Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Luschek    04/04/2021    3 recensioni
Tratto dal testo:
«Dov’è Bertolt?»
Nessuno risponde. Pieck aumenta l'intensità della presa e volge l’attenzione su Zeke, che butta la cicca per fumare una terza sigaretta. I due si guardano tra loro, però non si azzardano a sostenere lo sguardo di Reiner. Non ha bisogno che l’uomo pronunci le fatidiche parole, affinché capisca.
Quel silenzio tagliente gli fa sembrare tutto così chiaro, è il tassello mancante del puzzle che fino a poco prima era incompleto: Bertolt non è al suo fianco perché è morto.
{Hanahaki!AU | Pairing: ReiBert, PokkoPikku | Avvertimenti: Spoiler!}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Berthold Huber, Porco Galliard, Reiner Braun, Zeke Jaeger
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 4 


Confrontarsi 

You do not die 

from love. 

You only wish 

you did.” 

Ordinary Miracles, “There is Only One Story” di Erica Jong 

 

 

 

«Mi ami davvero così... tanto 

A causa dell’oscurità di quel luogo, Reiner non vede granché, ma è sicuro che Bertolt neanche lo guarda in faccia, mentre gli pone quella domanda. Si domanda perché l’amato sia l’unico circondato da un’aura luminosa, lì dentro. Il ragazzo è raggomitolato su sé stesso, con le gambe strette al petto e le braccia che le cingono, e ha nascosto il viso contro le ginocchia. Quando è frustrato, si chiude sempre a riccio: Reiner lo sa, poiché glielo ha visto fare parecchie volte. 

Nel vederlo in tale stato, percepisce il labbro inferiore tremare. Gli ha messo angoscia e timore quella punta di incertezza, perché Bertolt è spesso preda dei dubbi, ma mai lo è stato riguardo i sentimenti che provano l’uno verso l’altro. 

Perché adesso teme che non lo ami abbastanza? È perché lo ha lasciato morire? 

Gli occhi pizzicano, ma tira su col naso e prende una grande boccata d’aria, per impedirsi di piangere. Non vuole mostrarsi debole, né vuole fare preoccupare l’altro. Sta bene e, tra qualche giorno o settimana, quando potrà rivedere Bertolt, starà meglio. 

«Reiner… Io non voglio rivederti così presto» gli rivela l’altro. È questa la ragione della sua insicurezza? 

In un battito di ciglia, Bertolt si è messo in piedi e lo osserva dall’alto, con le sopracciglia corrucciate e una lacrima che gli solca la guancia. Il verde delle sue iridi non è mai stato così opaco – questa visione gli provoca una fitta di dolore acuta all’altezza del petto. 

Reiner sente il cuore pompare più sangue del dovuto, apre la bocca per gridare, ma da essa non esce alcun suono. Allora, tenta di allungare una mano verso l’altro, ma non vi riesce: un manto pesante e compatto gli intrappola gli arti e si espande verso il torace e la testa, gli impedisce qualsiasi movimento e lo schiaccia come se fosse un masso. Pare che il terreno lo risucchi, ammesso che esistano un sopra e un sotto dentro quello strambo incubo.  

L’unica azione che gli viene concessa è di muovere gli occhi, difatti essi si soffermano sull’altro ragazzo, il quale torreggia su di lui – ora comprende cos’abbiano provato le loro vittime, quando, quel giorno, il Colossale si affacciò al di sopra del Wall Maria. Ci si sente insetti insignificanti e inermi, capaci solo di attendere un destino inevitabile: quello di morire. 

“Aiutami” mimano le labbra di Reiner, però Bertolt non alza un dito. Addirittura questo indietreggia, senza volgergli le spalle, finché piccoli tentacoli di oscurità non avvolgono e inghiottono la sua sagoma. 

«Devi lasciarmi andare, Reiner. Ti prego... ti prego...» è la frase che riecheggia nel buio. 

 

«Ti prego, Reiner... Non lasciarmi...» 

Percepisce un peso gravargli sul grembo, uno sulla spalla e delle dita ruvide intrecciate a quelle della sua mano destra. A causa dei tubi infilati nelle narici e appuntati alle braccia, si sente persino soffocare e gli ci vuole un po’, prima che si abitui. Quando il respiro torna regolare e il fastidio dei tubicini nel naso passa, Reiner tenta di muoversi, finché non comprende che gli è impossibile voltare il capo, oppure e controllare chi abbia addosso. Così comincia ad osservare il soffitto grigio, mentre rimugina su alcuni sprazzi di memorie che l’incubo gli ha riportato alla mente. 

Ricorda i rimproveri di Magath, gridati così forte da perforargli i timpani, seguiti dal marciare dei soldati. Delle mani brusche che lo sollevano di peso e lo trascinano. Ricorda il nero pece, il rombo di un motore e dei sussurri a malapena percettibili. Infine, l’odore del disinfettante e i “bip” acuti dei macchinari. 

Sono stati dei giorni caotici – non sa nemmeno per quanto tempo abbia perso conoscenza –, perciò non si meraviglia che abbia dormito durante la maggior parte del tempo. Se non è un inganno organizzato dalla propria mente, rammenta che uno dei tanti medici ha dichiarato che la sua malattia manifesterà ulteriori sintomi, più questa crescerà. Uno di essi è l’eccessiva sonnolenza, attraverso cui il corpo assimila le energie che gli vengono sottratte dal cattivo sonno, causato a sua volta dai frequenti attacchi di nausea. Va di bene in meglio. 

«Cazzo…» borbotta, quando percepisce le budella aggrovigliarsi e un bolo di acido percorrergli a ritroso l’esofago.  

Preme il palmo della mano libera contro la bocca e, mentre esegue questo gesto avventato, sente che qualsiasi cosa abbia sulla spalla si sposta. L’intreccio di dita si scioglie, sebbene quelle corrano ai suoi capelli, li afferrino e poi li strattonino verso il bordo destro del letto, dove Reiner scorge l’orlo di un secchio. Non esita un istante a liberarsi lì dentro.  

«Che schifo, Reiner! Potevi colpirmi, ew!» lo rimprovera Gabi, che salta fuori dal letto. 

Ora che non ha più le gambe bloccate, affonda il volto nel contenitore azzurro, mentre la mano amichevole di prima disegna ampi cerchi sulla sua schiena. È sua madre. 

È un’azione che compiva sempre quand’era piccolo e rimetteva anche l’anima. La donna affermava che servisse a rilassare la tensione della schiena, sebbene Reiner abbia sempre nutrito grossi dubbi riguardo la scientificità di tale metodo. Nonostante ciò, è lieto che in quel momento lei sia presente. Forse è per questo motivo che gli sfugge una lacrima, oppure è colpa dello sforzo a cui è sottoposto, o entrambi le motivazioni, ma poco gli importa: ciò che conta è averla al suo fianco.  

Quando riemerge la testa dal recipiente, Karina gli porge un fazzoletto di stoffa e lui si protende per afferrarlo, ma la donna è più lesta, quindi è lei a ripulirlo dai residui di petali e bile che ha intorno la bocca. Reiner prova un po’ di imbarazzo, dato che non è abituato a quella premura materna, e un po’ è intimorito da ciò che si cela dietro lo sguardo pensoso di lei. L'hanno informata? È a conoscenza dei dettagli di ciò che è accaduto?  

Gli si stringe il cuore, se immagina quanto l’abbia fatta preoccupare – e soffrire. Quanto l’abbia delusa, se è conosce i particolari riguardanti la malattia e Bertolt. Anche se sa, la donna non ha mutato atteggiamento nei suoi confronti, poiché asciuga immediatamente la lacrima che gli percorre la guancia, quando lei la individua.  

Gli occhi nocciola della donna, identici ai propri, si rivestono di un velo umido e Reiner teme che ella possa scoppiare a piangere, tuttavia non accade nulla di ciò – ne è grato, perché non si tratterrebbe, visto il suo precario stato emotivo. Tutto tace, persino Gabi, che nel frattempo ha arraffato una sedia dal corridoio e l’ha trascinata fino al letto, facendola stridere lungo tutto il tragitto. Con la coda dell’occhio, può osservarla mentre si arrampica su di essa e, infine, si accomoda sul materasso.  

«Gabi, non lo disturbare» la ammonisce Karina, ma Reiner scuote il capo e lascia che la bambina gli si accoccoli sul fianco.  

«Scusami, Reiner. I tuoi zii lavorano sempre la mattina e non sapevano a chi...» 

«Non preoccuparti, mamma. Non mi porta fastidio, anzi... mi fa piacere che siate qua, nonostante tutto» mormora, poi accarezza il cespuglio di capelli che la piccola si ostina a non pettinare. 

«Piccolo mio, ovvio che siamo qua», Karina gli prende una mano tra le proprie, «ti visitiamo ogni giorno, da quando mi hanno comunicato le tue condizioni...» 

Le tremano le labbra e alla fine le scappa un singhiozzo, prima di aggiungere: 

«Temevo che non ti saresti più svegliato.» 

Anche Gabi produce un piccolo rantolo, sottolineando l’angoscia che ha afflitto i loro animi in quei giorni. Quella visione accresce il senso di colpa che si annida nel cuore di Reiner: crede di avvertire davvero le radici del suo male insidiarsi nella carne e intrecciarsi a quelle delle sue emozioni negative. È stato nient’altro che uno sprovveduto e un egoista, poiché ha messo il proprio malessere dinanzi tutto, perdendo di vista ciò che di prezioso gli è rimasto accanto: la sua famiglia.  

Eppure, si chiede: basterà il loro affetto per superare il dolore che lo consuma? 

La risposta che si dà è negativa. Non sarà sufficiente nemmeno l’amore immenso di sua madre per superare questo ostacolo. A tal proposito, gli ritornano alla mente le parole che, mesi addietro, poco dopo il suo ritorno, pronunciò Porco nei suoi confronti: sei un’insaziabile voragine che inghiotte tutto ciò che la circonda. Alla luce di quanto ha appreso, non può dargli torto. È vero, a lui non è mai bastato nulla, soltanto... Il volto di Bertolt gli riaffiora in mente, pallido come uno spettro, in risposta alla sua domanda retorica.  

Si sente vile quando inizia a piangere, spinto al limite da quella rivelazione. 

«Mi dispiace, mamma. Scusa...» 

Reiner diventa tutto tremori e singhiozzi, ma, senza porre domande su quell’affermazione alienante, la madre si unisce a lui. Poco dopo, percepisce la propria vestaglia inumidirsi, lì dove Gabi ha premuto con veemenza il viso, e intuisce che anche lei partecipi al pianto comune. Nemmeno protesta, tanto è spossata, quando Reiner allunga un braccio per attirarla a sé e stringerla. Chissà quanto ha sofferto la piccola, per mantenere quel segreto enorme. In parte è felice che sia stato smascherato, così quelle spalle piccole non devono sostenere un fardello tanto pesante. 

Sua madre accoglie entrambi nelle proprie braccia, dove s’incastrano come meglio possono, nonostante l’intoppo dei tubicini.  

«Reiner, non devi sentirti assolutamente in colpa... Sarebbe potuto capitare a chiunque, hai solo seguito i tuoi istinti...» 

Il pianto di Reiner si attenua, perché la sua mente analizza l’affermazione inconsueta che ha proferito Karina. Si riferisce, forse, al fatto che ha ceduto all’amore? Oppure cela un altro significato che non riesce a comprendere? 

Qualsiasi cosa intenda, non le chiede delucidazioni. Vuole solo bearsi del calore materno, senza che il senso di colpa gli tintinni sinistro nel timpano. Il tempo si cristallizza in quell’istante, in cui non è solo dolore ciò che prova. Prova anche amore, ma non abbastanza da colmare il buco che gli hanno scavato nel petto.  

Potrebbe rimanere avvinghiato alla madre, come farebbe un cucciolo ancora incapace di destreggiarsi nel mondo. E forse è vero: nonostante tutto ciò che ha vissuto, Reiner non ha capito come funziona la vita. 

La sorte non pare essere dalla sua parte, perché una voce femminile spezza la quiete che è calata nella stanza. 

«Signor Braun? Ha un visitatore» annuncia l’infermiera. mentre li squadra con un’occhiata colma di pena.  

«Chi è? Non può aspettare?» domanda lui, dopo che ha sollevato il collo. La donna li squadra con un’occhiata colma di pena. 

Sua madre si asciuga le lacrime col dorso della mano, mentre accarezza i capelli di Gabi affinché la osservi in viso. La piccola tira su col naso, poi allunga le braccia verso la zia e l’abbraccio viene sciolto, lasciando Reiner improvvisamente al gelo. Eppure col sole che batte al di fuori della finestra, dovrebbe sentire caldo.  

«Dice che non ha molto tempo… e ha insistito molto per vederti» gli rivela l’infermiera, «da soli» specifica.  

«Io e Gabi possiamo aspettare fuori, Rei» propone Karina, mentre gli accarezza il volto. Reiner è rapido nel prenderle la mano e bloccarla sulla propria guancia.  

Cerca di imprimersi la sensazione di conforto che emana il calore del palmo sul proprio viso, il senso di sicurezza che solo lei può donargli e lo sguardo che, nonostante tutto quello che è successo, continua a vederlo come se fosse la cosa più preziosa che abbia. Effettivamente, Reiner è la persona più preziosa che Karina abbia e ha sempre ignorato che, morto lui, la vita della madre perderebbe il proprio fulcro. 

«Va bene…» accetta, dopo qualche attimo di esitazione. 

Le dita della madre gli affondano di nuovo nei capelli, prima che gli abbandonino il viso. Arrampicatasi sulla donna, mentre questa si allontana, Gabi si sporge oltre la spalla di lei e lo saluta con la manina paffuta.  

Quando la madre e la cugina spariscono oltre la soglia della porta, Reiner si copre fino all’addome col lenzuolo, come se quel lembo di stoffa fosse capace di proteggerlo da chiunque abbia insistito per incontrarlo.  

Teme di scoprire chi possa apparire in quella stanza e scandaglia le varie ipotesi: Magath, per annunciargli la decisione presa dai piani alti? Pieck, per stargli accanto? Suo... che sciocchezza. Che compaia quell’uomo è tanto improbabile, quanto il fatto che da quella porta faccia capolino Bertolt in carne ed ossa.  

«È permesso...?» 

Reiner quasi si azzanna la lingua, nell’istante in cui le sue iridi si immergono in quelle giada del nuovo arrivato. Annaspa e più tenta di inspirare a pieni polmoni, più sente l’ossigeno mancare. Getta persino un’occhiata alla finestra, soppesando l’idea di buttarsi al di fuori da essa.  

L’uomo apparso sulla soglia allenta il colletto della camicia con un dito, mentre attende una risposta, che Reiner non sa se fornirgli o meno. È come se fosse stato privato della capacità di parlare. O forse è diventato incapace di farlo, dato che gli sembra di avere davanti un fantasma.  

Se non fosse stato per i capelli cenere, le rughe intorno alla bocca e gli occhiali sul naso, il signor Hoover sarebbe stata la copia sputata del figlio. Gli è inevitabile contrarre le labbra in una smorfia dispiaciuta, mentre tamburella la mano sulla sedia che, poco prima, Gabi ha sistemato accanto al suo letto.  

Il suo ospite si accomoda con un sommesso oplà e tutto di lui gli ricorda Bertolt: a partire dal passo molleggiante, dalle gocce di sudore sulla fronte, fino al rossore tenue che si propaga sulle sue guance, quando si accorge di essere scrutato. 

«Allora, Reiner... è da molto tempo che non ci vediamo.» 

Persino il timbro della sua voce è identico a quella dell’amato. 

Porco non visiterà Reiner in ospedale. Ha deciso che accompagnerà Pieck fino alla stanza, ma non gli concederà un ultimo saluto, nel caso in cui dovesse andarsene all’altro mondo. È arrabbiato – anzi, adirato – con il collega, perché sta sprecando la seconda possibilità che gli è stata concessa. Ce l’avesse avuta Marcel, a quest’ora sarebbero stati tutti soddisfatti: Reiner nell’aldilà con Bertolt e lui vivo con il fratello.  

Un moto di rabbia lo fa scattare in piedi e calciare la sedia della sala d’attesa, che si riversa sul pavimento con un tonfo sordo. È fortunato che non abbia Reiner davanti perché, malato o meno, l’avrebbe appeso al muro, tanto è il rancore che nutre nei suoi confronti. Reiner dovrebbe essere grato della vita che gli è stata concessa, invece la vuole gettare alle ortiche, come se già la maledizione di Ymir non accorciasse di troppo la loro esistenza su quella terra. Solo uno stupido sprecherebbe un’opportunità preziosa come quella, a causa di una cotta – eppure, perché mentre biasima i sentimenti di Reiner, il volto di Pieck gli appare davanti agli occhi? 

Ha paura di scoprire cosa si celi dietro quella reazione involontaria della propria immaginazione. Vorrebbe distrarsi, andarsene da quel dannato ospedale e non passarvi più davanti, nemmeno per errore, invece è costretto ad attendere l’amica. Ora che vi riflette, nel frattempo che rimette a posto la sedia caduta, trova strano che la ragazza non sia ancora arrivata. L’orologio appeso alla parete candida del corridoio segna le dodici in punto, mentre loro si erano dati appuntamento alle undici e quarantacinque.  

Sbuffa infastidito, poi si infila le mani nelle tasche del giubbino e percorre il corridoio a grandi falcate. Prima si svuoterà la vescica e dopo la cercherà: se le fosse successo qualcosa di grave, il boato della trasformazione avrebbe echeggiato in tutta Liberio, quindi esclude questa ipotesi. È più probabile che si sia addormentata, piuttosto che sia stata aggredita o che le sia successo qualcosa di simile.  

Quando raggiunge la sua meta, si accorge che qualcosa non va. Prima che oltrepassi la porta del bagno, le sue orecchie carpiscono dei versi gutturali familiari, eppure difficili da ricollegare ad un evento ben preciso. Decide di girare con quanta più delicatezza possibile la maniglia, cosicché non venga percepito, e cammina in punta di piedi affinché i suoi passi non riecheggino sulle piastrelle del pavimento.  

All’ennesimo bleargh, Porco comprende cosa stia succedendo. C’è qualcuno all’interno dei cubicoli che vomita, ma ciò che lo allarma maggiormente di questa situazione, è la fragranza dolciastra che gli pizzica le narici. È la stessa che emanavano i fiori sputati da Reiner. Percepisce il petto appesantirsi nel realizzare tale ipotesi. All’improvviso associa il ritardo di Pieck a quello strambo evento e la paura lo fa tremare come una foglia: se ci fosse lei, all’interno del cubicolo? 

Vuole davvero scoprirlo? In ogni caso, non è nella sua etica abbandonare le persone, sconosciuti compresi, se queste soffrono. Ha aiutato persino Reiner nel momento del bisogno.  

Senza ulteriori indugi, Porco si muove verso il cubicolo all’estrema sinistra, poiché è da esso che provengono i rumori, e prende fiato, prima di girare la maniglia della porta. Prova a spingerla piano, tuttavia l’asse di legno non si sposta di un centimetro. È chiusa a chiave. 

Il pensiero di desistere viene sopraffatto dalla preoccupazione, nel momento in cui sente i colpi di tossi aumentare. Forse quella persona sta soffocando e lui è lì, imbambolato come un pesce lesso a rimuginare su cosa fare. In un battito di ciglia, allora, Porco fa un passo indietro e tira un calcio ben assestato alla porta, che si spalanca e rimbalza sulla parete del cubicolo.  

Nel riconoscere la figura che adesso è chinata a carponi, scossa da tremiti e coi pugni pieni di petali viola, gli occhi di Porco pizzicano terribilmente. 

 Reiner ha perso il coraggio di osservare il signor Hoover dritto nelle pupille, infatti ha voltato il capo dall’altra parte e lasciato che lo sguardo scivolasse all’interno del secchio. Sul fondo del recipiente giacciono una miriade di petali color pesca e qualche bocciolo. Vorrebbe interrogarsi sulla tipologia di quel fiore, magari scoprirne il nome, così da sapere che sfumature abbia il giardino nel proprio petto. 

Tuttavia, la realtà è che i suoi pensieri sono fissi sulla figura che gli siede accanto. Senza che lo studi di sottecchi, sa benissimo che l’uomo lo studia, in attesa che dica qualcosa – qualsiasi cosa

«Mi dispiace di essere venuto solo adesso» mormora il signor Hoover e Reiner inghiotte a vuoto. 

Non dovrebbe essere l’uomo a scusarsi, dovrebbe essere lui a farlo perché non l’ha mai cercato. Perché non si è potuto presentare, quando hanno officiato i funerali di Bertolt e Marcel.  

È solo un codardo. Persino dopo la morte di Marcel, quel giorno, l’unica azione che ha compiuto è stata scappare. Anche oggi, come allora, Reiner continua a fuggire. Per questo motivo non si considera degno di tanta gentilezza, soprattutto da parte di un estraneo, soprattutto dal signor Hoover. 

«Non dovrebbe dispiacersi per me…» sussurra di rimando, mentre gira il capo a fatica, come se fosse pesante una tonnellata e spostarlo richiedesse un enorme sforzo. 

L’uomo aggrotta le sopracciglia, evidenziando le rughe che gli solcano la fronte, e intreccia le dita al di sopra del grembo. 

«Come, ragazzo mio?» 

Dovrebbe chiamare così Bertolt, non lui, dannazione! 

«Esattamente ciò che ho detto... Non dovrebbe preoccuparsi per uno come me.» 

Ingoia la parola che gli pizzica la punta della lingua. Un fallimento. Reiner non sa con quale altro termine etichettarsi, poiché crede che quello gli calzi a pennello. Il labbro inferiore è attraversato da uno spasmo, mentre sostiene lo sguardo dell’uomo. Quello lo osserva imbronciato, come se sia dispiaciuto di udire quell’affermazione.  

«Perché pensi questo?» 

È una domanda semplice, ma a Reiner pare un invito lecito per togliersi qualche sassolino – macigno – dalle scarpe.  

«Perché è colpa mia se Bertolt è morto! È colpa della mia debolezza, perché se fossi stato più forte, lui ora sarebbe qui!» 

Senza rendersene conto, Reiner ha alzato la voce e ha artigliato il lenzuolo che lo ricopre.  

«Per questo motivo non dovrebbe preoccuparsi per un fallito come me!» 

Si rende conto di tremare solo nel momento in cui tace. Si è appena sfogato con il padre di Bertolt, quanto può essere patetico? 

È certo che l'altro perderà la poca stima rimasta nei suoi confronti, dopo che ha fatto quella sceneggiata, invece vede il signor Hoover annuire, come se abbia preso atto delle sue emozioni, ma non replica nulla. Reiner non sa se questo gli faccia piacere o lo tormenti.  

«Capisco...» sussurra l'uomo, che lascia vagare lo sguardo nella stanza, fino alla finestra – ed è in un punto indefinito del vetro, che le pupille di lui si inchiodano.  

ùMagari la sua mente ha preso il volo con l'immaginazione? Attende che l'altro dica qualcosa, ma il silenzio che cala tra loro due pare una coltre così soffocante, che ad un tratto trova difficoltà nel respirare – anche se non vi sono fiori ad ostruirgli le cavità orali.  

«È per questo tuo senso di colpa, che ti sei tenuto a distanza da me?»  

Reiner non sa dire se il tono del signor Hoover sia afflitto, oppure curioso. Forse è entrambe le cose, oppure nessuna di esse.  

«Sì» soffia e, per la prima volta dopo tantissimo tempo, è lieto di dire la verità. Non ricorda di aver mai sentito il cuore così leggero, da quando è tornato da Paradise.  

L'uomo rimane zitto, però allunga una mano verso il suo viso e, convinto che sia uno schiaffo, Reiner serra le palpebre. Percepisce uno spostamento d'aria al livello del capo, dopodiché delle dita callose si avvolgono alla mano con cui – ancora – stritola il lenzuolo e la strattonano appena, per scostargliela. Quando riapre le palpebre, nota che il signor Hoover ora sta lo scrutando e ciò lo imbarazza, perché non comprende cosa significhino quei gesti.  

«Mio figlio Bertolt sapeva bene a cosa andava incontro, quando si è arruolato» afferma l'altro con convinzione.  

«Non hai motivo di sentirti in colpa. Quando vi hanno spedito su quell'isola, voi...» la lingua di lui incespica e, se la vista di Reiner non lo inganna, è un barlume di lacrime quello che intravede negli occhi dell'uomo, «voi eravate solo dei bambini.»  

«Quelli che dovrebbero essere arrabbiati con noi stessi, dovremmo essere noi genitori. Io, tua madre, i signori Galliard, che...» il signor Hoover si interrompe, poi aggiunge:  

«Siamo noi che vi abbiamo spinto ad arruolarvi. Per cosa, poi? Gloria? Denaro? Sono tutte sciocchezze. Ai tempi, io e mia moglie eravamo troppo giovani per capirlo. Io l'ho compreso soltanto ora, dopo aver perso lei e mio figlio, che non vale la pena sprecare la propria vita per queste cose.»  

Reiner lo ha ascoltato senza ribattere, tuttavia non accetta che il signor Hoover lo giustifichi così facilmente. È stato lui a convincere Annie e Bertolt a continuare la missione. Dovrebbe essere lui quello che dovrebbe biasimare. 

«No, non è vero, non è così...» farfuglia, «se quel giorno io non li avessi convinti a proseguire con la missione, lui sarebbe ancora qui... e anche Annie.»  

L'uomo lo osserva di sbieco e scuote il capo per contraddirlo, ma stavolta non lo riprende.  

«Se Bertolt avesse voluto tornare indietro, l'avrebbe fatto senza problemi e lo sai anche tu, Reiner... Non so cosa sia successo di preciso quel giorno... ma se ha deciso di seguirti, significa che la riteneva anche lui la scelta migliore.»  

Sgrana gli occhi quando il signor Hoover gli fa notare quel particolare e, sebbene non dovrebbe, si sente uno stupido a non essersene accorto prima. Ha ragione: se Bertolt avesse voluto abbandonarlo, gli sarebbe bastato attendere la notte e scappare insieme ad Annie. Quei due insieme ce l'avrebbero fatta, eppure nessuno dei due ci aveva provato. Non sa dove l'uomo trovi la forza di sorridere, nonostante stiano discutendo sul suo defunto figlio, tuttavia quel gesto è abbastanza per infondere di nuovo fiducia in Reiner.  

«Gli volevi molto bene, vero?» 
 
Volergli bene è un eufemismo. Reiner amava Bertolt. 

«Sì, molto. È stato la mia ancora di salvezza in quell'inferno.» 

«Mi fa piacere sentirlo... Ricordo quando aveva dieci anni e spiccicava a malapena parola con gli altri bambini. Preferiva sempre comunicare tramite i gesti, sai. Anche sua madre era così...»  

«Sì, ho ben presente...» mormora, mentre la mente ritorna ai giorni passati a Marley, prima di partire, «non era cambiato affatto da questo punto di vista.»  

Il signor Hoover gli sorride di nuovo e annuisce, dopodiché azzarda una proposta che Reiner non si sarebbe mai aspettato di ascoltare – e men che meno di soddisfare, data la sofferenza che prova:  

«Ti dispiacerebbe... Parlarmi di lui? Per favore? Se non ti va, non fa nulla, non devi sentirti...»  

«No, affatto» risponde, anche se non sa dove troverà la forza per parlargli di Bertolt, «è il minimo che posso fare per lei.» 

 Zeke è appoggiato alla parete del cubicolo, la barba bionda sporca di polline e della sfumatura violacea dei petali che, fino a poco prima, piovevano dalle sue labbra. Dopo che li ha trovati dietro al gabinetto, Porco gli ha fermato gli occhiali sul colletto della camicia. È la prima volta che lo vede senza di quelli sul naso – pare addirittura un’altra persona. 

Da quando l’ha trovato inginocchiato, non ha aperto bocca – neanche per inveire. Lo ha solo aiutato a sedersi, dopo che il suo corpo ha smesso di essere scosso da colpi di tosse, poi ha raccolto il velo di petali che ricopriva il pavimento – ha ispezionato centimetro per centimetro quel dannato bagno, affinché non rimanesse una singola traccia di ciò che è accaduto –, li ha gettati nel water e poi ha tirato lo sciacquone.  

«Hai bloccato la porta?» è l’uomo a spezzare il silenzio, mentre si nasconde gli occhi con la mano.  

Ha ancora la fronte imperlata di sudore, tanto è stato lo sforzo a cui lo ha sottoposto la malattia. Quella è anche la prima volta in cui lo vede tanto trasandato, senza cappotto e la camicia bianca spiegazzata.  

«Sì.» 

Perché Zeke vomita fiori? Chi è la causa del suo male? Da quanto tempo?  

Le infinite domande che affollano la mente di Porco gli provocano un’emicrania e, infastidito dal dolore soffuso, il ragazzo arriccia le labbra in una smorfia. Gli si siede di fronte, con le ginocchia raccolte al petto e il mento posato su di esse. Ora che è calato il silenzio, si accorge dei tonfi accelerati che produce il proprio cuore. Il suo corpo ha prodotto tanta adrenalina in quei pochi minuti di panico, che lo farà sentire euforico fino alla fine della giornata.  

«Vuoi lasciarti morire anche tu?» gli chiede con stizza. 

Zeke si scioglie in una fragorosa risata, che a Porco ricorda quella disperata di Reiner. Perché provoca quella reazione in tutti? Quando le pupille di Porco cadono di nuovo sulla barba lurida dell’altro, decide di strappare un paio di quadrati di carta igienica e offrirglieli.  

«Non sono così disperato» gli rivela l’uomo, il tono pacato, mentre accetta i fazzoletti improvvisati e si pulisce con essi. 

«È la prima volta che mi succede. Quando mi riprenderò, lo riferirò ai medici» continua Zeke, che poi estrae un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni.  

Ne prende una tra le labbra, sebbene la sigaretta sia un po’ piegata all’altezza del filtro, dopodiché rivolge il pacchetto verso Porco. 

«Non dovremmo fumare in ospedale» gli fa notare, ma quello scrolla le spalle, per intendere che non è grave. 

Ne estrae una e se la porta in fretta alle labbra, come se temesse che qualcuno gliela rubi, e sporge il l volto verso l’altro, affinché gliela accenda. Invece che rilassarlo, la nicotina lo agita di più, perciò comincia a tamburellare le dita sulle mattonelle del bagno. È poco igienico, tuttavia ha bisogno di farlo per sfogare la tensione. 

«Che c’è, Pock? Vorresti chiedermi qualcosa?» 

Porco è infastidito dal nomignolo affibbiatogli – l'uomo non rientra tra le persone che hanno diritto di chiamarlo in quel modo –, ma anche sorpreso dal tacito permesso che Zeke gli dà. Non comprende il motivo che si cela dietro quell’azione, però coglie la palla al balzo e pone la domanda che gli preme sulla punta della lingua: 

«Di chi è la colpa?»  

«Colpa?» le labbra dell’uomo si piegano in un sorriso beffardo, quando ripete quella parola sporcandola di ironia. 

«Sì, colpa. Se stai vomitando fiori è perché sei innamorato, no? Quindi qualcuno ti ha rifiutato, oppure... qualcuno che ami è morto. In un certo senso, è colpa di quella persona se stai così.» 

Zeke pare divertito da quell’affermazione, eppure non risponde alla domanda che gli ha fatto. Si limita ad aspirare con pigrizia delle lunghe boccate di fumo dalla sigaretta, di cui poi getta la cenere nel gabinetto. Niente dell’atteggiamento dell’altro tradisce timore, oppure altre emozioni. Pare quasi che sia annoiato o infastidito da quella situazione, come se fosse stato inconsapevole, fino a quel momento, del pericolo che corre. 

«Perché non provi ad indovinare?» gli suggerisce quello, quando tra le dita non regge altro che il filtro.  

Porco solleva un sopracciglio, incuriosito da quella proposta. Non comprende perché l’altro tiri così tanto la corda. Lo ritiene un comportamento parecchio meschino, persino per gli standard di Zeke.  

Perché non dirglielo e basta? Perché trattenerlo lì e stuzzicarlo su quel quesito? 

Abbassa le palpebre e si concentra, cosicché possa trovare quanto più rapidamente possibile la risposta, poi la sua mente viene attraversata da una serie di ricordi che lo travolgono.  

Le dita di Zeke che tirano i capelli di Pieck. La mano di lui sulla schiena di lei. Le numerose sigarette offertele e prontamente rifiutate. I complimenti intrisi di sarcasmo. Il ritardo di Pieck quella mattina, poi Zeke che vomita fiori nel bagno.  

Mentre spalanca gli occhi e lancia la propria cicca nella tazza di ceramica, Porco sibila con irruenza un unico nome: 

«Pieck.» 

 Da quando parla con il signor Hoover, non prova più il senso di nausea che lo ha assalito al risveglio. Di solito parlare di Bertolt aumenta la probabilità che i fiori sboccino, eppure oggi non è così. Si chiede quali strambi meccanismi si celino dietro quella malattia, perciò si segna in mente quali quesiti porre al medico quando lo visiterà.  

«Dunque,» mormora l’uomo, il timbro macchiato di trepidazione «era diventato davvero così alto? Il mio piccolo Bertl?» 

«Sì, sfiorava quasi i due metri» gli rivela Reiner, le cui labbra si arricciano all’insù.  

La bocca dell’altro mima un silenzioso wow, poi si asciuga qualche lacrima col dorso della mano. Reiner rizza la schiena e si sporge verso lui, preoccupato da quell’improvvisa commozione, ma il signor Hoover solleva il palmo dell’altra mano per bloccarlo. 

«Sto bene,» lo anticipa, «non preoccuparti.» 

È una bugia palese quella che gli rifila l’uomo, tuttavia non ha voglia di contraddirlo. Non può neanche immaginare quanto sia profonda la sofferenza di un genitore che perde il proprio – e unico – figlio. Il viso di sua madre si sovrappone a quello del signor Hoover per una frazione di secondo. È stato un imbecille nel pensare che l’unico a soffrire per quella disgrazia fosse lui. 

«Mi scusi» dice d’impulso. 

L’uomo sfarfalla le ciglia umide un paio di volte, dopodiché tira su col naso e rivolge il capo verso di lui: 

«Come, Reiner?» 

«Mi scusi se non le sono stato vicino quando avrei dovuto» specifica e reprime un singhiozzo. Basta piangere s’impone, mentre stringe un lembo di stoffa tra le mani. 

«Oh.» 

Il signor Hoover scrolla le spalle e si pinza la radice del naso tra indice e pollice. Adesso i capelli chiari gli ricadono sulla fronte e non emette alcun suono, quindi Reiner non sa se l’altro sia piangendo o meno.  

«Non preoccuparti, Reiner. Sono un uomo adulto, io» mormora, poi solleva il capo e punta i grandi occhi verdi verso di lui. 

«Comprendo benissimo le tue motivazioni. Non è facile assimilare questi lutti, soprattutto... Quando si è giovani come te. Quanti anni hai, ora, Reiner? Diciotto?» 

Annuisce tramite il capo, dopodiché si morde il labbro inferiore. Ha festeggiato il compleanno mentre era a Paradise, quando campeggiavano sul Wall Maria. Prima che la situazione degenerasse e che loro rivelassero le proprie identità, Reiner aveva preso l’abitudine di festeggiarlo da solo insieme a Bertolt – poche volte Annie era stata presente, poiché non scorreva buon sangue tra loro. A ripensarci, forse la ragazza manteneva così tanta distanza da lui e Bertolt per evitare di affezionarsi – più del necessario, dato che si era creato comunque un legame tra loro, a causa al loro destino comune. 

«Vedi? Sei ancora un ragazzo» il signor Hoover si distrae un attimo e gli arruffa i capelli con una carezza grezza, «il mio Bertolt ne avrebbe compiuti diciassette questo dicembre» aggiunge sovrappensiero. 

Reiner inghiotte bile, quando l’altro pronuncia quella frase. Quante volte aveva promesso a Bertolt che lo avrebbe riportato a casa prima del suo compleanno? 

«Sì, lo ricordo bene. Spesso cadeva la neve il giorno del suo compleanno, perciò facevamo interi eserciti di omini di neve. No, aspetti... pupazzi. Li chiamavano pupazzi, su Paradise.» 

È pietà quella che contorce le labbra del signor Hoover. Reiner è incredulo, quando scorge quell’emozione nel volto dell’altro: quant’è patetico, mentre rievoca quelle memorie trafugate? 

Se avesse uno specchio, probabilmente lo polverizzerebbe, pur di non vedere il proprio riflesso su di esso.  

«Io... Io devo confessarle una cosa, signore» balbetta e l’uomo sfarfalla di nuovo le ciglia, sorpreso da quella sua strana uscita. 

«Bertolt per me non era solo un amico. Per me lui era tutto. È stato grazie a lui se non ho dimenticato chi fossi, a Paradise. È stato la mia ancora, la spalla su cui piangere, quando pensavo di non potercela fare. Quello che voglio dire è che... Io lo amavo. E lui amava me.» 

«Ti sei dichiarato e lei ti ha rifiutato?» 

La risata che rimbomba nel bagno è roca e profonda, quasi agghiacciante. A Porco sarebbe bastato una semplice negazione: quella reazione è eccessiva, soprattutto per Zeke, perciò la interpreta come un modo per smorzare la tensione. Almeno crede, perché l’uomo è impossibile da interpretare. 

«Sarebbe bastato rispondere di no» lo riprende e percepisce le guance bruciare.  

Zeke scuote il capo, le labbra arricciate in un sorriso sornione, sebbene sia poco evidente a causa della barba folta. Estrae di nuovo una sigaretta dal pacchetto ma, quando gliene porge una, rifiuta. Non lo guarda, ma ascolta i numerosi click provenienti dall'accendino dell'uomo, prima che esso produca una fiammella. Osserva Zeke immergere la punta della sigaretta nel fuoco e arriccia il naso, quando il tanfo del fumo gli pizzica le narici. Sebbene gli dia fastidio non protesta, perché sarebbe incoerente farlo, da parte sua.  

«È capitato per errore» spiega l'altro, anche se Porco non comprende come possa verificarsi per errore un evento del genere.  

«Che intendi?» Zeke prende un lungo tiro dalla cicca, poi gli soffia di proposito il fumo sul volto, ma lo fa lentamente, cosicché la piccola nube grigia lo intossichi il più a lungo possibile.  

«Stavamo parlando tranquillamente, quando mi ha rivelato che a lei interessa qualcuno.» Porco stritola la stoffa dei pantaloni, quando sente quella frase. A Pieck interessa qualcuno. Qualcuno che non è Zeke, però, e non sa se esserne lieto o preoccupato. Potrebbe essere qualcuno della squadra panzer, oppure... che sia Reiner? La rabbia gli monta dentro al solo pensiero. Sarebbe il colmo, se fosse davvero così: sarebbe l'ennesimo affronto che l'altro muove nei suoi confronti.  

«Capisco» sussurra con stizza e il sorriso dell'uomo, se possibile, si amplia.  

«Non sei curioso di sapere chi sia il fortunato?» lo stuzzica l'altro, ma Porco scrolla le spalle e il capo.  

«No. Me lo dirà lei, quando si sentirà pronta.»  

Non gli sfugge il luccichio malizioso nelle iridi cristalline di Zeke, ma evita di indagare. È troppo scosso da tutto ciò che ha appena saputo. 

«Come vuoi tu. A giudicare la tua reazione, deve piacerti parecchio, Pock.»  

Porco punta le pupille contro quelle di Zeke, sorpreso da quell’ammissione. L'altro lo ha letto con così tanta facilità, che si domanda se sia lui quello troppo prevedibile, oppure se sono gli occhi dell'altro quelli capaci di penetrare nel suo animo. Quanto mancherà prima che si ammali anche lui? O forse ha già contratto la malattia ed è questione di minuti, prima che i fiori sboccino nel proprio petto?  

«Non è vero. Pieck è solo un'amica» mente.  

«Se è solo un'amica, perché le tue orecchie sono rosse?» ribatte l’altro.  

Quando gli viene fatto notare questo particolare, Porco si copre immediatamente le orecchie con le mani. Solo ora che le tocca, nota quanto siano calde e lancia un'occhiataccia all'altro, mentre incurva le labbra in un ringhio. Zeke ride di nuovo, ma non in modo genuino e contagioso. È come se si sforzasse: che lo faccia per non tormentarsi su ciò che gli è successo?  

«Smettila di prendermi in giro!» esclama, poi, avvilito, gli domanda: «come riesci a scherzare, nonostante tu sappia che stai morendo? E dopo che Pieck ti ha rifiutato, inoltre.»  

L'uomo si quieta, mentre le labbra svaniscono sotto i peli della barba, quando le serra. Lo sguardo dell'altro lo sonda, come se volesse trovare la risposta nella propria figura, e Porco si sente in soggezione, poiché non ha mai avuto un momento così intimo con nessuno, oltre Pieck. Men che meno con un altro ragazzo: forse solo con Marcel, ma erano troppo piccoli per scambiarsi opinioni su argomenti di tale portata. Nonostante tutto, ammette di apprezzare questi istanti.  

«Ho molte cose importanti da portare al termine. Se mi lascio sopraffare da queste piccolezze, non riuscirò a concludere il mio compito.»  

Il tono di Zeke è serio e, a tratti, gelido. Ha persino smesso di guardarlo, mentre pronunciava quella frase, quindi ipotizza che la sua mente fosse dedita all'obiettivo di cui parla. Se si riferisca alla conquista di Paradise o ad altro, Porco non lo sa, ma sospetta che non sia affatto la prima opzione. Vi è un breve momento di pausa, durante il quale la sua attenzione scivola sul pavimento e i pensieri smettono di fare rumore. Gli fa strano pensare al niente, dopo che ha riflettuto troppo nell'ultimo periodo.  

«Mi dispiace» sussurra dopo un po', «avrei preferito che questo capitasse a me, piuttosto che a te. Anche se si tratta di Pieck» rivela.  

Non sta mentendo: anche se è stato geloso dell’uomo, avrebbe davvero preferito che qualcosa del genere fosse capitato a lui. L’ultima cosa che desidera è assistere alla morte di un’altra persona a lui cara. Gli occhi dell'uomo si spalancano appena, prima di chiudersi completamente.  

«Sei un bravo ragazzo» commenta Zeke, il quale, poi, si solleva di scatto. 

«Ti senti meglio?» chiede, preoccupato di un movimento così repentino, e per tutta risposta l'altro indossa il cappotto beige - diventato a chiazze nere in alcuni punti - su cui è stato seduto fino adesso.  

«Sì, sì. Vieni con me» gli propone quello, dopo che esce dal cubicolo. Porco si affretta a seguirlo, sebbene nutra dei seri dubbi riguardo quelle parole. 

«Dove vuoi andare? Non dovresti vedere un medico o parlare con il comandante Magath?»  

Zeke gli sventola la mano destra sotto al naso e s'infila la sinistra in tasca.  

«Più tardi. Ora voglio fare qualche tiro.»  

Si arresta, stupito da quell'affermazione. Questo gli riporta la mente quand'era uno scricciolo in cerca di attenzione e, in assenza di Marcel, implorava spesso Zeke di giocare con lui. Ha sempre ricevuto rifiuti, però, e nel corso degli anni Porco ha smesso di assillarlo sulla questione, abituandosi alla solitudine. Sentirselo proporre, così, all'improvviso, è come assistere alla realizzazione di uno dei suoi desideri infantili. Se ne vergogna un po’, dato che a sedici anni, di cui la metà passata sul campo di battaglia, ancora trae piacere da un gioco così banale – oppure è giocare con Zeke a procurargli piacere? 

«Ti sei incantato, Pock?» lo incalza l’uomo. 

«Ehi, smettila di chiamarmi così!» protesta e, con grandi falcate, annulla la distanza tra loro.  

«Dovrei cercare Pieck, prima di venire con te. Mi aspettava» lo avvisa. Dopo tutto quello che è successo, stava quasi per dimenticarsene. 

«Oh, lascia perdere. Mentre entravamo in ospedale, abbiamo incontrato Magath e l'ha presa con sé. Credo che voglia sfruttarla per convincere Reiner ad operarsi, o qualcosa del genere.»  

Le labbra di Porco si contorcono in una smorfia: ora comprende perché Pieck era in ritardo. Da una parte è sollevato di sapere che stesse bene – o che non si fosse dimenticata di lui. Tuttavia, le parole di Zeke gli mettono un tarlo fastidioso nell’orecchio. 

«Se vuole convincerlo ad operarsi, significa che c’è rimedio per questa cosa?»  

In realtà Porco non comprende perché sia necessaria un’operazione, dato che gli Shifters hanno la capacità di guarirsi da soli. Quando rivedrà Pieck glielo domanderà, poiché è l’unico pezzo mancante di quell'enigma.  

«Sì, tuttavia implica una serie di effetti collaterali, che, data l’emotività di Reiner, è certo che rifiuterà di operarsi. Scommetto che, piuttosto, preferirà farsi divorare da Colt. Peccato.»  

La freddezza che trasuda da quelle parole gli fa venire i brividi. Neanche lui, per quanto odi Reiner, potrebbe prendere così alla leggera una sua dipartita. Perché sotto sotto lo capisce, oppure perché è troppo buono? 

«Perché dovrebbe fare qualcosa del genere?» Porco riflette sulle parole pronunciate da Zeke, poi aggiunge: «Quali sono questi effetti collaterali?»  

Quando una folata di vento lo investe e lo fa rabbrividire, si rende conto che sono giunti nel cortile dell’ospedale. Il cappotto lungo di Zeke ondeggia e i capelli biondi vengono arruffati di più, a causa dell’impeto della brezza. I raggi solari colpiscono in pieno la figura dell’uomo, che ora è davanti a sé, quindi Porco è costretto a ripararsi il volto col palmo della mano per metterlo a fuoco. 

«È semplice, Pock. Se vieni operato, dimentichi chi hai amato e tutto ciò che lo riguarda. Inoltre, perderai la facoltà di amare.» 

Una vita senza amore realizza Porco, mentre gli occhi nocciola diventano enormi quando li spalanca a causa dello stupore. Ora comprende in parte le motivazioni di Reiner, sebbene non le condivida. 

Una vita senza amore vale la pena di essere vissuta? si domanda, mentre si accorge che una pallina da baseball vola nella propria direzione. 

 Il signor Hoover tace, eppure sembra soltanto sorpreso – non disgustato. Dato che l’uomo non commenta, Reiner si premura di specificare un dettaglio che ritiene di vitale importanza. 

«Se io sto così male, se... se sto morendo prima del previsto, è per questo motivo. Non ho capito i dettagli della malattia, ma, a quanto pare, i fiori che mi crescono dentro sono alimentati dall’amore che provo per Bertolt.» 

Cosa spera di ottenere rivelando questo al signor Hoover? Una parola di conforto? Un invito a lasciarsi stringere dalle braccia della Morte? Non lo sa, ma sta meglio dopo che gli ha confessato questo segreto.  

L’uomo si prende il mento tra le dita, pensoso, mentre fissa un punto indefinito del lenzuolo che ricopre Reiner. Anche se adesso dovrebbe, non prova alcun imbarazzo – quasi avessero raggiunto davvero l’intimità tra padre e figlio. 

«Ci hanno mentito» sussurra, poi lo ripete più forte: «Il governo ha mentito sulla tua malattia. Adesso... Adesso ne comprendo il motivo...» 

Solleva un sopracciglio confuso e stritola la stoffa che lo ricopre, mentre ricollega quella rivelazione alla frase stramba che ha pronunciato sua madre prima. Hai solo seguito i tuoi istinti, gli aveva detto. 

«Cosa intende, signore?» azzarda a chiedere. 

Quello infila l’indice nel colletto per allargarlo, come se d’improvviso gli stesse troppo stretto e gli rendesse difficile respirare. 

«Hanno diffuso la notizia che hai contratto questa malattia per via... sessuale. Ciò ha creato un po’ di scompiglio in questi giorni, perché è stato implicato che tu, insomma... Hai toccato un’eldiana, ecco. Ma ora capisco il motivo per cui hanno mentito. Se l’opinione pubblica sapesse di te e Bertolt... Ti farebbero divorare dal prossimo candidato immediatamente, senza nemmeno tentare di tenerti in vita» aspetta qualche secondo, prima di proseguire flebilmente, «potrei rimetterci io stesso... Non che me ne importi, arrivati a questo punto.» 

Reiner si copre il volto con le mani, mortificato fino alla punta dei capelli, quando ascolta quelle parole. Conficca le unghie nella fronte, ma non emette alcun lamento: trema e basta, mentre la rabbia gli ribolle dentro lo stomaco come lava in un vulcano. Non solo deve subirsi il danno, ma anche la beffa. È diventato lo zimbello di tutta Marley: dove diamine lo troverà il coraggio di uscire alla luce del sole, adesso che tutti sono consapevoli del suo fallimento e, inoltre, sospettano che si sia unito ai demoni dell’isola – soprattutto, quando la verità è ben altra? 

Vorrebbe esprimere il suo desiderio – troppo intenso – di morire, ma si morde la punta della lingua pur di trattenersi. Non può fare una cosa del genere, non davanti a quell’uomo che ha perso tutto e che, nonostante l’età, vivrà comunque più a lungo di lui. Inghiotte il boccone amaro e cerca di lasciarsi scivolare via quella verità, come se fosse acqua su un impermeabile.  

I suoi pensieri si amalgamano e perdono il filo logico, quando percepisce due braccia cingerlo. Il signor Hoover è delicato – tale padre, tale figlio – ma deciso, infatti, dopo il primo tentativo di divincolarsi dalla presa, quello aumenta la stretta – non abbastanza da fargli male, però.  

«Mi dispiace. Adesso capisco.»  

Sono quattro parole semplicissime, tuttavia hanno la forza di farlo crollare, neanche fosse un castello di carte. Forse è perché gli ricorda Bertolt, oppure perché ha solo bisogno di tutto il supporto che le persone possano offrirgli in questo momento, tuttavia ricambia l’abbraccio con veemenza e affonda il volto nella spalla dell’uomo. Non singhiozza, ma le lacrime scorrono senza sosta ed è inevitabile che gli inzuppi la maglia. 

«Reiner, ragazzo mio… lascia che ti dica una cosa. I morti non ritorneranno indietro. Non strisceranno fuori dalle loro tombe per sedersi a tavola con noi. Non potremo più sentirne il calore e nemmeno sorridere loro. Tutto ciò che possiamo fare è accettare che si trovino altrove, adesso. Dobbiamo lasciarli andare, oppure ci trascineranno nel baratro con loro.» 

Sa benissimo che dovrebbe prendere quelle parole per oro colato, eppure non vi riesce. Ha tentato – e tentato, tentato, tentato – di lasciarsi alle spalle Bertolt e il suo ricordo, ma non fa altro che ritornarvi. 

«Come faccio?» sussurra, la voce tremula a causa dell’emozione. 

«È semplice quanto doloroso... Devi cominciare a vivere per te stesso e per chi ti è accanto.» 

È facile a dirsi. Ma come mettere in pratica un consiglio del genere, quando... No, deve smetterla. È questo il tipo di atteggiamento che l’ha condotto fino a quella branda d’ospedale. Bertolt sarebbe così deluso se lo vedesse in questo momento.  

«Ho capito» sibila e ha bisogno di tutte le sue forze per pronunciare quelle due parole. 

Come premio riceve una carezza sulla nuca. Nessuno dei due accenna a sciogliere l’abbraccio, e Reiner è grato di questo al signor Hoover: lo sta trattando proprio come un figlio. 

«Signor Braun...?» 

Solleva gli occhi per scrutare il viso – ormai familiare – dell’infermiera, dopo che questa lo richiama. La donna sembra dispiaciuta di aver interrotto il momento, però non la biasima, dato che svolge solo il suo lavoro. 

«Il generale Magath ha chie... ha ordinato di vederla» la donna stringe le dita sulla superficie di legno e contrae le labbra in un broncio, mentre lo dice, «ha espressamente richiesto che foste da solo.» 

Deglutisce, poiché preoccupato da quel dettaglio che è sicuramente sinonimo di deve parlargli di affari importanti. L’infermiera sparisce dietro la porta, quando lui annuisce per darle il via libera. 

«Sembra proprio che ce l’abbia con me» gli ridacchia l’uomo all’orecchio. 

Reiner scioglie malvolentieri l’abbraccio – vorrebbe che il signor Hoover rimanesse lì, che gli chiedesse ancora Bertolt, affinché possa soddisfare tutta la sua curiosità, ma si convince che in futuro vi saranno altre occasioni per farlo.  

Prima di allontanarsi dal letto, l’uomo gli regala un ultimo, timido sorriso. 

«Riprenditi, Reiner. Non farmi stare in pensiero» gli intima. 

«Lo farò» risponde flebile e ondeggia la mano per salutarlo.  

Non ha nemmeno il tempo di ricomporre i pensieri, che il passo pesante di Magath riecheggia al di fuori della stanza. Quando la porta viene spalancata, scorge altre due figure, oltre quella del generale: sono Pieck e un uomo in camice bianco poco più alto di lei.  

«Finalmente sei sveglio, Braun» constata, ma non c’è traccia di sollievo nei suoi occhi. 

Pieck lo saluta con un cenno del capo, ma non proferisce parola. È più pallida del solito ed evita il contatto visivo. Che le è successo? 

Il medico si allontana subito dal fianco di Magath, chiude la porta e con nonchalance si accomoda sulla sedia accanto al letto. Non ha nessuna cartellina tra le mani, né uno stetoscopio: che tipo di dottore è uno che si comporta così? Per quanto gli sia possibile, Reiner si allontana e si fa più in là nel letto, poi corruga le sopracciglia. Quando l’uomo si accorge di quel gesto, gli sorride mellifluo. Quel tizio non gli piace per niente.  

«Questo è il dottor Florian Lehner» annuncia Theo, il cui timbro è così alto, che sia lui, che Pieck, che il medico strizzano le palpebre dal fastidio. 

«Che bisogno ha di urlare, generale? Il ragazzo non è mica diventato sordo, è solo innamorato» lo canzona il dottor Lehner, che pronuncia la parola innamorato con tono irriverente. Adesso è infastidito. 

«Metta da parte il sarcasmo e parli» borbotta il generale Magath, scandendo ogni parola. 

«D’accordo, chiedo umilmente perdono, comandante.» 

«Generale» lo correggono contemporaneamente lui e Pieck. Theo rimane impassibile, ma l’espressione distesa fa sospettare a Reiner che sia soddisfatto da quel gesto. Tutti sanno bene quanto ci tenga al suo grado militare. 

«Allora, veniamo a noi, Reiner...» mormora l’uomo, che mette una gamba a cavallo dell’altra, «hai fatto penare me e il medico inviatoci dagli Azumabito per un paio di giorni, dovresti vantartene.» 

Non sa cosa dire, sebbene sia sorpreso nello scoprire che siano stati contattati persino gli Azumabito, affinché si trovasse un antidoto per la sua malattia. È certo che sia stata opera di Magath, poiché il governo Marleyano avrebbe fatto in fretta a rimpiazzarlo con un candidato. Attende che il dottor Lehner continui – in parte in soggezione adesso, dato che le iridi chiare del medico lo scrutano con attenzione. 

«Forse sospetti perché, oppure no, ma cercherò di spiegarti qual è stato l’intoppo senza che tu ti sprema troppo le meningi» sorride sornione quello, come se avesse appena fatto la battuta del secolo. Si renderà conto che nessuno ride? 

«Dunque, dunque... Io e il dottor Yamashita ci chiedevamo: perché il Titano non guarisce il proprio ospite, se quest’ultimo è in pericolo? Voglio dire, sei arrivato persino a vomitare sangue, secondo il rapporto della signorina Finger» si arresta un attimo, per scoccare un’occhiata languida a quest’ultima, «e del signor Galliard. In quel momento, il Gigante avrebbe dovuto curarti, no? Invece il nulla. Zero totale. Titano non raggiungibile.» 

Reiner segue il filo logico del discorso, ma non comprende dove voglia andare a parare. Rimane zitto, mentre osserva l’uomo che gesticola e ghigna, presissimo dall’esposizione che sta eseguendo. 

«Dopo trentasei caffè e cascate di tè e aver confrontato tutte le cartelle mediche degli ultimi casi di hanahaki, siamo giunti, o per meglio dire, il dottor Yamashita è giunto a due brillanti conclusioni!» 

Solleva le braccia al cielo e pianta le scarpe sul pavimento, quando grida quell’ultima frase. Dopo quella reazione, osserva i volti del generale e di Pieck, che sostano in piedi dietro al medico: anche loro sembrano turbati dai modi dello strambo individuo. Da dove lo hanno tirato fuori, quello? 

«Che sarebbero?» azzarda e il dottor Lehner scatta, si alza e comincia a camminare su e giù lungo la stanza. 

«Prima conclusione: che questa malattia colpisce solo i discendenti della stirpe di Ymir! Ovvero solo gli eldiani. La seconda, è che questa malattia non è portata da un fattore esterno. Insomma, non è causato da virus, microbi o altro: è tutto nella tua testa!» 

Cosa significa che la malattia è nella sua testa? Sta diventando pazzo, forse? 

La sua espressione ha assunto sicuramente una sfumatura di sorpresa, perché Pieck rivolge uno sguardo preoccupato al generale Magath, che, ricevuto il messaggio, allunga una mano per afferrare la spalla dell’uomo e vi conficca le unghie. 

«Arrivi al dunque» sibila l’uomo all’orecchio di quello. 

Il dottor Lehner sembra divertito, perché non mostra cenni di timore, anzi, si gratta la barba brizzolata e sghignazza. 

«Mi scusi, mi scusi, non c’è bisogno di arruffarsi così tanto. Comunque sia, in sostanza, abbiamo capito, grazie alla nostra ricerca, che vi è una correlazione tra la tua psiche, il Titano e la malattia, per cui ti impedisce di rigenerarti da solo, oppure, ammesso che tu ci abbia provato, se tenti di farlo cominci a perdere qualche ricordo.» 

Reiner non ha mai tentato di guarirsi, tanto è stato preso dal suo obiettivo, e non comprende neanche cosa intenda l’uomo con l’espressione “perdere qualche ricordo”. 

«Quindi... avete trovato un modo per guarirmi?» sintetizza, sebbene nutra seri dubbi al riguardo. 

«Sì, ovvio. È per questo motivo che sono qui! Dunque, affinché tu guarisca da questa malattia, è necessario rimuovere le radici e i semi che abbiamo rinvenuto all’interno dei tuoi polmoni, che, come dicevo, sono collegati alla tua psiche. Il dottor Yamashita ha già effettuato operazioni di questo genere, perciò sei in ottime mani. C’è un però» il dottore si rivolge verso il generale e quest’ultimo acconsente mediante un cenno del capo. 

A giudicare dall’espressione di Pieck, dal silenzio di Magath e dalla presenza del dottore, Reiner già sospetta che quel “però” non gli piacerà affatto. 

«La rimozione del giardino» il dottor Lehner ridacchia tra sé e sé, quando pronuncia quella parola, «comporta la perdita delle memorie riguardanti la persona amata e tutto ciò che è relativo ad essa. Senza contare...» il seguito della frase Reiner non la sente, perché l’uomo la mormora a voce troppo bassa. 

Il generale gli tira una gomitata nel costato, affinché quello continui. A Reiner però non importa di ciò che il dottore ha da aggiungere: la sua mentre sta sventrando il concetto di perdita di memoria che l’uomo ha appena menzionato. 

«Un altro effetto collaterale provocato dall’operazione, è che potresti perdere la facoltà di nutrire, emh... un amore così profondo nei confronti di un’altra persona. Non sto qui a spiegarti quali processi chimici entrano in gioco, ma...» 

«Basta» ordina, preda della rabbia, «se è tutto questo quello che avevate da dirmi, potete andarvene.» 

Non poter più provare amore! Nessuno dei tre si rende conto che gli stanno chiedendo di privarsi della sua umanità? 

«No, non c’è solo questo» incalza il generale Magath, che muove un passo verso il letto, «il Consiglio di Guerra ha decretato che, se non prenderai una decisione entro cinque giorni a partire da oggi, o se ti rifiuterai, verrai dato in pasto ad uno dei cadetti.» 

«Il Consiglio non vede l’ora di liberarsi di me, a quanto pare...» dopo che pronuncia quelle parole, si copre gli occhi col palmo della mano. 

«Se posso permettermi di sottolinearlo» li interrompe il dottor Lehner, che si aggiusta gli occhiali sul naso all’insù, «in ogni caso non ti resterebbe molto da vivere, poiché la malattia procede ad un ritmo parecchio veloce, persino per i normali standard. Tra due mesi o tre il tuo corpo potrebbe abbandonarti completamente.» 

Quindi non avrà molto da vivere in ambo i casi, se non rinuncia alla sua facoltà di amare.  

«Ho capito» taglia corto, «voglio... voglio rimanere da solo per adesso. Ho bisogno di tempo per pensare.» 

Vi è un lungo silenzio, poi è la voce bassa di Theo a riprendere il discorso. 

«D’accordo, Braun. Tra cinque giorni verrò personalmente a registrare la tua risposta» risponde il generale Magath, dopodiché nella stanza riecheggia una caciara di passi, che cessa solo quando viene sbattuta la porta.  

Sospira, ma nulla di più. Le energie per piangere o disperarsi le ha esaurite – oppure non ne ha semplicemente voglia, dato che ha già versato troppe lacrime quest’oggi. L’unica sensazione che prova – se così può definirla – è quella del nulla.  

«Reiner?» 

Nemmeno si premura di togliersi la mano dal volto, quando riconosce la voce di Pieck. È stanco, troppo stanco, pensa tra sé e sé. 

«Dimmi» borbotta, quasi esasperato.  

Percepisce la ragazza sospirare, poi ascolta il ticchettio dei passi di lei sul pavimento e, infine, il materasso appesantirsi vicino ai piedi.  

«Puoi avvicinarti» le propone e soltanto adesso abbassa la mano dal proprio viso.  

«Magath vorrebbe che ti operassi» esordisce Pieck e nota che lei si ostina ad evitare il suo sguardo, «per questo sono qui.» 

«Per convincermi?» sbuffa divertito e scuote il capo. Ormai lo trattano tutti come se fosse un vaso di ceramica in procinto di sgretolarsi. 

«Sì, tuttavia... Non ho intenzione di convincerti. È una scelta... importante e deve solo essere tua.»  

Adesso comprende perché la ragazza non lo osserva. Non ha il coraggio di farlo. Reiner apprezza la scelta di Pieck, per questo motivo allunga una mano per prendere quella di lei. La stringe, cosicché entrambi possano trarne sostegno, e grazie a quel gesto lei volta il capo verso di lui. Ha gli occhi lucidi – ed è convinto di averli anche lui, quindi sono pari. 

«Grazie» dice e quella ricambia con un sorriso a labbra strette. 

«È il minimo che posso fare, dopo ciò che è successo sull’isola.» 

«Che intendi?» le chiede, poiché non comprende il significato di quelle parole. 

La ragazza sembra diventare di pietra, dato che non muove un singolo muscolo del proprio corpo. Non sbatte nemmeno le ciglia, quando lui pone quella domanda. 

«...che non ho potuto fare nulla» è il pezzo di frase che riesce a cogliere.  

Impiega una manciata di minuti, prima di collegare gli indizi: il giorno del suo risveglio, il fatto che lei e Porco lo pedinassero, il sostegno offertogli durante la sua crisi. Pieck si sente in colpa per ciò che gli sta accadendo.  

«Ma, Pieck...» 

«No, non dirlo. Avrei potuto fare qualcosa, se ci avessi riflettuto attentamente. Il nemico era esausto, ma il panico ha preso il sopravvento su di me, visto come avevano ridotto te e Zeke, e sono fuggita il più lontano possibile.» 

L’ammissione di Pieck trabocca di rancore, ma non verso i demoni, bensì verso sé stessa. Vorrebbe dire qualcosa, tuttavia è consapevole che, quando si nutrono certe emozioni nei propri confronti, nessuna parola è in grado di consolare. Riflettendovi, quell’ira potrebbe averla alimentata lui stesso, dato che aveva preso la decisione di lasciarsi andare. Come rimediare a tutti i problemi che ha procurato? La risposta gli balza subito in mente: tra cinque giorni.  

«Ad ogni modo, adesso ti lascio stare. Vorrai riposa...» 

«Aspetta» la interrompe, strizzandole un attimo la mano, «devo dirti due cose. La prima è che no: non è stata colpa tua» insiste e osserva il viso pallido di Pieck colorarsi di rabbia. 

L’amica apre la bocca per ribattere, ma Reiner nega col capo, affinché lei desista. 

«La seconda è che, se vuoi rimediare, allora ti prego di fare una cosa» la ragazza annuisce e lo osserva incuriosita, «se dovessi dimenticarmi anche del signor Hoover, fai in modo che io mi ricordi di lui. Non voglio abbandonarlo. Non anche lui» la supplica. 

Pieck rimane interdetta, finché non decodifica il messaggio celato tra le parole e spalanca gli occhi, facendo sembrare enormi le sue iridi ebano. È grato che lei abbia compreso, ma è ancora più contento che lei non aggiunga altro e si limiti a circondargli il collo con le braccia.  

«Promesso» gli sussurra lei all’orecchio e Reiner affonda il viso nel collo di lei.  

È certo che diverrà meno umano dopo l’operazione, però, dopo tutto il male che ha compiuto – non solo a Paradise, ma anche a Marley –, Reiner è convinto di non meritare una via di scampo – una via tramite cui ottenere la felicità. Continuerà ad essere un mero strumento nelle mani del governo, ma stavolta sarà in grado di fare qualcosa di buono. 

 

Il vento che soffia sul Wall Maria lo costringe ad avvolgersi nella coperta di cotone. Date le dimensioni ridotte della stoffa, non può coprirsi completamente, ma è abbastanza per impedire al gelo di fargli rizzare i peli sul corpo. Per quanto strizzi le palpebre, non scorge alcuna figura nemica provenire dalla parte opposta: né sulle mura né all’interno del distretto di Shiganshina vi sono esseri viventi.  

Vi è solo una distesa di case diroccate – quelle che distrussero lui ed Annie quel giorno. Trova che sia strano aver provocato tutti quei danni, dato che né il Corazzato né la Femmina hanno delle grandi dimensioni, ma ricorda che, in seguito alla distruzione del muro, si riversarono all’interno del distretto uno sciame di Giganti puri. Si convince che siano stati loro a provocare tutti quei danni ingenti.  

«Eccoti qui, Reiner. Ti ho cercato dappertutto.» 

Reiner volta appena il capo e scruta la figura longilinea che lo sovrasta. Si sofferma sulle iridi verdi e la pelle olivastra del ragazzo che lo ha affiancato, tuttavia non sa associare un’identità a quel volto. Lo dovrebbe conoscere? Perché si rivolge a lui per nome? E, soprattutto, perché si trova lì sulle mura? Addosso ha il dispositivo di manovra tridimensionale, tuttavia non indossa l’uniforme del Corpo di Ricerca. È un alleato, forse? 

«Chi sei? Ti ha mandato Zeke?»  

Il ragazzo spalanca gli occhi e si morde il labbro inferiore. Sembra dispiaciuto dalla sua domanda.  

«Non sai chi sono?» gli chiede quello e Reiner scuote la testa in dissenso. Non ha la benché minima idea di chi sia quella persona – eppure, perché sente un magone in gola, dopo che il volto del ragazzo si è contorto in quell’espressione? 

«Dovrei saperlo?»  

Lo sconosciuto impiega una manciata di secondi, prima di rispondere: 

«No, no... Anzi, credo sia meglio che tu non lo sappia» asserisce.  

Reiner solleva il capo per guardarlo meglio, cercando di captare le vere emozioni che si celano dietro quella frase. Proprio mentre lo guarda, nota che i contorni dell’altro sfumano in minuscoli coriandoli bianchi. Dapprima pensa che siano fiocchi di neve, ma, dopo che ha aguzzato la vista, Reiner capisce che essi sono petali e scatta subito in piedi.  

«Che sta succedendo?!» esclama preoccupato, poi allunga le mani verso il ragazzo che, però, indietreggia con un balzo per non farsi catturare. 

«Resta lì. Sta’ tranquillo... Non sento dolore.» 

«Come faccio a restare tranquillo, mentre tu ti decomponi davanti a me?!» 

Il ragazzo solleva una mano – o meglio, quello che ne resta – per constare lo stato in cui è, dopodiché accenna ad un sorriso. Dai buchi che si creano sul corpo dell’altro, non esce sangue, però: sbocciano altri fiori che un po’ vengono sparsi sul cemento e un po’ dispersi nell’aria. 

«Scusa... Hai ragione, ho detto una cosa stupida...»  

Quell’individuo lo lascia basito. Sta per svanire e tutto ciò che fa è scusarsi per una frase fuori luogo 

«Non c’è molto tempo, Reiner... ma voglio che tu tenga ben a mente queste parole. Spero che te ne ricorderai, quando ti sveglierai: Bertolt ti ama. E non smetterà mai di farlo.» 

Mentre quello pronuncia quelle parole, a Reiner pare di intravedere il luccichio di una lacrima tra le ciglia dell’altro. È tutto così privo di senso logico, ma non fa altro che accettare ciò che succede e, anche se ciò è inutile, stringe nei palmi delle mani i petali. Prova un desiderio profondo di piangere, ma si trattiene, perché lui è un guerriero valido e fiero. 

Tutto ciò che pensa, nel frattempo che l’ultimo brandello di quel corpo si tramuta in fiori è:  

Chi è Bertolt? 

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice 

Eccoci arrivati alla fine. Se attendevate il finale, mi scuso per il ritardo, ma ho avuto dei contrattempi alias lacrime infinite durante la stesura che mi impedivano di continuare, a cui poi si è aggiunta una mancata ispirazione cronica, però in qualche modo ce l’ho fatta! Come per ogni cosa che faccio, dico sempre che sarà breve e invece mi ci dilungo troppo, tuttavia credo che ne sia valsa la pena in questo caso (il mio motto del resto è: bene o niente), anche se la storia in sé non è un granché (del resto in questa sezione ci sono solo storie banali e poco interessanti, cit-)! Comunque sia, ci tengo a ringraziare chi ha inserito la storia tra le preferite, le ricordate, le seguite, chi si è premurato di lasciare un commento o anche chi ha soltanto dedicato un po’ del proprio tempo per leggerla! Vi ringrazio di cuore per avermi affiancato in questo breve (ma intenso) viaggio!

Precisazione di vitale importanza: come avrete intuito, Florian Lehner è un personaggio di mia invenzione (insomma, è un mio OC), di conseguenza NON potete usarlo a vostro piacimento (so che apparirà in altre mie storie in futuro, quindi voglio essere cristallina fin da subito). 

 
SPOILER SE NON SIETE IN PARI COL MANGA, SMETTETE DI LEGGERE: 

Non voglio pronunciarmi troppo sul finale della fanfiction, ma ci tengo a dire che, a mio parere, fosse quello migliore per mantenere i personaggi IC (e spiegare nella mia testa perché Reiner non menziona degnamente Bertolt fino alla fine del manga – tranne che, per miracolo della dea YmirIsayama nel 139 non stravolge tutto)! E sì, ho lasciato parecchie cose in sospeso, ma ho voluto fare così perché potrei scrivere un seguito, delle missing moments ambientate in questo what if, oppure altro – ma in ogni caso spero che questa mia scelta non pregiudichi il vostro parere sulla fanfiction! 

 

Qui in seguito vi lascio il significato dei fiori presenti all’interno del capitolo: 

Achillea (i fiori in cui sfuma Bertolt): indifferenza. 
Aquilegia (i fiori vomitati da Zeke): stravaganza, amore nascosto. 
Dalia (i fiori vomitati da Reiner): gratitudine. 

Arrivati a questo punto, non posso che mandarvi un Colossale abbraccio! 

   
 
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