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Autore: SkyDream    05/04/2021    3 recensioni
[Ship!KageHina- cenni BokuAka, IwaOi][Fantasy!AU][PARTE 2/2]
Shoyo, ormai diciannovenne, scopre che esiste un mondo inesplorato all'infuori di Karakara Town e della sua Foresta.
Proprio lì fa la conoscenza di Tobio, un vagabondo errante alla ricerca del Mago Maledetto per poter uccidere il Grande Sovrano e vendicare il suo popolo.
Il Sovrano, però, non ha contaminato solo le loro vite, ma quella di centinaia di persone che non aspettano altro che essere liberate.
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Dal testo: Tobio, invece, aveva ancora in mente l’immagine di Shoyo che sorrideva sotto il sole, con le lunghe spighe di grano alle loro spalle mentre lo ringraziava con quella voce squillante e carica di energia.[...]«Tu sei ancora certo di voler venire con me?» chiese allora, con voce un po’ smorzata.
Shoyo annuì con la testa, gli occhi ormai definitivamente chiusi.
«Non chiedermelo più, tanto la risposta non cambia».
Tobio sospirò internamente, felice di non ritrovarsi nuovamente solo in quel viaggio troppo lungo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: Salve a tutti, gente! Benvenuti su questa Fantasy!AU. Prima di cominciare, vorrei annunciarvi che questa storia doveva essere di sei capitoli, che sono stati accorpati per poterla pubblicare in sole due parti. Pertanto, essendo abbastanza lunga, ho messo delle linee di separazione tra i vari capitoli in modo da potervi orientare nel caso in cui vi venga meglio leggerla in momenti differenti (come fossero segnalibri).
Buona lettura!


≈ Karakara Town ≈
~ L'Universo dei Doni ~ 
[Fantasy!Au][Parte 1/2]


Era un mattino ancora acerbo, i raggi del sole erano appena sbucati dal mare e ne tingevano le acque di un tenue bianco e blu. Il cielo si era schiarito, così come le foglie dei cedri avevano cominciato a far gocciolare la rugiada che il sereno aveva lasciato loro.
Karakara-town era una cittadina lontana, situata nei pressi della Gran Montagna, costellata di piccoli laghi e circondata da folti boschi colmi di frutta.
Il popolo che lo abitava – composto da contadini ed erboristi perlopiù - non aveva mai desiderato lasciare quel luogo. A Karakara vi era cosa mangiare e l’acqua non scarseggiava, gli inverni non erano mai rigidi né le estati portavano siccità, non avevano mai sperimentato la carestia né erano mai stati attaccati da altri popoli.
Karakara viveva nella sua campana di vetro, la vita trascorreva serena e – a detta di qualcuno – fin troppo monotona.
 
«Sei la disgrazia di questa famiglia! Esci di qui, pericolo ambulante!».
Casa Hinata era tra le più chiassose del quartiere, le pareti di legno erano spesso scosse dalle voci della Grande Madre e non di rado il giardino prendeva fuoco a causa dei pianti della figlioletta Natsu.
Fonte di ogni problema, però, era sempre il figlio maggiore – Shoyo – che a causa della sua goffaggine e della sua testardaggine (soprattutto quando si trattava di contraddire la sorella) finiva sempre per combinare danni.
Come in quell’esatto momento dove, per l’ennesima volta, aveva finito per far saltare in aria parte della cucina.
«E dire che ti ho cresciuto con così tanto amore e dedizione, Santi Numi della Montagna!».
Shoyo uscì di casa, o meglio, scappò dalla finestra prima che le lunghe fiamme di sua madre potessero raggiungerlo. Le conosceva bene, soprattutto le sue chiappe le conoscevano bene, e non aveva alcun bisogno di rinfrescarsi la memoria.
O ustionarsi la memoria, in ogni caso.
Veloce come il vento – una delle poche qualità che nessuno poteva negargli – superò il primo lago e si rifugiò tra i tronchi della Foresta.
Si arrampicò su uno di questi fino ad incastrarsi sulla fronda, grazie alla sua vista – altra qualità che nessuno poteva obiettare – avrebbe potuto vedere quanto tempo ci avrebbe messo casa sua a prendere fuoco.
Ovviamente sarebbe poi toccato a lui riparare tutti i danni, come sempre.
Un piccolo scoppio lo fece sussultare, ed eccolo lì il muro della cucina che andava a farsi benedire.
«E poi sono io quello che non riesce a controllarsi!» sbuffò aggrottando le sopracciglia.
Essere un membro degli Hinata – lunga stirpe quella degli Hinata – non era senz’altro vantaggioso quando si era diversi.
Per secoli, da quando il mondo ne avesse memoria, tutti i membri della sua famiglia e tutti i suoi avi, nessuno escluso, avevano ricevuto il dono della Grande Fiamma.
Sia le donne che gli uomini lo trasmettevano ai propri figli, era uno dei Poteri Maggiori e surclassava tutti quelli minori dando perfino la precedenza al cognome.
Motivo per cui Hinata si ritrovava il cognome della madre, nonostante fosse l’unica pecora nera della sua famiglia.
Tutti avrebbero pensato che fosse stato adottato se la madre non avesse partorito di fronte buona parte delle donne del paese. Durante i primi anni della sua vita era stato cresciuto davvero con riguardo, accompagnato tra i campi di grano mano nella mano dalla madre.
Era stato nutrito con i frutti migliori e mai gli era mancata la carne sulla tavola.
L’unico sacerdote presente, Padre Takeda, si era preso cura della sua istruzione e di quella degli altri bambini che, piano piano, imparavano a dominare i poteri con cui erano nati.
Lui no, lui aveva mille qualità straordinarie che però risultavano alquanto inutili visto che non vi era mai stata un’emergenza bellica.
Shoyo era in grado di correre veloce come le saette nel cielo, saltava talmente in alto da imitare i corvi che spiccano il volo, aveva la vista di un falco e una voce bellissima.
Se n’erano accorti tutti molti anni prima quando, durante la Festa dei Calici che si teneva ogni anno al solstizio di primavera, una donna aveva cominciato a suonare il violino e Shoyo aveva cantato senza pensarci su.
Era una melodia che sentiva scorrere sotto la pelle, entrargli nelle vene e fuoriuscire dalla gola in un sussurro che si trasformava in armonia.
E tutto il paese si era ammutolito davanti quella capacità innata. Tutti, a partire da quella sera, giurarono che quello fosse il vero Dono di Shoyo.
Eppure, era proprio lui a non esserne affatto convinto.
Shoyo si era quindi messo a disposizione come mera forza lavoro, spostava il fieno, preparava i cavalli e raccoglieva la frutta.
Giorno dopo giorno collaborava al sostentamento del villaggio, provava ad aiutare sua madre – erborista rinomata nonché focolare del paese (letteralmente) – e aiutava sua sorella Natsu con i compiti che Padre Takeda le assegnava per il pomeriggio.
Aveva solo un piccolo problema quando si offriva di cucinare, e se n’era accorto spesso il falegname di fiducia che aveva più volte dovuto costruire la cucina.
Sua madre, molti anni prima, non avrebbe mai perso così la pazienza con lui. Era buona, lo era sempre stata.
Per quanto tempo gli aveva concesso di giocare con i suoi capelli di fuoco, lunghe fiamme morbide che si divertiva ad intrecciare!
Rossi e fulgidi proprio come i suoi, ricchi di striature di stelle che mai gli avevano causato un graffio mentre li pettinava.
Quando si arrabbiava, ecco, lì la situazione degenerava leggermente e le fulgide fiamme si trasformavano in serpenti infuocati che graffiavano, ustionavano e corrodevano – come dicevamo prima – in particolar modo proprio le sue natiche.
Shoyo al calar del sole se ne stava ancora tra gli alberi della Foresta, sfiorava i tronchi con le dita affusolate e incallite, ammirava le Fate che svolazzavano di fiore in fiore.
Avevano ali colorate e colme di luce, e Padre Takeda – la prima volta che aveva portato la sua classe ad ammirarle – si era raccomandato dal catturarle mai con le mani.
Le Fate pativano tanto la mancata libertà ed erano creature fragili, da preservare.
Shoyo però non era riuscito a fare a meno di sfiorarne qualcuna con un dito, ogni volta che le vedeva passare sopra i suoi capelli notava come rilasciassero piccole scie e polveri magiche.
Sperava che quella polvere potesse alimentare le sue fiamme, dar vita ai suoi capelli rossi che però non bruciavano.
In quel momento, seppur fosse ormai adulto, fu tentato di sfiorarne qualcuna. Di tingersi le mani con quella polvere stellata e profumata.
Continuò però per la sua strada, l’Anima della Foresta lo conosceva bene ormai, l’aveva visto crescere. Aveva l’impressione che, se solo si fosse rivolta a lei, gli avrebbe perfino risposto.
Forse quella Foresta conosceva segreti che erano oscuri perfino a lui, perfino alla Grande Madre.
Shoyo continuò a vagare fino alla notte, doveva fare attenzione a quell’orario, quando i Fuochi Fatui si sarebbero risvegliati cominciando la loro danza dell’oscurità e inghiottendolo, tentando di farlo divenire l’ennesima Anima Pia.
Le Anime Pie erano le anime salvate dalla Foresta stessa, anime di bambini abbandonati, che non erano state amate, che non erano state accettate. Anime pure mai sfiorate dal desiderio, dalla lussuria, così come dall’amore e dal peccato.
E Shoyo sapeva bene che la sua anima, seppur non fosse più quella di un bambino, era ancora intatta e poteva essere un ottimo invito per quei Fuochi.
Shoyo, però, non rimase a vagare, bensì si ritrovò a seguire un suono a lui sconosciuto.
Si avvicinò sempre di più alla fonte, era un suono metallico e gracchiante, proveniva da una scatoletta poggiata a terra di fronte quella che sembrava una tenda.
Shoyo non aveva mai visto dei soldati, ma Padre Takeda li aveva disegnati spesso per metterli in guardia. Lui aveva viaggiato, aveva visto cosa vi fosse oltre KaraKara-Town e diceva sempre loro che le guerre erano una cosa inventata dal demonio.
Soprattutto le guerre magiche, perché si utilizzavano i Doni per combattere, e i Doni erano stati affidati loro solo per potersi proteggere gli uni dagli altri, non per uccidersi.
Padre Takeda raccontava delle sofferenze di chi veniva costretto a combattere, delle famiglie. Non nascondeva loro nulla, era cosciente che una persona – per crescere e maturare – necessita prima di ogni cosa della conoscenza.
Allora Shoyo aveva imparato come si vestissero i soldati, cosa portassero con loro.
E, a giudicare dalle armi, dalla scatolina rumorosa e dal vestiario, quei due lo erano decisamente.
Si avvicinò ancora, finendo per calpestare dei rami secchi e creando un fruscio di foglie a causa dello squilibrio. Uno dei due si voltò nella sua direzione, aveva gli occhi rossi come magma e le zanne di un lupo che sbucavano dalle labbra rigonfie.
Shoyo portò le mani alla bocca cercando di trattenere un urlo.
Fu tentato di scappare da lì, avvertire il villaggio, ma così non fu.
Due mani forti e decise lo tirarono via da lì facendolo atterrare sotto un cespuglio.
Shoyo tentò nuovamente di urlare ma qualcosa gli tappò la bocca con irruenza, un peso gli si poggiò sopra e si ritrovò – letteralmente – schiacciato da un’altra persona.
«Shh, taci se non vuoi essere sbranato!» sussurrò quasi aggressivo lo sconosciuto. Nella mano che non gli tappava la bocca teneva un sasso bianco, lucente, al cui interno vi era una Fata dormiente raggomitolata su se stessa.
Shoyo la vedeva bene da quell’angolazione, aveva le ali luminose che permettevano alla pietra di essere luminosa come la luna.
Non ebbe il tempo di ammirarla, doveva capire cosa stesse succedendo e quando spostò lo sguardo sulla persona che lo schiacciava, ecco che lo vide: era un ragazzo della sua stessa età, dai capelli scuri come la notte che scivolavano lungo il viso pallido e gli occhi blu, profondi come il mare in cui adorava nuotare circondati da un alone scuro di stanchezza.
Le labbra rosee erano schiuse per permettere di espirare profondamente.
Shoyo provò a chiedergli qualcosa, senza urlare, ma lo sconosciuto per tutta risposta gli rifilò un’occhiata che poteva essere definita micidiale.
«Fe nn m sbrnno mriro cmnq asfsst.» gli fece notare ignorando lo sguardo minaccioso.
«Morirai per mano mia se ci farai scoprire, quindi fossi in te preferirei rimanere senza fiato.» tagliò corto l’altro.
E senza fiato, Shoyo, ci era rimasto comunque e non solo per colpa della mano.
A Karakara erano sempre stati tutti felici e soddisfatti della loro vita, la tristezza incombeva solo quando qualcuno lasciava questo mondo per raggiungerne un altro, ma non era mai eccessiva perché loro guardavano tutto con ottimismo.
Una volta sola sua madre gli aveva detto che la tristezza esiste quando si viene abbandonati, e Shoyo aveva pensato al padre che non aveva mai conosciuto e a tutte le anime che si erano trasformate nella Foresta.
Erano tristi come gli occhi di quello sconosciuto?
«Possiamo andare.» Il ragazzo gli lasciò andare la bocca, si sollevò lentamente e fece luce con la pietra magica illuminando tutto attorno a loro.
«Se ne sono andati?» chiese Shoyo guardandosi intorno con timore. Non aveva di certo dimenticato quelle zanne bavose, anzi, probabilmente le avrebbe presto riviste nei suoi incubi.
«No, ma sono tornati dentro la tenda. Vieni qui.» Il ragazzo si alzò in piedi, un po’ sbilenco, e trascinò Shoyo per la manica della giacca fino ad appostarsi sul retro dell’albero che confinava con il rifugio dei due soldati.
«Avete trovato il Mago Maledetto? Sono già tre giorni che siete fuori!».
«Grande Sovrano, purtroppo non lo abb-».
«Mi avevate giurato di averlo già visto! Vi è sfuggito per caso?».
«Assolutamente no, non ci saremmo di cert-».
«Se entro due giorni non sarete di ritorno, sarete pasto per le altre belve!».
La voce del Sovrano era così aspra e adirata che entrambi i ragazzi sentirono un lungo brivido lungo la schiena, come se anche loro potessero essere cibo per animali.
«Il Mago Maledetto sarà ucciso e il suo sangue vi sarà portato per poter ultimare i vostri poteri, Grande Sovrano, lo abbiamo giurato!» la voce del soldato era titubante nonostante il tono fosse deciso e perentorio.
Si sentì una risata.
«Non mi serve lui per torcervi il collo, ricordatevelo».
Dopo quella frase, il ragazzo sconosciuto tirò ancora per la manica Shoyo invitandolo a seguirlo tra i sentieri della Foresta.
«Dobbiamo cercare un rifugio, uno qualunque e alla svelta, non ci rimane molto tempo!».
«Posso almeno sapere come ti chiami prima?» Shoyo cercò di stare dietro lo sconosciuto che continuava a correre alla rinfusa, senza sapere realmente dove andare.
«Tobio, mi chiamo Tobio Kageyama. Ma ora dobbiamo trovare un posto, devi aiutarmi a fare una cosa!».
Shoyo con la mano libera gli afferrò il polso a sua volta, Tobio si fermò e lo guardò con gli occhi tristi e colmi di affanno.
«Seguimi».
Shoyo conosceva quella Foresta come le sue tasche, sapeva che da lì a poco avrebbero trovato una grotta coperta da foglie dove, in inverno, erano soliti raccogliere il ghiaccio che spesso rimaneva intatto anche fino all’estate.[1]
Vi era una lunga scivola per entrare, che permetteva loro di poter accedere e coprire immediatamente l’uscio per non essere visti.
Tobio, a metà della grotta, cominciò a respirare un po’ più profondamente portando una mano in direzione del torace.
«Stai bene?» Shoyo lo accompagnò fino al muro più vicino e lo aiutò a sedersi. Grazie alla luce della pietra notò come del sudore gli imperlasse la fronte.
«Devi, aiutarmi. Sono stato ferito, ho portato con me… ho provato a medicarmi ma da solo-» Tobio chiuse gli occhi e respirò ancora a fatica. Shoyo lo prese per le spalle e lo trascinò fino ad uno dei grandi fori che permettevano alla grotta di far entrare la luce della luna.
Con una visione decisamente migliore, si accorse di come la maglia di tela dell’altro fosse impregnata di sangue. La sfilò via e notò che aveva cercato di tamponare la ferita con della semplice stoffa.
«Come pensavi di poter risolvere così?» chiese Shoyo frugando nella borsa a tracolla di Tobio, ne uscì una borraccia di pelle, forse di pecora, e delle lunghe lenzuola strappate alla rinfusa.
«Non sopporto la vista del sangue, mi dà il voltastomaco.» ammise l’altro con una punta di fastidio. Mutò espressione quando le mani di Shoyo gli sfiorarono il torace per togliere la goffa benda che aveva provato a mettere.
«Serve dell’alcool.» annunciò non appena scoprì la ferita da taglio che si era procurato.
«Non ne ho, puoi usare l’acqua non sentirò dolore comunque».
Tobio schiuse gli occhi e si accorse che, di fronte a lui, non vi era nessuno. Sospirò e portò la testa contro il muro, era rimasto solo di nuovo.
Shoyo doveva aver approfittato della sua debolezza per scappare, ne era sicuro.
Tobio aveva deciso di riposare un po’ prima di trovare un modo per tamponare la ferita, quando proprio su di essa sentì qualcosa di freddo scivolare.
«Stai fermo.» la voce di Shoyo gli riempì le orecchie e lo riportò alla realtà, dimostrandogli come stesse per scivolare nel sonno con estrema facilità.
Non dormiva da- quanti giorni? Settimane? Mesi?
Più che dormire, si sforzava di far riposare il suo corpo e mai la sua mente. Quella non poteva permettersi di riposare.
Quando sentì la ferita bruciare in modo viscerale, come se gli stessero lacerando la carne, intuì che Shoyo – da qualche parte in quella stramba grotta – doveva aver recuperato dell’alcool.
«Che diamine?!» si lasciò sfuggire mentre tentava di trattenersi dal conficcare le unghie a livello del torace.
«Oltre al ghiaccio, depositiamo anche l’alcool per farlo invecchiare. Le alte temperature lo rovinano.» spiegò l’altro continuando a fasciarlo con gli strappi delle lenzuola.
«Invecchia bene, Santi Numi della Montagna!».
A quell’esclamazione, Shoyo si irrigidì e diede un’occhiata torva a Tobio, rallentando la medicazione.
«Da dove vieni?» chiese allora.
«So che non mi crederai, ma sono un vagabondo da così tanto tempo da non ricordami più da dove provengo. Da che ne ho memoria, ho sempre vissuto sotto il cielo».
«Perchè sei andato via?» Shoyo annodò la benda di lenzuola e alzò gli occhi nella sua direzione.
«Sto cercando il Mago Maledetto».

 

«Una locanda?».
«Una locanda».
Shoyo guardò Tobio come se fosse pazzo, non era di certo il posto migliore per nascondersi da qualcuno, ma non avevano molta scelta.
Entrambi morivano di fame e necessitavano di un po’ di riposo in un luogo che non li facesse finire ad un passo dall’ipotermia.
Il locale era in legno d’acero, robusto e lucente, così come lucenti erano i tavoli intagliati e levigati con estrema cura. Raffiguravano foglie arricciate, fiori sbocciati o ricreavano le linee dei tronchi.
Un uomo dai capelli chiari, lunghi fin sopra gli occhi, se ne stava in un angolo con una spiga in bocca e un coltellino in mano a limare una statuetta di legno.
«Buongiorno, forestieri!» la voce proveniva da un ragazzo alto e slanciato dalla capigliatura scura e gli occhi di un verde magnetico.
Indossava una camicia dello stesso colore con su un gilet nero che gli fasciava il petto ben delineato.
Oltre allo sguardo ammaliante, però, aveva un sorriso che sbucava da due labbra rosse come le fragole leggermente piegate all’insù.
«Buongiorno, oste! Vorremmo chiederle il piatto del giorno e del vino buono.» Tobio si avvicinò portando un sacchetto fin sul bancone, il rumore di monete tintinnanti fece sollevare le sopracciglia dell’altro ragazzo.
«Oltre a dei vestiti puliti e delle informazioni?» aggiunse dando le spalle ai nuovi arrivati e cominciando a cercare una bottiglia adatta.
Shoyo sgranò gli occhi e cominciò ad incrociare le braccia davanti al petto come per simulare una croce e invitare Tobio alla fuga, si stavano esponendo troppo!
Tobio gli lanciò un’occhiataccia, che sembrava vagamente un insulto, e tornò ad interessarsi all’oste, stavolta portando il gomito proprio al centro del bancone.
«Per caso non siamo i primi a fare una richiesta simile?» sussurrò senza scollare lo sguardo dalla schiena longilinea dell’oste.
«Ho perso il conto di quanti son venuti qui prima di te, Tobio Kageyama».
Il ragazzo si voltò e incrociò lo sguardo dell’altro come se facessero a gara a chi sbatteva le palpebre per primo.
Shoyo trovò quasi inquietante il fatto che avessero sorriso in sincronia.
«Vado a prendervi ciò che vi serve, aspettatemi qui».
«Aaakaa-shi! Ti sei esposto di nuovo!» un ragazzo dai capelli bianchi come la luna e al contempo scuri come la notte uscì da una porta che sembrava quella della cucina.
Effettivamente indossava un grembiule chiaro con su stampato un bel numero quattro.
Shoyo non riuscì più a capire cosa lo inquietasse di più lì dentro. Per un momento pensò di aggiungersi allo sconosciuto che intagliava legna e mettersi a fare statuine anche lui.
«Bokuto, ti preoccupi troppo! Sia Tobio Kageyama che Shoyo Hinata sono due brave persone!».
Shoyo a quel punto si strozzò con la sua stessa saliva e quasi gli occhi gli uscirono dalle orbite.
«Ma io e te non ci siamo mai visti prima!» esclamò indicando l’oste che, intanto, stava spolverando una vecchia bottiglia di vino.
«Se è per questo nemmeno io e lui ci siamo mai visti prima.» aggiunse Tobio serenamente mentre notava che il diretto interessato annuiva come per confermare i fatti.
«Ma allora come fa a conoscere i nostri nomi?» chiese stupito più per la tranquillità generale che non per quella faccenda assurda.
«Si vede un sacco che non sei mai uscito da Karakara Town, Shoyo. Te lo hanno mai detto?» Tobio si accomodò su uno sgabello e ringraziò il cuoco Bokuto quando gli posizionò davanti la sua creazione migliore senza precedenti ed inimitabile!
Che, per molti (tutti), poteva essere assimilabile ad una normalissima zuppa di ceci.
Shoyo, intanto, che aveva rivolto una smorfia risentita contro il suo compagno di viaggio, sentì ridere dietro di sé.
L’oste aveva portato anche delle lunghe mantelle di juta oltre a dei vestiti puliti e a qualche benda di ricambio perché, a detta sua, ce ne sarebbe stato bisogno.
Bokuto rimase a guardare, un po’ preoccupato, l’altro ragazzo mentre si dedicava al suo lavoro.
«Di questo passo, un giorno, il Grande Sovrano tornerà a prenderti, Akaashi. Devi stare più attento!» Bokuto portò le braccia sui fianchi e mise su un cipiglio scuro.
L’altro ragazzo si avvicinò e gli poggiò una mano sulla guancia, gli occhi magnetici dentro i suoi e un sorriso capace di illuminare l’intero locale in piena notte.
«Non andrò da nessuna parte, e poi ci saresti tu a proteggermi, no?».
«Magari loro due sono brave persone, ma se dovessi sbagliarti e rivelare il tuo segreto a qualcuno che lavora per lui?».
«Con te non mi sono sbagliato, Bokuto. E poi Shoyo necessitava di essere rassicurato».
(Anche se era più perplesso che rassicurato, visto che ancora non aveva intuito).
Bokuto non lasciò il mestolo che aveva in mano e lo puntò verso l’oste che, intanto, si era rimesso a lucidare i boccali.
«Un giorno quel maledetto potrebbe scoprire che sei ancora in grado di leggere nel cuore delle persone, Akaashi! E se cercasse di toglierti anche questo Dono?».
A quelle parole, finalmente, Shoyo parve illuminarsi come se le nuvole davanti i suoi occhi si fossero diradate immediatamente.
Subito però si voltò verso lo straniero che intagliava, che avesse sentito anche lui?
«Konoha è un nostro amico, non preoccupatevi. Anzi, rifocillatevi per bene che la strada è ancora lunga! Dove siete diretti?».
Tobio aveva appena finito la zuppa, si era complimentato con il cuoco, e si stava dedicando ad un buon bicchiere di vino.
«Speravamo che potessi indicarci tu: stiamo cercando il Mago Maledetto.» Tobio sollevò gli occhi su quelli di Akaashi, per la seconda volta, e Shoyo ebbe l’impressione che quei due riuscissero a comunicare più in quel modo che parlando.
Si rincuorò quando notò che anche Bokuto aveva la sua stessa espressione.
«Non l’ho mai incontrato, ma so che i soldati del Sovrano sono alla sua ricerca per questioni di potere».
Bokuto, al suo fianco, schioccò la lingua richiamando la loro attenzione.
«Con quello in mezzo ai piedi ci sono sempre questioni di potere! Per questo dovete stare molto attenti, potreste incappare in seri pericoli. Vi è, più avanti verso Nord, un’erborista che si dica riesca a leggere gli infusi delle piante. Forse lei potrebbe aiutarvi a trovarlo!».
Shoyo annuì con vigore come se stesse prendendo degli appunti mentali, il suo compagno abbassò lo sguardo come se stesse riflettendo sul da farsi.
«E poi sarei io quello che si espone? Tu dovresti stare attento quando parli in quel modo di lui, o finirai per ritrovarti tra le sbarre della cella senza cena!» nella voce di Akaashi non c’era rabbia, ma solo preoccupazione e tanto, tantissimo affiatamento.
Bokuto e Akaashi si supportavano con uno sguardo o una carezza nascosta, nascostissima, sotto il bancone.
Shoyo si intenerì a quella visione e non potè che invidiarli un po’. Quanto doveva essere bello sentirsi amati.
«Vi ringraziamo per l’ospitalità e vi chiediamo scusa per il disturbo! Grazie ancora».
Tobio aveva un modo strano di ringraziare la gente, si piegava come in un inchino con le mani giunte al petto.
Akaashi rispose nello stesso modo beccandosi un’occhiata curiosa e confusa da parte del cuoco.
«Shoyo?».
«Sì?».
Akaashi lo guardò con una tenerezza infinita e con un sorriso appena accennato.
«Non tornerai presto a Karakara Town, non è vero?».
Shoyo per tutta risposta scosse la testa in senso di diniego. Gli dispiaceva non poter tornare a casa, era curioso di sapere se sua madre e sua sorella fossero preoccupati, se i bambini avevano cominciato a raccontare storie sulla sua scomparsa o se Padre Takeda avesse cominciato a illustrar loro i pericoli che vi erano fuori.
Però, doveva ammetterlo, essere oltre la Foresta, oltre i suoi limiti, lo eccitava come mai nessuna cosa aveva fatto in vita sua.
Tobio lo afferrò per un polso e lo trascinò dietro di sé.
«Potresti essere meno brusco se proprio non vuoi lasciarmi indietro!» si lamentò Shoyo cominciando a seguirlo.
L’altro non lo degnò di uno sguardo.
«Non sono certo qui per farti da balia, ti ho solo proposto di accompagnarmi visto che non puoi tornare nel tuo villaggio né passare tutta la vita dentro una grotta con ghiaccio e alcool invecchiato!».
«Esistono comunque modi più delicati per dirmi che, tornando a casa, avrei aperto la porta ai nemici in un tacito invito a sbranarsi l’intera cittadina!».
«E’ quello che succederebbe visto che hanno memorizzato il tuo odore e sanno che li hai visti!» sbottò Tobio sollevando gli occhi al cielo e nascondendosi dietro un albero.
«E’ un’immagine tremenda!» rispose sconvolto Shoyo stringendosi le spalle e cadendo vittima dei suoi stessi pensieri.
«Per questo ora sei qui. Spogliati su!».
Shoyo si risvegliò solamente in quel momento dal breve stato di assenza in cui era caduto e notò che Tobio aveva tolto la camicia insanguinata per poterne indossare una pulita e mettere su una giacca più pesante.
Sembrava essersi ripreso dalla ferita al torace, per quanto ancora lo vedesse toccarsi la fasciatura quando doveva piegarsi.
«Non mi hai ancora detto come mai cerchi il Mago Maledetto.» fece notare Shoyo mentre si cambiava e indossava i suoi nuovi abiti per poi infilare la mantella di juta per coprire i capelli color carota.
«Non vedo perché dovrebbe interessarti.» Tobio si sedette tra l’erba per sistemare le calzature ormai usurate e riordinare le cose all’interno della propria borsa.
«Perché stiamo viaggiando insieme, mi sembra ovvio!» esclamò allora l’altro senza sapere cosa fare con i vestiti.
«Ti basta sapere che prima lo troveremo e prima potrai tornare a casa. Il Mago Maledetto forse è in grado di bloccare il potere del Grande Sovrano, se così fosse potresti tornare al villaggio senza aprire la porta ai nemici».
«E perché si chiama proprio Mago Maledetto? Ha fatto qualcosa?».
Tobio si sollevò nuovamente in piedi e prese tra le braccia i vestiti sgualciti e macchiati, li riempì di sassi e li gettò dentro al fiume che scorreva lì vicino.
«Si dice che abbia commesso un grande peccato e che per questo sia stato punito con una maledizione, purtroppo non so altro e non mi interessa. Se può aiutarci, stai certo che lo farà.» Il tono vagamente minaccioso con cui aveva proferito l’ultima frase riuscì a convincere Shoyo sulla conclusione di quella conversazione.
Senza dire altro si rimisero in cammino.
 
 
Erano passati i giorni e Shoyo spesso si perdeva nei suoi pensieri mentre camminava al fianco di Tobio, era una figura abbastanza rassicurante nonostante, solo qualche sera prima, lo avesse letteralmente gettato a terra e costretto alla fuga.
Non sembrava cattivo, ma Shoyo non aveva mai realmente avuto a che fare con i cattivi e pensò che dovesse essere molto utile il Dono di Akaashi.
Non come il suo, che neanche si era sviluppato nel modo corretto, che nessuno aveva mai visto. Saper correre e saltare, a cosa poteva mai portare un Dono simile?
«A cosa stai pensando?» Tobio glielo chiese all’improvviso mentre attraversavano un sentiero tra i campi di grano. Il sole illuminava i loro volti e gli occhi splendenti di Shoyo che rilucevano sotto il cappuccio marrone.
«Che non mi dispiacerebbe passare un po’ di tempo lontano da Karakara Town. Non ho mai avuto nessuno che mi aiutasse a scoprire il mondo fuori dalla Foresta e anche se i campi di grano sono gli stessi, sembrano avere un colore diverso qui!».
Tobio sussultò. Era la cosa più simile ad un ringraziamento che qualcuno gli avesse mai detto, si perse ad osservare il sorriso lucente dell’altro ragazzo e le piccole lentiggini che si riflettevano sotto il sole sul naso e sugli zigomi.
Pensò che fosse la cosa più viva che avesse mai visto prima.
Tobio vagava per le terre confinanti ormai da anni, no, forse da quasi un decennio. Aveva visto la sua famiglia spaccarsi, la sua città andare in fiamme, le ombre avvolgere tutto ciò che aveva e poi la fuga.
Tobio era fuggito senza stringere la mano di nessuno, tra le Foreste in cui i Fuochi Fatui avevano più volte reclamato la sua anima senza mai riuscirci.
Era stato amato profondamente in passato, e quell’amore era riuscito per sempre a proteggerlo dai Fuochi e dal diventare un’Anima Pia.
Allora Tobio aveva più volte provato a fidarsi di qualche adulto nella speranza di poter trovare una mano a cui aggrapparsi, senza mai riuscirci.
Finchè non aveva sentito dire che il Mago Maledetto avrebbe potuto fermare il Grande Sovrano, e lì il suo scopo si era palesato limpido e chiaro davanti gli occhi.
Tobio viveva tutti i giorni nell’ombra, cosciente del fatto che il Grande Sovrano avrebbe potuto trovarlo e fargli rivedere la sua famiglia e i suoi amici prima del tempo.
E ci aveva pensato, ci aveva pensato tantissime volte a farla finita perché non aveva alcuno scopo continuare a camminare da soli. Però la meta c’era, e non era solo la vendetta.
Tobio non avrebbe mai voluto che altre persone perdessero tutto com’era successo a lui, non lo avrebbe permesso.
E ora si ritrovava quel nano dai capelli (non) di fuoco che gli sorrideva e lo ringraziava per averlo salvato e per avergli fatto scoprire dei semplicissimi campi di grano.
Non aveva idea di come reagire.
Shoyo però corrugò la fronte e sbattè le ciglia un paio di volte per mettere meglio a fuoco qualcosa in lontananza, facendolo così riemergere dai suoi pensieri.
«Che succede?» chiese rivolgendo uno sguardo all’orizzonte.
«C’è un tipo con una pianta in testa che sta lanciando dei barattoli ad un tipo a torso nudo».
Tobio strabuzzò gli occhi, lui non vedeva assolutamente nulla se non due ombre a malapena distinte. La vista di Shoyo era formidabile.
Si avvicinarono a quella che sembrava una semplice casetta – letteralmente in mezzo al nulla – dove un ragazzo della loro età (quello a torso nudo) se ne stava seduto su una sedia di vimini con dei calzoni consumati dalla terra e dai colori che colavano da alcuni pennelli che stava utilizzando per dipingere una tela.
Molti barattoli si erano aperti sull’erba – tingendola di arcobaleni variopinti – e altri erano andati in frantumi.
Un altro ragazzo, vestito come un boscaiolo, tentava di strapparsi una pianta di fragole che era sorta dal nulla proprio al centro della testa.
«Che i Numi della Montagna ti maledicano, Tooru Oikawa e che tutti i fulmini si riversino sulla zucca vuota che ti ritrovi al posto della testa!» urlò mentre apriva i palmi e li indirizzava verso i barattoli facendoli ondeggiare e cercando di scaraventarli contro la tela.
«Orsù, IwaIwa, dovresti stare più calmo mentre dipingo, non credi? Vuoi della camomilla? Un po’ di biancospino?» Andò avanti ad elencare piante e fiori per un bel po’ di minuti, e ad ogni parola la pianta nominata cresceva sulla testa del povero malcapitato, costretto a terra e a trasformarsi in un cespuglio multicolore.
«Sei proprio un’anima maledetta, Tooru, devi assolutamente ammetterlo!».
La voce proveniva da un gatto appollaiato sulla finestra – che né Tobio né Shoyo avevano notato prima – e che, d’un tratto, scese a terra zampettando allegramente fino ad arrivare dietro le spalle di Tooru.
Il gatto, in un fascio di luce di un solo secondo, prese le sembianze di un bellissimo ragazzo dalla chioma scura e dai canini sporgenti.
«Ha ragione Iwaizumi a lamentarsi di questi pettorali scoperti! Dovresti coprirti, non sia mai che qualche fattucchiera errante tenti di portarti con sé!».
«Questa è proprio una buona idea, gattaccio della malora! E’ chiaro che si è spogliato apposta!» esclamò Iwaizumi ancora costretto con la faccia in mezzo all’erba.
«Smettetela di disturbarmi mentre dipingo e tornatevene alle vostre faccende! Non è colpa mia se rimanete abbagliati davanti cotanta bellezza e non riuscite a concentrarvi!».
Kuroo, a quelle parole, fece scivolare una mano sull’incavo del collo di Tooru, provocandogli un brivido lungo la schiena. Avvicinò un canino scoperto alla pelle soffice sotto la mandibola e la baciò lievemente senza distogliere gli occhi da Iwaizumi.
«Non è così che attirerai le fattucchiere!» urlò quello sollevando il capo a fatica e cominciando a spostare le mani per far muovere barattoli, pennelli e perfino gli altri due ragazzi a mezz’aria.
«Iwaizumi, rimettici giù o ti farò crescere un pruno intero sulla testa!».
«Sempre meglio della tua testa di rapa e di quella di Kuroo!».
Tobio e Shoyo – coordinati come non mai e a dir poco sconvolti – cercarono una via di scampo per evitare di passare davanti la casa di quei tre scapestrati, senza riuscirci.
Inoltre, a causa della telecinesi che lo aveva trasportato più in alto, il ragazzo-gatto sembrava essersi accorto di loro.
Si trasformò di nuovo e saltò – o meglio, nuotò nell’aria – fino a raggiungerli e a depositarsi ai loro piedi con le orecchie a punta ben in alto e i lunghi baffi che vibravano come se ridesse.
«Siete per caso venuti a rapire un pittore egocentrico e dispotico?».
Shoyo e Tobio, ancora confusi, scossero la testa in senso di diniego.
 
La casa dei tre ragazzi era colma di colori liquidi sparsi per il pavimento e piante rigogliose lungo le pareti, piene di piccoli fiori scintillanti, larghe foglie arricciate ed erbe dal buon profumo.
Iwaizumi – la cui testa era stata liberata grazie ad una semplice risata di Tooru – si era proposto di preparare una tisana mentre i loro ospiti chiedevano loro delle indicazioni.
Shoyo e Tobio avevano provato a sgattaiolare via per evitare di essere trasformati in simpatici alberelli o di essere gettati contro il nulla cosmico.
Ma non c’era stato verso e il belloccio mezzo nudo si era affrettato a rivestirsi e a spingerli fin dentro la cucina.
Shoyo si sedette sopra uno sgabello formato da un tronco di legno e si poggiò contro un tavolo che non era altro che un’enorme foglia d’acero irrobustita.
Lì dentro sembrava una casa da folletto, tutto in legno e con foglie che rivestivano gli angoli più disparati, le finestre lucide di rugiada come se avesse piovuto e i pavimenti colorati dalle tinte che dovevano essere cadute durante la stesura dei dipinti.
Vi erano zampe di gatto gialle e blu lungo le scale e qualche traccia di matita sullo stipite della porta, come se avessero segnato negli anni l’aumento della loro altezza.
Iwaizumi portò a tavola anche dei cesti in vimini con dei biscotti caldi e delle tazze di vetro con arabeschi sul fondo dentro cui ribollivano ancora piccoli fiori di malva.
«State quindi cercando l’erborista Shimizu Kiyoko?» chiese Kuroo, l’uomo-gatto, che era entrato con sembianze umane dentro la cucina e si era appollaiato su uno sgabello.
Tobio si irrigidì appena quando vide che la lunga coda nera aveva dimenticato di ritrasformarsi.
«Sì, per caso la conosci? Sai dove potremmo trovarla?».
Iwaizumi abbassò lo sguardo come se ci stesse pensando, poi qualcosa rotolò dalle scale e finì sotto il tavolo fin tra i piedi di Shoyo.
Era un gattino biondo dalle orecchie nere e gli occhi dorati. Lo fissava con intensità mentre faceva vibrare i baffi e digrignava i denti.
«Ciao, micetto!» Shoyo abbassò una mano e gli accarezzò la testa con tenerezza. Il micio sembrò calmarsi e diede una buona dose di leccate al palmo della mano del suo nuovo amico lasciando che la coda si spostasse a destra e sinistra.
«Sembri piacergli!» constatò con gran stupore Kuroo. Nella cucina si aggiunse anche Oikawa che era stato attratto da quella scena inusuale.
Il micio salì addosso a Shoyo e si acciambellò sopra le sue gambe facendo le fusa.
«Sei proprio un bel micetto, non è vero?» Shoyo gli sorrise e continuò a carezzargli il pelo biondo tra le orecchie mentre quello sfregava la testa contro il suo palmo.
Tobio gli rifilò una gomitata tra le coste.
«Ptrbb essr un prsn.» sussurrò a denti stretti portando lo sguardo dal micio a Kuroo.
Shoyo parve rifletterci un paio di secondi, poi capì e arrossì fino alla punta delle orecchie.
«Scusatemi per l’eccessiva confidenza…» cominciò senza sapere cosa fare. Non aveva mai visto tanti gatti in vita sua e quello lì biondo sembrava così carino che proprio non era riuscito a fermarsi!
Tooru rise di gusto e sfornò il migliore dei suoi sorrisi che aveva anche qualcosa di inquietante.
«Tranquillo, Hinata Shoyo, e benvenuto tra i membri della tua nuova famiglia!».
 
Nella stanza calò il silenzio.
 

«Che cosa state dicendo?!» Shoyo impallidì mentre la sua mantella di juta veniva malamente stropicciata dalle unghie affilate del gatto su di sé, continuava a miagolare contento e a fare le fusa come se non volesse lasciarlo mai più.
«Piaci a Kenma, non capita spesso! Per cui saresti proprio il benvenuto in famiglia!» spiegò Kuroo con ancora il sorrisino leggermente infastidito.
Il micio solitamente non si acciambellava mai in quel modo su di lui! Si scoprì tremendamente geloso.
«Non se ne parla, Shoyo l’ho trovato prima io!» Tobio arrossì lievemente sulle guance mentre teneva i pugni stretti e abbassava lo sguardo verso il gatto che - a quanto pare - si chiamava Kenma.
«Non parlare di me come se fossi un randagio!» sbottò Shoyo risentito e, al tempo stesso, sentendo del calore salirgli alle guance.
Kuroo si avvicinò tra loro e allungò le braccia per prendere il suo amico, se lo portò al petto e gli regalò un paio di grattini tra le orecchie.
Kenma si stiracchiò sulla sua maglia affondando gli artigli e tirando leggermente.
«Certo è che lasciarvi andare potrebbe essere conveniente per noi.» affermò poi d’un tratto Oikawa, allungando una mano verso la teiera e versandosi una modesta quantità d’acqua in una tazza di vetro dai ghirigori dorati.
«Tooru, non pensi di star correndo un po’ troppo?» Iwaizumi si scurì in volto e portò le braccia al petto mentre gli occhi continuavano a seguire la linea flessuosa della schiena dell’altro.
«Correndo? Kenma fa parte della nostra famiglia, e io non ricordo più nemmeno il suo volto. Questi ragazzi hanno chiaramente a che fare con il Grande Sovrano e non possiamo sprecare l’occasione».
Iwaizumi sapeva che Oikawa fosse realmente preoccupato per la condizione del loro gattino. Kenma e Kuroo erano entrati a far parte della loro vita ormai da tempo immemore e ricordavano con dolore il giorno in cui il Grande Sovrano aveva scombussolato le loro vite.
Era piombato lì in piena notte, svegliando tutti e quattro e prendendo Oikawa per i capelli e facendolo inginocchiare a terra.
Iwaizumi si era fiondato, senza pensarci due volte, aveva tentato di staccarli ma era finito per terra dopo essere ruzzolato giù dalle scale.
Oikawa ne aveva approfittato e gli aveva legato i polsi a terra facendo crescere un rampicante da sotto le assi di legno in modo da non farlo muovere. Non poteva rischiare che qualcuno lo ferisse, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Sta un po’ fermo e ascolta quello che ho da dirti.» Il Grande Sovrano aveva una voce profonda e - pensò - un alito pestilenziale, caratteristica che per poco non lo fece scoppiare a ridere nonostante la posizione di evidente sottomissione.
«Entri in casa mia senza bussare, attacchi il mio ragazzo e ti permetti di dirmi di starti ad ascoltare?» Oikawa aveva riso davvero, mossa che gli era costata una profonda ferita alla spalla, inferta con una lastra di ghiaccio sbucata dal nulla.
«Ora spero di sentire solo gemiti di dolore dalla tua bocca e di vedere germogliare dalle tue mani una pianta di Stramonio. Intesi?».
Tooru cercò comunque di divincolarsi, il sangue che usciva dalla ferita aveva finito per rendere scivoloso il pavimento.
«Lo Stramonio è una pianta proibita, se la conosci dovresti saperlo».
«Anche contraddirmi per ben due volte è proibito, ma a quanto pare la lezione non l’hai ancora imparata».
Era stato in quel momento che Tooru aveva sentito la presa sui capelli scemare, si era ritrovato riverso sul suo stesso sangue e sui suoi stessi gemiti di dolore. Aveva poi visto la figura alta e imponente del Sovrano tentare di scollarsi un gatto biondo e uno moro dal petto, ma se uno finì contro il muro, l’altro era rimasto impigliato tra le sue mani callose e maledette.
Kenma era stato percorso da una profonda scarica che ricordava i fulmini che si scagliavano per terra durante le tempeste. Kuroo, dopo essere tornato umano, aveva lanciato un urlo che, invece, di umano aveva ben poco.
Aveva stretto al petto il suo amico, ancora in vesti di tenero micio addormentato e, per la prima volta da quando ne avesse memoria, aveva pianto.
Tooru aveva i ricordi affievoliti, ricordava a malapena di aver visto il Sovrano andare via giurando di tornare presto. Poi era scomparso.
Da allora non l’avevano più rivisto, né avevano trovato un modo per far tornare Kenma un essere umano.
Si erano anche rivolti a Kiyoko, l’erborista capace di leggere gli infusi delle piante ma anche di creare pozioni e intrugli magici grazie al suo Dono, ma lei non aveva trovato alcun modo.
Aveva promesso loro che non si sarebbe arresa, che avrebbe tentato di aiutarli e da allora non l’avevano più sentita.
Erano passati anni da quel momento, Kenma si era isolato sempre di più finendo per farsi coccolare solo da Kuroo. Avevano tutti l’impressione che più passasse il tempo, più perdesse la sua anima da essere umano, ma nessuno aveva il cuore per dirlo.
Pertanto - avevano pensato tutti e tre conoscendo quello strambo duo travestiti da sacchi di juta - lasciare andare Shoyo insieme a Tobio avrebbe significato un aumento delle probabilità che entrambi riuscissero a sconfiggere il Grande Sovrano.
Questo avrebbe potuto - forse - far tornare Kenma come prima e, comunque, non avevano più alcun tentativo di riserva.
 
Shoyo e Tobio rimasero ad ascoltare la loro storia per intere ore prima di abbandonare quella casa così calda e accogliente, si concessero di lasciare qualche coccola in più al gattino promettendogli di fare il possibile per farlo tornare umano.
Shoyo non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di Kuroo in quel momento, colmo di dolore quanto di fiducia.
Si erano così rimessi in cammino nella speranza di poter arrivare in fretta all’erboristeria di Kiyoko.
Tobio si era fatto stranamente silenzioso - più del solito - e aveva stretto con forza la tracolla della sua borsa.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?» Shoyo aveva rivolto gli occhi verso il suo volto, a molte spanne dal proprio, e aveva cercato una risposta tra le ombre del tramonto che calava attorno a loro.
«Dovremmo trovare un posto in cui riposare, conviene proseguire domani all’alba.» affermò evitando con maestria la domanda dell’altro.
Shoyo abbassò lo sguardo lievemente risentito e poi indicò un fienile affiancato ad una casa da cui proveniva un dolce profumo.
«Credi che dovremmo entrare?» chiese speranzoso mentre sentiva lo stomaco chiedere pietà. Avrebbe dovuto mangiare più biscotti quando ne aveva avuto l’occasione.
«E’ meglio di no, ci siamo già fatti conoscere da troppe persone. Con questo buio è improbabile che qualcuno apra il fienile e comunque domani andremo via prima che sorga del tutto il sole».
Tobio aprì la porta e afferrò la pietra fatata per fare un po’ di luce, scavalcò dei pagliai e si arrampicò fino al solaio dove del morbido fieno avrebbe potuto nasconderli e proteggerli dal freddo. Shoyo lo raggiunse semplicemente con un salto, senza scomodarsi ad utilizzare le scale e beccandosi un’occhiata sorpresa da parte dell’altro ragazzo.
Tobio aprì la borsa per cercare qualche tozzo di pane rimasto dalla cena precedente e scoprì di avere un sacchetto colmo di bacche e frutta di ogni tipo.
«Per tutti i Numi della Montagna!» esclamarono entrambi con gli occhi lucidi di gioia mentre si tuffavano per poter colmare la fame che, ormai da ore, li aveva resi apatici e fiacchi. Ringraziarono Oikawa congiungendo le mani e recitando una piccola preghiera di gratitudine, doveva sicuramente essere opera sua.
Shoyo rise di gusto quando Tobio si sporcò tutto il viso con i mirtilli, l’altro dal canto suo lo assalì per tentare di disegnargli dei meravigliosi baffi con le dita ancora sporche di blu.
Shoyo però aveva mangiato un sacco di ciliegie per cui potè controbattere tingendogli di rosso le guance.
«I tuoi occhi sembrano due mirtilli maturi!» Aveva detto poi afferrando i frutti e mettendoli a confronto con le iridi dell’altro ragazzo che, per nascondere l’imbarazzo, tentò di rubarli dalle sue mani.
Risero e si rotolarono tra il fieno come due bambini, dimenticando per un momento le persone lontane, le anime ormai perdute e il potere malefico che sembrava circondare tutte le vite lungo il loro cammino.
Rimasero solo loro due stesi vicini e la frutta fresca che li aveva rianimati, un cielo colmo di stelle che si vedeva appena da una fessura del soffitto.
Anche se in silenzio, entrambi avevano l’impressione di star dicendo molto. Shoyo non aveva affatto dimenticato come Tobio lo avesse difeso a spada tratta nel momento in cui Kuroo aveva lievemente minacciato di sequestrarlo in casa loro.
Tobio, invece, aveva ancora in mente l’immagine di Shoyo che sorrideva sotto il sole, con le lunghe spighe di grano alle loro spalle mentre lo ringraziava con quella voce squillante e carica di energia.
E mentre rievocava quel ricordo che - ne era certo - sarebbe rimasto impresso per sempre nella sua memoria, ecco che sentì una mano sfiorare la sua.
Shoyo aveva le dita fredde, ed era una peculiarità che non avrebbe di certo mai associato a lui. Non avrebbe dovuto stringerle, forse, ma quando se ne rese conto era ormai troppo tardi.
Shoyo non aveva mutato espressione e continuava ancora a guardare le stelle oltre la fessura con gli occhi schiusi a stento.
«Perché lo stai cercando?» la voce di Shoyo era ormai quasi un sussurro e Tobio si voltò appena per perdersi in quelle ciglia sottili che creavano ombre sulle sue guance.
«Voglio scoprire se può fermare il Sovrano, non voglio che qualcuno passi quello che ho passato io.» la risposta fu flebile e quasi scemò tra la paglia che li teneva al caldo.
«Non succederà, lo troveremo e gli chiederemo di sconfiggerlo e renderemo tutti felici».
Shoyo sorrise appena, in un’espressione tenerissima che fece nuovamente arrossire l’altro.
«Tu sei ancora certo di voler venire con me?» chiese allora, con voce un po’ smorzata.
Shoyo annuì con la testa, gli occhi ormai definitivamente chiusi.
«Non chiedermelo più, tanto la risposta non cambia».
Tobio sospirò internamente, felice di non ritrovarsi nuovamente solo in quel viaggio troppo lungo.
«Shoyo?» stavolta la voce tremava tanto, inspirò a fondo.
«Mh?».
«Perché non mi hai mai chiesto quale sia il mio Dono?» gli frullava in testa da un po’ quella domanda, ormai erano passati giorni dal loro incontro.
«Perché non credo sia importante... saperlo».
Shoyo espirò profondamente e poi cominciò a respirare in modo regolare con le labbra appena schiuse, la coscienza ormai addormentata e la mano ancora stretta a quella dell’altro ragazzo.
Tobio sollevò la mantella di juta e lo coprì fino alle spalle assicurandosi che non prendesse freddo, sperò che andasse bene e si accucciò al suo fianco addormentandosi a sua volta mentre constatava come le loro mani si scaldassero bene a vicenda.
 
Tobio pensò che Iwaizumi avesse un potere fantastico e che poter volare e far volare persone e oggetti dovesse essere molto comodo quando si viaggiava.
Infatti, l’unico modo per definire “Non troppo lontana” l’erboristeria di Shimizu era raggiungerla volando alla velocità della luce.
Lui e Shoyo camminavano ormai da una settimana, mangiando ciò che trovavano lungo i sentieri e dormendo in luoghi di fortuna più o meno sicuri.
Avevano avuto modo di parlare - tantissimo - soprattutto di quanto piacesse ad entrambi giocare a pallone da bambini, avevano poi raccontato aneddoti più o meno divertenti, come quella volta che Tobio era sfuggito ad un cinghiale o quella volta che un tacchino aveva rubato il pranzo di Shoyo e poi aveva pure cominciato a rincorrerlo.
Ad onor del vero, a causa di alcuni diverbi su dove fermarsi o che strada prendere, avevano anche tentato più volte di affogarsi a vicenda quando si fermavano vicino un lago per potersi lavare.
Avevano però una piccola certezza, di cui non avevano minimamente parlato.
La sera, quando si sdraiavano l’uno al fianco dell’altro per tentare di non dissipare il calore, le loro mani erano sempre vicine.
Quelle di Tobio calde, caldissime, stringevano quelle gelate dell’altro che - spesso - per dispetto, finiva per solleticargliele e per beccarsi un pizzicotto.
Poi una mattina, mentre camminavano ancora con gli occhi socchiusi a causa di una notte turbolenta - tuoni e fulmini non li avevano risparmiati -, Shoyo si era fermato improvvisamente facendo sorgere un meraviglioso sorriso e un’espressione sollevata sul suo viso.
«Che hai visto?!» Tobio non sapeva se allarmarsi o piangere dalla gioia, quell’espressione poteva significare solo una cosa.
«Forse siamo arrivati!» Shoyo fece uno scatto e cominciò a correre, Tobio potè vedere solo della terra alzarsi dietro i suoi piedi. Cercò di raggiungerlo ma sapeva che fosse una guerra persa in partenza.
Shoyo arrivò davanti l’erboristeria parecchi minuti prima dell’altro - che quasi tentò di strozzarlo per non averlo aspettato - e cominciò a dondolare prima su un piede e poi sull’altro, senza riuscire a trattenere l’emozione.
Tobio si fece avanti e aprì la porta del negozio, un campanello tintinnò sopra la sua testa e gli diede il benvenuto.
Era un luogo meraviglioso, se sulla destra vi erano infiniti scaffali colme di piante lucenti, sulla sinistra si alternavano scaffali di libri e ampie finestre con vista sul lago.
Shoyo apprezzò molto il profumo di terra umida, di margherite e rose, calendule e violette.
Il profumo di menta lo pizzicava, quello di timo lo stuzzicava, il prezzemolo gli ricordava gli arrosti che preparava sua madre e poi il basilico, l’origano e il rosmarino, la salvia che, come un’onda, copriva tutto.
Shoyo chiuse gli occhi e gli parve di essere tornato a casa.
Casa dove sua madre coltivava le erbe medicinali per gli infusi e le pomate che vendeva al villaggio. Da bambino capitava spesso che la mattina dovesse svegliarsi presto e scendere nell’orto ad innaffiare o concimare le piante.
A volte sua madre lo lasciava in cucina a rimestare gli infusi, ma alla terza esplosione aveva rinunciato e gli aveva chiesto di andare a lavorare nei campi per poter racimolare qualcosa anziché distruggergli la casa.
«Posso esservi utile?» una donna dai capelli scuri raccolti in una treccia sbucò da una porta sul retro della bottega. Aveva un vestito bianco scampanato e un grembiule color panna colorato da macchie di decotti profumati.
Indossava anche delle lunghe calze nere che fasciavano delle gambe sinuose ed eleganti, tutto nel suo aspetto richiamava sensazioni positive e rilassanti.
«B-buongiorno!» Tobio parve ricordarsi solo in quel momento del cappuccio e della mantella che ancora indossavano, fece segno a Shoyo di scoprirsi il capo per evitare di sembrare scortesi.
La donna rispose con un sorriso e si portò una ciocca scura dietro l’orecchio.
«Cercavamo-» Shoyo fu interrotto da qualcuno che aprì minacciosamente la porta dietro di loro.
Il campanello tintinnò in modo decisamente più forte.
«Rogne? Cerchi rogne per caso?!» Un ragazzo della loro età con i capelli cortissimi e il viso contratto in una smorfia entrò nel negozio e si avvicinò a loro chiudendo bene i pugni.
Shoyo avrebbe voluto proteggere Tobio, ma sarebbe stato molto difficile farlo mentre era intento a nascondersi dietro la sua schiena.
«Tanaka! Puoi smetterla di spaventare i clienti?» un ragazzo dalla chioma bianca entrò nel negozio portando tra le braccia una cassetta colma di altri fiori.
«E’ bene che sappiano subito dove non mettere le mani, Suga!» sottolineò l’altro senza smettere di contrarre il viso.
«Su, va tutto bene, stai calmo.» Suga si avvicinò alla sua spalla e ci poggiò una mano creando una piccola nuvoletta di fumo che finì per rintontire Tanaka il quale, sbadigliando, decise di accoccolarsi su uno dei divanetti posti sul retro dei banconi.
«E’ successo di nuovo?!» un altro ragazzo dai bicipiti spropositati entrò nella bottega, portava con sé almeno una decina di cassette con erbe e con la schiena trainava un carretto di carbone.
«Daichi, sai che Tanaka è molto protettivo nei suoi confronti dopo quello che le è successo, non possiamo biasimarlo, non credi?».
L’altro scosse la testa come a dargli ragione, poi si rivolse nuovamente a Shoyo.
«Chi cercavate?» chiese con gentilezza mentre poggiava a terra delle piante.
«N-noi cercavamo Shimizu Kiyoko!». 
 
[1] La grotta della neve esiste davvero! Si trova sull'Etna -> Grotta dei Ladroni
Note dell'autrice: Ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui, questa storia mi ha tenuta impegnata per un bel po' di giorni e mi sono divertita un sacco a scriverla, nonostante io non ami particolarmente le AU.
Il prossimo aggiornamento arriverà venerdì e sarà la seconda e ultima parte.
Mi dispiace un sacco non aver inserito tutti i personaggi che adoro del mondo di Haikyu, ma la storia - di per sè già un delirio - sarebbe diventata ulteriormente caotica senza alcuna ragione.
Ciò non toglie che potrei tornare a scrivere su questo universo alternativo!

Vi mando un bacio e vi auguro una buona Pasquetta, ricca di cioccolata!
-SkyDream
   
 
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