leggo il titolo dell’articolo in prima pagina:
Disastro nucleare a Chernobyl, 26 aprile 1986. Ore 1:23 di notte.
Tremila vittime, l’Urrs chiede aiuto all’Europa.
È un giornale di 33 anni fa. E come se le assurdità non fossero ancora concluse, i miei occhi cadono oltre il giornale, finiscono sui miei piedi, sull’asfalto. E finisco per guardarmi attorno. Non ci sono binari dove è appena passato quel treno.
 
Sono tra gli ultimi passeggeri a salire. Il treno stava per chiudere le porte, perciò non ho fatto in tempo ad andare al primo vagone e cercare Kami. L’avrei cercato una volta entrata.
Le porte si chiudono dietro le mie spalle, sono nel vagone numero 8. Non m’interesso nemmeno nel cercare un posto a sedere, volevo solo cercare Kami e parlare. Anche se non sapevo da che parte cominciare. La mente piena di dubbi e pensieri, mi faccio spazio nel corridoio del vagone chiedendomi se fossi io ad aver sbagliato qualcosa. Quando avrebbe potuto dirmelo. Avrebbe potuto dirmi che in realtà non gli andava di accompagnarmi al Parco dei Pesci. Avrebbe potuto dirmi che si è innamorato di un’altra ragazza e che non vuole più avere a che fare con me. Forse sto divagando. Avrà le sue buoni ragioni per comportarsi così. O forse no. Non mi trattengo e una lacrima, scende sulla mia guancia destra.
Sono al vagone numero 5 e non posso andare oltre. La porta che collega questo al vagone 4 è fuori servizio. Rimango pietrificata a leggere quel cartello giallo. Fuori servizio. Inutile farsi prendere dal panico per una cosa simile, perciò torno indietro e mi siedo nel primo posto che trovo. Almeno è vicino al finestrino e questo in qualche modo mi consola.
Prendo il cellulare dalla tasca dello zaino. Dall’ansia non mi ero presa la briga di farlo prima. Accendo lo schermo. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Vado in rubrica e cerco il numero di Kami, tento di chiamarlo. Segreteria telefonica. Butto giù la chiamata e sconfitta sospiro. L’unica cosa che posso fare è lasciare un messaggio. Vado sulla sua chat e rimango ad osservare la conversazione. Leggo uno degli ultimi messaggi che mi ha inviato:
«Ti penso, non vedo l’ora di andare al Parco dei Pesci con te.». Mi chiedo perché avesse scritto così.
Cerco di mantenere la mia mente lucida e di essere fredda, attendo di trovare le parole giuste da scrivergli, ma il tutto sembra tutto offuscato. Non so da che parte cominciare. A questo punto opto per una domanda semplice e concisa ma che, nonostante tutto, mi stringe comunque il cuore e forse non vuol dire nemmeno niente:
«Dove sei?».
 
È passata più di mezz’ora. Un’eternità. Tutto tempo sprecato nel tentare di distrarmi con un po’ di musica, leggendo un libro, scrivendo. Ho anche provato a dormire, non ho chiuso occhio l’ultima notte. Aspettavo che Kami mi chiamasse e mi desse spiegazioni. Mi aspettavo almeno un messaggio che dicesse «Scusami ma stasera sono molto stanco.» oppure «Stasera sono molto occupato col lavoro.». Ma non è arrivato nulla. E per quanto provassi a pensare ad altro non ci riuscivo. Quella notte sembrava non finire mai, come non sembrava finire questo viaggio. Probabilmente avrei dovuto aspettare di arrivare a destinazione per avere spiegazioni. Sempre se lui ci fosse stato. Forse non è già più su questo treno. È sceso alla prima fermata per tornarsene a casa ed andare da quella ragazza lasciandomi completamente sola. Penso sia davvero così.
Mi sento osservata, non solo ora, forse da parecchi minuti. Non ho fatto altro che guardare fuori dal finestrino sforzandomi di pensare ad altro e coprendo la mia faccia da sguardi altrui. Eppure qualcuno non ha smesso di fissarmi. Voglio saperne di più. Mi giro. Un uomo è seduto in diagonale a me e, sì, mi sta guardando. Non ho assolutamente fatto caso alla sua presenza né da quanto tempo sia seduto lì. È un uomo piuttosto anziano, calvo, ha un occhio di vetro. Il suo vestiario non è nulla di eccelso, solo un cappotto nero addosso, dei pantaloni di tessuto grigi e delle scarpe da tennis anch’esse nere. L’unica cosa che lo rende davvero curioso è il colore della sua pelle tendente al grigio. Eppure sembra avere un corpo sano. I nostri sguardi s’incrociano e lui sorride. Per quanto sia solitamente fastidioso e a tratti inquietante avere gli occhi di uno sconosciuto incollati addosso, il suo sorriso mi riporta un senso di sollievo. Appare una persona pacata e in qualche modo mi fa sentire meglio. Dentro di me sento che sta per chiedermi qualcosa. Forse ha visto la mia preoccupazione e ha pensato di aiutarmi dandomi qualche consiglio, molti anziani sembrano tenerci nel dare consigli ai giovani data la loro vita quasi completa. Probabilmente aspettava che mi accorgessi di lui ed attendere il momento giusto per chiedermi cosa non andasse. Nel peggiore delle ipotesi è solo un maniaco che adora fissare ragazze sui treni. Vedo le sue labbra aprirsi pronte a pronunciare qualcosa, è un momento particolarmente bizzarro. Sono curiosa. Sento le sue parole scandite farmi una domanda e ci rimango di sasso. Avevo pensato di tutto, ma mai che mi venisse posta una domanda simile:
«Da quanto tempo stai cercando te stessa?».
 
Vengo immersa da un silenzio assoluto. I rumori del treno, le persone attorno. Non esiste più nulla. Dopo qualche secondo la mia mente comincia a parlare. Cercare me stessa. Non so nemmeno chi sono e che scopo ho in questo mondo. Perché dovrei? Tento di rispondere qualcosa, ma le parole mi si bloccano in gola. Cercare me stessa. La mia testa vaga. Non so che rispondere. L’uomo sembra notare la mia difficoltà nel rispondere, perciò continua a parlare, quasi volesse farmi sentire meno in imbarazzo.
«Prendo spesso questo treno. E spesso osservo la gente. Ce ne sono davvero di tutti i tipi ma tendo a facilitare la cosa dividendoli in tre categorie. I primi li chiamo Lupi, sono quelli del tutto sicuri della propria destinazione, sembrano aver capito ogni cosa della vita a prescindere dall’età che abbiano. Hanno la risposta a tutto e sono totalmente a proprio agio con sé stessi e gli altri. Sono dei capi branco, come i lupi. Ma io noto se la loro sicurezza è una copertura. E spesso è così. Poi c’è la seconda categoria, quella delle Meduse: sono passeggeri che prendono questo treno senza un motivo. Semplicemente vivono il momento. Si lasciano andare dalla corrente, come meduse tra le onde del mare.  E poi ci sono quelli come te che sono una via di mezzo. Spesso si mascherano da lupi. Sanno di avere una destinazione ma non ce l’hanno chiara. Sono in allerta su ogni cosa perché hanno ancora molta confusione. Questa è la categoria delle Lepri.».
Lo osservo. Ancora non ho idea di cosa rispondere. L’unica cosa che mi viene da dire è: «Quindi io sarei una lepre?»
Sorride. «Hai un animo fragile. Hai grandi abilità ma ti senti in un mondo fatta solo di predatori. Perciò scappi, impulsivamente corri verso un rifugio che non sembra mai essere quello giusto. Immagino che questo ti accada anche con le persone.»
Sembra leggermi nella mente. Stranamente non mi sento più insicura rispetto a prima, anzi, sento di poter parlare con quest’uomo senza nascondermi. «Hai ragione e penso sia accaduto di nuovo.»
«La fragilità umana è in aumento. Siamo sempre più sani fisicamente ma psicologicamente diventiamo sempre più di cristallo.»
«Hai ragione.» dico «Eppure rifugiarsi impulsivamente da qualcuno è spesso involontario. Forse… Ricerchiamo noi stessi negli altri. Sbagliando. Oppure cerchiamo di riempire dei vuoti che in realtà possiamo aggiustare solo da soli.»
«Ho sempre saputo che eri una ragazza sveglia.»
Ho sempre saputo?
«Grazie… Ma il fatto è che… Non capisco se abbia sbagliato io qualcosa.»
«Sentiti libera di raccontarmi ogni cosa.»
Gli racconto del mio passato. Del mio rapporto conflittuale con mia sorella. I nostri genitori erano sempre fuori per lavoro e lei, essendo molto più grande di me, mi controllava senza che ci fosse un adulto con noi. Ha sempre approfittato della cosa per sfogare le sue frustrazioni su di me. E questo mi ha reso una persona molto solitaria. Ad osservare tutto in maniera introspettiva, a vivere in un mondo che solo io conoscevo ed a provare le emozioni molto più forte rispetto alla norma. Gli racconto delle mie relazioni passate, del fatto che nonostante tutto non mi sentissi mai del tutto al sicuro, dei tradimenti subiti, di Kami. Che con lui sembrava fosse tutto così perfetto, che finalmente pareva avessi trovato qualcuno che in qualche modo accettasse le mie cicatrici ma che alla fine si è rivelato anche lui un ciclone passeggero nella mia vita.
«Ho lavorato in un centro per sordi una volta» dico «E a volte quando vorrei dire qualcosa ma la mia voce non me lo consente lo faccio nel linguaggio dei segni. Lo conoscono meno persone di quanto credessi. Da un lato direi che è un vero peccato. Dall’altro mi sono sempre sentita libera di esprimermi senza essere del tutto compresa e ciò mi faceva sentire al sicuro. Gli ho sempre detto una cosa senza mai rivelare cosa volesse dire.»
Muovo le mie braccia simulando i gesti.
L’uomo sorride «Ti proteggerò.»
«Conosci il linguaggio dei segni?» dico sgranando gli occhi.
«Ho rischiato la sordità molti anni fa. Pensavo di essere senza via uscita, perciò mi sono anticipatamente imparato le basi del LIS. Per fortuna l’operazione è andata a buon fine ma mi sono sempre divertito nell’impararlo. Sembra una danza con le parole, non credi?»
«Già, è davvero curiosa.»
«E a questo ragazzo hai spesso detto che era tua intenzione proteggerlo?»
«Ogni singolo giorno della mia vita da quando ha iniziato a farne parte.»
«Perché non gliel’hai mai detto a voce?»
Abbasso gli occhi e mi osservo le mani. Questa domanda in qualche modo è dolorosa. «Forse… Non volevo che mi si spezzasse di nuovo il cuore. E dirglielo a voce sarebbe stata una responsabilità troppo grande»
«Le responsabilità sulle persone sono le più complesse che ci siano.»
Restiamo in silenzio per qualche minuto. Non so come ribattere e forse è meglio che la conversazione finisca così. L’altoparlante del treno si accende, dice che presto saremo scesi alla mia fermata. Mi risveglio come da un sogno e prendo il cellulare. Sono passate due ore e nemmeno me ne ero accorta. Alzo lo sguardo verso il signore che mi sorride. Esclama
«È la tua fermata?»
«Già. Non pensavo fossero già passate due ore. Significa che ho parlato per parecchio tempo dei miei problemi.»
«Non importa, è stato comunque piacevole chiacchierare con te. Non è da tutti i giorni trovare qualcuno con cui fare conversazioni così interessanti»
Non trattengo un sorriso «Sì. Ti ringrazio per la compagnia.»
«Nessun problema. Direi che qui il mio lavoro è terminato.»
Non capisco cosa volesse dire. Ma rispondo con un sorriso. Mi alzo e rimetto lo zaino sulle spalle. Lo ringrazio di nuovo accennando un inchino e mi giro verso la porta d’uscita. Faccio qualche passo e sento l’uomo dire le sue ultime parole prima di separarci per sempre.
«Un’ultima cosa. In queste due ore non ci siamo nemmeno presentati. Sappi che, se mai ci rivedremo, puoi chiamarmi Signor Sugar.»
Mi giro verso di lui e pronuncio il mio nome «Saima».
 
Il Parco dei Pesci si trova poco più avanti. La pioggia cade a catinelle e io sono senza un ombrello, perciò devo accontentarmi del cappuccio. Sono scese pochissime persone alla mia stessa fermata. Nessuna traccia di Kami, Eppure non mi sentivo sola. Da lepre mi ero forse trasformata in medusa? No... Conoscevo la mia meta. Forse mi ero trasformata in un lupo. Chissà. Ripenso al Signor Sugar.
Cammino completamente sola verso il cancello del parco, vado avanti ma sembra che io stia completamente sbagliando strada. Forse ricordo male il posto preciso. Utilizzare il navigatore del telefono è del tutto inutile. Non prende. Smette improvvisamente di piovere ed una fitta nebbia comincia a diffondersi attorno a me. Mi ritrovo immersa in un luogo totalmente grigiastro, privo di vista e di suoni. Eppure non sono spaventata. Anzi mi sento sollevata. Penso, finalmente un po’ di pace. Non posso fare altro che andare dritta, sempre più avanti. Da qualche parte sarei pur arrivata. La nebbia comincia ad assottigliarsi e riconosco qualcosa. La bambina del mio passato rinvigorisce nella mia anima. La fontana di Zucchero. È proprio lì, davanti a me. Accelero il passo fino a renderla una corsa, in brevissimo tempo ci sono. È identica a come la ricordavo. A parte il fatto che ora è priva di acqua e quindi di pesci. È una fontana completamente asciutta. L’unica acqua al suo interno sono le piccole gocce della pioggia che c’è appena stata qualche minuto fa. Intanto la nebbia si è totalmente dissolta e posso finalmente guardarmi attorno. I due alberi sono lì, privi di foglie, ma ci sono ancora. La mia vista rivive ogni dettaglio. I due ragazzi che leggono poesie e fanno funambolismo, i pavimenti pieni di disegni col gesso, i prati pieni di persone che si rilassano e parlano. È tutto meraviglioso. Ma solo una cosa non rientra affatto nei miei ricordi. Il tavolo su cui disegnai Zucchero non c’era più, al suo posto c’è un edificio. L’insegna dice Scuola elementare. Sembra abbandonato da parecchio tempo. Con la manica pulisco il vetro di una finestra in modo da poterci guardare dentro. All’interno ci sono dei banchi di scuola impolverati. Alcuni hanno ancora dei libri aperti. Penne e matite a terra. Sembra che sia stato tutto lasciato così dopo una fuga. Appeso al muro, tra l’alfabeto e dei disegni, c’è un calendario. È fermo all’aprile del 1986.
Ripenso al giornale.
Una piccola mano tocca la mia spalla. Sobbalzo ed emetto un grido. Mi giro. Davanti a me c’è un bambino. E riconosco quegli occhi azzurri. È quel bambino. Lo stesso che ho incontrato in autobus. Rimango ad osservarlo pietrificata non sapendo più cosa pensare. Le uniche parole che riesco a pronunciare sono
«Sei da solo? Dov’è la tua mamma?»
Rimane in silenzio. Non capisco se io abbia detto qualcosa di sbagliato. L’unica cosa che fa è allungare le mani e porgermi un pezzo di legno. Lo afferro con delicatezza. Balbetto un grazie. Il bambino risponde con un gesto. Il linguaggio dei segni. Dice prego. E si allontana. Giro tra le mani questo pezzo di legno e lo riconosco. È il pezzo del tavolo su cui avevo disegnato Zucchero e scritto il suo nome. Ma il mio cuore sobbalza. Perché c’è scritto qualcos’altro sotto. E ricordo perfettamente di non averlo fatto io. Nonostante tutto la mia reazione è un sorriso e una gioia al cuore che non sentivo da tanto tempo.
Ti proteggerò.
   
 
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