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Autore: Gaia Bessie    12/04/2021    1 recensioni
Daphne prende e se ne va – alla Babbana, un treno che attraversa il canale e via, en France, ça va?
Signorina, dov’è diretta, le domanda il controllore: lei sorride e si calca il basco rosso in testa. Vado in Provenza, oui, mi piacerebbe vender fiori per vivere. Lo chiamerei – il negozio, sì – le petite fleur, che non significa niente, ma chiamate un orgasmo la petite mort e anche quello cosa vorrebbe dire?
[Daphne/Gabrielle, Daphne/Blaise | Mini long di due capitoli | Partecipa al contest "La rinvincita delle femslash" indetto da matiscrivo sul forum di EFP]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Blaise Zabini, Daphne Greengrass, Gabrielle Delacour
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Il rosso delle rose



2. L’opale lattescente
 
Quando si guarda allo specchio, Gabrielle ha un viso che non le appartiene più e le mani di Daphne sono impegnate a intrecciarle i capelli, mentre il silenzio fa da padrone tra di loro – lei si è rinsaldata le costole, e Gabrielle non riesce più a sfiorarle il cuore con la punta delle dita. Daphne incespica con le dita tra le ciocche, fa un errore, ricomincia.
«Perché non usi la magia?» domanda, con dolcezza. «Faresti prima, e avremmo il tempo di bere un tè insieme. Voi inglesi bevete ancora il tè alle cinque?».
Il sorriso di Daphne è d’acciaio. «Io non uso la magia» sibila, continuando con fermezza la propria opera. «Non la uso da anni e mi sta bene così».
Gabrielle non la vede, ma sa che Daphne ha la voce salda e gli occhi crepati di pianto, e allora semplicemente deve domandarlo: in un angolo, pennelli che piangono porpora le restituiscono un cenno di diniego, ma a lei non importa.
«E perché?» sussurra, quando finalmente lei smette di armeggiare con i suoi capelli. «Non puoi rinnegarti per sempre, Daphne, sei una Strega».
«Nella mia famiglia circola una malattia del sangue» risponde Daphne, voltandosi lentamente. «Si nutre della magia e, lentamente, ti consuma fino al punto di non ritorno».
«E l’hai anche tu» deduce Gabrielle, in un sussurro. «Ed è per questo che non usi più la magia».
Ma l’altra scuote il capo, e capelli color sabbia le coprono la fronte come una cicatrice. «L’ha mia sorella» ammette, infine. «Asteria. Ria. La signora Malfoy, chiamala come ti pare».
Daphne sospira, scivolando a sedere su una poltroncina azzurra, le gambe a penzoloni sul pavimento: ha troppa inquietudine dentro, per essere alta solamente centocinquantacinque centimetri, c’è troppo da stipare dentro una persona così piccola.
«Lei… vuole viverla, intensamente, questa vita» commenta, con amarezza. «E allora ha deciso di comportarsi come se questa malattia semplicemente non esistesse: e avere un figlio che non potrà crescere, un marito che farà vedovo e tutto il pacchetto».
Gabrielle la guarda e vorrebbe dire qualcosa, ma non le escono le parole, e allora rimane a fissarla – disorientata.
«Io non so se ce l’ho» ammette Daphne, calma. «Potrei e non potrei: potrebbe esserci e non essersi manifestata, come potrebbe non esserci. Ti chiederai se ha senso evitare la magia, se non so d’essere malata ma… sì, ha perfettamente senso, direi».
«Daphne» cerca d’interromperla Gabrielle, con tono conciliante. «Tu… è per questo che eviti Blaise Zabini in quel modo? Per non essere come tua sorella?».
La fiorista spalanca gli occhi verdi, come se avesse sentito una blasfemia (forse, così è stato), e scuote il capo.
«No» sibila, indignata. «Certo che no».
Ma, in realtà, la minore delle Delacour l’ha punta in quel posto intangibile dove una puntura diviene ferita insanabile, e ogni ferita suppura fino alla cancrena – e s’è incancrenito anche il ricordo del suo amore per Blaise che è dolore, graffio e infine ferita in suppurazione.
«Potresti amare di nuovo, qualcun altro» suggerisce Gabrielle, guardandola con occhi pieni di speranza. «Sarebbe bello».
«Sono andata via dall’Inghilterra per evitare tutto questo» commenta Daphne, atona. «Se vuoi usare la Metropolvere, il camino è in soggiorno».
Non le lascia dire altro, perché le volta le spalle e un singhiozzo silenzioso la scuote, facendola tremare. Ai suoi piedi, pennelli macchiati di porpora.
Con un residuo di blu.
 
***
 
Quando Daphne si rialza dalla poltrona, si sono succeduti un tramonto, una nottata e infine un’alba: sono le sette di mattina, e lei deve correre ad aprire il negozio entro i prossimi trenta minuti – non si guarda nemmeno allo specchio, più del necessario: il trucco è al suo posto, un po’ provato dalla serata sulla poltrona, e i vestiti sono spiegazzati. Niente che un incantesimo non potrebbe sistemare, e a Daphne prudono le mani, ma proprio non riesce a rompere quella promessa fatta a sé stessa: buffo, si dice silenziosamente, è proprio nelle promesse e nei propositi fatti con sé stessi che barare è la norma. Ma lei non ci riesce mai.
Così scivola fuori dai jeans per entrare in un vestito color carta da zucchero, che fa a cazzotti con le labbra impudicamente rosse – di un Dior seccatosi senza grazia sulla bocca graffiata dal freddo (ma come, se è giugno?) – e lo sguardo perso di una prostituta un po’ stralunata. Prende la borsa, dimenticandosi di infilarvi dentro la colazione, e afferrando al volo le chiavi di casa e della macchina.
Quand’arriva al negozio, non ha un capello fuori posto, né lo stomaco ha la forza di brontolarle in maniera tutt’altro che decorosa – silenziosamente, ogni nervo nel suo corpo la sta aspettando.
«Bonjour Monsieur Dubois» saluta, con un sorriso cortese, mentre l’uomo si sistema le lenti quadrate sul naso aquilino. «Come posso aiutarla oggi?».
L’uomo si guarda attorno, con aria spaesata, prima di porgerle la propria richiesta.
«Giselle vorrebbe dare una cena per il nostro anniversario di matrimonio, sa Mademoiselle, sono venticinque anni» commenta l’uomo, calmo. «E vorrebbe un… je ne sais quoi» borbotta, indicando spassionatamente un punto imprecisato del negozio.
Daphne spalanca gli occhi, con aria perplessa. «Forse intende un centrotavola?» domanda, occhieggiando a dei graziosi cestini in vimini. «Per abbellire l’apparecchiatura?».
«Oui, un centrotavola» risponde Monsieur Dubois, annuendo vigorosamente. «Cosa mi consiglia, Mademoiselle Greengràss, forse rose rosse?».
Daphne rabbrividisce, di fronte a quella richiesta – spezzi le costole, arrivi al cuore – e pensa a quei pennelli che ancora non ha lavato: diventeranno anch’essi macchiati per sempre, come quel blu-Asteria che le setole non riescono a dimenticare?
«Io le consiglio le fresie, sono così eleganti» sospira Daphne, mostrandosi entusiasta. «Sono sicura che alla sua signora piaceranno da morire, Monsieur».
Lui si lascia convincere facilmente – lei continua ad avere male al cuore, mentre gli consegna il centrotavola e incassa le banconote.
Ma alza il capo, come se ci fosse una platea di persone pronta ad applaudirle, e sorride mentre la porta s’apre con il trillo dello scacciapensieri.
«Bonjour Monsieur» trilla, prima di rendersi conto che, davanti, ha sempre e solo lui. «Oh, Blaise. Buongiorno».
Lui le fa un cenno con il capo, prima di appoggiarsi sul bancone con un sorriso affascinante. «Bonjour, Mademoiselle Greengràss» la saluta, con un finto accento francese esageratamente marcato. «Non mi domandi come puoi aiutarmi?».
Lei sospira, accasciandosi sulla sedia posta dietro il bancone, e massaggiandosi le tempie con aria stremata.
«Ti può aiutare solamente un miracolo, Blaise, e ti assicuro che non so farne» risponde, calma. «Ma, se avessi bisogno di un mazzo di fiori, dimmi pure».
«Che fiori si usano, per un addio?» le domanda lui, a bruciapelo. «Con che dannata pianta diresti devo andar via di qui?».
«L’amello» recita lei, compitamente. «Mi è arrivata una piantina bellissima, la vuoi vedere?».
«Sei tu a doverla guardare» risponde Blaise, passando nervosamente una mano tra i capelli corvini. «L’amelio… amello, o come cazzo si chiama, è per te».
Lei lo guarda e, per un momento, si sente dolorosamente tradita – brucia come lava l’opale che le è rimasto al dito: tutte le loro promesse, infrante.
Daphne sorride, e le si crepa il rossetto in briciole di rouge che le si spargono sul mento come una grandinata di coriandoli monocolore.
«E dove andrai?» gli domanda, semplicemente. «Perché stai scappando anche tu, Blaise, cos’è successo?».
Lui sorride – e appare solamente maggiormente tormentato – mentre si sporge per prenderle le mani, sfilandole l’anello dall’anulare: adesso, si dice Daphne in silenzio, serve più a lui che a lei. E, infatti, Blaise se lo infila al mignolo, sorridendo.
«In Germania» confessa, infine. «Berlino, Monaco, una città vale l’altra. Tutto purché sia lontano da qui».
«Pensavo fossi quello che mi avrebbe salvata da me stessa» commenta lei, acida. «Non era quello che ti eri ripromesso?».
Ma Blaise la guarda, e disperato è quello sguardo, non le lascia scampo nel momento in cui le lascia le mani e un vuoto nel cuore. «Lo vorrei tanto, Daph» sussurra lui, calmo. «Ma non so proprio cosa potrebbe bastare a farmi continuare a tentare. Forse, neanche un bacio».
Ride, per farla ridere, ma sul viso di Daphne Greengrass non affiora nemmeno lo spettro di un sorriso.
«Se te lo chiedessi» risponde lei, atona. «Di non andare in Italia, Germania o che so io, tu che faresti?».
Ma lui scuote il capo: Blaise prende e va via, quel giorno, va via e non torna più e nessun – Bonjour, Monsieur Zabini, come posso aiutarla? – basterà a impedirgli di fuggire da sé stesso: forse, neanche un bacio basterà.
«Ti direi, vieni con me» commenta Blaise, calmo. «Chiudi le relazioni che devi chiudere, Daph, e vieni con me».
Lei lo realizza in quel momento – Blaise, prima ancora che lei realizzasse, l’ha sempre saputo: che c’è attrazione che lei ignora, ma che rimane incisa nelle setole dei pennelli sotto forma di porpora e tocchi di blu.
«Non posso» sussurra lei, indicando le pareti verde menta come se nascondessero la risposta. «Questa è casa mia, ormai»
«No, Daph» risponde lui, calmo. «Casa tua sono io, anche se tu non te ne rendi più conto».
Lei lo guarda – genuinamente disperata – ma una frazione del suo cervello continua a pensare che lei oggi non s’è presentata.
«Se mi vorrai ancora, sarò a Berlino» sussurra Blaise, prima di Smaterializzarsi. «Se mi vorrai cercare».
 
***
 
Cara Asteria,
 
Due parole ha scritto sul foglio, duecento e altre due ne ha cancellate – Daphne ha preso i cartoncini che solitamente usa per i biglietti di auguri nei mazzi di fiori, e provato duecento e due volte a scrivere a sua sorella quelle scuse che non le escono dalla bocca nemmeno a pagarle oro. Un paio di volte, lacrime grumose di mascara sono colate tra i suoi pensieri disordinati, e hanno rovinato tutto quanto: illeggibili, le sue parole, e un paio di volte ha scritto il nome di Blaise al posto di quello di Asteria.
Le lacrime non hanno messo a dura prova il trucco, immobile sul viso, solo un po’ strinato – la bocca sempre rossa, marcata Dior, mentre lei con una semplice biro prova a dar forma a quei sentimenti che si è persa nei suoi stessi occhi chiusi.
Due parole ha scritto sul foglio, quando una goccia di caffè le scancella in un sussurro – Daphne alza lo sguardo, con aria perplessa (pronta a scacciare l’ennesimo spasimante pieno di belle speranze), ma è solamente lei. Gabrielle Delacour la guarda, tendendole un bicchiere colmo di cappuccino e di speranze, senza sorridere, senza parlare.
«Un caffè?» domanda Daphne, sconcertata. «Mi stai davvero portando un caffè alle tre di pomeriggio?».
«Perché, c’è forse un orario anche per il caffè?» ribatte l’altra, risoluta. «Ho pensato che tutti quelli che volevano corteggiarti ti hanno sempre portato un caffè a colazione, e allora io te l’ho portato dopo pranzo».
Lo dice come se il suo fosse un ragionamento perfettamente logico e coerente, ma Daphne ride e ha ancora il sapore di un addio dipinto sulle guance assieme al fondotinta di Chanel, insieme alla terra di Dior. Non basta il trucco a mascherare l’espressione sgomentata che le rimanda, mentre si costringe a darle le spalle – per fronteggiare il rosso delle rose che ha sistemato lì, dietro al bancone: spezzano le costole, arrivano al cuore, e lei potrà fingere di doverle spinare per tutta la vita e appena dietro, ma saranno sempre infinite le volte in cui lei smaschererà ogni bugia con un sorriso.
Ha un sorriso macchiato di rossetto, tra i denti, e sa di lei – di quel bacio che avrebbe voluto darle, ma non le ha dato. È ancora la bella del ballo, Daphne, e il coraggio non le serve più a niente: bella, ma non balla, che ballare serve solamente a mettere in mostra un po’ di più quella bellezza di cui non sa cosa farsene.
Asteria, sorella mia, forse eri meno bella – ma, di quella bellezza, avevi che fartene più di me.
Daphne prende il bicchiere con il cappuccino, nella schiuma vede i capelli di sua sorella quella volta che hanno cominciato a caderle e s’è comprata una parrucca color topo, dicendo ho sempre voluto vedermi bruna – che suonava come ho sempre voluto vedermi scomparire.
Squallido, il sorso che beve da quella bevanda, ma non per il sorso: squallido il sorriso che si tira su per convincersi d’aver apprezzato le scaglie di cioccolato a decorare la schiuma.
«Cosa stavi facendo?» domanda Gabrielle, sporgendosi in avanti. «Scrivevi a tua sorella?».
Daphne sospira. «Senza troppa serietà» sussurra, laconicamente. «Non penso che vorrebbe una mia lettera, quindi…».
«E perché no?» insiste Mademoiselle Delacour. «Le sorelle minori venerano quasi sempre le sorelle maggiori e tu sei…».
La bella che ha smesso di ballare – quand’ha visto sua sorella volteggiare tra le braccia del ragazzo che ha amato (suo marito, mai) quand’aveva tredici anni e troppi grilli per la testa: e, anche se Fred Weasley è morto, Asteria non ha smesso di danzare anche quando Daphne si è arresa.
«Io sono una pessima sorella, Gabrielle» ammette, con leggerezza. «Non pensare che sia tutto come te e tua sorella, non viviamo tutti in una fiaba».
«E perché no?» domanda Gabrielle, con un broncio di bimba a sfregiarle il viso. «La possiamo avere, una fiaba».
Daphne sorride, ha i denti macchiati d’anima e di rossetto. «Certo che sì» le concede, con dolcezza. «Tu sposerai un uomo pazzo di te e avrete figli terribilmente biondi e belli, e la domenica andrete a confessarvi in una chiesa Babbana perché avrete mancato di fare l’elemosina ogni giorno e poi…».
«Io non voglio sposare nessun uomo» la interrompe Gabrielle, con uno sguardo affilato. «Io vorrei sposare la proprietaria di un piccolo negozio di fiori, con un nome che in francese non ha senso, perché i fiori sono tutti piccoli».
Daphne ride. «Che detto da una che chiamerà l’orgasmo la petit morte, che ha anche meno senso, vuol dire tutto» commenta, atona. «Le cose non funzionano sempre, Gabrielle, non è il senso a farle funzionare».
«Cosa ti ha fatto odiare così tanto l’amore da farti credere di non averne bisogno?» le domanda la piccola Delacour, con aria battagliera. «Forse Zabini?».
Mademoiselle Greengràss sorride. Non riesce a fare altro.
«Mia sorella» tossisce, in un sorso di caffè. «Asteria».
Asteria che aveva avuto il coraggio d’innamorarsi due volte, non una, e in entrambe s’era sacrificata in nome di quel sentimento che l’animava.
Fredda, la morte che s’è prematuramente portata via Fred Weasley, fredda la consapevolezza che un giorno Asteria si ricongiungerà con lui – puoi amare due persone, in tempi diversi, nella vita?
Doloroso, il matrimonio con Draco, consumatosi nella consapevolezza che la parte (lesa, consumata) che vivrà di sottrazione è quella della vita di lui: Asteria deve morire, i fiori anche nell’acqua riescono a marcire. E, baciandola sul capo, suo marito avvertirà il puzzo d’acqua stagnante di un vaso di rose vecchio di anni.
«Troppe fantasie sull’amore, lei» sussurra Daphne. «Tutte troppo vere».
«E adesso?» sussurra Gabrielle, incerta. «Se non hai fantasie, cosa ti rimane».
Daphne si china in avanti, le macchia le labbra di rossetto rosso, e le sfiora l’anima con le punta delle dita lasciandole un segno rovente sul petto. Gabrielle sussulta, ma non si scosta – è Daphne a farlo, con un sorriso triste.
 
È sempre così brutto, Asteria, quando devi rinunciare alla persona di cui sei innamorata solo perché devi proteggerti?
Ha fatto tanto male, quando Fred ha dovuto lasciarti andare, quando tu hai scoperto di dover lasciare andare Draco?
Forse neanche un bacio basterà a farmi dimenticare tutto questo, lo sai?
(Sapeva di caffè).
 
***
 
Il giorno dopo, Gabrielle si alza alle otto e mezza in un alone di soffusa felicità, e corre al negozietto di Adèle per acquistare due pain au chocolat e un cappuccino con le scaglie di cioccolato fondente tagliuzzate sopra: Bonjour Mademoiselle Greengràss, dirà ironicamente, oggi sono io che aiuto lei, oui?
Ma, quando un po’ correndo e un po’ saltellando arriva a Le petite fleur, lo trova ancora chiuso: la saracinesca è abbassata sulle pareti verde menta, e non vi sono rumori provenienti dalle viscere del negozio.
«Bonjour, Madame Zabini» saluta Gabrielle, intravedendo la donna aggirarsi stancamente nei pressi del locale.
Come posso aiutarla?
La voce di Daphne le rimbomba in testa come un mantra, mentre lei cerca semplicemente di riconnettere i pensieri: la madre di Blaise deve avere avuto il medesimo pensiero, perché la guarda come se si aspettasse un miracolo e il negozio aperto – non accade niente di tutto ciò, ovviamente, e Marie-Amélie Zabini storce la bocca, contrariata.
«Bonjour, Mademoiselle Delacour» commenta, con un sorriso che di gentile non ha niente. Di ironico, tanto. «Ha per caso notizie di Daphne?».
Lei spalanca gli occhi, senza comprendere, e non le rimane altro che ripetere quelle parole, incerta, come se la ripetizione donasse loro in qualche modo una parvenza di significato – ma così non è, e Gabrielle si ritrova a osservare la madre di Blaise Zabini come se ella fosse la depositaria di un qualche segreto che, a lei, sfugge.
«Notizie di Daphne» ripete, in tono monocorde. «Lei ne ha?».
«Stamattina l’ho vista allontanarsi da qui con uno zaino in spalla» interviene Monsieur Dubois, con aria ansiosa. «Sembrava che andasse in vacanza, ha sigillato il negozio con la magia».
Gabrielle si scioglie in una risata nervosa, che la fa tremare fin dentro le ossa: ha usato la magia per chiudere il negozio, lei che aveva giurato d’appendere la bacchetta al chiodo e andare via. En France, oui, ma come puoi fare quando anche in Francia comincia a essere un perpetuo ça va mal?
Buffo, si dice, che abbia utilizzato la magia per favorire la propria fuga – buffo, che Daphne se ne sia andata senza lasciare traccia del proprio passaggio.
«Ho provato a fermarla, ma non mi ha sentito» continua Dubois, calmo. «Lei… è letteralmente corsa via».
«Non ha lasciato niente, per me?» sussurra Gabrielle, rendendosi conto d’avere gli occhi pieni di lacrime. «Nemmeno un biglietto, uno schifosissimo addio, qualcosa?».
Madame Zabini ride, facendola tremare come una foglia, mostrando i denti bianchi come perle. «E chi eri tu, per lei?» osserva, pacata. «Non eri più cliente di noi, ma eri molto meno di quel che mio figlio è stato per lei».
Gabrielle non ha nemmeno la forza di replicare – distinto nella sua mente, lo sguardo che Blaise lanciava a Daphne quando lei li aveva visti, dolce il modo in cui s’era detto disposto a sposarla comunque.
«Sarà sicuramente diretta in Italia, o in Germania, solo Salazar ha idea di cosa passi per la testa di quella donna» commenta Madame Zabini, sistemandosi lo chignon brizzolato. «Spero la Germania, questo sì, spero che stia tornando da mio figlio».
A lei, però, manca l’aria. Rimane immobile nella gola, rifiutandosi sia di scendere sia di salire e, allora, Gabrielle semplicemente boccheggia come un pesce en plein air, nel senso che non en nel plein de l’eau, e allora le branchie a cosa servono? A lei, a niente, quando si tocca il collo e lo scopre macchiato di un fondotinta miracolosamente del colore corretto.
«Le è caduto questo» commenta Monsieur Dubois, lasciando cadere un cartoncino bianco tra le mani di Gabrielle. È così fitto di parole che, in ogni virgola, pare una ferita che erutta inchiostro. «Non ho fatto in tempo a restituirglielo».
Gabrielle stringe quel cartoncino in mano, con il logo de Le petite fleur stampato sopra, e pensa che alla fine Daphne è stata esattamente quel che s’è sempre mostrata: una bella facciata, questo sì, un bel fondotinta che nasconde difetti inenarrabili (non ne trova cicatrice, però, ma da qualche parte deve esserci).
Gabrielle non lo sa, ma Daphne Greengrass ha scritto sul foglio esattamente duecento e due parole, ma almeno mille e duecento e infine anche due ne ha cancellate, su cinque diversi cartoncini che ha cestinato insieme ai propri rimpianti.
«Sarà per me» insiste Madame Zabini, battendosi il petto con le unghie smaltate del rouge noir di Chanel. «Per Blaise. C’è un nome scritto sopra, svelta, dimmi che è per noi».
Ma Gabrielle scuote la testa biondissima, e capelli le si appiccicano al viso come lacrime argentee, mentre alza gli occhi azzurri e lo dice.
«No, Madame» sussurra, con una calma che non prova. «C’est pour moi».
Perché Daphne Greengrass ha tratteggiato con calma maniacale ogni singola parola ma, per non sprecare spazio, in piccolo ha scritto il suo nome.
Il biglietto inizia con Gabrielle – non mia cara, cara, Bonjour Gabrielle o chissà che altro – e una sbavatura di biro, forse una lacrima. E continua, fittissimo, per tutto il cartoncino, senza spazi, così che le parole sembrano tutte un miscuglio indistinguibile. È tutto una macchia di inchiostro blu – che bambina che sei, Daph, le vorrebbe dire (e non può) – e parole che non riesce a cogliere: tutte un miscuglio stupidissimo di emozioni che Gabrielle non vorrebbe provare.
«C’est pour toi» sibilla Madame Zabini, con disprezzo. «Sempre stata ingrata, Daphne Greengrass. Non crede nell’amore, e lo fa pesare a chi la ama».
A Gabrielle si blocca nuovamente l’aria in gola, di fronte a quelle parole – perché sono le medesime parole che Mademoiselle Greengràss le ha scritto su quel biglietto illeggibile.
 
***
 
Gabrielle,
 
En fait d’amour, vois-tu, trop n’est pas même assez1 – una volta, mia sorella mi ha detto così, quando le ho domandato perché.
Perché prendere e andare via, perché valesse la pena abbandonare la propria salute per un uomo che, a volerla quanto lei l’ama e lo vuole, non la vorrà mai.
Io non ho mai creduto, in un amore così privo di limitazioni, di preconcetti – sono ingrata, Gabrielle, lo sono sempre stata: non so riamare come te, non so come fare a rinunciare alla mia vita per darla a te. Potessi, però, se davvero ne fossi in grado, lo farei.
 
A metà biglietto, Gabrielle non riesce più a leggere una parola, la scrittura di Daphne diventa confusionaria, asimmetrica, e forse semplicemente non ci sono altre parole da dirsi se non quelle che sono leggibili.
La riga in cui la prosa di Daphne e la sua stessa grafia si riprendono è l’ultima, scritta con attenzione maniacale.
 
Forse, il problema del troppo amore è che dentro di me non trova posto, c’è poco spazio – ma, se mai ne troverò anche solo una briciola, verrei a cercarti.
 
Ha firmato con nome e cognome.
 
***
 
Daphne prende e se ne va – alla Babbana, l’ennesimo treno che attraversa mezza Europa e via, in Deutschland, ja?
Signorina, dov’è diretta, le domanda il controllore: lei sorride e scalcia l’aria con i sandali, divertita. Vado a Berlino, ja, io vendevo fiori per vivere e vorrei continuare a farlo. Lo chiamerei – il negozio, sì – die kleine Blume, sì, lo so che non significa niente e che molti fiori sono piccoli, ma in Francia continuano a chiamare gli orgasmi “piccole morti” e anche quello, che senso avrebbe?
Parla bene francese, commenta l’uomo, lo so perché mia moglie è della Provenza e lì c’era un negozio simile: la proprietaria è scomparsa, qualcuno dice che è morta o è fuggita con l’uomo di cui è innamorata.
Io vengo da lì, commenta Daphne, ma non conosco nessun negozio del genere, mi dispiace: vado a Berlino per sposarmi, sa, un mio vecchio compagno di scuola – penso che l’amore sia insensato, ma ha senso ricongiungerti con l’unica persona che può darti protezione, sicurezza, anche quando sei predestinato.
A cosa? À la mort, oui, o preferisce che io dica zu Tode,ja?
Dentro di me so chi sono, sussurra, e io sono fatta per fare e non per morire d’amore in un negozietto in Provenza.
Il controllore sorride, le restituisce il biglietto con i suoi migliori auguri e s’allontana, forse un po’ perplesso.
Daphne sorride, nel finestrino: alla Babbana, con una camicetta un po’ sgualcita e una spilla di una rosa appesa sopra il taschino. La Francia è stata la sua petite mort: un orgasmo così intenso che fa svenire, ma dura un secondo soltanto, per farti rinascere subito dopo – cambiata, inevitabilmente.
Ma, adesso, Berlino s’affaccia di fronte al suo sguardo: una realtà lattea come l’opale che tornerà a indossare, quando Blaise entrerà nel suo negozio e lei gli dirà.
Guten Morgen, Herr Zabini, come posso aiutarla?
 
In una stanza in affitto
Per ricordarmi di dimenticarti
Proietto sul soffitto
Le diapositive dei nostri viaggi
Sai quanto odio ci ho visto
Ma era colpa degli altri
E ti ho quasi convinto
Ora che siamo gli altri
(Gaia, Il rosso delle rose)

 

1In questioni d'amore, vedi, troppo non è abbastanza (Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais)


Ed eccoci qui. Che ve ne è parso di questa storia? Suggerimenti per migliorare, dato che era la mia prima femslash? Vi è piaciuta?
Fatemi sapere!
Un bacio,
Gaia
   
 
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