Capitolo 49
Le ragioni del cuore
“Ho conosciuto in te le meraviglie meraviglie
d’amore sì scoperte che parevano a me delle conchiglie ove odoravo il mare e le
deserte spiagge corrive e lì dentro l’amore mi sono persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore che (ben sapevo) amava una chimera.”
Alda Merini, Le rime petrose
Fu
la moglie del compare a porgerle, con un’interiezione di preoccupazione – che,
alle orecchie di Sarah, parve di pura ipocrisia –, un fazzoletto, consigliandole
erroneamente di mettere la testa all’indietro, non per cattiveria ma per
ignoranza – e anche di questo lei dubitò.
Imponendosi
di non dare loro la soddisfazione di vederla in preda al panico, piegò la testa
in avanti e strinse le narici con mano ferma e sicura, nonostante il profondo
turbamento causato dal sangue, nonostante l’acutizzarsi del dolore, nonostante
la ferita dell’anima. L’indifferenza di Matteo faceva più male del suo
schiaffo.
Di
fronte all’ostentata forza d’animo di Sarah, lui restò fermo, finché non si
rese conto di aver perso la partita e un altro pezzo del suo cuore, forse
irrimediabilmente. Eppure non riusciva a provare rimorso per lo schiaffo
datole.
Nel
far ritorno in sé, la rabbia deviò verso se stesso e,
alzatosi di scatto dalla sedia, con gran foga, lanciò sul tavolo le carte che
gli erano rimaste in mano, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo attonito e
interrogativo.
La
perdita di sangue si era fermata e Sarah aveva allontanato il fazzoletto dal
naso. Per un attimo, temette un’ulteriore reazione violenta da parte di suo
marito e, stavolta, dinanzi a tutti, presagendo già il loro perseverare nel
menefreghismo. Istintivamente, spinta da un impulso difensivo, anche lei si
alzò.
“Torniamo
a casa, Sarah”, disse, senza rabbonire la voce e lo sguardo e provò una
sensazione di disagio, quando, accorciando fisicamente la distanza creatasi fra
di loro, le cinse i fianchi con un braccio, lo stesso che le aveva alzato
contro, per esortarla ad andare via.
Campo
di Fossoli, 15 luglio 1944
Quattro
notti d’insonnia e senza amore, tre giorni lontani l’uno dall’altra, lui per
orgoglio, lei per delusione.
Oltre
che assassino, Hermann era pure bugiardo. Trattandola come qualsiasi altro
prigioniero, le aveva mentito sul destino dei settanta internati politici e,
ancor prima, sui suoi sentimenti, facendole credere di aver instaurato con lei,
seppur nascostamente, un rapporto alla pari. Invece, era per lui soltanto come
un oggetto fra gli oggetti di sua proprietà, prigioniera e sgualdrina da usare
a suo piacimento, un sottoposto a cui impartire gli ordini e il protrarsi della
sua assenza gliene dava conferma.
Forse,
Hermann aveva accolto la sua provocazione e, adesso, non essendo previsti
nell’immediato trasferimenti di prigionieri verso la Germania, stava
escogitando un modo per sbarazzarsi di lei. Forse, più semplicemente, l’aveva
già dimenticata, sostituendola magari con la bella cameriera bionda dagli occhi
chiari, italica al cento per cento e amante del sergente maggiore, che,
approfittando del suo allontanamento dalla servitù, non si era fatta sfuggire
l’occasione di rassettargli la camera e servirgli i pasti. Preoccupata per la
sua sorte, era stata Giuditta a darle questa informazione.
La
parte di sé legata ancora all’illusione di un sentimento amoroso rifiutava di
credere alle proprie supposizioni, mentre l’altra, sopraffatta da una
ragionevole amarezza, la teneva segregata nella baracca, nonostante la calura
di metà luglio, a tagliare le maniche dei vestiti con i quali era arrivata a
Fossoli, prima di liberarsi di quelli regalatele da lui, assieme alla rosa
rossa che, a maggio, aveva fatto seccare.
Non
era abituato a sentirsi dire di no. Viaggiando a ritroso nella memoria, poteva
imbattersi in un ragazzino a cui, nonostante la rigida educazione impartitagli
talvolta attraverso punizioni corporali, non era stato negato nulla. Seppur ben
temprato ad affrontare quella che sarebbe stata la sua vita militare, nessuno
gli aveva mai dato la possibilità d’imparare come comportarsi qualora le cose
fossero andate in un modo diverso da quello previsto, desiderato.
Prima
di Sarah, nessun’altra donna lo aveva mai rifiutato, merito della sua posizione
sociale e attrattiva fisica e, preso alla sprovvista da quel che, in fondo, era
un prevedibile diniego, aveva reagito, avvalendosi del suo ruolo di comando per
trattenerla a sé. Eppure non si sarebbe approfittato di lei una seconda volta.
Dietro
la bramosia dell’appagamento carnale, si nascondeva un muto bisogno d’incontro
e di presenza, di sentirsi amato. Forse, per convincere Sarah a restare,
sarebbe bastato mostrarle il suo lato più vulnerabile, lasciando che le ragioni
del cuore motivassero la sua richiesta, sicché essa non diventasse un ordine ma
un grido d’aiuto. Forse, avrebbe dovuto piegare il suo orgoglio e giustificarsi
dell’esecuzione di quegli innocenti, riconoscendo dinanzi a lei che lo vedeva
come un dio di essere soltanto una piccola pedina in qualcosa più grande di lui
a cui aveva giurato obbedienza e lealtà, «fedeltà assoluta fino alla morte».
Forse, non era troppo tardi per rimediare all’errore di averla persa.
Dapprima
fisso nel vuoto, lo sguardo si focalizzò sulla porta socchiusa dell’ufficio e,
di scatto, Hermann si alzò, facendo sobbalzare la cameriera bionda che aveva
appena posato sulla scrivania il vassoio con il bicchiere di limonata e della
cui presenza non si era neanche accorto. Agguantò il cappello dell’uniforme e
percorse i corridoi dell’edificio, poi le zolle di terra e fango che lo
separavano da lei, indossando la sua truce maschera.
Quando
spalancò con veemenza la porta della baracca, tutti si misero in allerta,
reduci dal trauma per la fucilazione dei loro compagni, fuorché Sarah che, pur
alzatasi istintivamente di scatto dal letto dov’era seduta a rammendare gli
orli delle maniche, mantenne una parvenza di calma per mostrarsi a lui
indifferente.
“Uscite
tutti.” A tal comando, benché sapesse di non esserne destinataria, si avviò
anch’ella verso la porta e, come aveva già previsto, Hermann la fermò.
“Tu
no.” La voce ancora greve, mentre gli ultimi prigionieri lasciavano la baracca,
la mano davanti al suo petto, così vicina da sfiorarla e provocarle un
sussulto, gesto che già innestò una battaglia contro se
stessa per non cedervi.
E
furono soli nel reciproco guardarsi. I lineamenti di Hermann si distesero,
mostrando un volto segnato da notti insonni e pasti saltati, mentre un velo
rugiadoso gli calava sugli occhi a rivelarne la malinconia. Invano, Sarah
perseverava nell’ostentare fermezza, giacché, senza che se ne rendesse conto,
ciò che vedeva era anche il suo riflesso.
Distolse
lo sguardo e fece per andarsene, ma, di nuovo, lui la fermò, mettendole innanzi
la mano. Stesso gesto, diverso atteggiamento, accompagnato da una voce quasi
supplichevole. “Aspetta”, le disse.
“La
prego, signore, ha dato l’ordine di uscire. Mi lasci andare come tutti gli
altri.” Fuori la baracca, via da Fossoli, ma l’accento vibrante di lacrime
trattenute rivelava che questo non era ciò che realmente voleva.
“Sarah,
ascolta, io non avevo altra scelta.” Più che le parole, fu la remissività nel
suo tono di voce a trattenerla. “Ho fatto un giuramento e tradirlo
significherebbe finire sotto corte marziale. Neanche tu vuoi questo.”
Assentì
con lo sguardo. Non voleva perderlo, ma la ragione le teneva ancora chiuso il
cuore nella morsa del dolore e dello sdegno.
“Mi
dispiace, Sarah. Sappi che non ti avrei costretta a stare con me”, proseguì,
fino a toccare le corde giuste, quelle di entrambi, “avevo soltanto bisogno
della tua presenza.” Una pausa, per prendere fiato e maggior coraggio, diede
enfasi alla sua dichiarazione. “Io ho bisogno di te.”
Protese
leggermente le braccia, mentre lei già cedeva all’illusione, abbandonandosi in
un lento scivolare sul suo petto.
“Io
ti amo.” Le parole gli fuoriuscirono dalla bocca come un suono strozzato. Rade
volte gliel’aveva detto, senza mai commuoversi, sempre offrendo a se stesso false motivazioni che giustificassero il suo
parlare. Delle volte era per consolarla, altre per compiacerla e, adesso,
sarebbe stato per persuaderla.
Era,
invece, l’espressione di un sentimento vero, forte la cui consapevolezza – in
quel momento, ancora vaga e sfuggevole – gli suscitò un trattenuto pianto di
liberazione.
Anche
Sarah dovette accorgersene, poiché lo strinse più forte, aggrappandosi alla sua
giacca, come per legarsi per sempre a quell’emozione così rara e difficilmente
ripetibile.
“Anch’io
ti amo, Hermann”, gli disse e fu lei a piangere sommessamente le sue lacrime.
“Troppo cerebrale per capire che si può star bene
senza complicare il pane,
ci si spalma sopra un bel giretto di parole vuote ma doppiate.
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando
dormo taglia bene l’aquilone,
togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare
in pace.
Liberi com’eravamo ieri, dei centimetri di libri sotto
i piedi
per tirare la maniglia della porta e andare fuori.”
Samuele Bersani, Giudizi universali