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Autore: WillofD_04    16/04/2021    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Appena misi piede in cucina, come previsto, tutti gli occhi furono puntati su di me. Odiavo quando era così e odiavo la sensazione che mi provocava, ma era inevitabile: quel giorno avevo fatto due sceneggiate isteriche davanti all’intera ciurma senza un apparente motivo, per di più ero strana da quando ero tornata, non potevo aspettarmi che il mio comportamento passasse inosservato. Almeno, però, Law non era lì. Non potevo stare nella sua stessa stanza al momento.
Presi un lungo respiro. Dovevo rimediare alla situazione che avevo creato. «Ci terrei a dire una cosa.»
A quel punto, il lieve chiacchiericcio che c’era sparì.
«Avrete notato che, da quando sono tornata, sono più... strana. Più nevrotica, più irrequieta, più irascibile.»
Qualcuno annuì timidamente, come se avesse paura di risvegliare la “bestia” che c’era in me.
«Mi dispiace. L’ultima cosa che voglio è ferire i vostri sentimenti, o comportarmi da pazza.» Guardai Kenji, addolcendo l’espressione. «Non so cosa mi stia succedendo, e non posso promettervi che non accadrà più. Però posso promettervi che tenterò di contenermi.» Ammorbidii il tono di voce, nella speranza che fossero comprensivi. A parte Maya, erano tutti uomini, e non mi aspettavo che capissero, ma mi avrebbe fatto comodo avere un po’ di solidarietà, anche se solo apparente.
I Pirati Heart mi fissarono in silenzio per un tempo che mi parve eterno.
«Vi chiedo di avere un po’ di pazienza, nei miei confronti.» Mi strinsi nelle spalle. Non sapevo che altro dire. Non potevo assicurare loro che presto sarebbe tornato tutto come prima, perché non sapevo neanche quale fosse il problema, ma me lo auguravo.
«Stai bene? Non sei malata, vero?» mi chiese Omen, con una vena di timore. La sua domanda mi scaldò il cuore.
«Sto bene,» confermai con un timido sorriso. Perlomeno, così dicevano le analisi. Non potevo garantire per la mia salute mentale, né per il mio polso tremolante. Un’altra questione di cui mi sarei dovuta occupare presto.
«Come va lo stomaco?» domandò invece Bepo, ancora preoccupato che potessi avere un’intossicazione alimentare.
«Affamato.» Mi strinsi nelle spalle e mi avvicinai all’orso per accarezzargli la testa. Era il mio modo di dimostrargli che apprezzavo la sua apprensione.
«Io voglio farti solo una domanda,» fece Shachi, le braccia incrociate e lo sguardo inquisitore. Poche volte lo avevo visto così deciso. «Sei contenta di essere tornata da noi?»
«Idiota!» Gli diedi una leggera pacca sulla nuca, per poi addolcire la mia espressione e sorridere. «Certo che sono contenta. Non vedevo l’ora,» affermai, andando da lui e cingendogli la spalla con un braccio. L’Orca mi rivolse un ghigno soddisfatto, poi scostò la sedia accanto alla sua dal tavolo e mi fece cenno di sedermi.
«Dov’è Penguin?» volli sapere. Non l’avevo visto, e mi sembrava strano che non fosse accanto al suo amico.
«Credo proprio che stasera rimarrà senza cena,» si intromise Ryu, che nel frattempo stava passando tra le sedie per distribuire il cibo.
«Si è fatto incastrare dal Capitano. Non so dove sia o cosa stia facendo, ma ne avranno ancora per molto. Dovremo fare a meno della loro presenza, per questa sera,» mi spiegò Shachi, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Quella sì che era una buona notizia: niente Law, niente problemi. Potevo stare tranquilla.
Solo in quel momento mi accorsi che il cuoco mi aveva servito una doppia porzione di filetto di merluzzo. Lo guardai e lui mi fece l’occhiolino.
«Ne hai bisogno...» mi sussurrò. Annuii e lo ringraziai.
Quando pensavo che le sorprese della serata fossero finite, però, dovetti ricredermi: con la coda dell’occhio vidi che Kenji, di fronte a me, aveva allungato la bottiglia di vino perché fosse alla mia portata. Spalancai gli occhi, pensando che fosse arrivata l’ora dell’apocalisse. Non avevo mai visto una cosa del genere.
«Se il vino ti serve per stare meglio...» si giustificò il rosso, scrollando le spalle. Le sue labbra erano schiuse in un sorriso imbarazzato e la sua testa era bassa, come se stesse lottando contro ogni fibra del suo corpo per compiere quel gesto. Non lo biasimavo, sapevo che passandomi la bottiglia stava andando contro ogni suo principio morale. Per questo non potei fare a meno di sorridere come un’ebete. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì, davanti a me, attorno a me. I miei compagni, pur non compiendo gesti eclatanti, mi stavano dando tutto il calore e l’affetto che mi era necessario per andare avanti. E fu così che tornammo a essere una grande famiglia complicata e felice.
 
Quando, dopo la cena, entrai in infermeria per recuperare l’elastico per capelli che mi ero dimenticata lì qualche ora prima, non pensavo di trovarci Law. Altrimenti non vi avrei messo piede neanche sotto minaccia. Stava ordinando a Penguin di trasportare degli strumenti nel suo studio. Quest’ultimo, quando mi vide, mi guardò con circospezione, poi si premurò di uscire dalla stanza mantenendo le distanze di sicurezza da me. Sospirai. Mi sarei dovuta scusare per la sfuriata, prima o poi. Quando il chirurgo vide me, invece, ghignò con malizia.
«Sei venuta per fare un’ecografia?» mi chiese mentre prendevo l’elastico. «Dovremmo confezionare una divisa un po’ più larga. Tra qualche mese quella che hai ora non ti entrerà più.»
Sentii un’ondata di rabbia travolgere il mio corpo, ma scossi la testa. Non avrei fatto il suo gioco, non ora che ero furente con lui. Non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia da quanto ero arrabbiata.
«Ho sentito che stai terrorizzando i miei uomini,» tentò di nuovo, in tono compiaciuto. «Proprio come si addice ad una Regina di Cuori
Camminai fino all’uscio della porta, senza mai posare lo sguardo su di lui. Cercava di provocarmi, ma non avrebbe avuto alcuna reazione da me.
Feci per uscire dall’infermeria, però Law parlò ancora: «Sono il tuo Capitano.»
Sapevo già dove voleva andare a parare. Desiderava che io gli tenessi testa. Voleva obbligarmi a farlo, perché era consapevole che non avrei potuto disubbidire a un suo comando.
«Guardami,» mi ordinò. Alzai gli occhi al cielo e mi voltai controvoglia. Non stava più sogghignando. Nel momento in cui le mie iridi incontrarono le sue, sentii l’ira crescere in me.
«Sei spregevole. E ingiusto,» lo accusai con durezza. Se ci teneva tanto a litigare, avremmo litigato.
«E tu sei ridotta uno straccio,» mi apostrofò.
«Questo non è affar tuo.» Non potevo dire altro, perché aveva ragione.
«Sì che lo è. Minacci i miei uomini, li aggredisci senza motivo. Sono tutti preoccupati per il tuo comportamento, e alcuni hanno paura. Mi costringi a intervenire.» Appoggiò la schiena allo schienale della sedia, quasi come se si aspettasse che io perdessi le staffe da un momento all’altro. Non potevo promettere a me stessa che non lo avrei fatto.
«Oh, per amor del cielo, Law! Siamo pirati, è così che fanno i pirati.»
«Tu non sei così,» ribatté, incastonando le sue iridi glaciali alle mie. Il suo sguardo, così imperscrutabile, mi provocò un brivido di freddo. Non sapevo cosa volesse comunicarmi. Non sapevo neanche se volesse effettivamente comunicarmi qualcosa.
«Magari sì. Magari in questi mesi sono cambiata.» Mi strinsi nelle spalle.
«Sicuramente sono cambiate le tue priorità.» Le sue parole e il tono contrariato che utilizzò mi arrivarono come una coltellata al petto.
«Stai alludendo a qualcosa, per caso?» volli sapere, mentre la mia ultima scintilla di sanità mentale si spegneva per lasciare il posto alla furia omicida. Serrai le palpebre, cercando di recuperare quel poco di compostezza che mi era rimasto. Continuavo a ripetermi che non ne valeva la pena, che litigare per dei motivi così futili era da idioti, eppure non potevo lasciar perdere, e neanche Law, a quanto pareva.
«Ciò che hai fatto per consolarti non è affar mio. Ma vedi di rimettere la testa a posto,» disse perentorio. Spalancai la bocca, inorridita dalle sue parole. Era rimasto del tutto calmo e impassibile mentre mi dava della poco di buono. Lui, che era il mio Capitano. Lui, che era la persona che più rispettavo al mondo.
«Ciò che hai fatto per consolarti. Vedi di rimettere la testa a posto,» ripetei, annuendo per metabolizzare quelle parole. Poi mi misi a ridere per il nervosismo.
Il chirurgo fece per parlare, ma io glielo impedii.
«Certo, dimenticavo! Dobbiamo essere tutti come te!» gli gridai, la mente che iniziava ad essere offuscata dalla rabbia. «Se stiamo male, dobbiamo reprimere i sentimenti e le emozioni nell’angolo più remoto della nostra anima, fino a che non c’è rimasto più niente e non diventiamo completamente vuoti e apatici!»
«Fino a prova contraria, sei tu quella che ha un problema, non io. Forse dovresti rivedere le tue scelte di vita,» affermò, una punta di divertimento nella voce. E fu proprio quella punta di divertimento che percepii a gettare benzina sul fuoco. Gli occhi quasi mi uscirono dalle orbite. Ero così infuriata che sentivo il sangue pulsare nelle vene.
«Tu non hai alcun diritto di prenderti gioco di me, né di giudicare le mie scelte! Non sai che cosa ho passato in questi mesi!» Sbattei con forza una mano sul tavolo. «Ho attraversato le pene dell’inferno! E tu dove cazzo eri!? Avevo bisogno di te, e non c’eri! Forse, se fossi stato lì con me, adesso non sarei ridotta uno straccio, come dici tu!»
Mi pentii delle mie parole nel momento in cui le pronunciai. Non per niente, lo vidi vacillare, anche se solo per appena mezzo secondo. Entrambi sapevamo che non era colpa sua se in quei mesi non c’era stato. Non era colpa di nessuno, i nostri destini dovevano compiersi separatamente. Prendersela con Law era ingiusto e meschino, anche perché sapevo che si sentiva in parte responsabile per ciò che mi era capitato. La mia coscienza sosteneva che avrei dovuto scusarmi, ma io non ne avevo intenzione. Ero troppo arrabbiata. Si era preso gioco di me in modo becero, mi aveva sbeffeggiato per giorni e adesso aveva anche avuto il coraggio di darmi della sgualdrina, semplicemente perché mi ero “permessa” di andare a letto con un ragazzo. Avevo fatto solo ciò che mi faceva stare bene, ciò che mi serviva in quel momento. Non era un crimine e non ero io a dovermi vergognare.
«Io cerco di dormire un po’,» annunciai, finalmente calma.
Law non obiettò e non disse altro. Qualcosa mi diceva che le mie parole avevano estinto la voglia che aveva di litigare con me.
Mi girai e me ne tornai in camera. Almeno così nessuno dei due poteva fare altri danni.
 
Mi rigirai per l’ennesima volta nel letto, sbuffando e scalciando via le coperte. Dall’oblò della cabina filtrava una debole luce. Doveva essere l’alba. Anche quella notte l’avevo passata in bianco; in tutti i sensi. Alla fine decisi di alzarmi. Tanto non avevo sonno. Dopo la litigata con Law, avrei sfidato chiunque a dormirsene tranquillo come un bambino. In un colpo solo mi aveva ferita, offesa e innervosita. La cosa che mi aveva fatto scattare era stato il tono che aveva usato. Era stato... duro. Come se fosse deluso dal mio comportamento, persino infastidito. Ancora una volta, non ne aveva il diritto. Non aveva il diritto di essere arrabbiato con me, perché lui non c’era. Non gliene facevo di certo una colpa, ma non poteva sapere cosa avevo passato, così come io non potevo sapere cosa aveva passato lui. Ero convinta che non avesse avuto vita facile neanche lui, e avergli rinfacciato la sua assenza mi faceva stare male, però aveva esagerato. Ogni volta che discutevamo, uno dei due rischiava di non uscire vivo dalla stanza. E la cosa che più mi faceva paura era che entrambi sapevamo perfettamente quali corde toccare per far infuriare, o peggio, ferire l’altro. Quella sera mi aveva dato una coltellata nel petto. Non solo mi aveva fatto uno scherzo di pessimo gusto e dato a intendere che pensava fossi una poco di buono, ma si era anche preso gioco dei miei sentimenti, calpestandoli senza ritegno. La cosa peggiore era che non aveva neanche cercato di comprendere le mie ragioni. Aveva deciso che il mio comportamento era sbagliato e basta. E non era giusto.
Mi diressi verso la cucina, massaggiandomi le tempie con le dita per tutto il tragitto e cercando di non sbandare per il corridoio, immerso nella penombra. L’ultima cosa che volevo era sbattere contro i muri e svegliare i miei compagni. Avevo bisogno di un po’ di tempo da sola, di sorseggiare un caffè in santa pace, senza che nessuno che mi fissasse o mi parlasse.
Allargai le braccia e le lasciai ricadere lungo i fianchi, senza però fare rumore. La luce della cucina era accesa. Possibile che ci fosse qualcuno anche alle sei di mattina? Di certo non era Ryu, perché da fuori non si sentiva alcun suono. Tra pentole, padelle, mestoli e stoviglie, il cuoco produceva sempre un gran chiasso quando era nel suo “regno”. Allora chi poteva essere? Un’idea ce l’avevo, ma decisi di controllare lo stesso.
Mi fermai sull’uscio della porta e osservai, attenta a non farmi vedere, la figura che stava seduta sulla sedia a leggere un enorme tomo di medicina vascolare rilegato in pelle. I miei sospetti erano corretti. Era Law, il pazzo che era sveglio alle sei di mattina. Per di più, stava anche leggendo un manuale sulla medicina vascolare come se fosse un romanzo rosa. Aveva i suoi occhiali rettangolari poggiati delicatamente sul naso, segno che stava leggendo da parecchio tempo, o che aveva intenzione di rimanere sveglio ancora a lungo. Se volevo il caffè, non c’era modo di evitarlo. Sbuffai e feci roteare gli occhi, consapevole che se mi avesse vista non avrei più potuto tornare indietro. Il pensiero di affrontarlo – soprattutto alle sei di mattina, dopo una notte in bianco – non mi faceva impazzire, ma qualcuno doveva pur comportarsi da persona matura. Non avevo intenzione di litigare di nuovo, volevo solo ingurgitare la mia dose di caffeina quotidiana in tranquillità e senza drammi.
Mi feci forza e misi da parte il risentimento che provavo per lui. Quando aprii la porta del tutto, questa cigolò, come a voler annunciare la mia presenza. Il chirurgo alzò gli occhi dal suo libro e mi guardò per appena un paio di secondi, poi ritornò a leggere come se nulla fosse. Ora mi aveva visto. Tra l’altro, se lui era vestito, io ero in pigiama, ma non mi importava, mi aveva vista in condizioni ben peggiori.
Rimasi immobile a torturarmi le dita per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Avrei dovuto ignorarlo? O sarebbe stato meglio almeno salutarlo?
Optai per l’indifferenza e mi diressi verso la caraffa del caffè. Mentre versavo la polvere nel filtro, pensai a come potesse sentirsi lui. A vederlo non sembrava scosso, ma ero certa che avesse accusato il colpo. Nessuno dei due meritava di essere trattato in questo modo dall’altro. Noi non eravamo così.
«Non riesci a dormire?» La voce di Law riecheggiò per la cucina.
Mi immobilizzai, colta alla sprovvista dalla sua domanda. Non pensavo che avrebbe fatto lui il primo passo.
«No,» risposi, nella voce una nota di fastidio involontaria. Scossi la testa, cercando di scacciare il rancore che era tornato a galla e comportarmi da persona civile.
Il Capitano non disse altro fino a che non fui di fronte a lui, la tazza di caffè stretta in una mano. Notai che anche lui ne aveva una accanto a sé, ancora fumante. Allungai il collo e ne sbirciai il contenuto: era tornato al caffè amaro e nero come il carbone, così come il nostro rapporto era tornato a un silenzioso e freddo distacco, come ai vecchi tempi. Le sue iridi si concentrarono su di me, mettendomi un po’ a disagio.
«Camilla, sei cresciuta, ormai. Sei una donna adulta. Sei libera di fare quello che vuoi, con chi vuoi, purché non danneggi te stessa o i Pirati Heart. Non hai bisogno della mia approvazione.»
Apprezzai il suo tentativo, anche se dapprima rimasi un po’ interdetta: non me lo aspettavo. Sapevo che gli costava dirlo, non tanto per il contenuto dell’affermazione, quello lo pensava davvero, quanto per il fatto che stesse facendo il primo passo nonostante fosse convinto di avere ragione. Infatti non stava tentando di scusarsi, ma solo di esprimere il suo punto di vista. Era giusto, però, che anche io esponessi il mio. Mi misi a sedere di fronte a lui, per poterlo guardare meglio negli occhi.
«Non ho neanche bisogno che tu mi giudichi o mi prenda in giro in modo offensivo,» gli feci presente, calma ma un po’ risentita. Forse non si era reso conto di aver esagerato. O forse se ne era reso conto e questo era il suo modo di metterci una pietra sopra. In ogni caso, avevamo entrambi capito il pensiero dell’altro, e non dovevamo essere per forza d’accordo.
Mi rivolse uno sguardo, un solo sguardo, che fu abbastanza per farmi capire che non lo avrebbe fatto più. Insieme, annuimmo impercettibilmente, come a sancire la fine della faida. Il rapporto che avevamo io e Law – quando non ci scannavamo – era quasi magico. Ci intendevamo al volo, senza bisogno di parlare. Era assurda, però, anche la sua capacità di mostrarsi totalmente apatico e incredibilmente comunicativo al contempo. Aveva del talento.
Per i successivi minuti, io sorseggiai il mio caffè e lui tornò a leggere il suo libro. Per quanto mi riguardava, consideravo le cose tra noi chiarite. Più o meno. Ero ancora un po’ offesa, ma mi sarebbe passata in un paio di giorni.
 
Nella stanza c’era un silenzio schiacciante. Non ero più abituata a quella quiete, che adesso mi sembrava quasi innaturale. Alla base dei rivoluzionari, in sala mensa c’era sempre un allegro chiacchiericcio, anche alle cinque di notte, anche se la stanza era pressoché deserta.
Mi ricordai dell’episodio piccante che era avvenuto lì in tarda serata tra me e Sabo e sentii il nervosismo crescere in me. Mi umettai le labbra con la punta della lingua più volte, all’improvviso erano diventate secche. Almeno, così mi sembrava. Non mi sarei stupita se quello fosse stato un altro degli stupidi scherzetti che mi aveva giocato il cervello in quei giorni. Iniziai a tamburellare le dita sul tavolo, con così tanta forza che le unghie avrebbero potuto spezzarsi da un momento all’altro. Sentivo caldo, mi sembrava di essere dentro ad una fornace rovente. Un velo di sudore si era formato sulla mia fronte. Scostai il colletto del pigiama dal collo nel tentativo di far entrare un po’ d’aria. Mi infastidiva tutto: il ronzio del lampadario della cucina, l’odore del caffè, il capitano che se ne stava seduto a leggere tranquillo a pochi metri da me. Ero diventata insofferente a qualsiasi cosa. E tutto perché mi era tornato in mente un episodio accaduto mesi prima. Sospettavo che il problema non fosse l’episodio in sé, quanto il fatto che non avrei più potuto vivere una cosa simile. Le sensazioni che avevo provato e che mi avevano fatto sentire tanto bene se n’erano andate. Non c’erano più, e non avrei più potuto provarle. E facevo fatica ad accettarlo. Non volevo rinunciare a qualcosa di tanto bello. Non ancora.
«Stiamo per affrontare una guerra che avrà conseguenze enormi su noi stessi e sul mondo. Se hai un problema, risolvilo. Se non sei in grado di risolverlo da sola, parlane con qualcuno.» La voce di Law mi riportò alla realtà e mi resi conto di avergli offerto uno spettacolo brutto e inopportuno. Aveva di nuovo usato un tono duro, però aveva ragione. E la verità era che avevo più di un problema. E l’avvento di una guerra epocale con un Imperatore non solo non mi aiutava a risolverli, ma li ingigantiva. Dovevo affrettarmi a trovare una soluzione, perché la battaglia non avrebbe di certo aspettato i miei comodi, né mi avrebbe fatto sconti. Ricordandomelo, il Capitano mi aveva fatto una doccia gelata. I mesi che avevo passato con i Rivoluzionari erano stati mesi di pausa dalla vita reale, ora però era giunto il momento di fare i conti con le cose che avevo lasciato in sospeso prima che accadesse tutto quello che era successo.
Pensai a Kaido e rabbrividii. Quasi riuscivo a vederlo mentre ci aspettava sulla sua isola: era seduto sul suo “trono”, la mazza chiodata in una mano e un otre di rum nell’altra. Aveva un cipiglio sul volto, ma ghignava divertito; la tipica espressione di chi sa che vincerà.
«Io devo poter contare su di te. I Pirati Heart devono poter contare su di te. Cappello di Paglia e i suoi devono poter contare su di te.» Il chirurgo parlò di nuovo, lo stesso sguardo serio e fermo di poco prima. «Sei una mia subordinata, e in quanto tale è mio dovere assicurarmi che la tua testa e il tuo corpo siano pronti ad affrontare ciò che stiamo per affrontare.»
«Quando arriverà il momento sarò pronta, Capitano,» dichiarai, cercando di sembrare il più convincente possibile. Avevo pensato un po’ a cosa dire: non volevo mentire, ma neanche impensierirlo. Tralasciando il fatto che l’essere pronta per affrontare l’enorme minaccia di fronte alla quale ci saremmo trovati a breve non stava a significare che volessi farlo, o che non avessi paura. La situazione era quella che era, e volente o nolente prima o poi avrei dovuto affrontarla. Tutti avremmo dovuto farlo, non potevamo scappare dalle nostre responsabilità.
«Voglio fidarmi di te,» disse Law, dopo qualche istante di silenzio. «Non tradire la mia fiducia.»
Aggrottai leggermente la fronte e boccheggiai. Anche se l’aveva pronunciata come una minaccia, era bello sentirsi dire che si fidava di me. Anzi, che aveva deciso di fidarsi di me.
«Proverò a non farlo,» affermai, non sapendo che altro dire e non potendo fare promesse che non ero certa di poter mantenere.
«Ora va’ a dormire. Le occhiaie non ti donano.»
Alzai gli occhi al cielo, ma annuii e obbedii. Dopotutto ero stravolta e il caffè non mi aveva aiutato, avevo bisogno di farmi qualche ora di sonno.
 
***
 
«Sapevate che Big Mom ha un disturbo alimentare?» chiesi, portandomi un biscotto alla bocca e sgranocchiandolo. Avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente. C’era troppo silenzio in cucina, per i miei gusti. Quella mancanza di suoni mi innervosiva. Per una volta che desideravo che ci fosse confusione, quegli idioti se ne stavano zitti. Erano passati un paio di giorni da quando mi ero sfogata e poi scusata con loro, ma la situazione peggiorava a vista d’occhio. Ero sempre più infastidita. Cercavo di contenermi come meglio potevo, però la bomba era destinata a esplodere.
«Sul serio?» domandò a sua volta Shachi, facendo una faccia schifata.
«A quanto pare.»
«Come fai a sapere per certo che quella racchia gigante soffre di un disturbo alimentare?» mi domandò ancora l’Orca, facendomi tornare alla realtà.
«L’ho letto,» ribattei in tono piatto.
«Sì, ok, ma dove l’hai letto?»
«Sul giornale. Hanno pubblicato un articolo l’altro giorno,» replicai vaga. Era una bugia. Dove l’avevo letto? Sul mio cellulare.
Ancora una volta, nell’esprimere il mio secondo desiderio mi ero dimenticata di specificare. Avevo chiesto di ricevere quotidianamente notizie delle persone a cui volevo bene, e la Stella era stata fin troppo di parola. Nell’applicazione che aveva creato per me, in fondo a tutte le foto della mia famiglia, apparivano altre foto, foto che non erano altro che pagine di un capitolo del manga. Mi era concesso leggerne uno al giorno, e pian piano avrei recuperato tutti i capitoli che mi ero persa in quegli anni. Avevo imparato a mie spese che a volte dimenticarsi di specificare era un bene. Certo, era stata una sorpresa enorme scoprire che Sanji era stato promesso in sposa ad una delle figlie di Big Mom e che veniva da una famiglia di spietati assassini che lo trattavano come se fosse un rifiuto, non me lo sarei mai aspettato. Mi ero dimenticata di quanto potesse essere avvincente il manga di One Piece. Forse perché vivevo all’interno di quell’universo e avevo provato sulla mia pelle il brivido del non sapere mai cosa sarebbe accaduto.
Mi sarebbe piaciuto avere notizie anche di Marco, Sabo, Koala e Jasper, ma non avevo trovato nulla su di loro, sebbene avessi controllato meticolosamente più e più volte. Supponevo che avrei dovuto attenermi alle fonti che avevo: manga e quotidiani.
Ovviamente, tutto quello doveva rimanere un segreto per il resto dei miei compagni. Avevo deciso di non dire niente a nessuno, ad eccezione di Law, l’unico che sapeva della mia storia, del mio passato e del fatto che tutti loro facessero parte di un fumetto. Ecco perché avevo mentito a Shachi. Forse un giorno avrei vuotato il sacco sulla mia provenienza, ma non ora che stavamo per affrontare Kaido.
«Che tipo di disturbo è?» volle sapere Maya. Sembrava l’unica davvero interessata a quell’argomento.
«Pare che ogni tanto abbia delle crisi alimentari che la portano a distruggere tutto ciò che ha intorno e ad uccidere i suoi stessi figli, se non le viene dato da mangiare ciò che vuole mangiare,» spiegai, allungando la mano per prendere l’ennesimo biscotto dal piatto al centro del tavolo. Feci attenzione a non sbriciolare. Ryu, altrimenti, mi avrebbe fatto pulire.
«Uccide i suoi stessi figli!?» urlò Bepo, inorridito. Annuii.
«Quando ha una delle sue crisi, a quanto ho capito, non è in sé. Perde completamente coscienza della realtà e la sua ira distruttiva non si placa finché non mangia ciò che desidera.» Appoggiai la schiena allo schienale della sedia. Il pensiero che stessi iniziando a comprendere Big Mom mi raccapricciava. Sì, era una vecchia pazza che ammazzava la sua prole quando non poteva mangiare ciò che desiderava, ma lo faceva perché non poteva avere l’unica cosa che voleva. L’immagine di Sabo mi apparve fugace davanti agli occhi e mi ritrovai ad affondare le unghie nel tavolo.
«Quando si riprende e scopre di aver ucciso i suoi figli come fa a convivere con se stessa?» si interrogò l’orso. Piegai la testa da un lato e lo squadrai con un’espressione impietosita. Certe volte mi chiedevo se non fosse troppo innocente per il mondo in cui vivevamo. Poi, però, mi ricordavo del modo feroce in cui combatteva e i conti tornavano.
«Non credo che se ne accorga. Ne ha così tanti che uno in più o uno in meno non fa molta differenza.»
«Che orrore. E pensare che ci sono state decine di uomini disposti ad andare a letto con lei...» rimarcò Penguin con una faccia più che disgustata.
«È stata furba, ha costruito il suo impero andando a letto con dei tizi a caso e generando figli su figli,» affermò Shachi, assottigliando gli occhi.
«Pensi sul serio che fossero tizi a caso?» gli fece notare Maya. «Sicuramente li ha scelti con cura e poi li ha obbligati a unirsi a lei per procreare. Un impero del genere non si può creare andando a letto con dei tizi a caso.»
Per fortuna esisteva qualcuno di sveglio là in mezzo, capace di capire le cose al volo. Big Mom aveva costruito Totland scegliendo minuziosamente i suoi partner, tra re, uomini di potere e mostri di potenza di tutte le razze.
«Comunque la si metta, quella vecchia cozza si è data da fare,» sostenne Penguin, abbandonandosi ad una risata.
«Beh, qualcuno deve pur farlo, no?» gli diede man forte il suo amico.
Quando si resero conto che una come Big Mom consumava più di loro, i due idioti si disperarono, ma a quel punto io ero già partita di testa.
Scattai in piedi con una tale foga che feci cadere la sedia sulla quale ero seduta. Tutti i presenti si girarono a guardarmi sorpresi.
«Possiamo non parlare di questo argomento?» mi spazientii. All’improvviso, come se un fulmine mi avesse attraversato il cervello, avevo capito. Ecco cos’era che mi dava fastidio. Ecco perché ero stata irrequieta per tutto quel tempo. Ed ecco qual era il mio problema. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto aspettarmelo.
«Cami, stai bene?» mi chiese qualcuno. Non risposi. Non volevo farlo e non sapevo neanche cosa rispondere, anche perché mi ero ripromessa che non avrei sfogato le mie frustrazioni sui Pirati Heart.
Recuperai al volo un bicchiere, poi mi diressi a passo svelto verso il frigo e lo aprii. Trovai subito ciò che stavo cercando: vino. Ne versai una generosa quantità nel calice e la bevvi tutta d’un fiato, sotto gli sguardi per metà perplessi e per metà preoccupati dei miei compagni. Nessuno osò fiatare, però.
Tornai ad accasciarmi sulla sedia, con la bottiglia appresso. Le mie dita tamburellavano nervosamente sul tavolo della cucina, il piede picchiettava svelto sul pavimento. Avevo il respiro affannoso ed ero leggermente sudata. Lo sguardo torvo ed assente, fisso davanti a me. Il cuore martellava celere nel petto. Mi sembrava di andare a fuoco, tutto dentro ribolliva. Ingollai un altro lungo sorso di vino. Non potevo continuare così, stavo impazzendo lentamente. E di chi era la colpa? Di Sabo. Lui mi aveva portata sulla cattiva strada. Mi aveva fatto provare il piacere più puro e poi me lo aveva negato. No, non me lo aveva proprio negato, se fosse stato qui molto probabilmente ci saremmo dati alla pazza gioia, ma non c’era. Se ne era andato, e aveva portato con sé il “sapore della libertà” che tanto decantava. Bevvi un altro po’ di vino, poi emisi un verso a metà tra uno sbuffo ed un grugnito spazientito.
«Secondo voi che ha?» chiese qualcuno.
«Dite che è grave?» domandò un altro, preoccupato.
«Credo che stia avendo i sintomi di una crisi d’astinenza,» rispose un terzo, sussurrando. Avrei voluto dire ai miei adorati compagni che ero lì, anche se non sembrava, e che potevo sentirli.
«Tipo le crisi di Big Mom?» volle sapere Bepo.
«No, peggio.» Shachi si guadagnò la mia occhiata truce.
«Forse è meglio evacuare la zona...» L’orso, si guardò intorno con circospezione e poi posò lo sguardo su di me. «Solo per precauzione,» aggiunse quando mi vide fissarlo minacciosa con tanto di narici dilatate.
«Crisi d’astinenza? E da cosa?» si interrogò Maya, che a quanto pareva, oltre ad essere la più sveglia, era anche l’unica razionale là in mezzo.
«Non è ovvio?» fece Ryu. Spalancai gli occhi, girando la testa di scatto verso il cuoco, l’espressione marcatamente terrorizzata. Era ovvio? Aveva capito quale fosse il mio problema? All’improvviso mi resi conto che le mie unghie stavano grattando la superficie liscia del tavolo. Le nocche erano diventate bianche. Ero indecisa se alzarmi ed andare a tappargli la bocca o lasciarlo parlare e sentire cosa avesse da dire. Optai per la seconda opzione. Avrei pur sempre potuto uccidere lui e tutti gli altri dopo. Cercai di darmi la parvenza di una che non aveva nulla da nascondere.
«Dal pane!» Lo disse davvero come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Tutti lo fissarono come se fosse pazzo.
«Dal pane,» ripetei io, perplessa e sollevata allo stesso tempo. In fondo non ci era andato troppo lontano. Da “pane” al motivo delle mie crisi di astinenza cambiava una sola lettera. Sorrisi appena nel realizzarlo. Questo poteva giocare a mio vantaggio. Dopotutto, avevo bisogno di sfogarmi, quindi perché non usare un espediente?
«Esatto! Esatto, dal pane!» Mi alzai in piedi e sbattei una mano sul tavolo. Forse ci misi un po’ troppo entusiasmo, perché ero sicura che qualcuno dei miei compagni avesse pensato che fossi posseduta.
«Prima c’era tanto pane. Lo mangiavo almeno una volta al giorno, talvolta anche due o tre. La mattina, il pomeriggio, la sera... Quando ne avevo voglia era lì, pronto per me.» Il mio tono di voce diventava più acuto e alto ad ogni parola. «E adesso non c’è più, il pane. È sparito! Capite il mio dilemma!?»
Mi guardarono tutti con delle facce stralunate, come se fossi impazzita. Ed effettivamente lo ero. Stavo impazzendo. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Perché diavolo non avevo ascoltato la vocina dentro di me che mi aveva detto che andare a letto con Sabo era sbagliato!? Ah, già. Era proprio perché sentivo le voci nella testa che avevo cominciato a fare sesso con lui. Bastava un suo semplice tocco per far sparire tutto. Era un circolo vizioso, non c’era fine al mio supplizio.
«Il pane depura,» affermai, sventolando l’indice per aria. «Eccome, se depura. Abbiamo tutti bisogno di più pane nelle nostre vite, datemi retta.»
«Come hai fatto a vivere senza pane per tutti questi anni?» indagò Penguin, perplesso.
«Non lo so! Senza il pane è un’esistenza infelice!» Il fatto che lo avessi urlato con un’espressione da invasata mi fece capire che la situazione era ben più grave di quanto pensassi.
«La cosa che mi preoccupa è che se reagisci così per la mancanza di un po’ di pane, non oso immaginarmi come reagiresti se mancasse il vino,» rifletté ad alta voce Ryu, pensieroso.
Lo ignorai. Era convinto delle sue idee, pensava davvero che avessi bisogno di pane. Non avevo problemi a lasciarglielo credere. Non che la mancanza di vino non fosse un potenziale problema; finché c’era, però, ero a posto. Più o meno.
«Scusa, Cami, sei stata con noi per due anni, e in tutto questo tempo non ti ho mai sentita lamentarti una volta per la mancanza di pane. Com’è che tutt’a un tratto non puoi stare senza?» intervenne Shachi. Quando voleva anche lui sapeva essere sveglio. Ci pensai un attimo.
«Perché il pane che ho assaggiato alla base dei rivoluzionari era molto, molto buono,» risposi esasperata. Mi afflosciai sulla sedia e mi passai le mani su tutta la faccia nel tentativo di ricompormi.
«Quanto buono?» volle sapere Maya, assottigliando gli occhi. Qualcosa mi diceva che aveva intuito tutto. Aveva capito la mia metafora. Aveva sempre avuto dei sospetti, ma io, ora, le stavo implicitamente dando le conferme che le servivano. Non che mi importasse. Ormai non avevo più nulla da perdere. La dignità se ne era andata insieme alla mia sanità mentale.
«Buono del tipo che basta una sola briciola per farti andare in estasi.» Scossi la testa sconsolata.
«Ragazza mia, devi trovarti dell’altro pane al più presto,» mi sollecitò, annuendo più volte ed aggrottando la fronte.
«Ma... ce l’ha!» esclamò Penguin, beccandosi una potente gomitata in pieno stomaco da Shachi: non potevamo parlarne ad alta voce se non volevamo essere scoperti da Law, che non era lì con noi ma aveva occhi e orecchie dappertutto. Per fortuna almeno loro non avevano capito a cosa mi stessi riferendo davvero. Mi avevano preso alla lettera, proprio come Ryu, e il Pinguino era convinto che la soluzione ai miei problemi giacesse in una cassa nascosta dentro al mio armadio. Avrei tanto voluto che avesse ragione. Invece, purtroppo, non era così.
Sospirai, lo sguardo basso e privo di qualsiasi speranza. Il problema era che io non volevo altro pane. Io volevo quel pane. Il pane che aveva da offrire Sabo.
 
«Dannato Sabo,» sibilai. Avevo passeggiato avanti e indietro per la mia cabina così a lungo che iniziavano ad esserci dei solchi sul pavimento. «Lui e la sua stupida libertà. Mi ha avvelenato,» continuai, sbattendo con forza il pugno sinistro sul palmo della mano destra.
«Lo sapevo. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Che cretina! Mi sono fatta abbindolare dal suo bel faccino sorridente e dai suoi muscoli scolpiti!»
Nonostante tutto, però, non riuscivo a darmi interamente la colpa, né avevo motivo di farlo. Era successo, mi ero lasciata andare e me l’ero goduta – e avevo goduto – finché avevo potuto. Avevo fatto il necessario per stare bene, niente di più e niente di meno. Il fatto che adesso fossi in crisi era solo un effetto collaterale. Come medico lo sapevo bene. Ogni medicina presenta degli effetti indesiderati. Quella specie di crisi mistica di astinenza che stavo attraversando era il mio prezzo da pagare. Del resto, c’è sempre un prezzo da pagare per guarire. Lo avevo imparato a mie spese in più occasioni. Mi sarebbe passata anche questa, come tutto il resto. Si trattava solo di un piccolo inconveniente.
Qualcuno bussò alla porta. Andai ad aprire senza stare a pensarci troppo. Davanti a me ritrovai Maya.
«Posso entrare?» chiese pacatamente.
Feci di sì con la testa e la lasciai passare. Lei, senza fare troppi complimenti, si mise a sedere sul letto.
«Come stai?» volle sapere, materna. In quel momento mi ricordò Koala. Se ci fosse stata lei, ci saremmo fatte una scorpacciata di caramelle, avremmo bevuto vino e chiacchierato di cose futili fino a che non mi sarebbe passato il malumore.
«Bene.» Mi misi a sedere accanto a lei, che mi rivolse un’occhiata eloquente. «Sul serio, non sto male. Sono solo... inquieta, nervosa e infastidita. Nulla di nuovo, praticamente.» Mi strinsi nelle spalle e picchiettai le dita sulle ginocchia, un po’ a disagio.
«Suppongo che siano queste le conseguenze della mancanza di pane,» constatò lei, accompagnandosi con un blando cenno del capo e trattenendo una risata.
«Tu hai capito cosa intendo davvero per “pane”, vero?»
Se fossimo finite a parlare di quello, dovevo almeno assicurarmi di non aver preso un granchio, per evitare ulteriori figuracce. Annuì e mi rassicurò con un sorriso. Potevo fidarmi di lei, quando voleva sapeva essere una tomba, non sarebbe andata a raccontarlo a nessuno.
Per un po’ rimanemmo in silenzio, un silenzio comunicativo.
«Cami, ragazza mia, io non ti giudico. Anzi, quasi ti invidio,» mi confessò dandomi una pacca affettuosa sulla spalla. Mi voltai verso di lei, stupita dalla sua affermazione.
«Perché mai dovresti invidiarmi?» volli sapere, perplessa. Lei, che poteva fare sesso quando voleva senza che nessuno la giudicasse, invidiava me?
«Perché ogni tanto piacerebbe anche a me consumare del pane senza impegno,» ammise distogliendo lo sguardo. Alzai un sopracciglio, ancora più confusa.
«Ma tu hai Omen. E non dirmi che voi due non consumate, perché i muri di questo sottomarino sono piuttosto sottili,» rimarcai, ridendo e piegando la testa da un lato.
«Sì, ho Omen, ma non è la stessa cosa.»
«Ah...» mi lasciai sfuggire. Cominciavo a sospettare che il suo fidanzato non fosse così bravo a letto come diceva di essere di fronte ai suoi compagni maschi.
«Te ne parlerò in un’altra occasione.» Liquidò il discorso con un gesto secco della mano. Storsi la bocca. Non ero sicura di voler affrontare di nuovo quel tipo di conversazione.
«Comunque, siamo donne. Abbiamo bisogno anche noi di...» Cercò per un po’ le parole giuste, senza trovarle.
«Svagarci,» intervenni io, anche se avrei preferito usare il termine “depurarci”, perché di quello si trattava, almeno per me.
«Esatto, di svagarci. È perfettamente normale. Se quegli idioti vogliono ricamarci sopra, lasciali fare. Tu hai tutto il diritto di fare ciò che vuoi,» mi disse, fissandomi negli occhi per assicurarsi che avessi capito. «E se avrai voglia di discuterne, sappi che io sono qui.»
Sorrisi grata alla mia amica per avermi detto quelle cose. Era molto bello avere il sostegno di un’altra donna.
Fece per alzarsi, ma io la fermai. Forse parlarne con qualcuno mi avrebbe fatto bene, arrivati a questo punto.
«Sai, mi sento stupida, perché questo non è neanche un vero problema.»
«Beh, era una cosa bella che ora non puoi più vivere. Forse non sarà un vero e proprio problema, ma è brutto perdere qualcosa che ci fa stare bene.»
La sua risposta mi fece riflettere. Aveva ragione.
«Già...»
«Quindi, se posso darti un consiglio, cercati altro pane da sgranocchiare.»
La faceva semplice, lei. Cercare altro pane da sgranocchiare era fuori discussione. Per quanto odiassi ammetterlo, nessuno avrebbe mai potuto eguagliare Sabo. Le sensazioni che avevo provato con lui erano semplicemente irripetibili. Non avevo bisogno di provare altre pagnotte per saperlo, lo sapevo e basta.
«Però, qualunque cosa tu decida di fare, ti prego, smetti di bere vino,» mi rimproverò, tuttavia con affetto. «Kenji è davvero preoccupato per te e per la tua salute.»
Mi rammaricai di averlo trattato così male in quei giorni. Dopo che mi ero scusata avevo continuato a evitarlo perché non volevo che mi facesse di nuovo la predica sul vino. Non era giusto, quel poverino cercava solo di preservarmi dal fare una brutta fine, aveva a cuore la mia salute.
«A proposito di Kenji...» iniziò Maya, facendomi roteare gli occhi. Sapevo già dove voleva andare a parare. «Mentre eri via, non c’è stato un giorno in cui non ha parlato di te. È evidente che abbia un debole per te. E lui e Omen sono migliori amici, perciò potremmo...»
«Fare pic-nic tutti insieme in mezzo a un campo di margheritine? No, grazie,» la interruppi, immaginandomi la scena con espressione disgustata. Sabo mi aveva resa molto più cinica di quanto non fossi già con il romanticismo. Forse avrei dovuto ringraziarlo.
Mi alzai, sollecitando – per non dire obbligando – la mia amica a fare lo stesso e la accompagnai alla porta. Quella conversazione era appena diventata inutile e non volevo più continuarla. La spinsi praticamente fuori dalla stanza.
«Andiamo, apri il tuo cuore all’amore, Cami. Non può che farti bene,» mi incitò fiduciosa. Infransi le sue speranze con un’occhiata gelida.
«Io i cuori li apro solo durante le operazioni di cardiochirurgia,» affermai, apatica e glaciale. «Grazie per la chiacchierata. Ci vediamo a cena,» mi congedai, richiudendo la porta della cabina prima che potesse dire altro.
All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, mi resi conto della situazione. I problemi che dovevo affrontare erano tre, quattro se si considerava Maya che tentava di sistemarmi con Kenji: una guerra imminente con un Imperatore, che metteva a rischio la mia vita; il nervosismo che mi provocava l’astinenza da pane, che metteva a rischio la mia sanità mentale; e un polso che tremava, che metteva a rischio la mia carriera da chirurgo. Affondai il viso nelle mani. Non avrei avuto vita facile.
   
 
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