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Autore: Nicola Novaglia    11/04/2021    0 recensioni
Ad ogni passo che muoveva, si sentiva come se dovesse alzare un quintale di piombo e ad ogni metro che lo avvicinava al secondo piano, percepiva i suoi sensi farsi più acuti: sentiva lo scricchiolio delle Converse sul marmo lindo ed il rumore affannato e sommesso del suo respiro.
Ormai questo è il terzo racconto collegato alla strana presenza già incontrata nei miei altri racconti "Lui aspetta sotto il letto" e "I W'Hannah eat".
Spero vi piaccia!
Genere: Horror, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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RED EYES IN THE DARK
“I prayed that he would finish,
but he just kept right on.”
(Perry Como – Killing Me Softly)
 
Mentre saliva le scale al buio ebbe una premonizione.
Maximilian Rupert Donovan non si era mai considerato un vigliacco, ma non poteva farci nulla, i suoi genitori erano ad una cena di beneficienza organizzata al terzo o al quarto piano del Radio City Music Hall e quindi era toccato a lui controllare che la loro casa fosse chiusa.
“Maximilian, caro, credo di aver lasciato le imposte della camera da letto aperte e il tempo promette pioggia per questa sera.”.
Quelle erano state le prime parole che sua madre gli aveva rivolto da un mese a quella parte e non erano state nemmeno interrotte da un “Come stai?” di circostanza, ma non avrebbe cambiato nulla, perché Max era riuscito a tradurle con certezza, tanto che nella sua testa erano risuonate perentorie come un:
“Chiudi le imposte perché io e tuo padre, quei tizi che ti pagano la retta per uno dei College più esclusivi dello Stato, senza contare l’auto che guidi, ce ne siamo dimenticati. È il minimo che puoi fare, vero caro?”.
Già, era il minimo che potesse fare.
La telefonata della signora Donovan aveva guastato i suoi piani per l’inizio della serata, ma non gliela avrebbe rovinata del tutto, così si era organizzato per passare a prendere Jenny con mezz’ora di anticipo per arrivare comunque in orario per la partita dei Red Soxs.
Aveva spiegato a Jenny che prima di incontrare gli altri al solito pub, quello che lei in realtà odiava perché puzzava di birra e sudore, sarebbero dovuto passare da quei rompi coglioni dei suoi genitori.
Jenny era stata comprensiva, ma era rimasta in auto ad aspettarlo. In quel preciso momento, però, gli dispiaceva. Molto.
 
Max era appena entrato, aveva chiuso la porta d’ingresso e già non sentiva nemmeno più il russare sommesso del motore diesel della sua Nissan Pathfinder, che in effetti era una gran bella auto, di quelle che non sfiguravano quando si dovevano accompagnare le ragazze o si decideva di fare una scappata ad Atlantic City tra compagni di college.
(È il minimo che puoi fare, vero caro?)
Il silenzio della casa dei suoi genitori non gli piaceva granché, non gli piaceva da bambino e non gli piaceva nemmeno ora che era quasi un adulto.
Non sentiva l’auto, ma quella sensazione la sentiva molto bene.
Alla fine i suoi genitori avevano avuto ragione e oltre ad aver piovuto, uno sbalzo di corrente aveva fatto saltare la corrente del loro impianto elettrico, se ne era accorto appena aveva alzato l’interruttore senza ottenere la calda luce giallognola all’ingresso.
Pensò che forse un ramo caduto da un albero doveva aver isolato il loro quartiere tranciando i cavi volanti della corrente elettrica o più semplicemente uno sbalzo di tensione aveva attivato il salvavita, fatto sta che la casa dei suoi genitori era al buio.
Un sommesso “Vaffanculo” si era inerpicato fin fuori dai suoi denti, seguito dal pensiero che non sarebbe sceso in cantina per nulla al mondo, figurarsi per alzare il salvavita e riportare la corrente, quando l’unico suo obiettivo a breve termine era quello di correre fuori di lì per andare al bar e farsi una birra ghiacciata.
“Col cazzo.”, pensò, “Sono venuto qui per le finestre e ormai ha piovuto. Io le chiudo, poi se la tirino su loro la fottuta corrente.”
 
Non appena fu a metà della prima rampa di scale, Max percepì un formicolio alla base del collo, quel mescolarsi del sentore di essere osservati con la certezza che qualcuno
(qualcosa)
lo avrebbe aggredito.
Ad ogni passo che muoveva, si sentiva come se dovesse alzare un quintale di piombo e ad ogni metro che lo avvicinava al secondo piano, percepiva i suoi sensi farsi più acuti: sentiva lo scricchiolio delle Converse sul marmo lindo ed il rumore affannato e sommesso del suo respiro. Aveva perfino l’illusione che la poca luce che filtrava dal fondo delle scale, riuscisse in qualche modo ad ampliare lo spettro della sua vista.
Max Donovan studiava psicologia, di lì a poco sarebbe stato uno psicologo e avrebbe cercato uno studio per svolgere il suo tirocinio, possibilmente a debita distanza dalla città di nascita dei suoi genitori, forse a Washington, meglio sarebbe stato a Miami.
Si considerava un adulto, quasi, e si apprestava a diventarne un esemplare di successo, i suoi voti nei vari corsi erano eccellenti: conosceva molto bene la forza della sua mente e la potenza della suggestione, ma nessuno resiste alla paura, specie se atavica, pregressa, radicata in un’infanzia fatta di rapporti incerti e volatili.
Forse era davvero solo suggestione, ma le goccioline di sudore che si stavano formando sulla sua fronte, quelle erano reali, gelide e reali.
Max (o Maximilian anche se solo sua madre, Jenny e lui stesso quando doveva convincersi di qualcosa, lo chiamavano con il nome completo), si passò il polsino della giacca poco sotto l’attaccatura dei capelli biondi per detergersi la fronte.
Una parte recondita del suo cervello, aveva ancora la lucidità di preoccuparsi del bomber della Columbia,
(spero non si sia sporcata)
ma tutto il resto della sua mente non riusciva a distogliersi da quella sensazione appiccicosa.
Un altro passo.
Poi uno ancora.
Aveva vissuto in quella casa per diciotto anni, ne conosceva ogni minimo anfratto e aveva calcato ogni mattonella di entrambi i piani, eppure gli sembrava di essere tornato bambino e questa inaspettata palingenesi, lo aveva riportato ai suoi sei anni quando suo padre gli chiedeva di scendere in cantina a prendere una bottiglia di acqua per sua madre ed una birra per lui. Aveva già deciso che non avrebbe visitato il piano interrato quella sera, ma salire le scale con quel buio non era molto meglio.
Non gli piaceva il buio, non gli piaceva quando aveva sei anni e nemmeno ora che era poco più che ventenne, però quella era casa sua e non sarebbe ritornato sui suoi passi, non ora che era, quasi, un adulto.
Mancava poco all’arrivo, un altro paio di passi e avrebbe trovato il parquet del pianerottolo che divideva le due rampe, quando fiutò l’odore.
Era un lezzo penetrante, fastidioso ed acido. La professoressa Kields, l’insegnante di neurobiologia aveva tenuto poche settimane prima un’interessante lezione su come il cervello umano identifichi gli odori, ma a Max non era rimasta particolarmente impressa.
Da quel poco che ricordava, l’amigdala registrava l’odore mentre una parte della corteccia frontale, quella posta appena sopra gli occhi, ne riconosceva la natura buona o cattiva. In parole povere, esisteva una parte della sua materia grigia che gli faceva capire se quello era profumo di vaniglia o puzza di merda. La professoressa Kields non si era espressa in quei termini, ma questo era tutto quello che Max aveva saputo portare a casa, ma non appena il suo cervello ebbe connesso l’odore e la repulsione, Max fu certo che qualcuno
(qualcosa)
lo stesse aspettando nella stanza. Ora stava sudando davvero, sentiva la maglietta umidiccia che gli sia appiccicava alle ascelle, ma quello che sentiva non poteva essere il suo odore.
Per un attimo fu veramente tentato di ritornare sui propri passi, ma non poteva, sarebbe sembrato un vigliacco, più a se stesso che a chiunque fosse con lui. Jenny lo stava aspettando in macchina e non doveva far altro che chiudere quella dannata finestra e rituffarsi giù dalle scale. Max era nella squadra di atletica della Columbia ed era veloce, non avrebbe avuto difficoltà a coprire la distanza fra la camera e la porta d’ingresso in meno di dieci secondi.
Mosse un passo, ma dovette attaccarsi al corrimano per non cadere.
Era stato un fruscio lieve, ma era sicuro di averlo udito bene: uno sfregamento rapido e delicato, come una tenda che si muove.
O come qualcuno che si accovaccia nell’angolo più buio della stanza. Maximilian Rupert Donovan, ora era davvero spaventato. La gola gli si fece secca e dovette deglutire un paio di volte prima di ritrovare un’umidità decente fra le fauci.
Rimase bloccato per quasi tre secondi poi si decise a poggiare il piede destro sul gradino successivo, mentre la sua mano si spostava veloce verso la tasca dei pantaloni.
Per poco il telefono non si schiantò sui gradini per colpa di quello stupido schermo senza bordi
(libera-il-tuo-smartphone un cazzo)
Avrebbe sopportato l’idea di cambiare telefono, molto meno quella del rumore assordante che avrebbe fatto cadendo in quel silenzio.
Max si era finalmente deciso ad utilizzare la torcia del suo Samsung.
Non appena ebbe trovato l’applicazione, puntò il fascio di luce sopra di lui, illuminando miseramente il corridoio che lo avrebbe portato alla camera dei suoi genitori.
Sperava che la luminosità a led della torcia lo avrebbe sollevato, ma si accorse quasi subito che tutta quella luce non faceva altro che rendere più profonde e spettrali le zone d’ombra.
E poi c’era quell’odore che gli trapanava il cervello.
Era consapevole che ci stava mettendo troppo, ma si sentiva come in un sogno dal quale non poteva scappare e per quanto si sforzasse di correre, poteva solamente camminare molto, molto lentamente.
Pensò a Jenny e sperò che non le venisse la brillante idea di richiamarlo alla velocità con un sonoro colpo di clacson. Sperò che si limitasse a sbuffare e che non finisse di controllare il suo Instagram, altrimenti era certo che sarebbe morto giovane di infarto.
Dando fondo a tutto il suo coraggio residuo e facendo leva sulla propria dignità, salì gli ultimi dieci scalini trattenendo il fiato.
Il ragazzo fissava la fine del corridoio, puntando gli occhi sulla porta in noce della camera che lo attendeva socchiusa. Dallo spiraglio che si apriva appena, filtrava uno spicchio della luce dei lampioni della via a fianco e provò un certo sollievo, anche se il terrore che qualcuno lo colpisse alle spalle ormai lo divorava. Si concentrò sull’obiettivo come quando era in gara e fissava la schiena del corridore poco più avanti di lui, definì la porta come il suo traguardo personale e imboccò il corridoio.
 
Al secondo piano c’era un po’ più di luce, ma sentiva anche quell’olezzo farsi più forte, quasi come stesse prendendo una vera e propria consistenza fisica. Trattene a stento un conato di vomito passandosi il dorso della mano sulle labbra secche.
Mentre sfilava con passo delicato oltre il bagno dei suoi genitori, gli parve di udire di nuovo quel fruscio e l’immagine che la sua mente ottenebrata gli regalò questa volta, fu quella di un felino pronto a spiccare un balzo sulla sua preda, un animale orrido, purulento e glabro, che lo avrebbe dilaniato con i suoi artigli incrostati della morte di mille e più animali.
Senza volerlo rallentò il passo.
Sapeva che alla sua destra si trovava la sua camera da letto, quella che lo aveva accolto, nel bene e nel male, per tutta la sua vita fino a qualche anno prima. Lì aveva pianto tutte le sue lacrime di adolescente e negli stessi venti metri quadrati aveva festeggiato i suoi più grandi successi. Era molto legato a quel suo spazio personale ed ogni volta che tornava a casa dei suoi genitori, non mancava mai di dare un’occhiata per vedere se tutto fosse in ordine, se tutto fosse rimasto come prima. Forse era solo un modo per assicurarsi che se le cose si fossero messe male, ci sarebbe stato ancora un letto caldo a consolarlo o forse era solamente quell’abitudine essere umano che lo porta a definire la propria proprietà, ciò che gli spetta di diritto.
Mentre si avvicinava all’obiettivo, sentiva il peso dell’inevitabile farsi meno greve, ma non riusciva a far tacere la voce che dentro di lui gli urlava di scappare, così forte da fargli battere il cuore in gola.
Max spostò gli occhi dalla porta della camera dei suoi genitori allo stipite di quello della sua cameretta: ancora un altro paio di passi e ne avrebbe visto l’interno.
La sua mente però aveva già registrato un particolare, uno di quei segnali che avrebbe dovuto dargli la certezza che qualcosa non andava per davvero e che solo la paura gli impediva di connetterlo ancora ad un pensiero coerente.
Spostò il cellulare dalla mano sinistra a quella destra: la luce della torcia illuminò per un attimo le sue unghie pallide e le vene del braccio che si facevano largo in un proliferare di peli corti e biondi che ora erano irti dalla tensione e, come se quel movimento lo avesse destato da un sogno, capì finalmente cosa fosse l’incongruenza che cercava di risolvere: l’odore veniva dalla sua vecchia stanza.
Non voleva sapere quale fosse l’origine di quel tanfo surreale, quel miscuglio di acqua stagnante e aglio, ma non riuscì a fermare la propria mano che si avvicinava per spingere la porta. Vide che per quanto il suo istinto si affaccendasse, la mano non si fermava e sfiorava la porta fino a spingerla ad aprirsi.
La stanza era buia e le finestre chiuse, ma l’odore era nauseabondo.
La luce della torcia illuminava ora il letto di fronte e lui e poco altro, non vide nessuno accovacciato nell’ombra, non vide niente aprire le fauci in un sorriso di zanne candide.
Aveva appena finito di esalare il suo sospiro di sollievo e già stava per uscire dalla stanza, quando due occhi rossi, ardenti come tizzoni si spalancarono a pochi centimetri da lui.
   
 
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