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Autore: Old Fashioned    15/04/2021    9 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cari lettori, care lettrici,
ecco un altro po’ di mappazzone, sempre con la speranza che ciò vi doni svago e sollazzo. Come sempre ringrazio la mia “Band of Brothers” di commentatori, ma anche tutti quelli che sono passat di qui, mi hanno letto o magari mi hanno collocato in qalche lista.
Grazie a tutti!






Capitolo 7

La luce che filtra fra i rami degli abeti è verde e fredda, una leggera nebbia la rende vagamente opaca. Sembra quella che si potrebbe vedere sul fondo di uno stagno.
Tutt’intorno c’è un silenzio solenne.
L’aria odora di conifere, di muschio e di limo. Oltre che di sangue, naturalmente.
Naturalmente.
Si sofferma a pensare all’avverbio scelto. È naturale, in effetti, che nella foresta il sangue scorra e nutra, nel ciclo infinito della vita.
Certo non pensava che sarebbe toccato a lui entrare in quel ciclo. Non così perlomeno, non in quelle circostanze.
Forse nessuno è mai veramente pronto a certe cose.
Non sa perché sia lì, cosa sia successo. Confusamente ricorda qualcosa a proposito di una caccia.
Si sente esausto, ha dolore ovunque. Prova a sollevarsi, ma le braccia non lo reggono.
La consapevolezza che morirà lì, che è necessario che ciò accada, si fa strada in lui come acqua che intride un terreno.
Il sangue dell’uno è il nutrimento dell’altro, si ripete, e così sarà all’infinito.
D’un tratto sente un lungo ululato lontano, dove i tronchi imponenti degli abeti creano una navata che si perde nella nebbia.
Non ha paura di quel suono sinistro. Sorride fra sé e sé, anzi, come se sentisse la voce di un vecchio amico.
L’ululato si ode di nuovo, più vicino, e quando termina sembra che il silenzio tutt’intorno si sia fatto più teso, come carico d’aspettativa.
Con un fruscio di felci si fa avanti un uomo.
Egli solleva lo sguardo nella sua direzione: è l’agente segreto, che lo raggiunge adagio e si ferma a un passo di distanza.
Sorride di nuovo, fa per tendere una mano verso di lui, ma è troppo debole. L’altro allora si china al suo fianco, gli porge un ramoscello di quercia.
Si fissano. Gli occhi dell’uomo sono chiarissimi e trasparenti, paiono d’argento. “Aspettami,” sussurra.

Von Knobelsdorff sbatté gli occhi. Nell’aria c’era odore di fumo stantio, di cuoio conciato e di sangue; quello su cui posava la guancia non era il morbido muschio di una foresta, ma un pavimento di metallo zigrinato.
Emise un sospiro: solo un sogno.
Cercò senza successo di deglutire. Si mosse appena e terribili fitte di dolore gli attraversarono il corpo come lame.
Si risolse a spostare in giro solo lo sguardo. La stanza era quella dove l’uomo l’aveva interrogato, pur nella penombra densa del tramonto si distinguevano bene la scrivania, la sedia cui l’avevano legato e il finestrino con le sbarre a croce. Poteva supporre che la porta fosse di nuovo chiusa a chiave.
C’era silenzio, le ruote non sferragliavano, la carrozza non vibrava. Solo di tanto in tanto proveniva da un punto che sembrava lontanissimo l’eco di qualche ordine gridato.
Ebbe l’impressione di essere solo al mondo, abbandonato in un treno fantasma, destinato a dissolversi lentamente nelle tenebre.
Mosse appena le dita, e già il semplice atto di piegare le falangi gli diede l’impressione che dalla mano alla spalla i suoi tendini si stessero strappando come vecchie corde sfilacciate.
Strinse i denti e si obbligò a perseverare.
L’uomo – il Werwolf, come l’aveva sentito chiamare – se n’era andato. Con giusta ragione, peraltro, dato il compito che aveva da portare a termine.
Non disapprovava la sua condotta, al posto suo avrebbe fatto esattamente la stessa cosa, ma allo stesso tempo non aveva la minima intenzione di rimanere lì ad attendere che l’inglese tornasse. Di sicuro quel tizio l’avrebbe interrogato di nuovo. Una volta appurato per la seconda volta che non aveva preziosi segreti da rivelare, cos’avrebbe fatto? L’avrebbe spedito insieme ai prigionieri di guerra, o avrebbe risolto il problema tirandogli una palla in testa e buttandolo in una fossa comune?
La seconda, probabilmente.
Mosse la mano con più decisione, strinse i denti alla fitta di dolore che gli attanagliò il braccio. Aprì di nuovo le dita, le chiuse ancora.
Si era arruolato per combattere, per difendere la Patria, per sfidare gli inglesi nel cielo. Doveva andarsene da lì.
Non sapeva cosa sarebbe riuscito a ottenere, se una fuga o solo una morte eroica, ma una cosa comunque gli era chiara: non si sarebbe lasciato abbattere come una bestia al macello.

Le nubi sono sontuose montagne di panna montata, così bianche che guardarle fa quasi male agli occhi.
La campagna francese sembra un tappeto color smeraldo costellato di giocattoli: casette, villaggi, animali qua e là, una ferrovia con un piccolo treno blu, così lucido che potrebbe essere appena uscito dalla fabbrica. Anche il suo pennacchio di fumo grigio è morbido e corposo come zucchero filato.
Avvista all’orizzonte un nugolo di puntini che appaiono e scompaiono fra le nubi. Si volta verso il caposquadriglia con l’intenzione di segnalarglieli, ma il suo superiore li ha già visti e dà il segnale di attacco.
Cabra per guadagnare quota, i puntini assumono le fattezze spigolose di biplani nemici. Le distanze si accorciano, cominciano a baluginare i lampi dei primi spari. Individua un avversario e manovra per metterglisi in coda.
Nota con la coda dell’occhio che il suo caposquadriglia sta invece planando verso il basso. Visto dalla sua posizione sembra irresoluto, confuso. Dà l’idea di essere un novellino ai suoi primi voli di guerra.
Che si senta male?, pensa. Possibile che sia già ferito?
Un inglese, attratto dalla ghiotta preda, gli si mette in scia. Spara un paio di raffiche, accorcia le distanze, spara di nuovo. Il tedesco sembra guardarsi intorno come se cercasse di individuare la provenienza degli spari.
Egli lo fissa perplesso, indeciso se sganciarsi dal suo combattimento per andare a dargli una mano, quand’ecco che il caposquadriglia spiazza l’avversario con un Immelmann, gli si mette in coda e con due raffiche lo manda in vite.
Fine del combattimento.

Von Knobelsdorff stirò le labbra in una parvenza di sorriso: ci era cascato persino lui, figurarsi un povero inglese che non aveva mai visto né conosciuto Heinrich von Stade.
Quella era la chiave, in effetti: occorreva spogliarsi di ogni orgoglio e fingere di essere incompetenti, spaventati e disorientati.
L’avversario allora abbassava la guardia, e quello era il momento giusto per colpirlo.
Non aveva la pretesa di colpire l’agente inglese, ovviamente, ma forse l’avrebbe spinto a sottovalutarlo, con tutte le conseguenze del caso.

§

Il sole era già sparito dietro l’orizzonte. In basso vi era ancora una striscia di azzurro cupo, venato di arancione laddove gli ultimi raggi tingevano le nubi, ma sulla volta celeste brillavano già le prime stelle.
Dal basso proveniva il chiacchiericcio di due soldati che parlavano delle rispettive fidanzate. Saliva anche un lieve odore di fumo, segno che mentre chiacchieravano si stavano anche godendo una sigaretta.
Più lontano si sentivano ordini gridati. Solo poco prima, approfittando dell'ultima luce, un biplano era rientrato al campo.
Il Werwolf si arrischiò ad alzare la testa e per prima cosa scrutò i dintorni cercando di identificare il luogo in cui era atterrato l'aereo.
Ci fu uno scoppio di risa: i due soldati evidentemente erano passati alle storielle da caserma.
Egli si sporse cauto a osservarli, cogliendo solo due vaghe sagome nella penombra. Sogghignò al brillio arancione delle sigarette accese.
Avrebbe potuto ucciderli da cento metri di distanza.
Tornò ad appiattirsi sul tetto del vagone. Non era stato difficile salirci: una volta liberatosi della tonaca, per quei bravi marmittoni era diventato praticamente invisibile. Gli era bastato trovare per terra un bastone, metterselo in spalla a imitazione del manico di una vanga e camminare come se niente fosse. Nessuno gli aveva rivolto una seconda occhiata, nemmeno quando si era avvicinato ai binari.
Forse avevano pensato che li volesse semplicemente attraversare, o che fosse incuriosito dalla tradotta ferma, fatto sta che era riuscito ad arrampicarsi sul treno senza che nessuno facesse caso a lui.
Poi aveva proseguito il viaggio non proprio in prima classe, ma di sicuro più comodamente dell'ufficiale.
Poteva immaginare che the Bishop l'avesse immediatamente interrogato, alla ricerca di informazioni sulla missione. Si chiese se fosse ancora vivo e a quel pensiero si sentì attraversare da una fitta di apprensione.
Subito dopo si costrinse a fare il vuoto in mente. Se voleva portare a termine la missione non poteva farsi prendere dai sentimenti, doveva considerare quel giovanotto semplicemente come una delle variabili in grado di influire sulla soluzione di un problema.
Si voltò di nuovo nella direzione in cui aveva visto atterrare l'aereo. Strinse gli occhi cercando di cogliere nel buio qualcosa che gli ricordasse un campo d'aviazione. Uno spiazzo erboso, luci di qualche genere, magari un edificio a più piani, possibilmente signorile: in generale, i piloti tendevano a trattarsi piuttosto bene in materia di alloggiamenti.

§

Von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto: dei passi si stavano avvicinando. Rimase in ascolto con l'attenzione spasmodica del coniglio che percepisce l'arrivo del predatore, cercando di capire se quell'andatura misurata appartenesse effettivamente al suo aguzzino.
Si chiese se sarebbe riuscito a fingere in maniera credibile.
I passi si fermarono subito al di là della porta. Ci fu un breve scambio, del quale non riuscì ad afferrare il contenuto.
Successivamente la chiave girò nella serratura e la porta si aprì con un cigolio.
Il tenente percepì un refolo d'aria fresca, odore di lucido da scarpe e olio per armi. Si impose l'immobilità.
I passi si avvicinarono. Ci fu un istante di silenzio che al giovane parve lunghissimo, nel corso del quale ancora una volta si chiese spasmodicamente se quello in piedi a poca distanza, che verosimilmente lo stava fissando, fosse l'agente segreto inglese.
Infine la voce beffarda che ormai ben conosceva disse: “Ma guarda un po' questo valoroso ufficiale del Kaiser. Tante chiacchiere, tanta spavalderia e alla fine...”
Von Knobelsdorff non si mosse. Poteva immaginare che l'uomo lo stesse osservando attentamente, forse proprio alla ricerca di segni di simulazione.
La voce si fece udire di nuovo: “Mi sente, giovanotto?”
Il tenente rimase immobile. Qualcosa di duro, forse la punta di una scarpa, lo picchiettò sul fianco, come per saggiare la sua reattività.
Gretchen, questa prostrazione non fa che confermare l'idea che mi sono fatto di voi tedeschi: siete un popolo di fanfaroni inutili, buoni solo a strepitare in quella vostra orrenda lingua da barbari.”
Von Knobelsdorff tratteneva addirittura il respiro. L'uomo si era accorto che stava fingendo e lo provocava per spingerlo a tradirsi?
La punta della scarpa lo colpì con maggiore forza, strappandogli un breve gemito.
Oh, dunque la nostra Gretchen non è morta,” apprezzò l'inglese. “Per fortuna, stavo cominciando a preoccuparmi.” Ci fu un fruscio di vestiti, il tenente capì che l'altro si era chinato accanto a lui. Una luce, forse quella di una torcia, gli venne puntata in faccia. “Siamo davvero così malmessi, piccola Gretchen?”
Il tenente non mostrò alcuna reazione. Il cuore gli batteva talmente forte che a un certo punto ebbe l'assurda paura che l'altro riuscisse a sentirlo. Il tempo sembrava non passare mai, tutto si dilatava in lunghissimi secondi di angoscia.
Oscillava costantemente tra speranza e disperazione, dibattendosi tra il sollievo di aver ingannato il suo aguzzino e il terrore di non esserci riuscito. Ad ogni momento si aspettava un urlo, una botta che però non arrivava mai.
Qualcosa lo pungolò fra le costole ed egli dovette farsi forza per non sussultare. “No, Gretchen, non ci siamo,” disse alla fine l'inglese, in un teatrale tono di delusione.
Il tenente si sentì ghiacciare, ma l'altro si rialzò in piedi e proseguì: “Lei è solo un piccolo, miserabile straccio, inutile sotto ogni punto di vista. Vediamo se almeno servirà come esca.”
I passi si allontanarono, ma con orrore di von Knobelsdorff non uscirono dalla stanza. Si diressero invece verso la scrivania e l'aggirarono.
La sedia scricchiolò, poi ci fu il tonfo di un oggetto pesante, forse metallico, che veniva appoggiato sul sottomano.

Passò il tempo. Nella stanza c'era un silenzio denso e carico di minaccia. Dolorante, stremato, tormentato dalla sete, il tenente non osava nemmeno socchiudere gli occhi per controllare dove fosse l'inglese. Lo immaginava però seduto alla scrivania, con lo sguardo puntato su di lui.
L'ansia lo stava divorando, decine di domande gli si affastellavano in mente, e a nessuna di esse riusciva a dare una risposta: stava facendo la scelta giusta? Era meglio stare immobile e attendere gli eventi, o così facendo si stava giocando le uniche possibilità di fuga? Se fosse saltato su e avesse assalito l'uomo, posto che il suo corpo prostrato ne fosse in grado, sarebbe riuscito a sorprenderlo e a sopraffarlo?
Ma l'interrogativo più angosciante, quello che gli suscitava il maggiore tormento, riguardava l'agente tedesco. Davvero stava tornando a prenderlo? Le parole dell'inglese facevano supporre di sì.
Se da una parte la cosa in un certo senso lo confortava, dall'altra lo metteva in uno stato di ancora più tormentosa irresolutezza. Si era fatto una ragione di essere stato lasciato indietro. La cosa gli era parsa anche giusta, in fin dei conti, e si era organizzato per cavarsela da solo, ma se cercando di cavarsela da solo avesse perso l'occasione di essere aiutato dall'agente segreto? Se l'agente segreto, per aiutare lui, avesse messo a rischio la missione? Doveva intervenire? Agire? In che modo, poi?
Scelse di rimanere immobile. Sapeva ancora troppo poco di quello che lo circondava per improvvisare qualcosa.
La sedia scricchiolò appena, producendo un rumore che alle sue orecchie sovreccitate parve forte come una raffica di mitragliatrice. Ebbe addirittura l'impressione che quel suono gli facesse male. Da qualche ora tutto gli faceva male, in effetti, persino il mero atto di esistere. Non gli sarebbe parso strano se addirittura il cuore, pulsando, gli spedisse piccole stilettate nel torace.
Si chiese cosa sarebbe successo e per l'ennesima volta non fu in grado di darsi una risposta. Nonostante ogni suo proposito di rimanere vigile, scivolò senza nemmeno accorgersene in un sonno plumbeo e privo di sogni.

§

Il tenente spalancò gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, o se l'uomo fosse ancora lì con lui, ma aveva la nettissima sensazione che stesse per succedere qualcosa.
C'era una calma strana. L'aria era immobile, non si udiva il minimo rumore. La stanza era pressoché buia: solo i raggi della luna, passando attraverso il finestrino, disegnavano sul pavimento una chiazza diafana.
Fece girare intorno lo sguardo e si accorse che l'inglese c'era ancora. Era una massa scura, incombente, talmente immobile che se non avesse saputo che si trattava di un uomo in carne e ossa l'avrebbe creduto una statua.
Anche lui era palesemente in attesa di qualcosa. Gli parve di notare che avesse un'arma in mano, più che altro per un barbaglio di acciaio che per un attimo baluginò in quella sagoma altrimenti nera.
Non ci voleva un genio per capirlo: era in agguato. Chi stesse aspettando era altrettanto chiaro.
Il tenente rimase immobile, ben attento a non dar segno di sé.
Passò altro tempo, il silenzio era sempre più profondo, la sensazione che stesse per accadere qualcosa era sempre più intensa, tanto che l'ufficiale doveva faticare per mantenere il respiro lento e costante di una persona addormentata.
A un certo punto dal tetto provenne un rumore. Un tramestio a stento percettibile, qualcosa come il muoversi cauto di un animale selvatico.
Poi silenzio.
Sogguardò l'inglese, che però manteneva un'immobilità assoluta.
La ghiaia della massicciata scricchiolò appena, un sassolino rotolò giù facendo due o tre rimbalzi, che in quella quiete tesa parvero altrettanti colpi di cannone.
Il cuore gli accelerò i battiti: qualcuno si stava muovendo all'esterno.
Di nuovo calò il silenzio. Il tenente rimase in ascolto, ma i rumori sembravano essere stati inghiottiti da una campana pneumatica. Ebbe l'impressione che persino il suo corpo avesse smesso di produrne e che il suo cuore pulsasse in un silenzio assoluto, fluttuando come una specie di medusa.
Ci fu un lievissimo raschiare di metallo.
Ancora una volta egli si irrigidì e volse lo sguardo alla porta con aspettativa, ma l'anta rimase immobile.
Passò altro tempo: secondi lunghissimi, che sembravano non voler finire mai. E poi un tonfo soffocato, come un pugno su un mucchio di coperte, e l'afflosciarsi morbido di qualcosa.
Un altro lungo silenzio, poi dalla serratura provenne uno scatto di metallo oliato.
I muscoli di von Knobelsdorff si tesero come corde.
L'anta si schiuse lentamente, creando sulla parete una debole lama di luce. Al di là vi era un uomo.
Un altro scatto metallico, questa volta proveniente dalla figura seduta alla scrivania, fu per il tenente come una scossa elettrica: con quanto fiato aveva in gola gridò: “È una trappola!”
Il silenzio teso sembrò andare in frantumi come una lastra di vetro. Una detonazione lacerò la quiete, il lampo dello sparo illuminò a giorno la stanza.
Pur dolorante, provato dalla lunga immobilità, von Knobelsdorff balzò in piedi e fece per uscire, ma una mano lo agguantò per il collo e lo tirò brutalmente all'indietro, scaraventandolo nuovamente a terra. L'agente inglese poi lo oltrepassò e si chiuse la porta alle spalle.
L'ufficiale si rialzò.
Da fuori proveniva il rumore di una colluttazione feroce. Un altro colpo di pistola lo fece sobbalzare, poi udì il rimbalzo metallico dell'arma che cadeva a terra. Il tramestio riprese, ci furono colpi, gemiti e ansiti rabbiosi.
Spalancò la porta e pur nella scarsa luce vide che l'agente inglese era avvinghiato con qualcuno. In un silenzio mortale, i due stavano lottando come furie.
Schizzi di sangue imbrattavano pareti e pavimento.
All'esterno si sentiva gridare, segno che gli spari avevano messo in allarme le sentinelle. Comparvero delle luci, che gettarono ombre sinistre all'interno del vagone.
Senza starci troppo a pensare, egli afferrò l'agente inglese per le spalle e cercò di strapparlo via, questi si rivoltò come un felino e gli sferrò un pugno che gli spedì un nugolo di farfalle luminose davanti agli occhi, poi tornò alla colluttazione. I clamori all'esterno andavano aumentando, già si sentiva gridare qualcosa a proposito di tedeschi in arrivo.
Egli scrollò la testa disorientato. Colse il baluginio di una lama, seguito da un gemito soffocato, poi carne che colpiva altra carne e lo schiocco di qualcosa di duro, forse un cranio, contro il pavimento.
Corrugò la fronte cercando di individuare uno spiraglio di intervento. Fuori formicolava ormai una moltitudine. “Non c'è più tempo!” si sorprese a dire.
Il tramestio cessò d'improvviso, egli percepì una stretta familiare sul braccio. “Andiamo,” disse una voce vagamente ansante ma ben nota.
Si sentì spingere lungo il corridoio. Andare, dove? Poteva immaginare che il campo fosse ormai in allarme, e che i soldati fossero ovunque. Come avrebbero fatto a sgusciare tra le maglie di una rete che pur non consapevole di loro, si andava comunque inesorabilmente chiudendo?
Non abbiamo molto tempo,” disse l'agente segreto.
Egli non replicò. Comparve una figura in uniforme davanti a loro, l'uomo abbandonò la presa sul suo braccio e scattò in avanti, si udì uno scricchiolio sinistro e il soldato si accasciò.
Lo scavalcarono, arrivarono all'esterno. Nei rari sprazzi di luce, von Knobelsdorff si accorse che la camicia dell'uomo era per metà rossa di sangue. Abbassò gli occhi e vide che dietro di lui c'era una scia di gocce rutilanti. “Lei è ferito!” esclamò.
Andiamo,” fu la risposta.
Il tenente aggrottò le sopracciglia e replicò: “Si sta lasciando dietro una traccia. Pensa che il suo nemico non ne approfitterà?”
L'altro si fermò a guardarlo e, come era successo tempo prima, l'ufficiale ebbe l'impressione di averlo in qualche modo colpito. In tono più conciliante, soggiunse: “Non sarebbe meglio fare una medicazione di fortuna?”
L'agente segreto scosse la testa. “Ci penseremo più avanti, ora dobbiamo andarcene di qui.”
Il giovane rinunciò a replicare.
Corsero via dal treno, verso le zone in cui le tenebre erano più fitte. Von Knobelsdorff individuò nel buio la sagoma di lunghi baraccamenti, separati fra loro da vialetti coperti di ghiaia bianca.
Qua e là vi erano finestre illuminate, dall'interno delle costruzioni provenivano voci.
Si muova,” lo incitò l'uomo.
Cominciò a farsi udire l'ululato basso di una sirena a manovella. Il suono era come un lungo lamento che man mano aumentava di tono, facendosi nel contempo più acuto.
A quel richiamo tutto il campo parve animarsi, la luce si accese ovunque, dalle baracche cominciarono a uscire di corsa soldati, perlopiù reclute, che frettolosamente indossavano gli ultimi pezzi dell'equipaggiamento e si guardavano intorno spaesati, cercando di capire per quale motivo stesse suonando l'allarme generale.
Qualche sottufficiale abbaiava ordini.


   
 
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