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Autore: moira78    17/04/2021    8 recensioni
Ryo e Kaori ricevono un XYZ da una donna che viene da molto lontano ed è in cerca di un amore perduto. La sua storia, attraverso le fila del tempo e dello spazio, toccherà i loro cuori e li porterà in un viaggio pieno di emozioni e lacrime.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Candice White Andrew (Candy), William Albert Andrew
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è nata come una sfida impossibile: proprio il genere di cose che mi spinge, invece, a provarci. Come far incontrare due mondi apparentemente così differenti come Candy Candy e City Hunter? E come raccontare una storia dal sapore antico dal punto di vista moderno dei due sweepers? Queste e tante altre domande mi sono girate in testa per molto tempo, quasi inducendomi a rinunciare, finché un bel giorno la storia era lì, che mi bruciava nel cuore e nel cervello e ho dovuto semplicemente scriverla in tutti i ritagli di tempo possibili, fino a che la fiamma non si è estinta e mi ha lasciata completamente svuotata e colma di sentimenti così contrastanti che non sono riuscita subito a rileggerla per effettuare le correzioni necessarie. Grazie a Sonietta74 per avermi dato il primo parere e avermi convinta che dovevo condividerla. E grazie a Tiger Eyes che mi ha corretto tutti i refusi.
 
 
Fino all'ultimo respiro
 
 
Il vero amore non muore mai.
Non conosce stagioni: le ore, i giorni, gli anni sono soltanto frammenti di stelle spente,
brandelli di tempo.
 
Romano Battaglia
 
Adesso sì
Adesso che tu vai lontano
Sono acqua chiara le nostre lacrime
E non servono più

Adesso è tardi
Per ritrovare le parole
Che tante volte volevo dirti
E non ho trovato mai

Senza di me tu partirai per altri mondi
Ti perderai tra gente e strade sconosciute
Non ci sarò quando qualcuno mi ruberà
Gli occhi tuoi

Adesso sì
Adesso che tu vai lontano
Il mio pensiero ti seguirà
Sarò con te dove andrai

 
Adesso sì - Sergio Endrigo
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Ryo era in piedi davanti alla lapide con le mani in tasca, lasciando che il vento primaverile scompigliasse i suoi capelli come se fosse la carezza di un'amante. Stava perfettamente in silenzio e non aveva alcuna voglia di muoversi di lì. Non fino a che la loro cliente non avesse deciso che era il momento di farlo.

La guardò discretamente, con gli occhi socchiusi.

Era inginocchiata sull'erba, alla sua destra, e Kaori le teneva una mano sulla spalla come se con quel semplice gesto potesse trasmetterle calore e conforto. Eppure anche lei guardava la lapide come se fosse irresistibilmente attratta da quell'iscrizione. Sul suo viso serio e composto riuscì a scorgere la stessa solennità che provava lui, qualcosa che non aveva mai sperimentato.

Eppure faceva quel lavoro da anni.

Eppure aveva visto morire molte persone, anche a lui care.

E quell'uomo che giaceva in uno dei cimiteri più anonimi di Tokyo non lo aveva mai conosciuto in vita sua, per motivi meramente anagrafici e geografici.
Ma era come se avesse vissuto il suo stesso dramma attraverso i racconti appassionati della donna inginocchiata lì davanti a dire la sua preghiera, dopo anni passati a cercarlo strenuamente.

Ora, finalmente, lo avrebbe riportato a casa.

In un altro continente, nello Stato del Michigan, in un posto chiamato Lakewood.

Incontrò per un attimo gli occhi della sua socia e vi lesse una scintilla che non poteva dare adito a diversa interpretazione: era d'accordo con lui, la loro cliente avrebbe avuto tutto il tempo che le sarebbe stato necessario per dare l'addio al suo uomo.

Quello che non aveva mai confessato di amare. Colui che non aveva mai avuto il coraggio di confessare a sua volta i propri sentimenti solo perché pensava di renderla felice tacendoglieli.

Ryo chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, ricordando il momento esatto in cui la signora dai lunghi capelli candidi e ricci, accuratamente ripiegati in una crocchia, si era messa a raccontare a Kaori quella parte della storia.

Ed era stato il secondo motivo per cui si era convinto a fare di tutto per aiutarla.

Lui se ne era rimasto nella sua stanza fino a pochi minuti prima, a ridacchiare sui suoi giornali preferiti con la bava alla bocca e la faccia contratta in una smorfia predatrice, finché non aveva deciso che aveva fame. Era stato allora che si era affacciato in salotto e aveva colto uno sprazzo di quella conversazione che tanto lo aveva annoiato fino al giorno prima.

"In quella lettera... lui mi confessava la verità, sa Kaori? Ma era tutta accartocciata, come se qualcuno l'avesse recuperata da un cestino dopo che l'aveva gettata via. Ha cercato di proteggermi fino alla fine. Fino al suo ultimo respiro. E non ha mai saputo che io... io in realtà...". Si era portata le mani al volto, perdendo la maschera di apparente calma che l'aveva contraddistinta fino a poche ore prima.

D'altronde, era una donna di ottantotto anni che aveva fatto un viaggio intercontinentale solo per cercare le spoglie di quello che chiamava Principe.
Per Ryo era solo una follia in piena regola e quando aveva visto quel XYZ tracciato da una mano incerta e aveva visto quella donnina anziana che non parlava minimamente il giapponese, si era quasi ritirato inorridito.

"Pensaci tu, Kaori, cara! Io non mi ricordo l'inglese e soprattutto non lavoro per le vecchiette in cerca dei sogni di gioventù!". Se ne stava già andando a passo deciso quando lei lo aveva afferrato per il braccio con l'aria assassina negli occhi e il martellone in mano.

Le sue narici si allargavano come quelle di un toro imbufalito e lui era tornato mestamente sui suoi passi solo per rivolgersi alla vecchietta che li guardava con aria triste, capendo di certo che si stava rifiutando. Nel momento stesso in cui aveva incontrato quegli occhi di un verde splendente in mezzo alla ragnatela di rughe, Ryo Saeba si era sentito un bastardo, e non solo perché aveva compreso che da giovane era di certo stata una bella donna.

Quegli occhi erano pieni di speranza, ma anche di qualcosa che somigliava alla determinazione. Mentre in inglese le spiegava che il suo Principe poteva benissimo essere morto, capì che lei invece non si sarebbe mai lasciata morire fino a che non lo avesse riportato a casa, dove apparteneva.
Avrebbe usato fino all'ultima scintilla di vita, senza risparmiarsi, anche se avesse significato vivere altri dieci anni o più.

Ed ecco il primo motivo per cui aveva accettato.

"So benissimo che potrebbe essere morto, signor Saeba. Ci vorrebbe un miracolo perché un uomo che oggi avrebbe quasi cent'anni fosse ancora in vita, anche se non mi sorprenderebbe poi molto, visto quanto lui...". Aveva interrotto la frase, scuotendo la testa e continuando con quella voce stranamente melodiosa per una donna così anziana. "Ma devo ritrovarlo comunque. E se i suoi collaboratori e le ricerche che ci sono costate anni di fatica dicono il vero, dovrebbe essersi trasferito a Tokyo circa trent'anni fa".

La luce in quegli occhi gli aveva ricordato Kaori. E, successivamente, la storia di quei due americani gli aveva ricordato la loro storia. La loro storia diversa eppure identica.

Solo che loro la stavano ancora vivendo e avevano tutto il tempo del mondo per rimediare.

Ryo tornò al presente e rilesse di nuovo la lapide: Takehiko Sakamoto, 28 giugno 1888 - 30 ottobre 1980. Nessuna città di origine, nessuna dedica. Ma lei, quella donna così fragile eppure così forte che ora sussurrava una preghiera, era stata determinante nella ricerca che avevano effettuato in tutti gli archivi che riguardavano gli immigrati in città dal 1960 in avanti.

Il grosso del lavoro lo aveva fatto Saeko. Avevano coinvolto persino Reika, che conosceva i lati più nascosti della burocrazia. E avevano tirato fuori qualcosa come qualche centinaio di nomi di uomini che erano nati in quell'anno. Ovviamente, il nome che a loro interessava non c'era mai stato, fin dall'inizio. Avevano passato notti intere a studiarli, cercando di capire se qualcuno fosse stato casomai scritto in maniera non corretta o somigliasse vagamente a un nome americano.

Alla fine, si erano convinti che l'uomo aveva semplicemente scelto di cambiare appellativo e avevano dirottato su quelli giapponesi. Quando Kaori le aveva gentilmente fatto notare che così non lo avrebbero trovato comunque, lei l'aveva fissata con un lieve sorriso: "So che i nomi giapponesi, così come i cognomi, hanno un significato. Se poteste tradurlo per me lo riconoscerò, ne sono certa".

E così avevano cercato. E cercato.

E cercato.

Ed era quasi l'alba del decimo giorno quando Candice aveva lanciato un urlo così acuto che Ryo si era risvegliato dal leggero torpore che l'aveva colto, uno dei fogli ancora in mano che stava per cadere sul tappeto.

"Eh? Che c'è?!", aveva chiesto, instupidito.

Kaori si era voltata verso di lui, guardandolo intensamente: "Takehiko Sakamoto", aveva detto semplicemente e lui le aveva quasi strappato di mano l'altra lista, quella dei significati.

Aveva alzato un sopracciglio, perplesso. Ma non aveva dubbi che fossero vicini alla soluzione. D'altronde, Takehiko non voleva forse dire Principe? E Sakamoto...

"Collina vera?", aveva chiesto perplesso, dimenticandosi di parlare in inglese, tanta era la stanchezza.

La donna stava versando lacrime silenziose su quel nome e aveva bisbigliato: "Il mio Principe della Collina".

Se un giorno gli avessero detto che avrebbe aiutato una quasi novantenne a cercare il suo amore defunto, cui oltretutto dava un nomignolo simile, Ryo si sarebbe sganasciato dalle risate. Forse avrebbe persino tirato fuori la sua Python per minacciare il malcapitato di fargli saltare le cervella se si fosse di nuovo permesso di asserire mostruosità simili. O qualche altra parte del corpo non meno nobile.

Oggi, poteva dirsi orgoglioso di aver aiutato Candice White, originaria di un piccolo paesino dell'Indiana, a ritrovare  Takehiko Sakamoto, alias William Albert Ardlay, che non solo era stato l'ultimo esponente di una prestigiosa famiglia scozzese trapiantata in America circa due secoli prima, ma anche il solo uomo che avesse amato lei.

Solo che se n'era accorta troppo tardi.

"Sono stata così sciocca a non confessargli mai i miei sentimenti", aveva sussurrato con gli occhi scintillanti di lacrime, "ma ero tanto convinta che lui non mi vedesse allo stesso modo e che il mio destino fosse con quello che poi è diventato mio marito, che non ho avuto il coraggio di rovinare la nostra bella amicizia". Un sorriso amaro le era affiorato alle labbra. "Era stato persino il mio tutore, una sorta di padre adottivo e io la sua infermiera quando perse la memoria nel 'quattordici".

Ryo si sentiva la testa vuota, tanto aveva pensato. Non credeva che quella storia d'amore lo avrebbe toccato così nel profondo, muovendo le corde più vicine al suo rapporto con Kaori con tale intensità. Certo, c'erano stati avvenimenti, sottintesi e persino consigli non richiesti per loro due, ma stavolta qualcosa era cambiato.

Non sapeva se fosse per via di quegli incredibili occhi verdi, che avevano un'espressività tale da far scomparire qualsiasi altra parte del viso e del corpo gli ricordasse che quella che aveva davanti era solo una nonnina e non una bella donna giovane e formosa.

Non sapeva se fosse per la vibrazione intensa della sua voce quando parlava di quell'amore mai rivelato come se lo avesse lì davanti in quel preciso istante, facendogli vedere nettamente, attraverso le sue descrizioni mai noiose, quella famosa collina, il lago poco distante e persino l'albero su cui era solita arrampicarsi.

Lui, che aveva sempre pensato che il romanticismo fosse roba per femminucce ed era concentrato solo sul ben più tangibile "mokkori", una sera aveva smesso di ascoltare di nascosto e, con somma vergogna, aveva accettato l'invito di Kaori di unirsi a loro in salotto per partecipare più attivamente.

"Lo faccio solo perché sono sicuro che, imbranata come sei, non riusciresti a portare a termine neanche una missione semplice come quella di ritrovare un morto!". Stava per mordersi la lingua, anche se aveva parlato in giapponese e Candice non poteva averlo capito, ma lei come al solito era stata più veloce.

L'immagine di lui spiaccicato sotto al martellone da cento tonnellate aveva fatto inorridire la loro ospite che, da quel che aveva capito, era una ex infermiera. Era scattata da lui come una molla controllandogli bernoccoli e contusioni mentre lui le ripeteva, in inglese stavolta, che ci era abituato. Molto abituato.
E, mentre quella specie di uomo mancato della socia borbottava di maschi insensibili e malfidati, il tocco gentile delle mani della donna anziana lo aveva sorpreso. Aveva un che di... materno, di delicato e di attento che gli trasmise una sensazione mai provata in vita sua.

Era a metà tra la pace e la devozione, nessun disgusto o desiderio di avere invece un altro tipo di donna che lo sfiorasse in ben altri modi. Andava bene così, era come una sorta di strana magia.

"Deve stare molto attento alla testa", lo aveva ammonito quando aveva terminato il suo controllo minuzioso, "è il luogo in cui risiede il cervello!", aveva spiegato muovendo un dito con fare serio. Per poi ridacchiare divertita.

Avrebbe dovuto ridere anche lui a quella che sembrava una battuta di spirito neanche troppo arguta? In realtà era rimasto con la bocca semi aperta mentre lei spiegava a entrambi che, decenni prima, un bravissimo medico di sua conoscenza aveva detto qualcosa di simile.

Ancora una volta, il suo tono malinconico e deliziosamente concentrato gli aveva quasi fatto immaginare quello che all'apparenza sembrava un ciarlatano ma che invece si era rivelato un uomo dalle vaste conoscenze, oltre che estremamente generoso. Una specie di Professore di inizio secolo...

Una volta trovato quel nome avevano trovato anche Haru Sato, l'uomo che aveva aiutato William Ardlay a diventare Takehiko Sakamoto, cancellando tutte le sue tracce ma lasciando l'unica che una sola donna al mondo poteva ritrovare: la sua nuova identità.

Ryo incontrò di nuovo gli occhi di Kaori: gli sorrise appena e poi richiuse le palpebre. Forse stava ricordando anche lei.
 
- §-

Kaori tolse la mano dalla schiena della donna. Non stava piangendo, il suo dolore era composto e sembrava permeare quel vento gentile così come l'amore che traboccava di certo dal suo animo.

Alla sua sinistra, Ryo era fermo a fissare la lapide, le mani affondate nelle tasche. Per la prima volta da quando si conoscevano, sapeva che non doveva dire nulla: lui avrebbe atteso tutto il tempo necessario. E per questo il cuore volò nella sua direzione con le ali veloci di un colibrì.

Non aveva mai visto una tale solennità in Ryo, né immaginava potesse averla.

Nel silenzio, si era permessa di tornare con la mente al giorno prima, quando quello che era stato il caso più intenso ed emozionale fino a quel momento era giunto praticamente al termine.

Il battito del cuore aveva accelerato come se si trattasse del suo vero amore e non di quello di un'altra donna. Appena erano arrivati nella casa tradizionale poco fuori città e la fusuma aveva cominciato a scorrere, aveva sentito letteralmente l'emozione di Candice, o Candy, come amava farsi chiamare, entrare in risonanza con la propria.

Nonostante fosse una donna che sembrava temprata e controllata grazie alle esperienze di vita e all'età e piangesse raramente, aveva potuto vedere i suoi occhi brillare e le mani tremare. D'istinto, ne aveva stretta una, trasmettendole quanta più forza potesse.

L'impiegato dell'anagrafe era anche diventato amico dell'uomo ed era l'unica persona che potesse confermare l'identità di Takehiko Sakamoto in maniera inequivocabile.

Inizialmente era stato molto sospettoso, ma quando aveva visto la donna e gli avevano riferito che era americana, lo sguardo si era illuminato.
La mera verità era che l'aspettava.

Non era stato facile fare da interpreti tra Candy e Haru, cercando di cogliere tutte le sfumature della descrizione fornita dalla signora White, ma già dalle prime battute avevano compreso che l'uomo dal nome giapponese era certamente un americano, che non aveva affatto tratti orientali e che, anzi, potevano persino essere riferibili a un Paese nordico.

Come la Scozia.

Quando Candy aveva cominciato a profondersi in descrizioni sul colore degli occhi e dei capelli, inciampando su quest'ultimo perché si era resa conto che non potevano essere più biondo oro ma grigi o bianchi, Haru aveva alzato una mano ed era andato ad aprire un cassetto.

Non erano lì da neanche cinque minuti e già avevano risolto il caso: l'impiegato aveva in casa quei documenti, sottratti all'ufficio da cui era andato in pensione da qualche anno, come da richiesta del suo cliente e amico.

E il suo cliente e amico, secondo quei documenti, in origine era William Albert Ardlay, nato il 28 giugno del 1888.

Era stato un momento molto intenso, durante il quale il pianto della donna era durato più a lungo. Guardandosi negli occhi, avevano deciso in un muto accordo di lasciarla sola con i documenti e la lettera allegata, perché potesse leggerla da sola e assorbire quel ricongiungimento senza pressioni.
Quando erano tornati da lei, aveva la lettera stretta al petto, gli occhi asciutti e sembrava davvero una di quelle composte donne anziane giapponesi di un tempo, anche se era americana.

"Mister Haru... Haru-sensei", aveva iniziato, incerta su come chiamare correttamente il loro ospite. Sul suo sorriso di incoraggiamento aveva proseguito: "sarebbe così gentile da raccontarmi di lui, prima che io vada a trovarlo al suo luogo di sepoltura?".

Il tempo di tradurre per Haru ed era cominciata la storia.

E, alla fine della storia, per l'ennesima volta in poco più di dieci giorni, Kaori si era ritrovata con le lacrime agli occhi.
 
- §-
 
Nella mente di Candy si susseguirono le immagini di Albert come se fosse lì, davanti a lei, vivo e trentenne. Non un mucchio di terra e ossa a sei piedi sotto terra, ma uno spirito libero che andava in giro con la sua amata puzzola sulla spalla e un sacco di provviste sull'altra.

Un uomo che l'aveva salvata da un addio straziante a sua sorella, da una cascata e da una moltitudine di momenti difficili durante tutto l'arco della sua vita. Un uomo che lei aveva disperatamente tentato di ricambiare quando era stato più vulnerabile e che aveva scoperto essere stato l'unica costante nella sua vita: il suo Principe della Collina, il suo prozio, il suo migliore amico.

C'era stato un periodo, nei primi anni '20, in cui si erano scambiati una fitta corrispondenza e lei aveva davvero creduto, sperato, immaginato... poi, un bel giorno, Terence Graham le aveva scritto a sua volta e il mondo aveva smesso di girare.

Cosa avrebbe dovuto fare, giunta a quel bivio?

Il suo errore era stato chiederselo. Perché quando Albert era tornato con l'attore dopo uno dei suoi viaggi, portando con sé Terry, lei aveva colto un messaggio.

Il messaggio era che non solo non avrebbe mai avuto un posto come matriarca in casa Ardlay, con le sue origini, ma neanche nel cuore di Albert come donna.

Piena di rabbia, aveva accettato di mettere il suo cuore nelle mani di Terence quasi per ripicca, salvo fare una precipitosa marcia indietro prima di sposarlo. Non poteva fargli un torto simile. E non poteva farlo a se stessa.

"Lascia che ti renda felice, anche se non mi ami come prima", aveva mormorato Terence fra le lacrime, asciugando al contempo le sue. "Imparerai col tempo. Abbiamo condiviso tanto e possiamo ricominciare. Lascia che guarisca le tue ferite".

Era stata una prova d'amore cui si era arresa, aggrappandosi come se stesse affogando, nel tentativo estremo di rifuggire la solitudine. Ma avevano fatto un patto, lei e Terry: non avrebbero messo al mondo figli in un matrimonio ove i sentimenti dovevano essere ridefiniti, ridipinti, ritrovati.

Gli anni erano scivolati via e lui non le aveva chiesto nulla. Più nulla. Candy si convinceva, a ogni cambio di stagione e di calendario, che la sua scelta era stata, alfine, corretta. Il suo cuore si era placato, complice la lontananza da Albert, illudendosi di conoscere la pace.

Non avrebbe mai immaginato che rivederlo al funerale della zia Elroy avrebbe riacceso in lei una fiamma che credeva spenta da tempo, ma ardente sotto la cenere. Le era bastato cogliere il suo profilo addolorato per soccombere al desiderio di abbracciarlo, in un muto conforto.

E in quelle braccia si era finalmente sentita al posto giusto.

Ma ormai era troppo tardi e, solo ora lo capiva, il dolore che aveva scorto negli occhi celesti di Albert non era riferibile solo alla morte di sua zia. Quel dolore era la prova tangibile di una prova d'amore molto più grande di quella che le aveva riservato Terence.

Quando aveva scoperto che Albert aveva lasciato il patriarcato ed era emigrato in giro per il mondo, pur di non doverla incontrare di nuovo e fuggire da quella sofferenza, era stato anche il momento della conferma. Il momento in cui la lettera accartocciata era stata stesa tra le sue mani grazie a un ormai settantacinquenne George che, troppo stanco per continuare a seguire gli affari di famiglia assieme ad Archie e ai suoi discendenti, si era finalmente ritirato a vita privata.

Quel giorno, suo marito era in tournée con la propria compagnia teatrale e lei aveva letto sui giornali una notizia che le aveva mozzato il respiro in gola: "L'ex patriarca degli Ardlay trovato morto in Africa?".

Era stato quel punto interrogativo alla fine della frase a farle riprendere ossigeno. Quell'ossigeno che temeva di aver esaurito nei polmoni per un lungo minuto. Senza pensarci due volte, si era precipitata da George, supplicandolo di dirle cosa sapesse, quali fossero le ultime notizie su Albert. Anche se non si vedevano più da anni e avevano smesso di scriversi, lei seguiva i suoi movimenti grazie ai giornali e ogni volta pregava per la sua felicità.

Ma, purtroppo, George le aveva confermato di aver perso le sue tracce: "Non era un anno sabbatico, signora Candy, il signorino William se n'è andato... ha rinunciato al suo nome e mi ha chiesto solo di accertarmi che lei fosse sempre felice".

le lacrime le erano salite agli occhi, tutto quello che aveva con tutte le proprie forze tentato di cacciare nell'angolo più profondo del suo animo era tornato in superficie con una tale forza che l'uomo si era sentito in dovere di dirle la verità solo all'accenno di un'unica, semplice domanda: "Perché?".

Albert non era fuggito dalla famiglia solo per tornare ad essere uno spirito libero come desiderava, in quel caso avrebbe presentato ufficialmente Archie come suo successore, cosa che non era avvenuta. Invece era letteralmente fuggito dalla sua vecchia vita.

George era un brav'uomo e sapeva che lei era sposata con Terence Graham. Lo aveva visto combattere contro se stesso in maniera più che evidente, mentre lei lo tempestava di domande, piangendo disperata. Alla fine aveva tirato fuori da un cassetto quella che sembrava una reliquia.

La mano gli tremava e i suoi occhi stanchi sembravano lucidi, mentre le porgeva il foglio ingiallito e stropicciato: "Alle volte, nella vita, abbiamo strani impulsi. Il giorno in cui il signor William se n'è andato lasciandomi un messaggio con le sue volontà e ben poche spiegazioni, mi sono messo a fare quello che immagino facciano gli investigatori quando tentano di risolvere un caso. Ho frugato nel cestino della carta straccia, qualcosa che non mi sarei mai sognato di fare nemmeno in un milione di anni, specie in un momento delicato come quello. Ma c'erano dei fogli che erano stati gettati via e io volevo capire. Avevo bisogno di capire, proprio come lei ora".

Candy non aveva atteso oltre e aveva letto la lettera mai consegnata tutta d'un fiato, la presenza di George silenziosa e discreta al suo fianco.

Carissima Candy,
non so perché ti sto scrivendo questa lettera. La verità è che non dovrei farlo. Non dovrei permettere ai miei veri sentimenti di venire in superficie e scalfire la mia facciata al mondo esterno, tantomeno dovrei permettere alla mia mano di vergarli su un foglio, rendendoli indelebili. Ma lo sto facendo perché ne ho bisogno per sentirmi più leggero, per lenire anche solo un poco questo dolore che mi porto dentro da troppi anni e che mi sta avvelenando lentamente.
Io ti amo, Candy, ti amo da tanti anni, forse fin da quando ti ho conosciuta che eri solo una bambina. Oh, certo, è iniziato tutto come un affetto paterno, poi fraterno, ma mi è bastato incontrarti a Londra mentre studiavi alla Saint Paul School per comprendere che stavi diventando una donna con la quale cominciavo a desiderare di condividere la mia vita.
Allora sono fuggito in Africa, solo per ritrovarti e innamorarmi di nuovo di te anche se non ricordavo il mio passato. E, quando finalmente ho ritrovato me stesso, mi sono imposto di renderti felice.
C'è stato un tempo, quando ci scrivevamo durante i miei viaggi, in cui ho osato sperare... ma mi sono dato dell'idiota. Io ero tuo amico, tu stavi andando avanti con la tua vita ma non era di me che avevi bisogno. L'ho capito quando sono tornato da Pittsburg con Terence, che era lì per lavoro e mi chiedeva di te.
E ti chiedo perdono, perché ho sperato di nuovo. Per qualche giorno ho quasi pregato che tu lo rifiutassi per scegliere me. Me! Il tuo ex tutore! Quando avete deciso di sposarvi pensavo che non mi sarei mai più ripreso, ma il solo fatto di saperti felice mi compensava di tutte le sofferenze, delle lacrime versate e di quelle non versate, nonché della solitudine che ho scelto.
Oggi non riesco più a fingere. La famiglia Ardlay non ha più discendenti, quindi la affido ad Archie e io fuggo di nuovo.
Ma stavolta per sempre. Per ritrovare, lontano da te, il me stesso vagabondo che soffocava negli impegni di famiglia e che anelava solo la libertà.
Più di una volta mi sono ritrovato ad alzare la cornetta di un telefono, a scrivere lettere come questa. Diamine, una notte mi sono messo in macchina e ho guidato come un pazzo quasi fino a casa tua, prima di ricordarmi che appartenevi a Terence e non a me. Che amavi lui e non me.
Ho pianto, ho urlato miseramente, battendo i pugni come un ragazzino impazzito nell'abitacolo della mia auto. Poi ho cercato di riprendere il controllo.
E ho capito che non potevo rimanere nella tua stessa città, nel tuo stesso continente. Dovevo cessare di esistere.
Ed è quello che sto facendo oggi. È come se mi togliessi la vita rimanendo vivo. Il mondo è grande e io mi confonderò tra la folla di Paesi lontani. Mi disperderò sperando che il mio cuore trovi la pace.
Forse, in un'altra vita, la nostra storia andrà diversamente. Ma non in questa. Sorridi sempre, piccola Candy. Ti amo, ti amerò fino all'ultimo respiro.

William Albert Ardlay

Quando aveva finito di leggere la lettera, Candy aveva emesso un urlo di dolore così straziante che di certo George aveva pensato che le si stesse strappando l'anima. Doveva essere molto simile a quello che aveva scosso Albert quella notte, in auto.

Era rimasta a casa sua per due giorni, con la febbre, quasi in preda al delirio, ripetendo la stessa domanda all'infinito: "Perché? Sarebbe bastato che mi parlassi o che io parlassi con te e saremmo potuti essere felici. Perché?!".

Ma Albert non le aveva risposto, non poteva più farlo, ovunque si trovasse, chissà dove nel mondo, né poteva farlo George.

Quando Terry era tornato aveva capito subito cosa fosse accaduto e aveva lasciato uscire tutta la sua rabbia. Aveva pianto. Aveva preso a pugni il muro. Aveva compreso che non avrebbe mai avuto il suo cuore e lei aveva tentato di consolare lui e se stessa da quell'ingiustizia che li affliggeva.

Il divorzio era stato un passo triste ma necessario e aveva fatto giustizia, almeno fra loro.

La sua ricerca di Albert era partita quasi subito, e aveva viaggiato finché non aveva più potuto sottoporre le sue vecchie ossa e il suo cuore affaticato a tanto strapazzo. Aveva cercato ovunque, persino in quell'Africa dove era stato trovato un corpo senza nome che si era rivelato essere un altro uomo sfortunato proveniente dalla Norvegia.

Aveva continuato a cercare, cogliendo i suggerimenti più nascosti nei racconti di George fino al giorno in cui  anche lui si era addormentato per sempre, tranciando di netto l'ultimo collegamento tra lei e Albert. Allora aveva letto e riletto documenti, appunti, pile di libri sui quali la sua calligrafia aveva preso annotazioni.

Aveva visto morire tutti i suoi cari e le ultime parole di Annie per lei erano state: "Lasciati andare, Candy, non lottare più. Riposa. Lui verrà da te nella prossima vita".

"Devo riportarlo a casa", aveva mormorato dando l'addio definitivo a quella che era stata come una sorella.

Aveva raccolto le ultime energie grazie a una vecchia enciclopedia sul Giappone che Albert teneva in soffitta, nella villa di Chicago, ora abitata dai discendenti di Annie e Archie. Non era stato che un altro segno di punteggiatura, un punto esclamativo per l'esattezza, e Albert lo aveva vergato accanto al Monte Fuji. Poco sotto, aveva scritto una frase che aveva accarezzato a lungo, con le lacrime che le riempivano gli occhi e le offuscavano la vista. Una frase così tanto da Albert che poteva quasi sentirne il profumo fresco e maschile: "Cose da fare nella prossima vita". C'erano immagini delle campagne giapponesi, di graziosi rifugi fra le terme e di scorci talmente belli che non aveva dubitato neanche un secondo che fossero tra le sue preferenze.

Aveva chiesto alla sua governante sola e quarantenne se le andasse di fare una vacanza insieme in un Paese lontano e lei inizialmente non aveva capito.
Poi aveva sorriso, acconsentendo ad accompagnarla con entusiasmo. Victoria era una donna energica e l'avrebbe sostenuta, fisicamente e psicologicamente, inoltre era sua amica da anni e conosceva la sua storia.

Era stata lei, una volta giunti a Tokyo, a suggerire di contattare un investigatore privato per velocizzare la ricerca ed era stata lei a trovarlo. Il nome tipicamente americano di City Hunter le aveva trasmesso una sensazione di sicurezza e quei due giovani che l'avevano accolta alla stazione sembravano davvero in gamba, anche se decisamente sopra le righe.

Erano bastati alcuni giorni di strenua ricerca per trovarlo.

Albert, ora, era lì davanti a lei e si era abilmente nascosto fino a quel momento impedendo a George di trovarlo, finché lo aveva smesso di cercare. E poteva immaginarlo, chino a prendere appunti e a ricordare i suoi sogni, mentre decideva dove andare e come farlo. Probabilmente aveva vagato in chissà quali Paesi prima di fermarsi, anche lui troppo anziano per decidere di proseguire.

Ed era stato con colpevole ritardo che, alla fine, lo aveva trovato.

Col supporto di George lo aveva sempre cercato con il suo nome, partendo dall'America Latina, seguendo tracce inutili per quasi dieci anni. Poi si era spostata in Scozia, sperando che le notizie negative che ricevevano da lontano fossero false e che, invece, fosse lì da qualche parte. Si trovava ad Edimburgo quando le era arrivata la telefonata che le annunciava che George era morto, lasciandole un messaggio.

Era rientrata precipitosamente, sperando di avere notizie sulle quali basare quella che era diventata una specie di corsa contro il tempo, senza quasi avere il tempo per piangere quell'amico così caro che una volta aveva soprannominato Cavaliere Bianco.

Lo lasci andare, potrebbe essere chiunque, sperso nel mondo. Trovi anche lei la sua felicità, come ha sempre voluto lui.

Aveva odiato quella semplice nota e aveva pianto per giorni e per notti intere. Per settimane. Per mesi. E i mesi erano diventati anni. Candy si era ripetuta che non aveva rinunciato, ma viveva nella costante ricerca, studiando ogni minima notizia dai giornali o dalla radio. Persino Terence, che un giorno si era presentato alla sua porta per sapere come stava, aveva contribuito a modo suo.

Ma non lo avevano trovato e Terry se n'era andato mentre lei si chiedeva se la sua ferita fosse rimarginata. Non glielo aveva mai domandato direttamente.
Per la prima volta in vita sua, Candy era stata egoista.

Il suo pensiero fisso era Albert e lo sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni. Anche se idealmente lo stava ancora cercando, alla fine aveva dato retta a George e aveva rinunciato.

E quell'enciclopedia polverosa, con quell'ultima traccia così nascosta, era stata una scintilla tardiva. Troppo tardiva.

Nel 1987, ora che lei era quasi novantenne, Albert sarebbe stato un centenario. Non che lo ritenesse impossibile, temprato com'era alle avversità, ma era davvero una speranza troppo flebile.

E la lapide davanti ai suoi occhi, assieme ai documenti che avevano lasciato in macchina ne erano la triste conferma. Albert, il suo Albert, il Principe della Collina che l'aveva fatta ridere, dicendole che era più carina quando rideva che quando piangeva, era morto sette anni prima.

Solo sette anni.

Se solo fosse stata più veloce. Se solo avesse trovato prima quel libro in soffitta. Se solo...

Di lui le rimaneva solamente quella breve lettera, quasi un ultimo addio:

Se stai leggendo queste righe vuol dire che mi hai trovato. E se mi hai trovato... forse mi hai amato più di quanto avessi mai osato sperare. Io ti ho amato, ti amo e ti amerò per sempre, anche quando il mio respiro cesserà e i miei occhi non vedranno più. Nei miei sogni, tu ed io torniamo a casa insieme.
Tuo Albert.

Candy chiuse gli occhi, prendendo un respiro tremulo, sentendo la presenza silenziosa di Kaori e Ryo accanto a lei e lasciò cadere un'ultima lacrima sul terreno, come se volesse avvisarlo con quella stilla che l'indomani sarebbe cominciato il loro viaggio di ritorno.

Dopo quasi sessant'anni, sarebbero finalmente tornati a Lakewood insieme.
 
- §-
 
Kaori guardava l'aereo allontanarsi provando una fitta al cuore.

Ci era voluto un solo giorno perché i resti di William Albert Ardlay fossero esumati e riposti un un'urna cineraria che ora viaggiava assieme alla donna che aveva amato.

Finalmente tra le sue braccia.

Quel pensiero, così crudo eppure colmo di significato, la fece scoppiare a piangere e dovette nascondere il viso fra le mani, singhiozzando piano.
Aveva vissuto la storia di quella donna come fosse sulla propria pelle. Aveva ricordato il suo caro fratello Hideyuki assieme a lei. E aveva soprattutto avvertito quell'amore, quel sentimento così forte da trascendere il tempo e persino la morte.

E quella storia d'amore, così intensa e sfortunata, aveva potuto vederla anche con gli occhi di lui, che a detta di Candy erano chiari come il cielo primaverile.

Haru Sato aveva parlato loro di un uomo settantenne che si era presentato al suo ufficio pretendendo di diventare giapponese. E lui aveva riso, in maniera composta ma palese: come pretendeva, un uomo dai chiari lineamenti occidentali, di cambiare identità?

"Ha mai sentito parlare di matrimoni misti e di figli che prendono i tratti somatici solo da uno dei due genitori? Io sì...". Ed era bastata quella semplice frase, detta con signorilità e cortesia nonostante la chiara nota ironica, a convincerlo.

Sato pensava di avere a che fare con uno di quei johatsu che volevano semplicemente evaporare dal mondo, come suggeriva la parola. E non aveva avuto tutti i torti. Mentre Candy ascoltava avidamente, con le mani strette in grembo in una posa che a Kaori indicava sofferenza ma anche gioia nel conoscere gli ultimi anni della vita dell'uomo che amava, Sato aveva spiegato loro che alla fine i due avevano semplicemente fatto amicizia.

Takehiko Sakamoto si era ritirato poco fuori Tokyo, nello stesso quartiere dove viveva lui e avevano scoperto di avere in comune la passione per le escursioni nella natura.

Era stato proprio durante una di queste, sul monte Fuji, alla fine di una scalata che a lui era costata un fiatone monumentale e a Takehiko, più vecchio di oltre dieci anni, sembrava non nuocere minimamente, che glielo aveva chiesto.

"Non ti sei mai sposato?".

Secondo il suo racconto, lui era stato in silenzio per lunghi istanti, serrando tanto la mascella e contraendo talmente le sopracciglia che aveva pensato di aver fatto la domanda sbagliata. O di non aver usato il termine corretto in inglese, che era la lingua nella quale anche loro comunicavano.

"No", aveva detto infine. "Ma non racconterò a te la mia storia. La racconterò alla natura che si apre maestosa qui, ai miei piedi. A quelle valli verdi, punteggiate di alberi centenari. A quello specchio d'acqua che tanto mi ricorda il lago Michigan. E a tutti gli animali che hanno la fortuna di vivere in questi luoghi meravigliosi".

Quelle frasi, ripetute quasi a memoria e recitate con passione dal suo solitamente rozzo socio in una puntuale traduzione, avevano fatto sorridere e piangere Candice: "Sì, lui avrebbe detto proprio così. Amava la natura. Era parte di essa. Era il suo posto nel mondo".

Man mano che Haru Sato proseguiva nel racconto e che si avvicinava alla fine, a tutti era stata chiara una sola cosa: Takehiko Sakamoto, o Albert, come lo chiamava Candy, era un uomo riservato e solitario che accettava volentieri di confidarsi con un amico col quale condivideva la sua passione, ma che la sera rincasava tranquillo.

Come se avesse finalmente trovato la pace.

"In realtà mi sbagliavo, e di grosso", aveva confessato con voce commossa. "Quando il suo cuore ha ceduto la prima volta, mi ha supplicato di prendere con me questi documenti perché, parole sue, sapeva che Candy un giorno sarebbe venuta a cercarlo e avrebbe riconosciuto il suo nome. Non lo avevo mai visto così... appassionato, quasi disperato, neanche quando mi ha raccontato la sua storia. Sapeva di avere poco tempo".

E, infatti, la seconda volta era stata quella fatale.

Il suo vecchio cuore di novantadue anni non ce l'aveva fatta ad attenderla oltre e si era arreso alla pace dopo una vita intensa.

"Ehi, Kaori!". Ryo la stava abbracciando e lei non se ne'era quasi accorta. Singhiozzava più forte contro il suo petto e non riusciva proprio a smettere.
"Scusami, Ryo... io lo sento. Sento il dolore di quell'uomo che è morto lontano dal suo Paese e dalla donna che amava! Sento il dolore di Candice e... non posso fare a meno di...".

"Lo so. Lo sento anche io, quel dolore", disse Ryo stringendola più forte e facendola smettere di colpo, tanto era lo stupore. "Candice è riuscita a toccare i nostri cuori attraverso i suoi racconti ed è riuscita ad arrivare persino al mio. Attualmente, al mondo, c'è solo un'altra donna che ha avuto la stessa fortuna".

Kaori spalancò gli occhi e alzò la testa per guardarlo. Ora, le parole che Candy le aveva mormorato poco prima d'imbarcarsi avevano senso.

"Non smettere mai di sognare. E di sorridere...".
- §-
 
Victoria si strinse addosso il cappotto mentre l'aria gelida del tardo autunno cercava di penetrarle nelle ossa.

Aveva adempiuto al suo dovere e ora poteva lasciare il mausoleo, tornare a Chicago e... fare cosa, di preciso?

Aveva servito la signora Candice fin da quando era sposata ed era rimasta con lei anche dopo il divorzio, diventando sua amica e confidente. L'aveva seguita fin nell'estremo Oriente per ritrovare le spoglie mortali dell'uomo che aveva amato tutta la vita e ora che finalmente si era ricongiunta a lui era come se avesse terminato la sua missione.

Li aveva fatti tumulare vicini, assieme agli altri Ardlay, ma le loro foto erano quelle che toccavano maggiormente il cuore perché sembrava proprio che si stessero fissando, pur se fatte in momenti diversi.

Chissà che non fosse proprio così, magari ora si tenevano la mano in Paradiso e le loro anime avevano trovato la pace. Lo sperò, pregò che fosse così, perché si era affezionata a quella donnina piccola e gentile che celava con coraggio una grande sofferenza, un segreto così dolce e così amaro al contempo.

Mentre si allontanava dal mausoleo si guardò indietro solo un'ultima volta, mormorando un addio commosso e immaginando, ancora una volta, Candy e Albert finalmente uniti.
 
 
 
   
 
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