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Autore: Drown_    28/03/2021    1 recensioni
Sul cuscino ancora quel piccolo foglio accartocciato con su scritto, con una grafia netta e marcata, il testo della canzone che avevo composto durante la notte sul suo letto.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NOTA DELL'AUTRICE:
Questo racconto è ispirato alle ambientazioni e alle tematiche del video e del testo della canzone "Teardrops" dei Bring me the Horizon.



PROLOGO 
Guardai quella rosa che stringevo ancora in mano e pensai che, sebbene fosse ancora bellissima, era consapevole quanto me di essere stata condannata nel momento in cui era stata colta.
Uscii dal bagno completamente nuda, dopo essere rimasta immersa nell'acqua calda della vasca un tempo immemore, e percorsi scalza il corridoio di parquet nero che portava alla camera da letto.
Tutto ora sapeva di morte.
La tenda era tirata come sempre, la lampada sul comodino illuminava debolmente di luce ambrata il flacone di Lexotan caduto per terra, mentre i mozziconi spenti di sigarette traboccavano dal posacenere appoggiato su una pila di libri accatastata a fianco al letto. 
Fu in quel momento che notai sul cuscino un foglio bianco con su scritto qualcosa, una grafia composta da linee nette e marcate. La sua.
Girai il foglio sul retro accarezzando con la mano la carta, erano state incise con così tanta foga da lasciarne il solco sulla superficie come a volerla deturpare indelebilmente.
Mi girai di scatto appena in tempo per notare una nube nera, terribilmente vicino al mio viso, che scompariva fugace dalla mia vista. 
Scontrai il comodino e ribaltai la lampada sul pavimento; se fino a quel momento avevo cercato di illudermi, quella era stata la prova di quanto tutto fosse vero e non potevo far altro che rassegnarmi.
Mi passai una mano sul viso accasciandomi a fianco al flacone ormai vuoto, le dita intrappolate fra i capelli rossi ancora bagnati. 
Avrei voluto piangere tutte le lacrime del mondo, ma non sentivo più niente.


CAPITOLO 1
Save me from my self, don't let me drown.
Salvami da me stesso, non lasciarmi affogare.

La canzone finì e, con lei, anche il concerto.
I fans esplosero ed Oliver gli sorrise, freddo e distaccato.
Percorse, con sguardo vitreo, i volti delle persone sotto il palco protese per sfiorargli una mano o un lembo di maglietta, poi si sentì strattonare il braccio da Jordan che lo esortava a seguirlo nel backstage.
Lì, Kean si tolse la tracolla del basso dalla spalla. 
"Abbiamo spaccato, raga!" Disse soddisfatto.
Matt entrò dopo di lui sprofondando sul divano con i piedi sul tavolo.
"Chi mi passa una birra? Sono stravolto." 
Lee rispose al bassista con un'alzata di spalle sfilandosi, a sua volta, la chitarra ed aprendo il frigo. "Si, è andata benino dai. Chi altri vuole bere? Jordan, Oli..." Afferrò una bottiglia e la lanciò a Matt che la prese maldestramente al volo, maledicendolo.
"Si, grazie." Rispose il tastierista all'amico sedendosi a braccia conserte e scrutando torvo Oliver.
Il frontman si era sdraiato, in maniera decisamente poco cortese, sul pavimento. Si passò una mano sul viso sudato e chiese una sigaretta che gli venne offerta, assieme all'accendino, dal suo chitarrista. Il cantante si mise a sedere a gambe incrociate, fece un paio di tiri e la gettò per terra. Poi si alzò e se ne andò mollando li gli amici senza dare spiegazioni.
 "Mh? Cosa mi sono perso?" Chiese Kean con espressione interrogativa sul volto.
Jordan alzò gli occhi al cielo esasperato.
"Quando si parla di Oliver Scott Sykes niente è mai di facile comprensione."
Lee annuì ficcandosi una sigaretta in bocca e frugandosi nelle tasche.
"Mi ha fatto l'accendino."

Oliver si richiuse la porta del bagno alle spalle estraendo qualcosa dalla tasca, quando sentì bussare.
"Oli! Possiamo parlare un attimo?" Era la voce di Jordan. 
Il tatuato sbuffò.
"Posso avere almeno un po' di privacy mentre cago o devo chiedere il permesso?" Rispose scocciato.
"Apri." 
Lui ci pensò su un attimo, infilò nuovamente tutto in tasca e abbassò la maniglia ritrovandosi faccia a faccia con il suo interlocutore. I due si osservarono per qualche secondo poi Sykes lo invitò a parlare.
"Qual è il problema?" Chiese tamburellando con le dita sullo stipite.
"Dimmelo tu." Rispose Jordan.
"Eh? Di cosa parli?"
"Non provarci, Oli." Lo incalzò il moro penetrandolo con lo sguardo. Sebbene fosse l'ultimo arrivato, riusciva a capirlo meglio di chiunque altro. "Che ti succede? E' da qualche tempo che sei strano, beh...più del solito. Non ti ho chiesto niente perché eravamo in Tour, ma oggi era l'ultima data."
"Non c'è nulla che non va, Jord. Ho dormito poco in questo periodo, sono stanco per le date e ora vorrei farmi una cazzo di cagata in santa pace. Quindi, se permetti..." Stava per richiudergli la porta in faccia ma l'amico lo bloccò.
"So perfettamente che hai la testa da un'altra parte, ma vorrei fossi tu a parlarne." Calò il silenzio.
Il ragazzo non sapeva cosa rispondere. Conosceva benissimo Jordan, e il fatto che fosse molto intelligente certo non era una novità. Stava per controbattere quando Lee, Matt e Kean comparvero sulla soglia.
"Cosa c'è qui, una riunione di condominio? Dai Syko, smettila di fare l'emo depresso. Voglio andare a sbronzarmi!" Esordì il batterista.
Oliver scoccò un'occhiata al tastierista che ricambiò il suo sguardo, poi uscì dal bagno e si incamminò verso l'uscita.


CAPITOLO 2 
Quella sera i Bring me the Horizon bevvero come non mai, addormentandosi alle prime luci dell'alba.
Persino Oliver prese sonno non appena si sistemò sotto le lenzuola. 
Era sdraiato comodamente sul fianco sinistro come era solito dormire, quando udì un sussurro che lo costrinse ad aprire gli occhi ritrovandosi sott'acqua. 
Attorno era così buio che poteva intravedere appena le bolle d'aria uscirgli dalle narici. Nuotò per raggiungere la superficie, ma qualcosa lo tirò giù. Provò ad urlare per chiedere aiuto con il solo risultato di emettere un suono soffocato dalla bocca, poi avvertì i polmoni gonfiarsi di qualcosa che non era ossigeno. Stava affogando.
Il sussurro si fece più forte. 
Non aveva idea di chi fosse, sebbene quella voce ora lo stesse chiamando per nome. Aveva lunghi capelli rossi e occhi di un azzurro così chiaro da sembrare ghiaccio. 
"Salvami. Oliver, Oli..."
"...ver! Oli cazzo, svegliati!" Il ragazzo si sentì schiaffeggiare le guance e si ritrovò davanti l'azzurro delle iridi di Jordan. 
"Maledizione a te! Hai gli stessi occhi, per un attimo pensavo fossi..." Disse il cantante sfregandosi la faccia assonnata.
"Eh? Ma di che stai parlando?" Chiese il moro.
"Lascia stare." Rispose il tatuato sbadigliando.
"Stavi sognando, eri così agitato che mi sono preoccupato." Jordan si alzò dal letto dell'amico e si diresse al frigo del camper per recuperare una birra che poggiò sul tavolino vicino al divano.
Il cantante si alzò dal suo giaciglio e si andò a sedere vicino al ragazzo che gli offrì un sorso, ma lui lo rifiutò.
Stavano cominciando i dolori. Cercò di nascondere una smorfia ma all'altro non sfuggì.
"Stai male...?" Chiese Jordan titubante.
"Sto bene." Fece lui secco.
Silenzio.
"E' colpa di quella merda, non è vero?" Bevve, e ad Oliver mancò un battito. 
"Di cosa...?"
"Oh, piantala. Credi davvero non me ne sia accorto?"
"...lo speravo." Rispose con tono privo di emozione.
"Sei il mio migliore amico!" Controbatté Jordan.
"...lo so." Anche per lui era lo stesso ma, come per ogni tipo di legame, faticava ad ammetterlo. Abbassò la testa con le mani fra i capelli. "...non ce la faccio più, Jord." 
Jordan posò la bottiglia sul tavolo e mise una mano sulla spalla del ragazzo, pronto ad ascoltarlo. 
"Smettila di chiuderti in te stesso. Sono qui per aiutarti, non per giudicare le tue scelte."
"Non puoi aiutarmi. Mi sta divorando da dentro, ogni giorno sprofondo sempre più nel buio con la consapevolezza che non vi sia uscita."
"Da quanto tempo va avanti questa storia?"
Oli scosse la testa.
"Non lo so, qualche mese forse. Cinque, sette." 
"Vuoi qualcosa per i dolori?"
"Credi che non ci abbia già provato?" 
Nel suo letto, Matt russò sonoramente.
"Capisco..."
"...no, tu non capisci." Oliver si alzò ed iniziò ad armeggiare con i jeans.
"Che stai facendo?" Chiese il moro corrucciando la fronte.
"...cerco di farti capire." Estrasse dalla tasca quel piccolo barlume di speranza fittizio e fu allora che, il tastierista, lo vide farsi per la prima volta.
Era una scena a cui mai avrebbe voluto assistere, soprattutto se il protagonista di quel brutto film era la persona che reputava il suo migliore amico. Jordan rimase li, fermo ad osservarlo, prosciugato da ogni pensiero. In quel momento si sentiva di averlo abbandonato a se stesso per tutto quel tempo, condannato a saziare la fame di un demone troppo potente da combattere per un ragazzo solo. 


CAPITOLO 3 
Nel pomeriggio, finalmente, Oliver riuscì ad inserire la chiave nella serratura del suo appartamento.
Dopo essersi aperto con il suo migliore amico sentiva un peso minore addosso, ma era ben consapevole che il suo percorso era appena all'inizio e sarebbe stato in salita, più difficile che mai.
Decise che si sarebbe fatto un bagno caldo per rilassarsi un po', poi avrebbe preso la sua penna e scritto. 
Si diresse verso la porta ed entrò.
Lo specchio rifletteva un viso stanco e scavato con ombre violacee che contornavano i suoi occhi verdi e tristi.
Sospirò e si tolse la maglietta nera della Drop Dead che indossava rimanendo a petto nudo. Era molto magro. 
Gran parte del merito lo doveva alla sua naturale struttura fisica, ma molto era dipeso dall'uso eccessivo di eroina che gli annullava il senso di appetito.
Con le dita percorse i solchi delle costole sul torace, completamente inchiostrato, e si stupì di quanto fossero marcati. Diede la schiena allo specchio e ruotò il rubinetto della vasca sul getto caldo versando una dose abbondante di bagnoschiuma. In breve tempo la stanza si riempì del profumo di muschio bianco e vapore, appannando completamente i vetri della finestra. 
Si tolse anche il resto degli indumenti e si immerse completamente nella schiuma, il gomito sinistro appoggiato al bordo della vasca mentre l'avambraccio destro penzolante fuori sorreggendo con la mano una sigaretta. I suoi capelli corti a metà neri e verdi, si erano inumiditi, lasciando che qualche gocciolina di tintura gli scivolasse lungo il collo.
Era bello lasciarsi avvolgere dolcemente da quel caldo abbraccio, finalmente poteva concedersi un po' di tempo per se stesso senza la fretta di dover partire per qualche Tour in giro per il mondo. Chiuse gli occhi e si godette quel magico momento.
Era ancora immerso nell'acqua calda in quel bagno dalle piastrelle bianche, quando decise di cambiare posizione per dare sollievo ai glutei che iniziavano ad intorpidirsi.
La sigaretta gli era scivolata dalle dita finendo sul pavimento, così ritrasse il braccio per appoggiarsi al bordo e inorridì nel vedere un profondo squarcio sulla mano destra insanguinata. Allarmato si guardò attorno notando che lo specchio era stato rotto, ma non ricordava di averci tirato un pugno.
"Che cazz..." 
Poi, come spinto da qualcuno all'altezza dello sterno, finì con la testa sott'acqua. 
Ancora una volta non vedeva nulla attorno a se, tranne le bolle che gli uscivano dalle narici. Ancora una volta provò a risalire verso la superficie, ma qualcosa lo ritirò giù.
Poi, nella penombra, scorse di nuovo quei lunghi capelli rossi e due occhi di ghiaccio.
"Di nuovo tu! Smettila di perseguitarmi!"
Ma lei si limitò ad osservarlo.
"Chi sei?" Tentò di chiederle. La giovane mosse le labbra in un sussurro appena percepibile alle sue orecchie e, a quelle parole, il ragazzo avvertì la strana sensazione di venir risucchiato via.
Spalancò gli occhi e si ritrovò sdraiato nella vasca con il gomito sinistro poggiato al bordo, il braccio destro penzoloni con la sigaretta ormai spenta fra le dita, e lo specchio ancora intatto.


CAPITOLO 4 
Da quelle parti, in periferia, i tramonti erano magnifici da vedere sdraiati sull'amaca appesa nel patio di quella casa costruita su due livelli. L'appartamento sopra il suo era ancora disabitato e la zona si affacciava su un vasto prato lontano dalla strada principale.
Il cantante si cacciò addosso una giacca di jeans smessa con maniche un po' troppo lunghe per le sue braccia nonostante il suo metro e ottanta, e uscì nel pergolato con una sigaretta in bocca e gli anfibi slacciati.
Il cielo era dipinto di acquerello arancio, rosa e azzurro, mentre i ciuffi d'erba cambiavano intensità con la brezza d'inizio ottobre come un tappeto di velluto sul quale passi la mano. Si sedette sull'amaca e si lasciò dondolare.
Era forse la droga a fargli avere quelle strane allucinazioni? O forse stava impazzendo?
Fece spallucce e trascrisse, in una grafia netta e marcata, poche frasi.

Suicidal, violent, tragic state of mind
Lost my halo, now I'm my own anti-christ
Oh, God, everything is so fucked, but I can't feel a thing
The emptiness is heavier than you think
Stato mentale suicida, violento e tragico
Ho perso la mia aureola, adesso sono l’anticristo di me stesso
Oh, Dio, va tutto a puttane, ma non sento più niente
Il senso di vuoto è più pesante di quanto immagini

Espirò il fumo dalle narici e iniziò a disegnare distrattamente dei ghirigori a lato del foglio, quando la sua attenzione venne catturata dal rombo di un motore.
Rimase ad osservare la vettura nera avvicinarsi in quella direzione, dapprima pensò si trattasse di qualche componente della band, ma poi si accorse di non riconoscere il mezzo.
La macchina si fermò a fianco alla sua a pochi metri dal patio e la portiera si spalancò rivelando una ragazza che non conosceva.
Era molto magra, con lunghi capelli rosa fino al fondoschiena e occhiali da sole tondi che le coprivano gran parte del viso. Portava jeans aderenti completamente strappati, anfibi di due colori diversi e una giacca di pelle con maniche tirate su fino ai gomiti che lasciavano intravedere le braccia completamente tatuate.
Osservò il piano superiore della casa con le mani sui fianchi, poi sembrò accorgersi della presenza del ragazzo e alzò un braccio in segno di saluto. Oliver fece altrettanto.
"E' questo il 17?" Chiese lei indicando l'abitazione.
Lui si limitò ad alzare il pollice, spense il mozzicone di sigaretta in un posacenere poggiato per terra e rientrò, lei sbuffò infilando la testa dentro la macchina per spegnere lo stereo e cercare le chiavi.
"Simpatico il tipo." Constatò fra se e se. 
Poi si diresse al bagagliaio e tirò fuori un borsone dall'aria pesante, se lo ficcò in spalla senza troppi riguardi e si avvicinò alla scala nel pergolato che portava al piano superiore.

Diverse ore dopo, quando il buio era già calato, Oliver annoiato sul letto, vide la luce della scala esterna accendersi. Si alzò e, dallo spiraglio della sua tenda, vide la ragazza del piano superiore seduta sullo scalino di legno intenta a fumare una sigaretta.
Fece passare dieci minuti poi decise di raggiungerla.
"Ciao." Disse lui accendendosi una Lucky Strike.
"Mi hai fatto prendere un colpo." Sobbalzò lei rispondendo al saluto con un gesto timido della mano. "Spero non sia un problema che mi sia seduta qui."
"Tranquilla, puoi starci quanto vuoi. Puoi usare anche l'amaca se ti fa piacere, era già li quando sono arrivato." 
"Grazie." Rispose lei. "Vivi qui da tanto?"
"Tre mesi, circa." Disse lui semplicemente, poi per qualche minuto, calò un silenzio imbarazzante in cui la ragazza si ritrovò a pensare che non fosse un tipo molte loquace.
"Sono Oliver."
Lei fece per guardarlo in faccia, ma il viso del ragazzo era completamente rabbuiato. Si alzò in piedi ritrovandosi sovrastata di almeno venti centimetri, portava un anellino al setto nasale e altri due piercing agli incavi laterali delle labbra, ma la cosa che più saltava alla vista erano i suoi occhi così chiari da sembrare di ghiaccio. Era davvero molto bella.
"Chelsea, piacere." Si presentò, e ad Oliver andò il fumo di traverso.
"...co-come, scusa?" Chiese lui sperando di aver capito male.
"Mi chiamo Chelsea." Ripeté titubante. "...stai bene?"
"Si...si, hai...hai un bel nome." Rispose lui cercando di sviare il discorso. Si avvicinò alla colonna del pergolato ritrovandosi con metà viso finalmente illuminato.
Chelsea lo osservò incredula.
"...un momento ma...tu...hai detto Oliver?"
"Ehm, si?!" Rispose lui senza capire.
"...quell'Oliver?" Mosse un passo verso di lui che la guardò con un sopracciglio alzato.
"NO! Non ci credo...sei il cantante dei Bring me the Horizon!" Disse a se stessa portandosi una mano alla fronte.
"...ah, si." Rispose con un'alzata di spalle.
"Che figura! Come ho fatto oggi a non rendermene conto?" 
"Chissà che dramma." 
"No, io...non puoi capire." Era tutta agitata e questo strappò un sorriso al frontman. "E tu nemmeno ti sei accorto che eravate a bomba nello stereo della mia macchina?"
"Ah, ma pensa! La mia nuova vicina è una mia fan!" La prese in giro.
"Dai, non è possibile. Oliver Sykes. Oggi la prima cosa che ho pensato parlandoti è stata quanto fossi antipatico." Rispose sarcastica, lui rise. 
"Beh si, non sono stato molto simpatico. Mi dispiace, ero un po' provato dal rientro da una data e distratto da vari pensieri."
"Non so mica se ti perdonerò così facilmente!" Fece ironica.
"Ah, davvero? Siamo rancorose. Bene. Vorrà dire che, per farmi perdonare visto che sei un nostra fan, ti inviterò in sala prove."
"Non prendermi in giro." L'espressione spavalda di lei mutò in quella di una bambina al quale era appena stato promesso un enorme lecca lecca.
"Hai da fare domani?"

Oliver scese dalla macchina seguito da Chelsea e, insieme, raggiunsero una porta verniciata di rosso. Dentro c'era una stanza piuttosto ampia con un enorme tappeto nero sul pavimento, dei divanetti dello stesso colore erano disposti attorno ad un tavolino ricolmo di tablature e testi, televisione e Play Station troneggiavano sopra un mobile, e un frigo pieno di ogni bibita era posizionato a fianco ad altre due porte.
"Ti va una birra?" Chelsea accettò di buon grado.
In quel momento la porta del bagno dietro di lei si spalancò e ne uscì Jordan che la mancò di pochi millimetri.
"Cazzo! Tutto a posto?" Le chiese, poi notò Oliver intento a prendere dal frigo una birra per l'ospite e una bottiglietta d'acqua per se. "Potevi anche avvertire che fossi arrivato e soprattutto che portassi gente, magari evitavo di rischiare di ucciderla! Scusami, avere a che fare con Oli vuol dire essere consapevoli che vive costantemente fra le nuvole. Sono Jordan comunque."
Lei gli sorrise imbarazzata. "Si, so chi sei. E' assurdo vedere anche te dal vivo." Il ragazzo la guardò con un sopracciglio alzato.
In quel momento, sentendo delle voci, uscirono dallo studio anche Matt, Kean e Lee.
"Oh, guarda chi si degna di presentarsi alle prove, il nostro cantante! Stavamo cominciando a pensare di sostituirti con la soave voce di Lee, Olo. Ma ahimè, hai distrutto i nostri piani." Lo prese in giro Matt, Kean soffocò una risata e il chitarrista si portò una mano alla faccia scuotendo la testa. Poi il batterista notò la ragazza e un sorrisetto malizioso comparve sul suo viso. "Aah, ecco dove eri sparito stronzetto! Beh, per una una così sei perdonato."
Oliver stappò con non curanza la bottiglietta, ne bevve un sorso e gli mostrò il dito medio.
"Sempre elegante Matt." Disse Lee.
"Porti la tua ragazza e nemmeno ce la presenti?" Questa volta fu Kean a parlare.
"Se non aveste cominciato a sparare cazzate a raffica ve l'avrei già presentata. Lei è Chelsea e non è la mia ragazza, si è trasferita nell'appartamento sopra il mio." Poi si rivolse alla sua ospite. "Loro immagino tu sappia già chi sono."
"Sei il solito fortunato Oli, hai pure la vicina figa." Constatò il bassista affranto. Oliver rispose con un sorrisetto.
"Beh, ragazzi. Abbiamo un sacco di lavoro da fare e stiamo facendo tardi..." Cominciò Jordan riportando tutti alla realtà.
"Che palle Jord, perché devi sempre essere così diligente?!" Oli giocherellò distrattamente con il tappo e si incamminò dentro lo studio.
"Perché se dovessimo fare affidamento su di te saremmo tutti attaccati alla Play!" Lo sgridò ridendo, il moro. 


CHELSEA
Fu un'emozione unica vederli suonare dal vivo.
Nessuno se ne era reso conto probabilmente, ed io non ero certo la persona che andava a raccontare in giro quello che le passasse per la testa con facilità, ma la gioia che mi avevano regalato quelle due ore era andata ben oltre la mia immaginazione.
Mi era capitato di passare alcuni momenti spiacevoli nei miei trent'anni, come tutti d'altra parte, la vita non fa altro che bussarti alla porta e lasciarti un pacco contenente solo ostacoli che devi imparare a superare. Spesso i bambini si affidano ai genitori in quei momenti e, quando crescono, agli amici. 
Io mi affidavo alla musica considerandola come l'unica persona al mondo in grado di comprendermi senza aprir bocca, abituata da sempre a sopprimere i sentimenti pur di non apparire debole.
Oliver era la voce che urlava per me e che non mi lasciava affogare fra i miei tormenti.

Save me from myself, don't let me drown.
Salvami da me stesso, non lasciarmi affogare.


CAPITOLO 5
"Ehi..." Quell'esclamazione giunse alle orecchie della ragazza come da un universo lontano. "Stai bene?" Le chiese Oliver preoccupato inginocchiandosi davanti a lei.
Chelsea tornò al presente risvegliata da un incubo lunghissimo.
"Si, perché?"
"Stai piangendo." Il cantante le raccolse una lacrima dalla guancia con l'indice. 
"Sto bene, mi deve essere entrato qualcosa nell'occhio. Vado un attimo a prendere una boccata d'aria, voi continuate pure." Ed uscì frettolosamente, era entrata talmente a fondo ai suoi pensieri da non essersi nemmeno resa conto delle lacrime che avevano iniziato a sgorgare incontrollate. 
"Vedi? Fai schifo Olo. Lee, sei ufficialmente il nostro nuovo cantante." Disse Matt e il chitarrista gli lanciò contro il plettro.
"Direi che per oggi abbiamo finito. Va da lei Oli." Jordan iniziò ad armeggiare al computer.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Praticamente lanciò il microfono sull'asta, afferrò la bottiglietta d'acqua e si fiondò fuori dalla sala.
Calò il silenzio.
"...è fottuto." Disse Kean togliendosi il basso dalla spalla.
"Si, anche io ho avuto quell'impressione." Rispose Lee distrattamente, seduto sull'amplificatore spento e suonando un motivetto stupido con la chitarra.
"Vicina un cazzo." Matt fece roteare le bacchette tra le dita.
"...che c'è? Perché mi fissate?" Chiese Jordan da dietro il portatile.
"-Va da lei Oli-" Cinguettò Kean. "Figurati se tu non sai nulla, sei il grillo parlante di Syko!"
"Ne so quanto voi." Tagliò corto lui chiudendo con uno scatto il pc.

Oliver trovò Chelsea fuori a fumarsi una sigaretta con lo sguardo fisso. Quando lo vide arrivare, tuttavia, un sorriso le illuminò il viso.
"Pausa sigaretta?"
"No, abbiamo finito." Disse lui sorseggiando dalla bottiglia.
"Siete stati fantastici."
"Matt non la pensa come te, dice che Lee è ufficialmente il nuovo cantante dei Bring me the Horizon." Rispose ironicamente, e la ragazza rise.
"Grazie per avermi fatto venire qui oggi, sei stato molto carino." Chelsea gettò la sigaretta per terra e la spense con il tacco dell'anfibio.
"Puoi venirci quando vuoi." Per un attimo si guardarono dritti negli occhi, poi Oliver si versò un po' di acqua sulla mano e gliela schizzò in faccia.
"Siamo simpatici." Disse lei asciugandosi la guancia. 
In quel momento uscirono anche gli altri ritrovandosi davanti una scena a cui non erano soliti assistere: il loro cantante che giocava come un ragazzino ad inseguirsi con Chelsea.
"...si, è fottuto." Concluse Jordan.


CAPITOLO 6
Era sera ormai quando la macchina si fermò davanti all'abitazione.
Oliver spense il motore, ma invece di scendere si girò e la baciò.
Chelsea ebbe appena il tempo di realizzare quel gesto che lui si era già staccato, rimanendo però a pochi centimetri dalla sua bocca con una voglia insaziabile di accentuare quel contatto. Aveva sperato di farlo dal momento in cui si era ritrovato a fissare quegli occhi carichi di lacrime in saletta, ma nella sua testa vorticava una serie di pensieri così contrastanti da non esserne tanto sicuro.
Era profondamente attratto da quella ragazza, sia sessualmente che emotivamente, cosa che non accadeva da tempo, ma era anche ben consapevole della sua situazione.
In altri tempi non si sarebbe posto troppe domande sul dopo, avrebbe semplicemente agito, ritrovandosi incastrato nell'ennesima avventura notturna che avrebbe dimenticato in pochi giorni. Ma era davvero così che voleva andasse a finire questa volta? 
Non la conosceva, eppure era tutto così fottutamente bello in sua presenza. 
Perfetta da far rabbia e indipendente. 
Lui, invece, era solo un ricordo di se stesso. Una marionetta intrappolata nelle mani di un burattinaio dalle lunghe dita nere e affusolate, che muoveva i fili della sua vita come un ragno. Cosa mai avrebbe potuto offrirle se era schiavo di qualcosa che andava ben oltre la sua capacità di raziocinio? 
Chelsea gli passò un braccio attorno al collo per riavvicinarlo a se, ma questa volta Oli vacillò combattendo contro una decisione troppo egoista per essere presa. In bocca sentiva un amaro così forte che avrebbe potuto quasi avvelenarlo, approfondire quel bacio voleva dire trascinare pure lei in quella tela invisibile di depressione e pensieri malsani. 
"Cosa c'è?" Sussurrò lei.
"Niente." Fece secco distogliendo lo sguardo da quegli occhi.
"Non direi."
"C'è che sono molto complicato."
"Aah, capisco. Sykes e i suoi misteri." Sventolò le braccia per accentuare il tono sarcastico. "Chi non lo è a modo suo? Non dare voce ai propri pensieri ti rende complicato solo agli occhi di chi è abituato ad arieggiare continuamente la propria bocca, ma non a chi vive nel tuo stesso limbo. Da cosa sei tormentato?"
"Cosa ti fa pensare che sia tormentato da qualcosa?"
"Semplicemente osservandoti. Sul palco sei brillante e sai reggere molto bene la scena, ma quando parli e scrivi sei un'altra persona."
"I testi sono semplici parole adattate ad una melodia."
Chelsea alzò le mani in segno di resa. "Come preferisci. Non starò certo qui a cercare di capire una persona che non vuole essere compresa. Ti dico solo quello che vedo, non mi devi nessuna spiegazione." Afferrò il cellulare dal cruscotto e scese dalla macchina. Oli fece lo stesso afferrandola per un braccio.
"Aspetta..." Lei si girò a guardarlo leggermente scocciata. "...si, è così, hai ragione. A volte vorrei solo che..."
"...qualcuno capisca perfettamente di cosa stai parlando senza dover dire una parola?" Lo interruppe.
"...già." Riuscì solo a rispondere lui.
"So perfettamente cosa vuoi dire. Motivi diversi ma stessa sensazione." Lo rassicurò, ed Oli abbozzò un sorriso. "Allora. Pensi ancora di volerti deprimere tutto solo sta sera, o credi che potremmo farlo assieme?"


OLIVER
Ero stranamente riposato e rilassato, non ricordavo quale fosse stata l'ultima volta che avevo dormito così bene.
La luce bianca mi stuzzicava le ciglia ma non avevo intenzione di aprire gli occhi perché volevo assaporare ancora qualche secondo quella sensazione di libertà. 
Il lenzuolo, caldo e spiegazzato, sapeva ancora di passione sotto il palmo della mia mano che allungai per accarezzare quei morbidi capelli rosa adagiati sul cuscino.
Mi rispose una voce, la sua.
Come si poteva non sorridere a quegli occhietti assonnati?
D'istinto l'attirai a me per abbracciarla. I nostri corpi nudi erano due tele inchiostrate di storie diverse, ma che insieme si intrecciavano perfettamente.
Erano due giorni che non mi facevo.
Il fisico era ovviamente malato, ma la mente viaggiava su un treno diretto verso una nuova meta che si chiamava Chelsea.
Le sfiorai una guancia e lei mi sorrise timidamente, come una bimba.
Era tutto quello che volevo, per la prima volta avrei congelato un momento per non dimenticarne nemmeno un secondo.
Le salii sopra e la baciai, ancora e ancora, perché ogni volta ne volevo di più. 
Lei mi cinse la vita con le gambe e il lenzuolo mi scivolò di dosso scoprendomi la schiena nuda.
Quella era l'unica droga al quale mai avrei voluto rinunciare.


CHELSEA
Era un sogno o davvero la realtà?
Non avrei mai immaginato di sentirmi così legata a qualcuno che conoscevo appena. 
Essere in sua presenza mi faceva sentire finalmente al sicuro, libera da ogni filtro per preservarmi.
Per anni avevo soppresso le mie emozioni verso gli altri, tanto da arrivare al punto che ogni minimo gesto d'affetto mi nauseava. Ma con lui era diverso.
In quel momento, appena svegli, venire abbracciati da chi da sempre era stato al tuo fianco anche se inconsapevolmente, aveva qualcosa di magico.
Avrei voluto perdermici fra quelle braccia, quel suo respiro caldo sul mio collo e il battito del suo cuore che si confondeva al mio.
Tuttavia potevo scorgere mille paure in quegli occhi verdi che mi guardavano con dolcezza, tanto io quanto lui eravamo entrambi terrorizzati da qualcosa che ci aveva cambiato nel profondo, ma in quel piccolo universo fatto di lenzuola di raso, eravamo completamente padroni di noi stessi. Non sapevo se quel sentimento reciproco, nato per caso, sarebbe stato duraturo, ma era arrivato al momento giusto.
Un solo sguardo, mille parole.
Non mi serviva altro. 


CAPITOLO 7
Erano passati sei mesi da quando Chelsea si era trasferita nell'appartamento sopra quello del cantante, e il mondo per lui stava cambiando.
Si svegliava al mattino con una luce diversa negli occhi, sorrideva e aveva iniziato a mangiare in maniera più sana.
Passavano molto tempo assieme, tanto che il ragazzo aveva preso l'abitudine di lasciare la chiave della porta d'ingresso inserita nella serratura esterna in modo che lei potesse entrare a proprio piacimento.
Spesso capitava che la portasse in saletta con se perché ormai anche lei aveva raggiunto un certo tipo di confidenza con tutti. 
Gli altri la trattavano come la sua ragazza, nessuno dei due aveva nascosto quella frequentazione, ma tanto l'uno quanto l'altra erano riluttanti dall'ammetterlo a loro stessi.
 
"Oli, hai concluso il testo dell'ultimo pezzo?" Chiese Jordan, un pomeriggio d'Aprile, mentre sorseggiava una lattina di Coca Cola nell'appartamento dell'amico.
"Non lo so, ho solo frasi sconnesse. Non riesco ancora a capire cosa voglio raccontare con precisione." Rispose lui poggiando stancamente un anfibio sul tavolino di fronte al divano. 
"E' da un po' che ci siamo dietro ormai, c'eravamo dati una scadenza."
"Lo so."
"Ci vorrà del tempo per registrare."
"Con o senza la mia voce, la parte strumentale potete già registrarla, il pezzo lo sapete. Io mi arrangerò."
"Vorrei avere prima il testo completo, in modo da valutare se si adatta bene alla base." Rispose diligentemente il tastierista, e il cantante sbuffò.
"Non mettermi pressione, Jord." Disse Oliver passandosi una mano sul viso. 
Jordan corrucciò la fronte. 
"...va tutto bene?"
"...si, solo che ogni tanto è difficile."
"Pensavo andasse un po' meglio in questo periodo, ora che..."
"Sto cercando di darmi una calmata, ok?" Fece brusco.
"...e con Chelsea?" Azzardò il moro.
"Che cosa?"
"Non le hai detto nulla?"
"E cosa dovrei dirle, scusa?" Si alzò di scatto dal divano. "Che sono un cazzo di tossicodipendente?"  
In quel momento la porta di casa si aprì e nella stanza calò un silenzio gelido.
Sulla soglia, una chioma di capelli rossi scomparve alla vista dei due ragazzi.
"...merda."


CAPITOLO 8
Oliver gettò uno sguardo furente all'amico e gli intimò di andarsene mentre inseguiva, su per la scala del pergolato, la ragazza.
"Aspetta, Chelsea!" L'afferrò per la mano e lei si girò facendo danzare i lunghi capelli nella brezza. "Per favore, ascoltami..." Disse prendendole una guancia con delicatezza. "Ti sei tinta i capelli di rosso, ti risalta gli occhi. Sei ancora più bella." Le sorrise dolcemente.
"E' vero?" Disse la ragazza priva di ogni emozione.
Oliver si limitò a sostenere il suo sguardo senza riuscire a risponderle e Chelsea lo allontanò da se. 
"...mi dispiace, non volevo lo venissi a sapere così."
"Da quanto." Fece lei ignorando completamente la risposta.
"Da un po'...ancora non ti conoscevo..." Sussurrò Oli. "...eroina..."
Lei annuì mordendosi le labbra. Stava facendo di tutto per cacciare indietro le lacrime, ma il ragazzo poteva leggergliele sul viso.
"Senti...lo so che ora mi stai odiando, ma..."
"Perché non me lo hai mai detto? Conto così poco per te?" Sbottò lei battendogli i pugni sul petto.
"...non hai idea di quante volte avrei voluto farlo. E no, non è vero che conti poco per me, è tutto l'opposto." Rispose lui afferrandola per i polsi con decisione ma senza farle male. Inspirò profondamente e continuò a parlare. "Non è facile per me, non lo è mai stato.
Ho vergogna di me stesso, mi faccio schifo. Sto male, mentalmente e fisicamente. 
Vorrei scappare lontano da quella merda, ma al tempo stesso vorrei tornare indietro fra le sue braccia.
Nella mia testa ronza sempre lo stesso pensiero: Ma si, ancora questa volta, che vuoi che cambi? Cambia tutto, cambia me. 
Ti ricordi di quel giorno in macchina?
Ti volevo con tutto me stesso nella mia vita, ma avrei anche voluto spingerti via, perché sapevo fin da subito che avrei finito solo per farti stare male. E infatti eccoci qua.
Non sono neppure stato in grado di proteggerti da me stesso. 
Sono un'egoista del cazzo." Smise di guardarla.
"...sai qual è la cosa che mi fa più male? Il fatto che tu abbia finto felicità..."
"Io, con te a fianco, sono sempre stato felice."
"E QUESTA TU LA CHIAMI FELICITA'? SEI LEGATO A QUALCOSA DI FITTIZIO!"
"COSA NE SAI DI COSA VOGLIA DIRE?
Per lei, quella frase, fu come uno schiaffo.
"...credevo di potermi fidare di te Oliver, e pensavo fosse lo stesso per te, ma evidentemente mi sbagliavo."
Entrò in casa sua e gli chiuse la porta in faccia.
Lui rimase li, in piedi, con lo sguardo vacuo. Di nuovo solo.
In un secondo gli occhi dei demoni che si erano rifugiati nell'ombra abbagliati dalla luce della sua felicità, erano tornati ad osservarlo. Per quello che gli era parso un momento rapido come un battito di ciglia, aveva riscoperto cosa si provasse ad essere di nuovo vivo.
Scese le scale e rientrò in casa propria sbattendo la porta, strappò con rabbia l'involucro che avvolgeva una dose di eroina e, dopo mesi, si dimenticò nuovamente di essere al mondo.


CAPITOLO 9
Chelsea si ritrovò nel suo appartamento perennemente buio.
Come era arrivata a quel punto?
Si era ripromessa che non si sarebbe mai più affezionata a nessuno, eppure...
Barcollò fino alla camera da letto con la testa che le scoppiava e accese la tv.
Era perfettamente in grado di vivere indipendentemente da chiunque avesse o meno intorno, quindi perché mai ora avrebbe avuto bisogno di qualcuno? 
Si morse il labbro, sapeva perfettamente che stava mentendo a se stessa. Le mancava terribilmente, ma non lo avrebbe mai ammesso.
Frugò nel ripiano del comodino dove sapeva di conservare ancora quella boccetta, l'afferrò e ne bevve una quantità un po' troppo generosa. Cercò disperatamente di concentrarsi sulla televisione accesa pur di sopprimere quel familiare senso di abbandono che aveva caratterizzato tutta la sua vita da quando era bambina ma, inevitabilmente, ogni ricordo riaffiorò incontrollato.


CHELSEA
Avevo dieci anni e mi facevo schifo.
Mi rinchiudevo in casa passando le giornate con una matita in mano disegnando ininterrottamente.
Vomitavo su fogli di carta quelle che erano le mie paure mentre vedovo altri sorridere, crearsi amicizie. Io mi sentivo una caricatura grottesca di quello che doveva essere una bambina di quell'età. Tornavo a casa e piangevo di nascosto, mentre mostravo perennemente un falso sorriso che speravo qualcuno, prima o poi, avrebbe colto. Una migliore amica che ho sempre desiderato, ma che non ho mai avuto.
Decisi di cambiare.
Mi ero rotta il cazzo di apparire come la debole di cui potersi prendere gioco ogni giorno, decisi che sarei diventata forte, quella che ti fulmina con uno sguardo. Così, nell'ultimo anno e mezzo di medie, iniziai a vestirmi in maniera trasgressiva e a tingermi i capelli.
Durante il primo anno di liceo caddi nel baratro dell'anoressia. Passai 5 anni della mia vita ad andare più volte a settimana da psicologi e dottori. 
Detestavo quegli incontri. 
Non ho mai amato parlare di me, perché quindi avrei dovuto farlo con qualcuno che mi vedeva come un portafoglio pieno di banconote?
Mi vergognavo del mio corpo che sembrava sorretto da fili invisibili e, allo specchio, contavo le ossa che scavavano il mio torace. 
Per stare bene mi bastava un pacchetto di sigarette e un paio di bicchieri d'acqua al giorno. C'era chi invidiava quella magrezza, io la odiavo. 
Spogliata dei miei abiti, la psicologa mi interrogava sul rapporto che avevo col cibo e mentivo. Osservava il mio corpo urlare silenziosamente e cercava di tirare fuori quello che custodivo così gelosamente nella testa. Così decise di parlare con i miei genitori.
Ricordo l'apatia negli occhi di mia madre e l'incomprensione in quelli di mio padre.
Passai quegli anni nascondendo tutto a tutti. 
Fu un incubo. 
Così decisi di fare pace con me stessa ed accettarmi, per quel che potevo, sugellando quella promessa fatta a mio padre con il primo tatuaggio.
Un giorno lui se ne andò di casa e mi ritrovai a vivere con una madre da sempre fredda e distaccata. Ma mentre cercavo disperatamente di nascondere le mie debolezze con la sua stessa facciata gelida, lei iniziò a piangersi addosso come la peggiore delle vittime, suscitando in me una nauseante sensazione di rifiuto.
Pretendeva attenzioni sentendosi sola e abbandonata, le stesse che avrei tanto voluto io quando ero ancora di cristallo.
Ma l'affetto non è un interruttore che si accende e si spegne a piacimento.
Scappavo continuamente da quella casa, lasciandola sola con se stessa e dicendole frasi spesso spietate per svegliarla da quel limbo che si era creata. Il mondo non aspettava nessuno, nemmeno lei.
Uscivo e girovagavo fino ad orari assurdi, senza meta e senza un soldo in tasca, con solo la musica nelle orecchie pur di non stare in sua compagnia e, quando tornavo, la trovavo addormentata con la guancia schiacciata sul cuscino. Sul comodino la boccetta di Lexotan aperta.
A quel punto odiavo anche mio padre che mi aveva abbandonata con una persona che non sapeva nulla di me. Lo vedevo di rado e di nascosto come un'amante perché mia madre non voleva ci vedessimo. Lo insultava dicendo che non gli interessava di noi e che potevamo essere morte. 
Lei cominciò ad attorniarsi di gente che faceva uso di sostanze e che, spesso, le parlavano di suicidio. Si stava lasciando trascinare in un mondo che non avrei voluto per nessuno, così cercai di farla ragionare. Una ragazzina di ventiquattro anni che fa la predica ad una donna di cinquanta, era assurdo. Poi ritrovò quello che era stato il suo primo amore e la vidi cambiare.
Fui orgogliosa di lei e glielo dissi per messaggio, perché a parole non ne sarei mai stata in grado. Seppi che pianse.
Quello fu il giorno che lei disse "ho conosciuto mio figlia."
Vivemmo per tre anni quella che fu, finalmente, una bella complicità. Il suo compagno venne a vivere nel suo appartamento con le sue figlie ed io li accettai, ma mia madre si ammalò di cancro, di nuovo. Quando avevo quattordici anni le venne asportato un rene nel quale cresceva un tumore maligno delle dimensioni di un'arancia, un male che mi sentii dire esserne io la causa.
Di colpo perse l'uso del braccio destro e, con lui, tutta la forza interiore che aveva acquisito in se stessa negli ultimi tre anni.
A maggio perse anche quella che fu la sua battaglia più grande, "divorata da un cane che le azzannava voracemente la spalla", come era solita dire.
Piansi, per la prima volta dopo tempo, senza la paura di farlo davanti a tutti, mentre la bara veniva portata via dalla macchina in un viaggio senza nessun ritorno.
Ricordo quel periodo come una tv che perde continuamente il segnale.
I parenti, che si avventavano sull'eredità come bestie affamate mentre lei era ancora in coma in ospedale, l'ex compagno di mia madre che ora si scopava la migliore amica di lei, il peso di una casa ora di mia proprietà senza avere la minima idea di come gestirla, e la stessa sera del funerale passata fuori con la solita maschera allegra mentre ero in mille pezzi. 
Ormai trentenne, dopo due anni di depressione e dipendenza da antidepressivi, vendetti tutto e con il ricavato decisi di comprare un appartamentino al secondo piano di una villetta bifamiliare in periferia. Raccolsi in un borsone le poche cose a cui tenevo e le gettai in macchina, partendo con l'intento di andarmene per sempre. Da sola. 
Nello stereo cantava una voce, l'unica che urlasse al posto mio, accompagnata da quelle note che mi cullavano la notte in un mondo in cui ero ancora capace di sognare, prima di addormentarmi nella speranza di un giorno migliore.


CAPITOLO 10
Suonò il campanello e Chelsea si ridestò.
Aveva la mente intorpidita e faticava a comprendere quanto fosse reale quel suono, ma poi udì la voce di Oliver e si costrinse ad alzarsi. Aprì la porta e se lo ritrovò davanti.
"Cosa vuoi?" Disse cercando di rimanere lucida.
"Posso entrare?" Chiese timidamente lui.
Lei si scansò e richiuse maldestramente.
I due si guardarono negli occhi per qualche secondo, poi Oliver prese la ragazza per un fianco e l'attirò a se stringendola come se avesse paura di vederla scomparire da un momento all'altro.
"Non riesco ad immaginare la mia vita senza te."
Chelsea era sul punto di scoppiare in lacrime. Essere di nuovo fra quelle braccia la dava la sensazione di un'enorme boccata d'aria dopo una lunga apnea, ma il suo orgoglio le impediva di lasciarsi andare e cedere.
Si staccò riluttante con la scusa che aveva bisogno di starsene un po' da sola e farsi un bagno, e lui le chiese se poteva aspettarla li.
"Fa come vuoi, ma non so quanto ci metterò. Ho bisogno di snebbiarmi un po' il cervello."
"Sono disposto ad aspettarti anche anni." Le disse guardandola negli occhi. "...ti amo." Estrasse un piccolo bocciolo di rosa rossa dalla tasca e le diede un tenero bacio a fior di labbra. "Guarda, è come te." Le accarezzò i capelli della stessa tinta.
Chelsea sorrise debolmente e si incamminò verso il bagno.
Si chiuse a chiave dentro appoggiando la schiena alla porta e iniziò silenziosamente a piangere.


OLIVER
Spalancai gli occhi e un raggio di sole colpì in pieno il verde delle mie iridi.
Mi coprii il viso con il dorso della mano tatuata nella speranza di abituarmi alla luce del giorno che penetrava dalla fessura della tenda nera tirata male. 
Guardai l'orologio sopra il mobile alla destra del letto che segnava le 6.11 del mattino, dovevo essermi addormentato senza accorgermene. 
La lampada sul comodino era ancora accesa donando all'appartamento, perennemente buio, una tiepida luce dorata. 
Sentii la tv sfrigolare, fastidiosa come la mia testa, e cercai a tastoni il telecomando tra le lenzuola per spegnerla. Avevo ancora i vestiti addosso: un maglione largo a righe orizzontali nere e bianche, jeans strappati sulle ginocchia e anfibi ai piedi. Sul pavimento di parquet nero erano sparsi dei libri e, sul cuscino, c'era il foglio stropicciato su cui avevo scritto il testo di quella canzone. Chelsea non era ancora uscita dal bagno.
Deglutii e mi asciugai una goccia di sudore freddo dalla fronte. 
Mi sentivo male.
Ogni centimetro del mio corpo urlava ed ero pervaso da brividi e scatti muscolari.
Mi tirai su a sedere sul materasso manovrato dalla mia dipendenza e, cercando di zittire quei dolori lancinanti, frugai nervosamente il ripiano del comodino nella speranza di trovare qualcosa che mi facesse sentire meglio quando, fra le mani, mi capitò una boccetta vuota.
La luce della lampada sfarfallò e, nel corridoio buio, la porta del bagno sbatté.
"Chelsea?"
Con gli occhi fissi su quella porta, vidi una nube nera con sembianze di un corpo nudo femminile dai lunghi capelli, passarmi così vicina da procurarmi un brivido. 
Il foglio abbandonato sul cuscino si sollevò, il comodino traballò e la lampada finì a terra ancora accesa. 
"Che cazzo..." Lo sguardo mi finì sul flacone vuoto, che ancora stringevo, e mi cadde dalla mano.
Lexotan.

*"E QUESTA TU LA CHIAMI FELICITA'? SEI LEGATO A QUALCOSA DI FITTIZIO!"
"COSA NE SAI DI COSA VOGLIA DIRE?"*

In un attimo tutto mi piombò addosso.
Corsi alla porta del bagno cercando di aprirla, ma era chiusa.

*"C'è che sono molto complicato."
"Aah, capisco. Sykes e i suoi misteri. Chi non lo è a modo suo? Non dare voce ai propri pensieri ti rende complicato solo agli occhi di chi è abituato ad arieggiare continuamente la propria bocca, ma non a chi vive nel tuo stesso limbo. Da cosa sei tormentato?"*

Urlai il suo nome, ma non ricevetti alcuna risposta.

*"...si, è così, hai ragione. A volte vorrei solo che..."
"...qualcuno capisca perfettamente di cosa stai parlando senza dover dire una parola?" Lo interruppe.
"...già." Riuscì solo a rispondere lui.
"So perfettamente cosa vuoi dire. Motivi diversi ma stessa sensazione."*

Iniziai a tirare spallate alla porta e finalmente la serratura cedette, ma quello che trovai all'interno mi raggelò il sangue.
Sembrava addormentata, eppure sapevo non lo fosse. 
Le sue labbra erano dischiuse e di un colorito pallido, i lunghi capelli rossi galleggiavano sul pelo dell'acqua che ormai aveva perso calore e, ingarbugliata fra di essi, la rosa che le avevo donato poco prima.
Tirai un pugno allo specchio ferendomi la mano e tutto mi fu chiaro.
Avete mai fatto un sogno premonitore? 
O...avete mai avuto la sensazione di conoscere qualcuno senza mai averlo visto prima?
Tutte le persone seguono il proprio naturale percorso fino al momento in cui si spengono per sempre; ma c'è una piccola parte che, ad un certo punto, decide con le proprie mani di scombussolarlo.
E' difficile pensare, però, che una tale sofferente decisione non lasci alcun segno tangibile.
Mi vedevo affogare tra le acque buie con piccole bolle d'aria che mi uscivano dalla bocca, l'acqua della vasca.
Vedevo lo specchio rotto del bagno, il pugno che avevo appena tirato.
Sentivo una voce che mi chiedeva aiuto e mi sussurrava il suo nome impercettibilmente, Chelsea.
Capelli rossi e occhi di ghiaccio, i suoi.
Forse sono solo discorsi senza senso, forse certi avvenimenti sono destinati a succedere in ogni caso nella vita di una persona, o forse chissà...so solo che, in tutto quel tempo, lei voleva essere salvata...come me. 
Avrei potuto fare tutto, e invece scelsi di non fare nulla.
Ed ora era li, fra le mie braccia, con quel suo piccolo corpo esile, troppo stanca di attendere, troppo stanca per fidarsi.
Tutto quello che accadde dopo, lo ricordo come una tv che perde continuamente il segnale: l'arrivo di Jordan, gli altri, le urla, il cielo che da azzurro si era fatto grigio e la pioggia che ora rigava il vetro della finestra come lacrime.

Sul cuscino ancora quel piccolo foglio accartocciato con su scritto, con una grafia netta e marcata, il testo della canzone che avevo composto durante la notte sul suo letto.

Teardrops.
   
 
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