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Autore: SkyDream    09/04/2021    3 recensioni
[Ship!KageHina- cenni BokuAka, IwaOi][Fantasy!AU][PARTE 2/2]
Shoyo, ormai diciannovenne, scopre che esiste un mondo inesplorato all'infuori di Karakara Town e della sua Foresta.
Proprio lì fa la conoscenza di Tobio, un vagabondo errante alla ricerca del Mago Maledetto per poter uccidere il Grande Sovrano e vendicare il suo popolo.
Il Sovrano, però, non ha contaminato solo le loro vite, ma quella di centinaia di persone che non aspettano altro che essere liberate.
-
Dal testo: Tobio, invece, aveva ancora in mente l’immagine di Shoyo che sorrideva sotto il sole, con le lunghe spighe di grano alle loro spalle mentre lo ringraziava con quella voce squillante e carica di energia.[...]«Tu sei ancora certo di voler venire con me?» chiese allora, con voce un po’ smorzata.
Shoyo annuì con la testa, gli occhi ormai definitivamente chiusi.
«Non chiedermelo più, tanto la risposta non cambia».
Tobio sospirò internamente, felice di non ritrovarsi nuovamente solo in quel viaggio troppo lungo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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≈ Karakara Town ≈
~ L'Universo dei Doni ~ 
[Fantasy!Au][Parte 2/2]


Shimizu poggiò dei tomi sugli scaffali, erano tutti riguardanti la magia della trasmutazione e - notò Shoyo con una piccola fitta al cuore - di gatti.
Sfiorò una delle copertine in pelle e le rilegature in oro, pensò che Shimizu fosse una bellissima persona a concedere il suo tempo a delle cause simili. Si chiese, inoltre, se il Mago Maledetto lo fosse altrettanto.
Non sapevano nulla di lui, poteva trattarsi anche di un pazzo o di un cattivo, magari anche più del Sovrano. D’altronde doveva esserci un motivo se lo cercavano, se volevano il suo sangue e Shoyo ebbe l’impressione che non si trattasse solo di un problema riguardante i poteri che il Sovrano voleva ottenere.
«Leggervi il fondo degli infusi? Dei decotti? Quanto ne siete sicuri?».
Shimizu spolverò il bancone con cura e sistemò le piante in modo ordinato su delle casse ribaltate a formare piccoli scalini.
«Abbiamo davvero bisogno di questo favore, signorina, e vorrei chiederle di non dire nulla-» Tobio fu interrotto da un sorriso gentile da parte di Shimizu che li invitò sul retro della bottega. Li fece accomodare ad un tavolo dove vi erano alambicchi in vetro, barattoli e bottiglie dai colori altalenanti e fumanti.
«Non vi dirò alcunché sugli altri clienti, né loro verranno mai a sapere di voi. Ma sappiate che se siete qui per conto del Grande Sovrano, io non dirò una parola di più.» Shimizu osservò le loro reazioni e aspettò cauta le risposte, che comunque non tardarono ad arrivare.
«Cosa? No! No!» Shoyo cominciò a scuotere le braccia e il capo in senso di diniego.
«Siamo qui per lui ma non per conto suo!» Si affrettò ad aggiungere Tobio portando i palmi in avanti e con il terrore di essere stato frainteso.
Shimizu sorrise ancora, come se i suoi sospetti avessero trovato conferma.
«Come pensavo, allora non c’è alcun problema e possiamo pure andare avanti. Cosa cercavate nello specifico?».
Shoyo si voltò in direzione dell’altro ragazzo e lo guardò con gli occhi colmi d’apprensione, entrambi fremevano e cercavano delle risposte subito, risposte che potessero mettere a tacere i loro incubi.
«Vorremmo sapere se il Mago Maledetto riuscirà a fermare il Grande Sovrano.» la voce di Tobio fremeva d’ansia, i respiri erano rapidi e appena smorzati dalla tensione. Stringeva le mani, sudate, e continuava a sfregarle sulle ginocchia.
Shoyo si perse ad osservarlo, con quel ciuffo scuro che spesso finiva per solleticargli la radice del naso e pizzicargli gli occhi.
«Non posso prevedere il futuro, ma posso leggervi il presente. Dovete sapere che un tempo avevo molti più poteri e anche una bottega più luminosa».
Entrambi i ragazzi non ebbero bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che, dietro quel sorriso colmo di tristezza, si nascondeva l’ennesima vita segnata dal Sovrano stesso e dalla sua egemonia.
Shimizu prese una teiera ancora calda e versò dell’acqua fumante in una ciotola di cristallo che si appannò e si lasciò colorare dai fiori infusi che erano posti sul fondo.
Aspettarono che i piccoli petali salissero e che il fumo si diradasse, Shimizu prese poi una manciata di sale e cominciò a spargerlo al suo interno recitando formule senza emettere suono.
Alla quinta invocazione la ciotola cambiò colore, passando da un tenero lilla ad un blu scuro. Gli occhi di Shimizu, neri fino a quel momento, si tinsero di un bianco lucente come la luna e la sua bocca emise un lungo sospiro prima di parlare.
«Il Mago Maledetto ha coscienza delle sue possibilità e sa a cosa andrà in contro se accetterà il suo compito, sarà il suo Dono a porre fine alla sofferenza. Ciononostante, il suo animo teme il prezzo maledetto del suo Dono. Nella sua mente è sempre mattino, ma il suo cuore è pura tenebra che solo una luce può rischiarare, ma quando ciò accadrà rimarranno solo tre lune prima che la sua mente torni notte».
Tobio trasalì sulla sedia e trattenne il respiro fino alla fine della profezia, quando Shimizu sospirò di nuovo, l’acqua nella ciotola evaporò lasciando solo piccoli petali bruciati al suo interno.
«Cosa è?!» Shoyo si voltò verso l’altro scoprendolo pallido e angosciato, teneva lo sguardo fisso sul pavimento e sentiva le gambe e le mani tremare.
«Quella profezia, quella profezia è vera? Ne è sicura?» Tobio deglutì e dovette respirare con la bocca per riprendersi, sembrava dovesse perdere i sensi da un momento all’altro.
«Non avere paura, ha detto che il Mago è consapevole delle sue possibilità, è una cosa buona, no?» Shoyo si voltò verso Shimizu che, ancora un po’ confusa dall’utilizzo del suo Dono, si limitò ad annuire per poi alzarsi e congedarsi per prendere un po’ d’acqua.
Tobio afferrò un polso dell’altro ragazzo, distogliendo lo sguardo dall’erborista.
«Non capisci? Se una luce schiarirà il cuore del Mago, gli rimarranno solo tre giorni! Chi dice che i tre giorni non finiscano stanotte? E’ troppo vago, dobbiamo sbrigarci a trovarlo!» Tobio tremava e Shoyo conosceva solo un modo per far smettere le persone di avere paura.
Si alzò in piedi e lo abbracciò, lo strinse contro di sé e per un momento pensò di chiedere a Shimizu se anche lui potesse rendersi utile alla causa. Gli faceva male al petto vedere Tobio in quelle condizioni, così angosciato per la sorte di tutti i paesi dominati da quel pazzo assetato di potere.
«Lo troveremo in tempo, te lo prometto!».
E quella semplice frase bastò per farlo calmare. Tobio portò una mano dietro la schiena di Shoyo e si strinse un po’ di più a quella mantella di juta che profumava di bacche selvatiche, quelle che Shoyo raccoglieva sempre lungo i sentieri dei boschi.
«So che cosa cerchi, Tobio Kageyama, e lo troverai a Nord, oltre l’ultimo confine della Foresta. Non so cosa vi sia dopo, non mi sono mai addentrata, ma voi avete uno spirito dirompente e questo tanto basta.» li rassicurò Shimizu mentre rientrava nella stanza, intenerita da quella scena d’affetto.
Shoyo sorrise come se gli avessero appena dato la notizia più bella del mondo, abbassò lo sguardo ma notò che il volto di Tobio non aveva ancora smesso di contrarsi in un’espressione carica di paura e inquietudine.
 
Shimizu aveva insistito perché accettassero di farsi un bagno (uno vero, non uno di quelli dentro i laghi) e consumassero almeno un pasto decente. Non se lo fecero ripetere due volte.
L’erborista si era anche premurata di dar loro un unguento per quella brutta cicatrice che era rimasta sul petto di Tobio, nonostante fosse ormai totalmente risanata.
Si rimisero in viaggio nel primo pomeriggio, quando il sole era nascosto dalle nuvole cariche di pioggia e umidità. Shoyo sentiva le mani sempre più fredde, tanto da desiderare ardentemente di andare a dormire per potersi stringere contro Tobio e rubare un po’ del suo calore.
A proposito di Tobio, non si era più ripreso dalla notizia riguardante il Mago Maledetto, per cui aveva passato tutta la giornata in un silenzio meditabondo, carico di ansia.
Shoyo aveva provato a farlo ridere raccontando di quella volta in cui, riparando una tegola in una giornata tempestosa, un fulmine per poco non lo aveva arrostito.
Gli aveva anche imitato le urla dei compaesani e i capelli bruciacchiati sulla testa, ma proprio non riusciva a smuoverlo, non aveva fatto altro che sorridere a malapena. Le labbra si erano accartocciate in una smorfia che sembrava più simile ad un inizio di attacco epilettico.
«Comunque non dovresti preoccuparti così tanto, so che non è facile essere ottimisti però…» Shoyo aveva portato la testa di lato e si era fermato per cercare gli occhi dell’altro. Tobio evitava il suo sguardo.
«Però?».
«A volte le cose belle succedono, sai? E poi nei libri che leggevo da bambino i buoni vincevano sempre, per cui abbiamo buone probabilità di farcela».
Stavolta Tobio rise, ma una risata amara, ancora più acida della smorfia di poco prima.
«I buoni non vincono sempre, Shoyo, o non saremmo qui a parlarne».
«Però se-» Shoyo si bloccò, non poteva dirlo davvero.
Se non fosse stato per il Sovrano, non ti avrei mai incontrato.
Che non era altro che la verità, verità che sottostava ad un’altra affermazione.
Se il Sovrano non avesse ucciso la tua famiglia e il tuo popolo, non ti avrei mai incontrato.
Perdere tutto a che pro, quindi? Solo per incontrare lui? Un ragazzino dai capelli (non) di fuoco che aveva un Dono perfettamente inutile?
Tobio non parlò, si limitò a camminare ancora sperando che la notte arrivasse il più tardi possibile.
Quando il cielo si tinse di scuro e cominciò a tuonare, entrambi sollevarono gli occhi verso l’alto.
La luna era totalmente coperta, per cui l’unica fonte di luce non poteva che essere la pietra fatata che tenevano sempre in mano.
Alcuni lampi squarciarono l’orizzonte e il vento cominciò a scuotere le lunghe mantelle di juta e le fronde degli alberi in un fruscio accartocciato.
«Dobbiamo trovare un riparo prima che cominci a piovere più forte!» esordì Tobio cominciando a guardarsi attorno.
Shoyo non conosceva quella parte della Foresta, con gli occhi tentò di individuare qualche fata, solitamente loro detestavano i tuoni e avrebbero sicuramente cercato riparo dentro qualche caverna o rientranza.
D’un tratto sentì il vento cambiare direzione e spingerlo prima verso avanti e poi verso destra come se lo stesse guidando.
Tobio sussultò quando vide l’altro ragazzo camminare come se fosse posseduto da qualche demone.
«Giuro che non sto facendo nulla!» urlò Shoyo sovrastando il rumore della tempesta che si avvicinava, Tobio lo inseguì finché non lo vide rotolare davanti un tronco d’albero.
Sollevò la pietra fatata e notò che si trattava di una quercia secolare, enorme, la più grande che avesse mai visto.
Era cava e a giudicare dall’aspetto sarebbe stato un ottimo riparo.
Tobio infilò un piede e poi l’altro, stava per chiamare Shoyo quando sentì il terreno cedere sotto i piedi e il suo corpo essere ingoiato dalle viscere della terra.
Urlò così forte da richiamare l’attenzione dell’altro che, senza pensarci due volte, si fiondò all’interno chiamando il suo nome.
Shoyo rotolò per parecchi metri prima di atterrare su qualcosa di morbido, instabile e lamentoso.
Tobio, sotto di lui, era spiaccicato a terra e stava cercando di liberarsi.
«Spostati! Non ho la più pallida idea di dove siamo!» specificò cercando di farlo scivolare al suo fianco, sempre dietro la sua schiena come a volerlo proteggere.
Tobio portò la pietra fatata sopra la testa e si guardò intorno mentre tentava di mettersi seduto: il tronco dell’albero era collegato ad una caverna molto profonda che – stranamente – non era abitata da nessun animale e solo in lontananza potevano udirsi il rumore della pioggia e i sibili del vento.
Dall’altro lato vi era un muro di terra e fango per cui sarebbe stato improbabile ricevere visite durante la loro permanenza.
«Non è il luogo migliore dove attendere che finisca una tempesta, ma poteva decisamente andare peggio.» commentò Shoyo cominciando a spettinarsi i capelli nel tentativo di asciugarli.
Era totalmente zuppo e i brividi di freddo non tardarono a farsi sentire, si strinse come poté alla sua mantella di juta e si detestò – per l’ennesima volta – per non aver ottenuto il Dono di sua madre al posto di quello inutile che si ritrovava.
Tobio gli lanciò un’occhiata torva e poi cominciò a cercare qualcosa dentro la sua borsa, ne uscì delle pietre e un fiasco di alcool che non ricordava di avere.
«Me l’hai messo in borsa quando mi hai medicato la prima volta?» chiese Tobio, senza voltarsi, mentre stava cominciando ad armeggiare con dei ramoscelli trovati a terra.
Ci impiegò solo qualche minuto ad accendere il fuoco, i ramoscelli non erano umidi per cui – ipotizzò – sarebbero bastati almeno per qualche ora.
Shoyo si avvicinò entusiasta, il sorriso che rivolse alle lunghe fiamme rosse bastò a rincuorare Tobio che finalmente, da quando aveva ricevuto la notizia, si sciolse in un sorriso di riflesso.
«Grazie!» esclamò Shoyo accucciandosi proprio sotto le fiamme calde dopo essersi tolto la mantella per farla asciugare, rimanendo così con la camicia umida che gli aderiva al petto infreddolito.
Tobio seguì il suo esempio e si spogliò a sua volta per poi poggiare la schiena al muro e rilassarsi davanti quel tepore, non potè fare a meno – però – di rivolgere lo sguardo su Shoyo e sul suo corpo definito che risaltava con il rosso delle fiamme che si riflettevano sulla camicia bianca e sul suo viso colmo di lentiggini che cominciava a tingersi di un rosso scuro.
«Puoi poggiarti qui se vuoi.» Tobio battè una mano sulla propria spalla e il suo invito non tardò ad essere accettato.
Scivolarono nel sonno con estrema rapidità, concedendosi il lusso di godere del fuoco e di quella vicinanza mentre fuori imperversava una tempesta che non sembrava aver intenzione di smettere.
Tobio aveva sempre avuto il sonno leggero – complice la vita difficile a cui era abituato ormai da anni – e non gli ci volle molto ad aprire gli occhi e accorgersi che il fuoco era ormai mutato in una sottile fiammella.
Udì qualcosa che, inizialmente, sembrava indistinto, come un miscuglio di note confuse, altalenanti. Poi capì – non era la prima volta che sentiva le Fate suonare – e come un fulmine si voltò verso l’apertura della grotta.
Shoyo era in piedi con gli occhi sbarrati.
Minuscole Fate bazzicavano attorno alla sua figura, gli tingevano di luce i capelli, il volto e gli abiti come piccoli lampi. Alcune di loro suonavano strumenti fatati – flauti e campanelli d’argento, cetre e arpe splendenti - altre cantavano per governare i venti e spingere Shoyo sempre più verso la Foresta. Lo accompagnavano in un vortice scintillante e altisonante.
Tobio si sollevò da terra e cominciò a correre, non gli ci volle molto a capire perché fossero così interessati all’altro ragazzo e non avessero nemmeno tentato di svegliare anche lui.
Tra l’erba era possibile vedere i Fuochi Fatui danzare in brillanti mulinelli, tutti gli alberi sembravano aver preso vita e offrire i loro rami per accogliere Shoyo e ben presto cominciarono ad abbracciarlo e stringerlo tra stringhe di legno.
Proprio lui, in quel momento, come se si fosse appena tolto un peso cantò.    
E la Foresta si immobilizzò, i venti smisero di soffiare, le Fate arrestarono quel movimento turbolento attorno a lui per poi riprendere a suonare i flauti e cantare con ancora più vigore e tutto divenne quasi insopportabile per delle orecchie umane.
Era una voce celestiale, pensò Tobio, capace di scuotere anche le terre più ferme, capace di far sciogliere le stelle in cielo. Era una voce che sconquassava ogni animo umano e sovraumano.
Il primo timido raggio di sole – quasi fosse stato evocato da quel suono - fece capolino oltre la montagna, si aprì contro il tronco di un albero e inondò il prato, i fiori si sollevarono e gli uccelli scivolarono dai loro nidi per cinguettare.
I venti ripresero a muoversi morbidi attorno a lui, scuotendo i capelli rossi sulla fronte come le fronde degli alberi sfioravano il cielo, e le braccia rivestite dalla camicia vibrarono scosse da tremiti profondi.
Shoyo non smise un solo momento di cantare e le Fate e i Fuochi lo accompagnarono con voce e musica fin nelle profondità della Foresta, lì dove ormai la sua anima era stata separata dal corpo.
Tobio lo seguì, nonostante i venti soffiassero contro di lui.
Chiamò Shoyo, urlò il suo nome nel tentativo di farlo svegliare ma le Fate cominciarono a suonare sempre più forte, e ai flauti e ai campanelli argentati si aggiunsero i violini e il fruscio di foglie. Sembravano dirgli fai silenzio, taci. Taci.
Tobio si aggrappò ai tronchi degli alberi per rimettersi in piedi, non smise di invocarlo e di pregare i Numi della Montagna affinché lo risparmiassero.
Shoyo era un’anima pura, nonostante non fosse più un bambino, era un’anima che non aveva commesso peccato, non era stato mai mosso dalla lussuria e soprattutto non era mai stato amato.
La Foresta si nutriva delle anime come le sue e non aveva fatto altro che aspettare il momento propizio per tramutarla in un’Anima Pia.
C’era una cosa di cui però non aveva tenuto conto ed era la stessa che ora si stava lasciando ferire il viso dal gelido vento che aveva preso a sferzare contro di lui nell’ultimo vano tentativo di fermarlo.
«Hinata Shoyo è la luce che ha rischiarato le tenebre del mio cuore!»
Shoyo smise di cantare, aprì gli occhi e le iridi ambrate furono illuminate dalla luce del giorno che tinse il suo viso d’oro mentre lo rivolgeva verso l’altro ragazzo.
I violini si arrestarono, i flauti e i campanelli si sciolsero nell’aria così come le Fate presero a vorticare come impazzite mentre i Fuochi Fatui si dileguavano tra l’erba e gli alberi riprendevano il proprio posto lasciando le braccia e le gambe del ragazzo a cui si erano ancorate.
Shoyo rimase con le labbra schiuse finché Tobio non lo raggiunse e crollò ai suoi piedi aggrappandosi ad un suo polpaccio e sentendo il petto scuotersi sotto il peso dei singhiozzi.
«Hanno lasciato stare la mia anima.» sussurrò lievemente Shoyo mentre portava una mano tra i capelli scompigliati dell’altro ragazzo che non accennava a voler sollevare il viso per guardarlo negli occhi.
«Certo che l’hanno lasciata stare, non potranno mai prenderla se…» Tobio non riuscì a finire, quella consapevolezza lo aveva devastato su più fronti e non era il solo.
Pronunciando quella frase a voce alta aveva dato alito ai suoi sentimenti, aveva protetto Shoyo per sempre e si era condannato.
La presa sui suoi capelli si fece più decisa e sentì che Shoyo lo stava tirando verso di sé, ma poi finì lui stesso per cadere in ginocchio sul prato.
Stava piangendo, aveva le iridi lucide e i denti digrignati, stretti e circondati da labbra dall’aspetto così soffice.
«Tre lune? Tobio tu, tu sei-».
«Tu sei entrato come un raggio di luce e hai stravolto tutti i miei piani».
 
Shoyo afferrò il suo viso con esigenza prima di fiondare la sua bocca su quella dell’altro.
Shoyo aveva labbra morbidissime e scivolose, le guance calde per l’emozione e i capelli scombinati dal vento. Passarci le dita in mezzo, per Tobio, fu quasi idilliaco.
Le sue mani e il suo corpo si concessero di prendere tempo, di prendere fiato per poter godere di quell’attimo.
La sua condanna era già stata scritta, ne era cosciente, ma sapere di avere a disposizione gli ultimi due giorni era stato comunque massacrante.
Tobio non si era chiesto cosa ne sarebbe stato di lui dopo la morte, ma il suo pensiero era rimasto ancorato a Shoyo e al suo futuro.
Forse si sarebbe innamorato, forse avrebbe avuto dei figli. Qualcuno gli avrebbe fatto capire che avere un Dono speciale non è la cosa più importante e si sarebbe incantato ad ascoltarlo cantare, si sarebbe fatto cullare dalla sua voce.
Ma in quel momento, in quell’esatto momento e per i due giorni a venire, non ci sarebbe stato nessun altro oltre loro due.
Allora Tobio gli dispensò tanti baci da bastargli per la vita intera, dalla bocca passò alla guancia umida ancora di lacrime e colma di lentiggini, salì sulle palpebre chiudendo quelle iridi che ogni volta lo spiazzavano, sfiorò le tempie calde e affondò il viso tra i capelli morbidi e profumati di erbe e fiori.
Shoyo non aveva smesso di tenerlo stretto, sentiva le loro camicie ormai asciutte aderire tra loro, il petto dell’altro sollevarsi in respiri sempre più profondi e rochi, si lasciò sfiorare da quelle labbra morse, torturate, a tratti screpolate. E le amò.
Shoyo lo amò con tutto sé stesso in quegli istanti, lo amò mentre ad ogni bacio Tobio gli svelava un pezzo di verità.
Sono io il Mago Maledetto.
Sono io che tra due lune morirò.
Sono io che potrei salvarti.
Sono io che ti amo, da morire – davvero – e da impazzire – vero anche questo -.
Shoyo lo strinse, voleva sentirlo tra le braccia, sul suo cuore, sulla sua schiena, sul suo volto. Lo desiderava come se non poterlo avere lo avrebbe condotto alla follia.
Allora si ancorò al colletto della camicia e lo allentò, passò alle asole e scoprì il petto tonico dell’altro, con la punta delle dita sfiorò la cicatrice sul torace, quella che gli aveva curato dentro una grotta innevata.
Si sentì sopraffatto e finì a terra, contro l’erba umida di rugiada e con l’ombra di Tobio sul viso. Non vi fu bisogno di parlare, ma scappò ancora un bacio.
E un altro.
Un altro.
Un altro ancora.
E Shoyo si ritrovò a sua volta spogliato, sfiorato e amato. Pensare che quel sentimento avesse preservato la sua anima gli mise i brividi.
Tobio pensò erroneamente che avesse freddo – lui che scaldava sempre le proprie mani tra le sue – e si affrettò a coprirlo con il suo stesso corpo. Passarono parecchi minuti ad accarezzarsi ancora, a cercare ognuno il respiro nella bocca dell’altro, finché entrambi non fecero scivolare le mani sull’orlo dei pantaloni dell’altro e scacciarono via gli stivali sgualciti, non lasciarono più nulla sui loro corpi e Tobio poté farlo suo lì, in mezzo alla Foresta che aveva tentato di separarli.
Tobio si sentì forse un po’ arrogante nel voler mostrare all’Anima della Foresta, ai Numi della Montagna, alle Fate, ai Fuochi che Shoyo non poteva più essere loro.
Che il suo corpo gli sarebbe appartenuto per sempre, anche nell’aldilà, mentre loro non avrebbero mai più potuto sfiorarlo.
Perché la sua anima era ormai macchiata di cose bellissime, d’amore e di passione e la sua gola aveva ormai emesso gemiti di piacere mentre le mani rimanevano aggrappate ai fianchi dell’altro.
Shoyo aveva sospirato il nome di Tobio contro il cielo, si era beato del suo calore e del suo profumo, del suo fiato sulla pelle – dei suoi morsi -.
Rimasero entrambi lì, stesi sul prato l’uno sull’altro, in un vago ricordo di quella notte passata al fienile a contare le stelle e mangiare mirtilli.
«Qualunque cosa succeda, io non me ne vado».
Tobio lo aveva sussurrato sull’incavo del collo di Shoyo che stava disegnando piccoli cerchi sulla sua schiena.
«Voglio venire con te».
Tobio corrugò la fronte a quella risposta e sollevò il capo, vide che Shoyo fissava il cielo terso e le nuvole che si inseguivano.
«Che significa che vuoi venire con me?».
«Che non ti lascio andare da solo, qualunque cosa ti succeda, succederà anche a me».
Shoyo aveva sorriso davanti quella consapevolezza e aveva sospirato felice, come se avesse ricevuto una buona notizia.
Tobio non fu dello stesso parere.
«Sei forse matto? Hai una vita davanti, Shoyo, non esista che tu mi segua!».
«Che vita posso sperare di vivere senza questo?» Shoyo sfiorò il viso di Tobio con le dita. «Senza questo.» Passò una mano sull’erba attorno a loro.
Tobio strinse le labbra e fece per replicare.
«Mi hai salvato la vita per ben due volte, mi hai trascinato fuori dai miei limiti, mi hai fatto vedere volti che non avevo mai visto e ho respirato aria che non avevo mai respirato. Ho corso in campi di grano dorato e mangiato frutta in mezzo alla paglia, sono quasi stato rapito da un gatto e da un gruppo di Fate musiciste».
Shoyo si sollevò e lasciò che Tobio poggiasse la testa sulle sue cosce senza smettere un attimo di guardarlo.
«Se tu andrai via, io tornerò nei miei panni e stavolta mi staranno stretti. Mi hai dato tutto, l’amore, la protezione e le risate, come posso pensare di vivere?».
Tobio sentì il petto esplodere e si chiese se, con un tale fuoco a scoppiettargli dentro, il suo tempo non si fosse esaurito in quel momento, prima delle due lune.
Si sollevò a sua volta e gli regalò un altro bacio lungo, casto, carico di significato.
Poi si ricordò che la sua missione non era ancora finita, il Grande Sovrano non era ancora stato spodestato e la sua testa non era stata staccata dalla colonna.
Non poteva assolutamente permettersi di lasciarsi un mondo così alle spalle.              
Si sollevò in piedi e prese a rivestirsi prima di tornare verso la caverna per poter prendere borsa e mantelle.
«Ci riusciremo insieme, te lo prometto».
La voce di Shoyo lo colpì nuovamente, facendolo rabbrividire.
Si fissarono l’ultimo intenso momento prima di riprendere la loro via.
Quella notte la passarono a fare l’amore.
 
«Shimizu lo sapeva che non stavo cercando il Mago ma il Sovrano, così come anche Akaashi deve averlo capito. Hanno poteri immensi e ci hanno guidato nella parte giusta.» Tobio indicò un accesso sul retro di una cascata, portava all’interno di una montagna enorme e Shoyo si chiese perché mai un Sovrano dovesse regnare da un luogo così austero.
Tobio sembrò leggergli nel pensiero e si voltò verso di lui.
«Il Sovrano sa che lo sto cercando, così come io so che mi cerca. Per questo ha scelto un luogo così internato fino alla mia cattura».
Shoyo annuì. Ci erano voluti due interi giorni per raggiungere il punto più a Nord. La resa dei conti era ormai vicina, per quanto la consapevolezza gli bruciasse lo stomaco.
 
Shoyo fece per arrampicarsi in modo da poter raggiungere il retro della cascata, aveva appena afferrato una parte della parete quando si sentì tirare.
Tobio gli aveva afferrato il polso, scuro in viso come non mai.
«Sei sicuro di voler venire con me? Dovresti aspettarmi qui fuori!».
«Non se ne parla nemmeno! Ti avevo detto di non chiedermelo più».
«Qualunque cosa tu senta lì dentro, sappi che io non ho mai finto con te. Chiaro?».
Shoyo annuì, confuso, mentre constatava come la mano calda di Tobio avesse afferrato il suo polso con una delicatezza disarmante.
Entrarono all’interno della cavità e Tobio dovette utilizzare la pietra fatata per facilitare loro il cammino. Lungo le pareti vi erano tracce di spade e lance, segno che i soldati dovessero per forza essere lì dentro.
Shoyo deglutì vistosamente, non tanto per la paura quanto per il rammarico di essere totalmente inutile con il suo Dono. Si chiese se quello di Tobio fosse abbastanza forte da poter sconfiggere chiunque, si chiese anche perché non lo avesse mai utilizzato.
Tobio gli poggiò una mano sul petto e lo spinse dietro di se come a volerlo proteggere, si affacciò oltre una parete di pietra e scoprì una delle grandi stanze del Sovrano. Sembrò elaborare qualcosa.
«Stai in silenzio, va bene? Fai finta che io ti abbia cucito la bocca.» Prese il cappuccio della mantella di Shoyo e glielo infilò sui capelli ramati, così a sua volta si nascose il volto ed entrò facendo finta di tossire e richiamando l’attenzione della guardia.
«E’ qui che mi hanno indirizzato per incontrare il Grande Sovrano, ho urgenza di parlargli!»
Shoyo inarcò un sopracciglio e si sforzò di non ridere nel sentir parlare Tobio con quella voce artefatta e falsissima.
La guardia sembrò cascarci bellamente.
«Chi siete voi?» chiese allora, Tobio afferrò il polso di Shoyo e lo scosse come se avessero qualcosa che li legasse.
«Del mio nome, non importa. Il ragazzo che ho qui è quello che voi chiamate Mago Maledetto, vedete le catene che ci tengono insieme? Mi è stato detto di portarlo qui e così ho fatto, Fatemi passare e liberatemi da tale ingombro!».
Shoyo si chiese come l’altro facesse a vedere le catene, ma non proferì parola e proseguì a camminare in silenzio.
Dovettero passare almeno davanti altre sei guardie prima di poter entrare dentro l’immensa sala del Sovrano.
Shoyo non resistette all’impulso e sollevò gli occhi per guardarlo, vide un uomo di mezza età dalle spalle imponenti e i lunghi capelli raccolti dietro la schiena, aveva anche una barba annodata e due profondi occhi –
Occhi –
 
«I tuoi occhi sembrano due mirtilli maturi, Tobio!»
 
Shoyo sentì il respiro spezzarsi e qualcosa, al centro del petto, andare in frantumi.
La presa sul suo polso si fece un po’ tremolante e lì non vi fu più alcun dubbio.
«Tobio, figlio mio, ce ne hai messo di tempo prima di farti trovare».
Tobio lasciò scivolare giù il cappuccio e portò lo sguardo contro quello dell’uomo.
«Siete voi quello che vivete nell’ombra, padre, io ho sempre camminato sotto il sole».
Una radice sbucò fuori dal terreno e si ancorò alle caviglie dei due ragazzi, costringendoli a rimanere sul posto. Shoyo saettò con lo sguardo a destra e a sinistra nel tentativo di trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto.
Tobio, invece, rimase stoico e immobile con lo sguardo alto.
«Non sono venuto a lasciarmi sopraffare dai vostri desideri di potere, mi sembra evidente.» precisò mentre sfiorava una parte del torace, quella corrispondente alla cicatrice.
«Sei venuto a mostrarmi la tua ultima conquista? Hai ripulito per bene la testa di questo ragazzo?» la risata che ne seguì fu capace di far tremare l’aria, Shoyo ebbe l’impressione che dei lunghi brividi si stessero facendo strada dentro la sua schiena.
«Quello che faccio del mio Dono non è affar vostro, sono qui per un altro motivo».
«Quindi immagino non lo sappia di come ti sei guadagnato la tua maledizione.»
Il Sovrano scomparì dalla loro vista e ricomparì ad un palmo dai loro volti, Shoyo sussultò e il cappuccio gli scivolò dalla testa scoprendo i riccioli rossi che gli incorniciavano il viso.
Tobio digrignò i denti e incrociò lo sguardo del Sovrano che portò una mano sulla guancia del figlio carezzandola lentamente.
«Dimmi, il tuo amico sa che puoi modellare la mente delle persone a tuo piacimento? Che hai plasmato le menti del tuo popolo costringendoli tutti al suicidio?».
Tobio gli schiaffeggiò la mano, aveva gli occhi carichi di odio e sembrava voler stringere le dita attorno al collo di suo padre, vederlo morire lentamente una volta per tutte.
«Siete stato voi a costringermi a farlo, ero solo un bambino e ho passato la vita nel peccato per colpa vostra!».
«Le anime di quella gente vengono a turbarti il sonno per caso?».
Il Sovrano schioccò le dita e fece in modo che il turbine di piante si sollevasse e stringesse anche i loro polsi.
«Dovrebbero turbare anche il vostro. Non vi capita mai di sentire la voce di mia madre?».
Tobio lo ricordava bene, era stata una notte carica di pioggia quella in cui suo padre gli aveva detto che convincere la mamma a togliersi la vita sarebbe stata la scelta più saggia. Stava male da tempo ed era inutile farla soffrire ancora, sarebbe stato meglio per tutti.
E Tobio, troppo piccolo per comprendere l’immensità di quel gesto, acconsentì e sfiorò la guancia morbida della madre, sentì le sue labbra curvarsi in un piccolo sorriso e chiamarlo per nome prima che gli occhi si sgranassero per la sorpresa.
Tobio era entrato nella sua mente, era calda e dolce, gli bastò sussurrargli cosa fare.
E’ per il tuo bene, me lo ha detto papà.
Allora sua madre aveva evitato di piangere, aveva allungato una mano e gli aveva fatto promettere di andare via, di scappare.
«Il tuo Dono è fatto per salvare delle vite, Tobio, non per spezzarle».
Tobio non aveva capito all’inizio, poi piano piano si ritrovò a dover chiedere la stessa cosa ad ogni cittadino del suo paese, a tutta la gente che lo aveva cresciuto, ai suoi amici con cui adorava giocare a pallone.
E tutti, prima di correre via e perdere la vita in un lago di sangue, lo guardavano con lo sguardo carico di dolore e terrore. E Tobio smise di respirare.
Smise di dormire.
Una notte tentò di fuggire e suo padre, in preda all’ira, gli scagliò contro una maledizione nel tentativo di fermarlo.
 
Che nella tua mente sia sempre mattino, ma che il tuo cuore sia pura tenebra che solo una luce potrà rischiarare, e quando ciò accadrà rimarranno solo tre lune prima che la tua mente torni notte e la tua anima si distacchi.
 
Poi corse via e si nascose nell’ombra, diventò parte di essa e si mescolò alla notte tra le foreste, le Fate e i Fuochi Fatui lo evitavano e illuminavano il percorso di fronte a lui senza mai sfiorarlo davvero.
La sua anima doveva avere un fetore pestilenziale, ne era certo. Suo padre avrebbe potuto rimuovere la maledizione, ma non sarebbe mai e poi mai tornato indietro.
Più camminava, più capiva quanto la sete di suo padre non si fosse arrestata: vagava per tutti i popoli e i paesi rubando tracce di Doni, accaparrandosi quello che poteva e bramando un modo per scovarlo e costringerlo di nuovo a modellare le menti secondo il suo volere.
Tobio iniziò quindi a cercare un modo per fermarlo, aveva letto parecchi libri di magia sui Doni e aveva anche pensato di parlare con chi aveva i Poteri Maggiori, ma si era arreso subito.
Convogliare i Poteri Maggiori senza farsi scoprire sarebbe stata pura follia, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
Poi, una notte, una delle guardie lo aveva colpito al torace con una lancia e lui aveva cercato un modo per curarsi e fasciarsi prima di dissanguare.
Era stato lì che una melodia lo aveva chiamato: Shoyo camminava nella Foresta seguito da una nuvoletta di Fate dalle ali colorate e i Fuochi Fatui danzavano ai suoi piedi, la Foresta sembrava aprirgli ogni sentiero.
Un’anima pura, che non aveva mai ferito nessuno né amato.
Tobio avrebbe voluto avvicinarsi ma, poi, si era ritrovato a doversi buttare su di lui per evitare che lo ferissero e lì, per la prima volta in vita sua, si era ritrovato a ripensare alla frase di sua madre.
Per salvare le vite, Tobio.
Aveva quindi ricominciato a respirare e a dormire, tutti i suoi viaggi a vuoto avevano trovato un senso quando ne parlava e gli occhi di Shoyo si accendevano di curiosità, la sua mente si scoprì in grado di formulare pensieri bellissimi e ricordi meravigliosi.
Scoprì di poter ridere, di poterlo fare accanto a qualcuno.
Di poter amare e di poter fare l’amore.
Quella consapevolezza avrebbe potuto farlo morire.
Ora che si trovava di fronte suo padre, colui che lo aveva condannato con la sua maledizione, non poteva che fermarlo una volta per tutte.
Gli entrò dentro la mente e sentì una resistenza dura come l’acciaio, i suoi pensieri erano così bui e maledetti da togliergli il fiato.
Tobio si sentì sopraffatto, non entrava nella mente di qualcuno in modo così violento ormai da anni. Sentì le forze venirgli meno e le ginocchia cedere sul terreno.
No, non doveva andare così, ma non vi era altro modo.
Anche Shimizu aveva detto che sarebbe stato il suo Dono a fermarlo, come poteva non funzionare?
Aprì gli occhi e vide che anche suo padre era in estrema difficoltà, aveva portato le mani alle tempie nel tentativo di scacciare quell’intrusione e quella perdita di concentrazione aveva permesso a Shoyo di liberarsi.
Tobio lo guardò e trovò l’energia e il coraggio per impegnarsi ancora di più.
Inspirò e si concentrò sull’aria che entrava nei suoi polmoni e riossigenava la sua mente contaminata, sentiva ancora i pensieri malevoli di suo padre infiltrarsi nei suoi pensieri ma li ignorò.
Poni fine alla sofferenza.
Poni fine alla sofferenza!
 
Era un ordine semplice da riferire, ma la mente di suo padre era ormai inacidita, slavata dalle maledizioni inferte.
Tobio si accorse però che la mente era ancora resistente, così strinse gli occhi e chiuse i pugni concentrandosi quel tanto che bastava per poterlo fermare.
Qualcosa poi lo travolse.
Sollevò le palpebre per lo spavento e si ritrovò Shoyo ancorato al petto, aveva il torace e parte della spalla sinistra totalmente ustionate, dall’angolo della mandibola colava un liquido viola che gli stava corrodendo la pelle. Gli occhi strabuzzati, lacrimanti che lo supplicavano.
«Fermalo.» la sua voce gli arrivò come un sussurro alle orecchie, implorante.
Shoyo non voleva che qualcuno soffrisse come Tobio, come Kenma, come Shimizu e tutti gli altri. Come altre centinaia di persone innocenti.
E se il Sovrano si fosse interessato al Potere Maggiore di Natsu? Doveva proteggere anche lei e non poteva farlo col suo Dono.
Aveva bisogno di Tobio.
Il Sovrano si riprese da quell’intrusione mentale e si accorse di aver sbagliato soggetto. Era convinto di aver colpito Tobio con quell’estratto di Stramonio creato grazie ai rudimentali poteri che era riuscito a sottrarre a Shimizu e Tooru, ma inutilmente.
Shoyo si era messo in mezzo, correndo veloce come la luce e aveva rovinato il suo piano.
Il Sovrano non poteva lanciare su Tobio altre maledizioni, poteva solo far uso di quegli stralci di poteri che aveva rubato alla gente che aveva tormentato.
Provò quindi ad invocare lunghe lingue di fuoco, ma ecco che Shoyo si era rimesso in piedi per fare da scudo all’altro ragazzo.
 
Fermalo, ti prego. Basta.
 
Incrociò lo sguardo con quello del Sovrano sfidandolo a colpirlo con quelle lingue di fuoco, d’altronde aveva già provato sulla sua pelle quelle di sua madre.
Era cresciuto temprato dalle fiamme di un Potere Maggiore, di certo non lo avrebbero ferito quelle lì.
Il torace si stava lentamente consumando sotto l’acido, la pelle ustionata non gli faceva più nemmeno male. Poteva lottare ancora, poteva proteggere Tobio fino all’ultimo e mettere la parola fine a quella scellerata sete di potere.
Tobio avrebbe voluto controbattere, ordinare a Shoyo di farsi da parte e cercare di riposare, ma si impose di non entrare nella sua mente.
Non lo aveva mai fatto e non lo avrebbe fatto neanche in quel momento.
Anche se non voleva, non accettava di vederlo corrodersi in quel modo, soffrire come un dannato per lui.
Acconsentì - a malincuore e stringendo denti e cuore – e si inginocchiò per terra chiudendo gli occhi e concentrandosi sulla mente di suo padre, ancora turbato da quegli avvenimenti e preso dal tentare ora un approccio corpo a corpo con il suo nemico, che non aveva perso la velocità che lo caratterizzava.
Shoyo scivolò sotto le gambe del Sovrano e ricomparì alle sue spalle curvando la testa di lato con aria di sfida, la pelle del mento sfilacciata gli dava un’aria tetra e angusta, il Sovrano fece per scagliargli contro qualcosa ma finì a terra.
Sentì una lama gelida entrargli nella mente e contorcerla, costringerlo a rimanere lì immobile.
Tobio, parecchio dietro, aveva stretto i pugni contro il pavimento e continuava a mordersi il labbro inferiore fino a sanguinare.
All’improvviso urlò, fu un urlo tetro che riuscì a scuotere perfino le profondità della terra. Le Fate e i fuochi all’esterno risposero a quel richiamo e tutto intorno si riempì di magia che alimentò ancora il Dono maledetto di Tobio.
Il Sovrano riuscì a rimettersi in ginocchio, spostò lo sguardo su quello che era suo figlio.
Uno sguardo carico di odio, lontano da quello che gli aveva riservato sua madre prima di lasciarlo andare.
Le labbra formularono una maledizione e la mano che si era riempita di luce si posizionò sul suo stesso petto, infliggendosi il colpo di grazia e scomparendo per sempre.
Tobio rimase immobile a fissarlo, non seppe mai se in quella maledizione fu scritto il suo nome, ma si disse che ormai era troppo tardi per scoprirlo.
Aveva letto su un vecchio libro che, al momento della morte di un mago, tutte le sue maledizioni e le benedizioni vengono meno e ciò che è stato preso torna indietro, ciò che è stato dato viene tolto.
Era l’unico modo per mantenere l’equilibrio in quel mondo che di equilibrato non aveva nulla.
«Sei stato incredibile!» Shoyo era seduto a terra con un palmo sul petto per cercare di respirare, sentiva i polmoni cominciare a bruciare davvero.
Tobio si sollevò in piedi, perdendo l’equilibrio un paio di volte a causa dello sforzo e avvicinandosi all’altro ragazzo per controllarne le condizioni.
«Sai, Tobio, per un attimo ho temuto che ti saresti trasformato in un mostro. Hai completamente cambiato faccia, mi hai proprio spaventato!» Shoyo sorrise in mezzo a quell’aria tetra e pesante.
Tobio non sapeva come portarlo fuori da lì, non poteva caricarlo sulla schiena né afferrarlo per una spalla a causa delle ferite.
«Fidati di me, va bene?» Tobio gli scostò il ciuffo rosso dal viso e lo vide annuire prima di perdere i sensi.
Lo prese in braccio facendo attenzione a non toccare la pelle ustionata e diede un ultimo sguardo a quella caverna.
Girò le spalle e camminò verso fuori.
 
Primo passo:
Akaashi aprì gli occhi e notò che qualcosa sotto la pelle era tornato al suo posto. Bokuto, sdraiato a torso nudo sotto di lui, passò una mano sulla sua schiena scoperta e lo chiamò per nome.
Akaashi rispose con un sorriso e gli prese il viso con le mani a coppa prima di baciarlo e sfiorargli la carotide, scendere ancora un po’.
«Abbiamo un altro motivo per fare l’amore stasera».
«Abbiamo sempre un motivo».
Le lucciole sul prato danzarono attorno ai loro corpi e la luna sul lago allungò la sua ombra chiara fino ad illuminare i loro volti colmi di gioia.
 
«Shoyo, siamo quasi arrivati, va bene?»
 
Secondo passo:
Kenma se ne stava con la coda a penzoloni sul tetto a guardare la luna, portò una zampa sul musetto e sui baffi quando si rese conto di aver sfiorato qualcosa di strano.
Guardò il suo corpo scoprendolo di carne, ossa e pelle. Come quello di Kuroo, di Tooru o di Iwaizumi.
Cercò di miagolare ma ne uscì solo un suono indistinto.
La luna nel cielo, prima nitida, divenne sempre più sfocata mentre le lacrime gli rigavano il volto.
Sentì un calore sulle spalle nude ed ebbe il tempo di voltarsi per vedere come Kuroo si fosse fiondato su di lui stringendolo al petto e riempiendolo di baci sui capelli ormai troppo lunghi.
Kenma avrebbe per sempre ricordato i grattini sulla testa che gli regalava quando era solo un micetto, ma non li avrebbe mai preferiti alle carezze sulla pelle.
 
«Svegliati, Shoyo. Ti sto aspettando».
 
Terzo passo:
Shimizu sentì un brivido lungo la schiena e credette fosse dovuto alle temperature ostili di quella notte. Chiuse il libro sulla metamorfosi dei gatti e si alzò in piedi per cercare una coperta.
La sensazione che qualcosa le fosse tornato dentro il corpo non accennava ad andarsene, si avvicinò alla finestra per controllare le nuvole e diede un’occhiata al vasto campo incolto che versava al di sotto della bottega, giù per una collina.
Sorrise immaginandolo ricolmo di tulipani bianchi e orchidee e si voltò per afferrare la coperta stesa sul divanetto.
Il brivido sottopelle aumentò spingendola a guardare nuovamente e a scoprire il campo trasformato in una distesa di fiori bianchi che rilucevano sotto la luna.
Indietreggiò e finì per urtare contro il tavolo facendo cadere alcuni tomi a terra.
Le mani non smettevano di tremare. Le guardò e notò come la luce del suo Dono fosse tornata.
Sugawara entrò in stanza scoprendole il volto rigato dalle lacrime, si avvicinò preoccupato ma si ritrovò solo un mazzo di rose bianche tra le mani.
Non ebbe il tempo di sussultare, ecco che Shimizu gli si era fiondata tra le braccia e aveva ripreso a piangere sulla sua spalla stringendolo come non aveva mai fatto.
 
«Tobio, non andartene».
 
Quarto passo.
Il mondo riprende a respirare.
 
Tobio ebbe l’impressione che una parte dell’equilibrio fosse appena stato ripristinato.
La notte stava ormai per giungere al termine, uscì da lì e vide la luna alta in cielo che illuminava la cascata che nascondeva l’ingresso per quel covo maledetto.
Avvicinò Shoyo all’acqua corrente e tamponò l’ustione come poteva nel tentativo di rinfrescarlo, il ragazzo aprì appena gli occhi e li incastonò nei suoi.
Il rame fuso delle sue iridi si confuse con il color mirtillo.
Tobio lo prese nuovamente in braccio senza risparmiare qualche battutina e causandogli delle lievi risate che trasformarono il viso in un pallido ricordo dei suoi eccessi di risa quando si pizzicavano.
«Ci fermiamo qui a dormire?» Shoyo guardò un melo poco distante e lo indicò con un cenno del viso. Tobio annuì e lo poggiò a terra facendo attenzione a togliere la camicia bagnata e in parte ormai bruciata da quel composto maledetto che non aveva smesso di corroderlo.
Shoyo si guardò la pelle del torace e del braccio, si sfiorò appena il mento e desiderò ardentemente di passare quelle ultime ore occhi negli occhi con l’altro ragazzo.
Tobio sembrò leggergli nel pensiero – chissà, magari lo aveva letto davvero – e si sdraiò sotto l’albero a torso nudo prima di accoglierlo tra le braccia.
«Così non sentirai freddo.» spiegò prima di portare una mano tra i suoi capelli e scostarglieli dalla fronte.
«Guardami solo in viso, va bene?» lo pregò l’altro con gli occhi socchiusi.
«Va bene».
Tobio gli sorrise e decise che piangere sarebbe stato inutile, salvare Shoyo era impensabile e lui sembrava quasi felice della piega che aveva preso quella lotta.
Era un chiaro segno del destino, ne erano entrambi certi.
«Cosa ti piacerebbe fare domani?» chiese Shoyo con lo sguardo sul viso pallido di luna dell’altro.
«Non gioco a pallone da molto.» Tobio continuò a rigirare i ricci tra le dita mentre sentiva il tempo scorrere sui loro corpi e staccarli sempre di più da quella terra.
Shoyo si accoccolò meglio contro l’incavo del collo dell’altro, respirò contro la sua pelle e scoprì che il suo fiato era ormai freddo.
«Tobio?».
«Mh?».
«Non sei un mago maledetto. La tua anima non è macchiata come credi».
La voce di Shoyo gli entrò sottopelle e fece vibrare il suo cuore e i suoi occhi ormai colmi di lacrime.
«Ti sembra il momento?» chiese retorico sorridendo appena.
«Hai un’anima bellissima, l’ho capito quando hai cominciato a parlarmi dei tuoi viaggi e poi quando mi hai scaldato le mani quando dormivamo».
«Shoyo, io-».
«Preferisco morire insieme a te piuttosto che diventare un’Anima Pia e guardarti andare via da solo. Davvero».
Tobio non riuscì più a mantenere il suo tono composto e poggiò il viso contro i capelli rossicci dell’altro, stringendolo appena per non fargli male.
«Shoyo, io-» riuscì a sussurrare senza riuscire a dire altro, ormai spezzato dalla consapevolezza.
«Ti amo anche io, Tobio. Avrei voluto fare l’amore con te un’ultima volta, sai?».
«Zucca vuota, avremo tutto il tempo del mondo per fare l’amore! Potremo farlo per-».
«Per tutta la vita?».
Tobio singhiozzò e sentì le lacrime di Shoyo contro la sua gola. Sentì perfino un bacino e non resistette all’impulso di scendere un po’ di più e ricongiungere le loro labbra già fredde e aride.
«Qualunque cosa succeda, tu non lasciarmi andare.» sussurrò Shoyo chiudendo gli occhi e tornando nel suo posto preferito, lì sull’incavo del collo.
«Ti terrò stretto tutto il tempo.» Tobio sentì le forze venirgli meno e poggiò nuovamente il volto sui capelli dell’altro lasciando un lungo bacio sulla sua fronte.
Vi fu una folata di vento più fredda delle altre, e fu quella che annunciò l’arrivo del mattino e la fine della luna.
Il primo raggio di sole colpì l’erba facendo riluccicare la rugiada sulle foglie e sulle ali delle piccole coccinelle che sapevano di primavera.
I due ragazzi rimasero immortalati in quell’istante, congelati in una dimensione che non apparteneva loro né gli esseri umani. Sarebbero passati gli anni e poi i secoli, ma nessuno sarebbe mai riuscito a toccarli o a scoprire come riuscissero a resistere alle intemperie del tempo. Le Fate e i Fuochi Fatui, ancora oggi, ammirano quell’abbraccio che racchiude i peccati di un’anima umana: dolore, lussuria e amore.
 
Addormentati, l’uno stretto all’altro, avrebbero passato pelle a pelle l’intera eternità.
 
- Fine.


Note dell'autrice: Ho pianto e sofferto. Inutile nasconderlo, scrivere l'ultima parte con Never Enought di sottofondo è stata una mazzata allo stomaco e spero, in tutta sincerità, che l'impatto si sia sentito anche durante la lettura.
Ho amato questo mondo, ho amato Shoyo e Tobio che mi hanno accompagnata riga dopo riga. Ho amato tantissimo le vostre recensioni e i feedback <3
Siete splendidi, davvero e grazie tantissimo a voi che non solo mi sostenete, ma mi fate sognare con le vostre fanfiction!

A presto!
   
 
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