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Autore: Koa__    19/04/2021    2 recensioni
Dopo che gli angeli hanno cancellato la memoria di Clary, Jace si ritrova a camminare per un sentiero oscuro fatto di dolore. Questo, oltre alla rabbia che prova per il compatimento che legge sul volto degli altri, lo portano a gettarsi a capofitto nel lavoro. Alec, a un mese e mezzo dal matrimonio, vive invece una vita felice accanto a suo marito. Nonostante percepisca la sofferenza di Jace e si sia convinto di stargli vicino, dentro di sé sa di non star facendo abbastanza per il suo Parabatai. Una sera, prima di addormentarsi, entrambi esprimono un desiderio all’angelo. Jace vorrebbe avere una vita perfetta come quella di Alec mentre quest’ultimo vorrebbe stare più vicino a suo fratello e si sente in colpa per esser stato così lontano nelle ultime settimane. Il mattino successivo, Jace e Alec si risvegliano l’uno nel corpo dell’altro senza sapere come ci siano finiti. Inizia così un’indagine segreta alla ricerca di chi può aver mai fatto loro un simile tiro mancino, che li porterà a scavare dentro loro stessi.
Genere: Angst, Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Simon Lewis
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I’ll Always Be Your Parabatai







 

 
 
 


 






 

Stammi più vicino (Vorrei essere te)


 




 

"Giurami di non lasciarti o di non tornare dopo di te,
perché dovunque andrai io andrò,
e dove alloggerai, alloggerò.
Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il mio Dio.
Dove morirai io morirò e lì sarò sepolto.
L'Angelo fa così a me, e anche di più,
se non altro che la morte separa te e me."






 

Era passato un mese e mezzo da quando gli angeli avevano cancellato la memoria di Clary, come punizione per aver abusato delle sue rune. Quarantacinque orribili giorni vissuti nella consapevolezza che, all’istituto di New York, un pezzo importante fosse venuto a mancare. Da allora, Jace Herondale aveva perso l’amore della sua vita e niente aveva avuto più senso. Non era soltanto perché la donna che amava gli era stata portava via, ma perché gli pareva di aver combattuto contro Valentine, Jonathan e poi anche Lilith, per nulla. Naturalmente sapeva che uccidendoli avevano salvato delle vite, ed era felice per questo, ma era come se tutti quanti avessero avuto il loro lieto fine tranne lui e Clary. Chiunque all’istituto non faceva che ripetergli che il tempo avrebbe lenito il dolore o che avrebbe dovuto avere speranza, perché gli angeli possono anche perdonare. Solitamente, dopo avergli detto simili banalità, la gente gli concedeva un’occhiata carica di compatimento e quindi se ne andava, non prima di avergli dato una sonora pacca sulla spalla. Jace, ammutolendosi in un’espressione ruvida e fingendo al contempo che la pietà altrui non lo sfiorasse minimamente, si ritrovava quindi a convincersi che la sua vita non potesse che migliorare. Poiché era difficile scendere più in basso di come stava. Ma quegli sprazzi di ottimismo duravano ben poco perché subito si rendeva conto che più i giorni passavano, più si sentiva cadere in un buco nero. Buttarsi nel lavoro, trascorrendo ogni notte di ronda, dormendo qualche ora al mattino e abusando della propria runa della resistenza, unicamente per non stare un secondo di più in quella dannata camera da letto senza di lei, non era servito a granché. Sembrava infatti che uccidere demoni non migliorasse poi così tanto l’umore e che venir ricoperti di muco verdastro, come gli era accaduto la sera precedente, aveva addirittura il potere di farti diventare apatico nei confronti di qualunque cosa. Il mattino seguente a quello sfortunato combattimento, di ritorno all’istituto col giubbotto di pelle appiccicaticcio e i capelli in uno stato pietoso, Jace aveva lasciato l’arma impregnata di sangue demoniaco in armeria, dichiarando a un’attonita Izzy che quella sarebbe stata l’ultima ronda notturna faceva. Perciò non aveva avuto nulla da obiettare quando, la sera stessa, Alec gli aveva ordinato di andarsene a dormire. Quindi, il suo Parabatai gli aveva dato una pacca sulla spalla e lo aveva spedito a letto con la promessa che avrebbero cenano prestissimo insieme. Per parlare, aveva anche aggiunto. Di Clary, ma questo Alec non glielo aveva detto e Jace non aveva ritenuto necessario domandare. Non serviva, Alec era il suo Parabatai e poteva sentire chiaramente la preoccupazione che provava per lui, così come percepire il desiderio di stargli vicino dalle pieghe incerte della voce, oltre che nell’espressione amareggiata che aveva addosso. Anche Alec sentiva la mancanza di Clary e Jace lo sapeva per certo, ma doveva essere ben più in ansia per lui che per lei. In effetti, da che se n’era andata non ne avevano parlato e non perché Jace volesse tenersi tutto dentro, ma perché non c’era davvero niente da dire. Gli angeli le avevano cancellato la memoria e la sua amata stava vivendo una vita lontana dai demoni, a studiare arte come una qualunque mondana. Forse era meglio così, pensò ricordando a quando, in un moto di egoismo, aveva detto proprio ad Alec che avrebbe fatto l’impossibile pur di tenere con sé la persona amata. Dov’era finito quel Jace? Il valoroso Shadowhunter pronto a battersi contro tutto e tutti pur di non perdere chi amava? Possibile che si fosse già arreso? Sì, era così e se ne vergognava perché Clary se n’era andata e lui non aveva fatto niente per cambiare le cose. 
«Non si può contrastare il volere degli angeli» gli aveva detto Maryse tempo prima, nel tentativo di smorzare sul nascere qualsiasi azione avventata. Frase che Jace ripeteva a se stesso le volte in cui sentiva la tentazione di invocarne uno per domandargli di farla tornare indietro.

 

Non c’era nulla che potesse fare tranne che pregare, si disse quella sera dopo esser rientrato in camera lasciandosi cadere sul letto a peso morto. Doveva solamente aspettare che il dolore più acuto passasse e per farlo era certissimo che non avrebbe dovuto essere solo. Eppure, invece che aprire la porta e cercare Izzy o Alec, rimase immobile a fissare il vuoto. Accidenti, persino Simon gli sarebbe andato bene per una bevuta! Perché non chiedeva loro aiuto? Orgoglio, probabilmente e anche un bel po’ di fastidio, perché le volte in cui ci aveva provato gli era sembrato che volessero compatirlo. E Jace odiava quando le persone si comportavano in quel modo con lui, lo facevano sentire stupido. Ciò che voleva davvero era fare il proprio lavoro nel migliore dei modi e assicurarsi che Clary stesse bene, cosa che faceva monitorandola da lontano. Vederla attraverso gli schermi dell'istituto a poco serviva, probabilmente avrebbe dovuto raggiungerla tenendosi a una certa distanza, ma non si azzardava a fare quel passettino in più. Forse perché temeva gli angeli o, più probabilmente, per via della forte paura di non riuscire a controllare l’impulso di raggiungerla e baciarla. Sapeva che era sbagliato e che spiare i suoi sorrisi lo faceva sentire persino peggio, ma non riusciva davvero a trattenersi. Dolore e solitudine si erano così radicati dentro di lui, che non aveva idea di come avrebbe fatto a vivere anche solo un altro giorno in un simile stato d’animo. Anche quella sera, chiudendo gli occhi nella sua stanza all’istituto, mollemente rilasciato tra i cuscini, Jace faticò a sedare una fitta al petto che quasi gli mozzò il respiro. Si sentiva solo e questo era parte del problema: Alec si era trasferito da Magnus, Izzy passava la maggior parte del proprio tempo libero con Simon e persino Maryse usciva con Luke. Sembrava che la sua famiglia si fosse disgregata e lui fosse tornato il ragazzino di un tempo, lo stesso che guardava il volo di un falco con la speranza che questo tornasse indietro. Questa volta però non sarebbe successo. Questa volta era solo coi propri demoni da combattere. A differenza del passato, però, ora non voleva imbracciare le armi. Al contrario, sperava che quello fosse soltanto un incubo. Ciò che desiderava per davvero era avere una vita felice e perfetta come quella di Alec. Oh, sarebbe stato così bello essere come lui anche solo per un giorno…


 

Jace non aveva idea di quello che sarebbe accaduto in quella prima notte di sonno dopo quarantacinque notti in giro per la città. Non lo sapeva e, probabilmente, nonostante tutto quello che avevano vissuto nell’ultimo periodo, se qualcuno gliel’avesse raccontato neanche ci avrebbe creduto. Alec, dal canto proprio e pur vivendo con uno stregone, lo avrebbe ritenuto impossibile perché sapeva che per certe cose occorre formulare un incantesimo e nessuno di loro aveva pronunciato alcunché. Al contrario, mentre Jace aveva trovato un temporaneo riparo in un sonno ristoratore, Alec si era addormentato tra le braccia di Magnus come faceva ogni sera. Si erano sposati da poco più di un mese, quarantacinque meravigliosi giorni di matrimonio, per la precisione. Dieci dei quali trascorsi su di un’isola tropicale, a fare davvero niente se non baciarsi e prendere il sole. Tornare al lavoro era stato abbastanza traumatico, soprattutto quando si era reso conto, un mattino verso le sette e mezza, di doversi vestire per andare a lavorare. Ecco, quello gli era piaciuto davvero poco perché avrebbe tanto voluto stare ancora accanto a Magnus, che comunque aveva i suoi clienti da vedere. Non che la sua presenza fosse strettamente necessaria, comunque. Con la morte di Jonathan e la chiusura del portale da Edom, la situazione a New York era tornata a essere sotto controllo, ciò che aveva dovuto affrontare l’istituto in quei giorni di assenza faceva parte della normale amministrazione: demoni, covi di vampiri… Niente che Izzy non potesse gestire da sé. Già, per l’istituto, Alec non si era mai davvero preoccupato. Non quanto lo era tuttora per Jace.


 

Clary mancava a tutti, questo era chiaro. Lui e Magnus ne avevano parlato a fondo, sostenendo entrambi che un giorno gli angeli l’avrebbero perdonata. Forse quella era più una speranza che una ferma convinzione, ma nessuno dei due aveva avuto il coraggio di ammetterlo. E sebbene non leggesse che compatimento tra le espressioni di Magnus, Alec aveva finto di credere che fosse vero. Sapevano che Clary stava vivendo al sicuro una vita da mondana, lontana dai pericoli che qualunque Shadowhunter correva e questo era il solo pensiero consolante che si ritrovavano a fare, poi in Alec cresceva la consapevolezza che il suo Parabatai non sarebbe mai stato più felice, e allora il suo stato d’animo mutava. Già, Jace era il pensiero costante e tormentato di Alec Lightwood in quel periodo di immensa felicità. Percepiva il suo dolore come un qualcosa di sordo che marcisce in sottofondo e non accenna a diminuire, sentiva la sua rabbia e il bruciante desiderio di fare qualcosa che gli facesse dimenticare la propria sofferenza. Gli era anche stato vicino, ma tra il ruolo di direttore dell’istituto e il matrimonio, probabilmente non aveva fatto abbastanza. Jace, nonostante le apparenze, non era quel tipo di persona che viene spesso e volentieri a parlarti dei suoi problemi. Alec avrebbe dovuto prenderlo, metterlo davanti a una birra e obbligarlo ad aprirsi con lui. Era certissimo che l’immagine di Clary lo tormentasse e che bruciasse dal desiderio di vederla, ma sembrava che facesse di tutto pur di evitare l’argomento.


«Quando si sentirà pronto per parlare, verrà da te, fiorellino» gli aveva ricordato Magnus quella sera quando, a letto, lo aveva abbracciato stretto e poi baciato sulla punta del naso. Alec aveva chiuso gli occhi e si era lasciato cullare dolcemente. Appoggiare la testa sul suo petto e inebriarsi di quella fragranza al legno di sandalo, era incredibilmente appagante.
«Mi sento in colpa» aveva quindi ammesso, senza smettere di lasciarsi coccolare «io sono qui con te mentre lui è disperato. Sento la sofferenza e la rabbia che prova e io, per quanto mi sia convinto per giorni del contrario, non gli sono stato vicino come credevo di star facendo.»

«Cucciolo, ci siamo sposati, c’è stata la luna di miele e poi il trasloco. Quelli del Clave ancora non sembrano del tutto convinti che sposare uno stregone sia stata una bella cosa per uno dei loro e più di uno Shadowhunter mi guarda come se fossi un intruso che ha deviato il povero Alec Lightwood. Non è stato un periodo facile per nessuno, non essere troppo duro con te stesso.» E Alec ci aveva provato davvero. Aveva tentato di convincersi d’aver fatto il possibile per il suo Parabatai, ma invece che ammettere che Magnus aveva ragione, si ripeté che avrebbe tanto voluto stare insieme a Jace. Perché, per quanto fossero legati dalla runa e facesse l’impossibile pur di trasmettergli serenità, sentiva di non condividere abbastanza il suo dolore. Fu questo l’ultimo pensiero coerente che fece prima di addormentarsi. Anche il suo, così come quello di Jace, fu un profondo sonno i cui sogni lo portarono nel passato. Aveva visto se stesso e poi anche Jace, ad allenarsi l’uno contro l’altro e poi a combattere insieme, percependo distintamente la forza crescere in lui. Aveva rivissuto, in quel viaggio onirico, il giuramento fatto nel rituale per diventare Parabatai e a quel punto le immagini si erano mescolate, divenendo un groviglio indefinito di sensazioni che, al risveglio, lo avevano lasciato spossato. Non fu però quanto aveva sognato a sconvolgerlo né l’intensità del dolore che sentiva e che certamente proveniva da Jace, quanto il fatto che Magnus non era al suo fianco e che non si trovava più nell’attico di Brooklyn.



«Ma che cavolo...» biascicò, guardandosi attorno spaesato. Come aveva fatto ad arrivare sin lì? L’ultima cosa che ricordava era di essersi addormentato tra le braccia di suo marito, mentre ora? Non dormiva più in istituto da prima del matrimonio e inoltre quella non era la stanza che aveva occupato per anni, ma era invece quella di Jace. 
«Magnus?» provò a chiamare, ma la sua domanda cadde nel vuoto. «Jace? Jace, sei qui? Izzy? C’è nessuno? Che ne so… Simon?» Si azzardò a chiedere, sebbene sapesse che il diurno non rimaneva mai da quelle parti per la notte e che era invece Izzy ad andare nel suo appartamento. Quando Alec smise di chiamare e iniziò a guardarsi attorno, si rese conto di essere solo là dentro. Deciso a capire cosa stesse succedendo, si alzò dal letto di Jace dentro al quale doveva aver dormito per parecchio, perché era accaldato e… Bah, in effetti si sentiva davvero strano. Magnus gli avrebbe sicuramente detto che aveva bisogno di una buona dose di sesso mattutino per riprendersi da una simile confusione. Alec però non era del tutto sicuro che una scopata con suo marito potesse far svanire quella strana sensazione che aveva addosso. Aveva i muscoli a pezzi, il collo dolente e poi, mh, era lui a essersi rimpicciolito o il mondo si era ingrandito? Perché aveva la netta impressione di star guardando le cose da una prospettiva diversa. Probabilmente sarebbe rimasto delle ore lì a girare per la stanza senza capire, se non fosse passato davanti a uno specchio e non si fosse reso conto che la propria immagine non era la propria. Era Jace! Era lui, ma il corpo era quello del suo Parabatai. E non c’era alcun dubbio su quello che era successo: c’era stato uno scambio.
«Merda!» mormorò, parlando fra sé, prima di lasciarsi cadere sul letto intanto che cercava il cellulare. Dove diavolo lo teneva? Perché se si trovava in questa situazione era per colpa sua, lo sapeva. Così come non gli ci volle molto per capire che, se lui era lì all’istituto, allora il proprio Parabatai era nel suo corpo, a letto con suo marito. Per l’angelo, che casino!


 

Jace non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva dormito così bene. Forse era stato merito delle cinque birre che si era scolato all’Hunter’s Moon o magari di quella strana fragranza al legno di sandalo che percepiva nell’aria; da dove proveniva? Era un profumo così rilassante e piacevole... Izzy doveva aver acceso una candela profumata nella sua stanza, ultimamente diceva che facevano bene all’animo, il che era ridicolo perché Isabelle non era mai stata amante di simili rimedi. Eppure, qualsiasi cosa fosse, lo faceva sentire in pace con se stesso. Era come quando Clary era ancora con lui e si svegliavano a letto insieme, abbracciati, decidendo di rimanerci per l’intera mattinata fra chiacchiere e sesso. Era la stessa identica situazione. Anzi, aveva anche addosso una sensazione non meglio definita e non si riferiva alla vaga impressione di essere osservato, ma al fatto che i dolori che aveva da giorni al collo e alla schiena, colpa di uno scontro con un vampiro, erano del tutto spariti. Dubitava che la birra avesse simili poteri e non aveva usato la runa della guarigione, ma magari stava così perché non dormiva per un’intera notte da settimane. Sì, doveva essere per questo che ora stava così bene.
«Buongiorno, cucciolo!»
«Gior...» Aspetta, cosa? Era la voce di Magnus quella che aveva sentito? Ma magari se l’era soltanto immaginata o forse stava ancora dormendo, d’altra parte neanche aveva aperto gli occhi! Sì, era senz’altro un sogno. Certo molto realistico.
«A che ora inizi a lavorare, cucciolo?» Cucciolo? Da quando Magnus lo chiamava in quel modo? All’inizio per lui era solo: “Ehi, tu, Shadowhunter” e poi era diventato Jace. Clary la chiamava “Biscottino” ed era certo di aver sentito epiteti del genere anche per sua sorella o per quella piccola streghetta che ogni tanto lui e Alec avevano attorno, ma di certo non usava dei vezzeggiativi per lui.
«Una scopata e poi qualche waffle? O preferisci crépes e un pompino?»
«Ma che accidenti stai dicendo? Sei forse impazzito?» sbottò, tirandosi immediatamente a sedere e scansandolo in maniera rude. Aspetta, cosa? O Dio, era a letto con Magnus! Erano a letto insieme per davvero e quella era casa sua e di Alec. Oh, cazzo! Va bene che aveva bevuto, ma di certo non così tanto da essere chiamato “Cucciolo” da Magnus Bane e soprattutto non tanto da andarci a letto, questo no, non era così disperato. E ora come gliel’avrebbe spiegato ad Alec che si era scopato suo marito? Perché lo avevano fatto, vero? No, era impossibile! E non soltanto perché amava Clary o per quel microscopico del dettaglio sull’essere etero, ma soprattutto perché non avrebbe mai tradito il suo Parabatai. E poi Magnus non ci pensava neanche ad andare a letto con un altro, e soprattutto non con lui. Quindi che accidenti era successo?
«C-che ci faccio qui?» balbettò guardandosi attorno mentre Magnus, dall’altro lato del materasso, lo osservava di sbieco. Se un primo momento era semplicemente confuso dallo strano atteggiamento di Alec, solitamente incline a certe cose la mattina presto, ora si stava decisamente preoccupando.
«Tutto bene, cucciolo? Hai una faccia strana, hai forse la febbre?»
«E smettila di chiamarmi in quel modo! Non sono il cucciolo di nessuno e di certo non il tuo. E non ho la minima intenzione di fare sesso con te né che tu mi faccia alcun… Cazzo, non riesco neanche più a dirla quella parola, ma porca... sei forse diventato pazzo?»
«Che cosa?» Magnus era sicuramente terrorizzato, chiunque ci avrebbe fatto caso osservando la sua espressione allargarsi in un moto di doloroso stupore. Salvo poi tentare di riportare su di sé un controllo che stentava sempre un po’ ad avere quando si trattava del suo rapporto con Alec. Jace, però, che poco faceva caso persino al proprio, di aspetto fisico o anche all’essere improvvisamente diventato alto un metro e novanta, non se ne accorse minimamente. 
«Mi stai spaventando, Alexander. Dimmi che ti succede, ho fatto qualcosa che non va? Sei arrabbiato per quello che ho detto ieri sera?»
«Come mi hai chiamato?» replicò Jace, senza capire intanto che si voltava verso di lui e si decideva a guardarlo negli occhi. Uno sguardo carico d’ansia che lo mise in agitazione. Non fece però in tempo a pensare ad altro che si rese conto che nel proprio corpo qualcosa non andava.
«Un momento» balbettò Jace, guardandosi le mani intanto che saltava giù dal letto e prendeva a camminare avanti e indietro. Quello non era il suo corpo, le sue rune erano completamente sbagliate e poi si sentiva molto più alto. «Oh, cazzo!» esclamò quindi. Era nel corpo di Alec, a letto con il marito di Alec. Anzi, era nel corpo nudo di Alec (perché sollevando il lenzuolo aveva visto ciò che mai gli era interessato vedere) con davanti suo marito altrettanto nudo. Per l’angelo, sì, era così. Era alto un metro e novanta e aveva i muscoli del corpo rilassati come non ricordava, c’era questo profumo di legno di sandalo nell’aria e Magnus Bene senza niente addosso a meno di un metro da lui, e che lo guardava spaventato.
«Sono Jace» disse solamente intanto che l’espressione di Magnus passava dall’essere confusa a decisamente più sollevata «non sono Alec, sono Jace. Io non so che è successo, ero all’istituto e mi sono addormentato e mi sono svegliato qui» balbettò di nuovo, inorridendo quando osservò la propria nuova immagine allo specchio. «Per l’angelo, potrei vestirmi? E soprattutto, potresti vestirti tu?»
«Grazie al cielo!» proruppe Magnus, parlando fra sé mentre si faceva cadere tra i cuscini in un moto di profondo sollievo. Non aspettò neanche un secondo di più, balzò in piedi, recuperò da terra la propria vestaglia, aprì le tende e, con uno schiocco di dita, gli fece apparire degli abiti di Alec tra le mani. «Metti questi!» ordinò con fare perentorio intanto che svolazzava qua e là per la stanza, ancora gloriosamente nudo, in cerca dei propri vestiti abbandonati a terra.
«Dobbiamo chiamare Alec e assicurarci che sia nel mio corpo» gli disse, intanto che si infilava mutande e pantaloni. Per tutti gli angeli, aveva giurato che sarebbe stato sempre vicino al suo Parabatai, condivideva con lui anima e i sentimenti, ma non aveva mai messo la firma per una cosa del genere. Questo era sicuramente troppo!
«Non credo che possa essere in molti altri posti, Jace» gli fece presente Magnus con una punta di sarcasmo, indossando una vestaglia che aveva lasciato cadere la sera prima ai piedi del letto. «O almeno me lo auguro, per te più che altro. Gli scrivo subito» disse facendo apparire un messaggio di fuoco, il quale si volatilizzò immediatamente in uno sbuffo rossiccio. Quindi, lo stregone si diresse in cucina dove fece apparire una leggera colazione per entrambi. Jace ebbe la sensazione che quel caffè forte Magnus lo avesse preparato più che altro per sé e solo perché aveva chiaramente bisogno di qualcosa di forte che scacciasse il mal di testa e la preoccupazione. Jace lo vide infatti lasciarsi cadere sul divano poco dopo, con un tazza stretta tra le mani e un’espressione sconcertata in volto. Si era davvero spaventato, osservò. Non era la fine del mondo, gli venne istintivo dire intanto che gli sedeva di fronte. Dovevano solo aspettare e pronunciare l’incantesimo giusto per poter tornare nei rispettivi corpi. Di certo con tutto quello che avevano fatto nell’ultimo periodo non era poi una cosa impossibile. Sì, dovevano fare soltanto questo: aspettare. Aspettare un Alec che era sfrecciato subito fuori dall’istituto in direzione di Brooklyn. Oh, sì, c’erano moltissime cose che Jace doveva spiegargli.





 

Continua




 



Note: So che ci sono altre storie con questa tematica e confesso che una l’ho anche letta proprio un paio di giorni fa, presa a casissimo oltretutto. Dopo averla letta neanche volevo più pubblicare la mia, ma dopo giorni a pensarci mi sono detta che non potevo buttare tutto questo lavoro. L’idea mi è venuta guardando la serie, quando Azazel scambia Valentine e Magnus nella seconda stagione. E ho pensato di usare uno dei miei trope narrativi preferiti, ovvero lo scambio di corpi.

Ringrazio Darlene e Nao che hanno letto questo primo capitolo e mi hanno aiutata a sedare i dubbi che avevo su alcune mie scelte. 
Koa

   
 
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