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Autore: Juriaka    28/03/2021    4 recensioni
Silenzio.
C’è solo quello, e il ticchettio della lancetta che va avanti di un secondo e poi indietro di due.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: scritta come esercizio per un corso di scrittura, la cui traccia proponeva di ripercorrere i momenti che precedono una partenza. Grazie per la lettura!



L'orologio dell'indecisione



Silenzio.
C’è solo quello, e il ticchettio della lancetta che va avanti di un secondo e poi indietro di due.
Parto?
Non parto? Non parto.
Sono sdraiata sul pavimento. Il parquet di legno è tiepido contro la mia schiena, simile a cera rappresa sotto i polpastrelli. Osservo la mia stanza sottosopra, l’armadio mi sovrasta minaccioso, il soffitto è troppo bianco.
Vorrei dipingerlo di rosa antico. Vorrei che fosse meno luminoso. Vorrei che mi crollasse addosso.
Chiudo gli occhi, smetto di pensare. Lascio che il mio corpo galleggi in quella coltre di silenzio che mi soffia dolcemente sulla fronte, fluttuando come una bolla di sapone. Sento l’odore dell’estate, la brezza della sera. Il tempo che scorre.
Sbarro gli occhi in un sussulto. La bolla scoppia. Una pioggia di vetro mi ferisce le tempie.
Non parto?
Parto? Parto.
Giro il collo verso sinistra, premendo la guancia sul legno confortevole come il cuscino che abbraccio di notte. La valigia arancione è ancora chiusa. Sul telo di stoffa che la riveste è deposto uno strato di polvere. O uno strato di ricordi, non fa differenza, tanto dovrò rimuoverlo a prescindere.
Mi rivolgo di nuovo al soffitto e intreccio le braccia dietro la nuca, come se stessi dondolando su un’amaca. Ho le spine nello stomaco.
«Vuoi partire. Vero o falso?» mi domanda la lampadina accesa.
«Vero» rispondo.
«E allora?»
«È che vorrei partire da sola.»
Tic.
La lancetta va avanti di un secondo.
Ta-tac.
La lancetta va indietro di due.
L’orologio che ho allacciato intorno al polso è rotto, perché da bambina mi tuffai in mare dimenticandomi di toglierlo. Adesso andrà per sempre a ritroso nel tempo, seppur non del tutto. Un passo in avanti e due indietro. Come me.
Parto.
Non parto? Non parto.
Tic.
Ta-tac.
Balzo in piedi come una molla, cogliendo alla sprovvista persino me stessa, come se fossi stata attraversata da una scarica di elettricità improvvisa. Mi siedo davanti alla scrivania e apro il quaderno, arancione come la valigia, su cui ho annotato meticolosamente ogni singolo passaggio del viaggio. Nella prima pagina è descritta la partenza: orario della sveglia, orario della seconda sveglia, orario in cui uscire di casa, orario della partenza dell’autobus, orario di partenza dell’aereo da Roma, orario di arrivo all’aeroporto di Amsterdam.
Troppi numeri, ho la nausea.
Il mio orologio, nel frattempo, continua ad andare un secondo in avanti e due indietro.
Ridacchio e scuoto la testa. Posso fingere di essere una persona organizzata, ma non posso illudere me stessa. La verità ce l’ho allacciata intorno al polso, è insita nel quadrante rotto. La verità è che sono un disastro che brancola nel buio e che mi piace inciampare nel mio caos. Oscillo fra centinaia di possibilità senza avere il coraggio di afferrarne neanche una.
Volto pagina, e il rumore della carta è come una stilettata che trafigge la nebbia fatta di silenzio.  Ho trascritto persino gli orari del treno che mi permetterà, che ci permetterà, di raggiungere la stazione centrale. Poi ho segnato le linee della metro (tre in tutto) che conducono all’hotel dove trascorrerò, dove trascorreremo, quattro notti.  
Parto?
Non parto? Non parto.
C’è la guida della città, poggiata accanto al quaderno. L’ho analizzata in maniera quasi maniacale. L’ho sviscerata, evidenziando in blu i nomi dei ristoranti, in giallo le tappe obbligatorie, e in rosso i luoghi che mi piacerebbe visitare, ma senza alcuna certezza di riuscirci a causa dello scarso tempo a disposizione.  
Il tempo, il tempo, il tempo. Il tempo che scorre.
Vorrei che funzionasse come quello nel mio orologio. Avanti di uno, indietro di due. Vorrei che ripudiasse ogni logica. Vorrei che gli uomini non lo avessero incasellato in concetti insensati come quelli delle ore, dei minuti e dei secondi.
Immagino un mondo non più scandito dal procedere ineluttabile delle lancette. Immagino un mondo privo di quel ticchettio che mi tiene sveglia durante la notte. Me, e milioni di altre persone.
Un mondo senza metronomo. Un mondo silenzioso. L’oceano piatto che riflette il sole del mezzogiorno in un fremito di luce.
Tic.
Ta-tac.
Volto ancora pagina. Ho stilato un programma dettagliato dal lunedì al giovedì, suddiviso in fasce orarie. Ho persino segnato i nomi dei bar dove fare colazione. Il mercato dei fiori compare tutti e quattro i giorni.
Ho riscritto questa lista almeno dodici volte. L’ho abbozzata, l’ho ampliata, l’ho smussata, l’ho trattata come una scultura, un’opera d’arte. L’ho copiata su quaderni differenti, con penne differenti, ho piani B, C, D, E, e persino F annotati al margine, se qualcosa dovesse andare storto. Ho preso in considerazione ogni variabile, neanche stessi progettando una statistica su un’ipotetica estinzione di massa.
Sbuffo. Impugno la penna blu, quella che non macchia la pelle, volto pagina e riscrivo da capo il programma che oramai conosco a memoria. Lo faccio in stampatello, poiché la mia calligrafia corsiva è un susseguirsi di ghirigori incomprensibili persino ai miei occhi. E quando arriverò, quando arriveremo, non voglio perdere istanti preziosi per decifrare i miei appunti. Quando arriverò, quando arriveremo, le lancette andranno solo in avanti.
LUNEDÌ, scrivo, scandendo al meglio i tratti delle lettere. NIEUWE ZIJDE (QUARTIERE NUOVO), SCENDERE A CENTRAAL STATION, INIZIO ITINERARIO DA PIAZZA DEL DAM, VISITARE BLOEMENMARKT (MERCATO DEI FIORI), VISITARE KONINKLIJK PALEIS (PALAZZO REALE), VISITARE MUSEO...
Terminato l’elenco, mi accorgo di aver omesso il mercoledì pomeriggio.
‘’Cazzo’’, sibilo. Volto pagina e ricomincio. Come se quella tabella perfettamente ordinata bastasse a cancellare la disorganizzazione in cui sguazzo come un pesciolino rosso (morto).
Non appena finisco, guardo la valigia. È sempre chiusa. Sempre arancione. Sempre coperta di polvere.
Non parto?
Parto. Giuro che parto.
Mi alzo, ma invece di scegliere i vestiti da portare (e gli assorbenti, non devo dimenticarmi gli assorbenti), mi fermo davanti allo specchio intero, dalla superficie opaca e la cornice sottile e nera. Mi avvicino così tanto che le mie ciglia quasi sfarfallano contro il vetro. Vorrei passarci attraverso.
Mi guardo. Il riflesso mi fissa a sua volta. Cerco nella sua faccia, nella mia, delle soluzioni.
«Parti?» gli chiedo.
«Non parti? Hai voglia di andare? Hai voglia di restare? Lo sai che tutto questo è completamente folle, vero?»
Presto attenzione soprattutto ai suoi occhi. Di solito le risposte si trovano lì, incagliate nella curva dove finisce l’iride e inizia la pupilla. E nelle occhiaie.
Niente. Il suo sguardo resta imperscrutabile. No, non imperscrutabile, ma vacuo. Confuso. Scemo. Poi si assottiglia, come la linea delle labbra, e il riflesso imbastisce un’espressione disgustata.
«Se vuoi delle risposte» dice, «non le troverai di certo guardandoti allo specchio.»
«Cogliona» aggiunge infine con disprezzo.
Alzo gli occhi al cielo, esasperata da me stessa. Poi mi sdraio per terra, di nuovo. Guardo il soffitto troppo bianco, di nuovo. Temporeggio, procrastino, è una vita che non faccio altro. Sì, il soffitto lo voglio rosa antico, penso. Con le decorazioni in oro e argento. E vorrei  la stanza traboccante di girasoli e tulipani. E vorrei pure che il palazzo si sbriciolasse, possibilmente con me dentro e mia mamma fuori.
Sospiro.
Ma quindi, parto o non parto? La apro, quella cazzo di valigia, e ci ficco dentro cose a caso come il caricatore della macchinetta fotografica per poi lasciare la macchinetta stessa in bellavista sul comodino, o mi nascondo sotto al letto fino a domani sera, quando l’aereo sarà già arrivato in Olanda?
Mi siedo, ma non mi alzo dal pavimento. Lascio che il mio sguardo lambisca i libri organizzati per genere e autore. La libreria è l’unico angolo ordinato in mezzo al mucchio di vestiti e cianfrusaglie che rappresenta la mia stanza. E la mia testa.
Penso a quale libro potrei portare con me. Rimugino su quale titolo, eventualmente, potrebbe aiutarmi a evadere da quella gabbia in acciaio costituita dalle persone con cui sarò obbligata a interagire, a condividere ossigeno e parole.
Mi viene da ridere. Sto per partire e la mia sola preoccupazione è trovare un modo che mi permetterà di andare da un’altra parte. È sconvolgente quanto mi piaccia fuggire. Sembra che la codardia abbia rimpiazzato il mio sangue nelle arterie.
Non voglio partire?
Voglio partire? Sì, ma voglio partire da sola.
Vorrei strappare i quaderni e la guida in mille pezzi, fotografare i canali che graffiano la città con il solo ausilio dei miei occhi. Vorrei affidarmi all’orologio rotto, che segna il tempo al contrario seppur non del tutto (avanti, indietro, indietro, avanti, indietro, indietro).
Non mi interessa che ora sia veramente. Ma poi chi cazzo l’ha deciso che il concetto del tempo debba essere assoluto?
Penso ai fiori. Ai tulipani. Ai quadri di Van Gogh. Penso che non potrò osservarli per giorni interi. Non avrò mai la possibilità di annegare dentro i Girasoli, perché le lancette ticchettano senza fermarsi e i musei chiudono alle otto. Rispettano gli orari, loro.
E non sarò sola. Oltre agli orari dei musei, dovrò adeguarmi anche ai desideri e alle necessità dei miei accompagnatori.
Mi sdraio di nuovo, questa volta a pancia in giù. Continuo a rubare secondi. Continuo a rubarli a me stessa, in un sabotaggio senza fine. Ripasso nella mente il programma della partenza, con il cuore gonfio d’ansia per timore di essermi dimenticata qualcosa di fondamentale. Penso che il viaggio in aereo durerà due ore e mezza, nella migliore delle ipotesi. Potrebbe durare anche di più. O molto di meno, se un motore si incendiasse.
Poi penso ad Amsterdam. Ho sbirciato delle foto su internet, ma solo di sfuggita perché voglio meravigliarmi come si deve nel caso decida di partire. È bella. Pittoresca. Sembra fatta con la tempera.
Giro il viso e incateno gli occhi alla valigia ancora chiusa. Ancora impolverata.
Ho voglia di ridurla a brandelli, striscioline arancioni da lanciare in aria come coriandoli.
Spero che esploda.
Ora mi alzo, penso.
No, non mi alzo. Non parto.
Sì che parto.
Parto davvero?
Sì. No.
Una decisione in avanti.
Due indecisioni all’indietro.
Tic. Ta-tac.
Silenzio.
Ma che ore saranno?


  
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