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Autore: Nat_Matryoshka    19/04/2021    3 recensioni
"La luce viola e blu dei neon del salotto le raggiungeva fin lì, si mischiava a quella della città, avvolgendole: se si guardava il muro della stanza tra le palpebre abbassate, sembrava quasi di trovarsi sott’acqua.
Un acquario che chiude fuori il mondo esterno, pensò V, posandole le labbra sul collo."
[Judy/fem!V]
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, V
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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2AM Conversations 




 
“Scav del cazzo.”

V sputò nel lavandino, poi alzò la testa per guardarsi allo specchio. Una grossa macchia di un brutto viola nerastro stava iniziando ad allargarsi sul suo occhio destro. Proprio il genere di upgrade di cui aveva bisogno. Scosse la testa: come accidenti aveva potuto farsi fregare in quel modo?
“Merda, sono orrenda.”
“Non sarebbe successo, se non avessi deciso di farti una gitarella con uno spacciatore di virtu.”
“Taci, Johnny.”

Il suo inquilino digitale era appena apparso a pochi centimetri da lei: la sua espressione beffarda si affiancò al riflesso devastato di V nello specchio. Per fortuna non aveva perso denti… per quanto Viktor fosse sempre delicato con lei, farsene rimettere di finti non era mai una passeggiata. E poi, i prodotti che usava puzzavano da far schifo. Aprì la bocca per controllare comunque, e Johnny scambiò quel silenzio per un invito a continuare.

“Non hai pensato nemmeno per un attimo che potesse trattarsi di un’offerta sospetta? Perché vendere proprio lì – come ha detto il tipo? Ah sì, ‘il virtu più incredibile e fantasmagorico che tu abbia maaai visto!’?” la prese in giro, imitando la voce eccitata di Stefan. “Chiunque avrebbe fiutato la cazzata, ma tu hai abboccato. Meriteresti un premio, V. Davvero, sono colpito.”
“Ne siamo venuti fuori, o sbaglio?”
“Solo perché sono intervenuto in tempo. Quegli scav non vedevano l’ora di farti a fettine e vendere i tuoi bei pezzi nuovi nuovi a qualche bisturi, fidati.”

V spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio con forza, come se bastasse quel gesto a farlo sparire come un pensiero molesto. Le luci basse del bagno di Judy mascheravano la collezione disastrosa di lividi e ferite che si era procurata, ma non c’era verso di farla sparire in poco tempo. Subito dopo averle aperto la porta, la sua ragazza era corsa al freezer per prendere un panetto di ghiaccio e piazzarglielo sull’occhio, costringendola a stare seduta, molto in stile Judy sei-venuta-da-me-in-cerca-di-conforto-e-io-mi-occuperò-di-te Alvarez, e V aveva provato a darle retta… intento che, però, era durato poco. Due minuti dopo era davanti allo specchio, a controllarsi le ferite e a prendersi le sgridate della sua seconda personalità.

“Sai Johnny, potrei aver bisogno di essere consolata e non sgridata, in un momento del genere.”
“Tu combini un casino, io te lo faccio notare. Mi pare stia funzionando bene tra noi, no? E poi quel livido ti dona. È quasi in tinta con i capelli.”

Il dito medio di V si alzò di scatto nell’esatto momento in cui Judy faceva la sua apparizione sulla porta del bagno.
“Che fai?”
“Johnny. Se lo merita” spiegò, asciugandosi le mani. Se non altro, il ghiaccio aveva diminuito il gonfiore. “Ha sentito il bisogno irresistibile di dire la sua sulla missione, come al solito.”
La risata di Judy la mise a suo agio. Era l’unica a sapere di quelle zuffe con Johnny, e anche l’unica in grado di accettare ogni singolo aspetto delle sue giornate, anche il più assurdo.

“Strano che si sia fatto vivo. Non avevi detto che ti lascia in pace ogni volta che siamo insieme?”
“Sì, di solito è così.” Ovviamente c’era stata un’eccezione: quando era entrata per la prima volta a casa di Judy per discutere la faccenda di Evelyn, e si era ritrovata a curiosare nel salotto, tra i poster e il robot che stava assemblando. Lui era lì, seduto sulla scrivania, e la osservava spostarsi da un oggetto all’altro con un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia. Ha buon gusto, tranne che per una cosa: il modo in cui ti guarda. Non fingere di non essertene accorta. E lei era arrossita con tanta intensità da ringraziare la sua buona stella che la stanza fosse avvolta dall’oscurità. “Ma la tentazione di rimbeccarmi è sempre troppo forte. È come avere un mentore digitale sarcastico e incazzato incorporato.”
Judy ridacchiò ancora. “Ne ha avuto abbastanza?”
“Per ora, credo. Abbiamo raggiunto un compromesso: lui se ne va quando siamo insieme, io gli permetto di intromettersi durante le missioni. Do ut des,” aggiunse, ricordando un’espressione che Viktor – e Wakako - ripetevano spesso. Latino, o qualcosa di simile. Si passò una mano tra i capelli. La verità era che ormai si era abituata a Johnny: il Relic la faceva impazzire, ma poter condividere i suoi pensieri e sentirne la voce era in qualche modo… confortante. Un attaccamento che in parte la spaventava, perché non aveva idea di come sarebbero andate le cose quando tutto sarebbe finito, e affezionarsi davvero ad una rockstar morta da anni a cui aveva praticamente consacrato la sua adolescenza non era sicuramente il massimo, nelle sue condizioni…
“Mh. Mi piace come accordo. E mi piaci quando parli latino.”

Judy la baciò sulle labbra, prendendola alla sprovvista, e approfittò della momentanea confusione per afferrarle la mano e trascinarla verso il divano. Ovviamente voleva continuare con le sue mansioni di soccorritrice. Il bello di Judy era che, quando si metteva in testa una cosa, era impossibile farla desistere. Ci aveva provato molte volte, ed erano finite tutte con lo stesso risultato: la sua vittoria schiacciante. Forse era colpa del suo sorriso, o del fatto che era innamorata cotta di lei, in maniera talmente incondizionata, inarrestabile, che nemmeno Johnny sapeva più come prenderla in giro al riguardo.

“Pensavo non sarebbe servita, ma forse è meglio usarla,” sentenziò, tirando fuori un tubetto di crema da un astuccio blu trasparente che si era portata dietro. Si piegò davanti a V, squadrandola per valutare in quali altre zone fossero necessarie le sue cure, mordicchiandosi un labbro. Sembrava così concentrata, così investita nel suo ruolo di curatrice, da farla scoppiare in una risata involontaria. Reazione di cui si pentì un attimo dopo, quando venne punita con un fiocco di crema spalmato direttamente sul naso.
“Io mi prendo cura di te e tu mi ripaghi così?”
Uno a uno, pensò ripulendosi. Non riusciva a smettere di ridere.
“Scusami Jude, ma sei adorabile. Dico sul serio.”
“Anche tu, sai?” Le dita di Judy si prendevano cura gentilmente dei suoi lividi, passavano la crema sulle macchie senza dimenticarne nemmeno una. Era piacevole chiudere gli occhi e affidarsi totalmente alle sue dita. “Occhio nero o no.”
Finì di spalmare, poi si allontanò un attimo per controllare il risultato.
“Ok, mi sembra che vada tutto bene. Meno male che non ho lasciato al Lizzie il kit del pronto soccorso… ognuna di noi ne ha uno,” aggiunse, per rispondere alla sua occhiata interrogativa. “Sai, se qualcuno decidesse di venire a movimentare un po’ le serate. Può rivelarsi piuttosto utile, credimi.”
Un’immagine particolarmente vivida di Rita che attaccava cerotti sulle mani delle ragazze la fece sorridere di nuovo. Fece per alzarsi, ma Judy la spinse sul divano premendole un dito sul petto.
“Stai ferma lì, o dovrò usare le maniere forti, signorina Sumire Valerie,” finse di minacciarla, rimettendo la crema nell’astuccio. “Almeno per mezz’ora. Ed è già una grossa concessione.”
“Altrimenti?”
“Potrei iniziare legandoti.” Adorava quel sorrisetto malizioso. “Anche se ho l’impressione che l’idea ti piacerebbe un po’ troppo.”

Le fece l’occhiolino e la lasciò sul divano, con la testa affondata nello schienale e le gambe divaricate, abbandonate in posizione scomposta. All’orfanotrofio la sgridavano continuamente per quella postura: le bambine devono comportarsi in modo dignitoso, le ripetevano sempre. Niente boccacce, siediti con la schiena dritta, non mangiare con le mani. Residui antiquati di un modo che non esisteva più, e comunque cosa avrebbe potuto farsene una bambina di sei anni che lottava per sopravvivere ogni giorno?
Pensare al St. Jude le fece tornare in mente gli scav. La confusione che l’aveva invasa non appena aveva aperto gli occhi. Buio, freddo, dolore lancinante alla testa, braccia e gambe indolenzite. Si era ritrovata completamente nuda, distesa sul pavimento di una stanza che conosceva fin troppo bene per esserci stata assieme a Jackie, ma questa volta il suo migliore amico non era lì a farle scudo, né sua sorella Yoshimi: era stata costretta a farsi strada da sola, con la pistola e la forza della disperazione… ma non era più una bambina, e aveva dalla sua la rabbia e l’incredulità per essere finita in una situazione di quel genere. Rovesciò gli occhi, sbuffando. Fottuti scav. Sembrava proprio che le loro vite dovessero incrociarsi per forza, in un modo o nell’altro.

“Scav del cazzo” ripeté a voce più alta. Qualcosa nel suo tono doveva aver attirato Judy, che tornò dal bagno per controllare se avesse violato le disposizioni. Si piazzò davanti a lei, le braccia conserti: questa volta interpretava il ruolo della poliziotta, a quanto sembrava. Non immaginava fosse tipa da roleplay.
“La mezz’ora non è ancora passata, Sumi.”
“Non ho fatto niente!” protestò, alzando le mani in segno di resa. “Stavo solo ripensando alla missione!”
Stranamente, Judy non aggiunse nulla: si limitò a sedersi. Si sistemò in modo che V potesse appoggiare un braccio sullo schienale sopra le sue spalle e si girò verso di lei, per sfiorarle la guancia con un dito affusolato, attenta a non togliere la crema che aveva spalmato. Per fortuna il suo sorriso dolce era sempre lì, pensò V, e si sentì tirare un sospiro di sollievo. In quella sua vita di fughe, schifezze quotidiane e missioni impossibili, solo il cielo – e forse anche le varie divinità che aveva provato a pregare nel corso della vita – sapeva quanto avesse bisogno di un rifugio come lei. Puro, coraggioso. Lei era la mano, Judy la mente e il cuore. Una combinazione perfetta.

“Sei tornata, e sei al sicuro” sussurrò. “È l’unica cosa che importa davvero, credimi.”
“Sì, ma sono caduta nella trappola più idiota dell’universo.”
La confessione le scappò in un mormorio appena udibile, attutita dal cuscino che si era portata al viso per nascondersi. Aveva sperato che quel momento non arrivasse mai, ma come avrebbe potuto mentire a Judy? C’era sempre stata per lei, anche nei suoi momenti più patetici… come quello. E quando l’aveva vista in piedi sulla porta, una luce preoccupata nello sguardo, non era riuscita a trattenersi dal raccontarle nei dettagli quella missione disastrosa. Lei non aveva riso, non apertamente almeno: aveva scosso la testa mentre cercava disinfettante e medicine e sorrideva, ma più per il sollievo che per prenderla in giro. Anche se sì, avrebbe meritato di essere presa per il culo all’infinito, o almeno fino al giorno successivo.

La voce incazzata di Johnny ancora la tormentava. Non posso credere di essere finito nel cervello della mercenaria più stupida di Night City! Glielo avrebbe rinfacciato per giorni, poco ma sicuro. Aveva avuto paura, sì, ma era più che altro seccata per la propria stupidità: era davvero la trappola più imbecille di tutti i tempi. E lei ci era caduta dentro con tutte le scarpe, come una novellina.

“Ah Jude, sono un’idiota totale,” gemette, affibbiando un pugno al cuscino magenta metallizzato che ancora le copriva la faccia. Flomp. “Nessuno crederebbe mai ad un tizio a caso che ti offre un virtu incredibile e ti chiede di seguirlo per provarlo! Non ho idea di cosa mi sia preso, davvero. Un attimo prima ero nella sua baracca, il secondo dopo Johnny mi urlava di svegliarmi e mi sono ritrovata nuda in un fottuto bagno sporchissimo!” Il cuscino iniziava a darle fastidio: lo lanciò a terra in un moto di stizza. “E pieno di scav del cazzo! Ne ho dovuti stendere quattro per raggiungere l’armadietto dove avevano messo i miei vestiti. A mani nude. Senza nemmeno le mantis, perché se le avessero sentite scattare mi sarebbero tutti saltati al collo e ci avrei messo secoli a tornare qui. E…”
“V.” Judy le posò un dito sulle labbra e – dato che spesso e volentieri non bastava così poco per zittirla, l’esperienza le aveva sempre dato ragione – le prese il viso tra le mani, guardandola negli occhi. “Sarebbe potuto capitare a chiunque, ok? L’importante è che tu sia tornata. E ora sei qui con me. Smetti di incolparti di tutto, non ne vale la pena.”
La baciò sulle labbra, lasciandole un attimo infinitesimale e meravigliosamente lungo per apprezzarne il calore. Il profumo del suo rossetto era dolce, le rendeva ancora più morbide. Sapeva di fragola. Suo malgrado, si ritrovò a sorridere sotto al bacio. Ah Judy, solo tu riesci a far passare tutto.

Per un secondo furono avvolte dal silenzio della sera che avanzava. Giù in strada qualcuno chiamava gridando qualcun altro, una voce arrabbiata. Clacson, il fragore di una motocicletta lanciata a tutta velocità verso chissà dove. La primavera avanzava, si portava dietro suoni e colori simili a quelli dell’inverno, ma chi aveva vissuto anni in strada avrebbe saputo distinguerli ad occhi chiusi. Per un attimo si chiese se avesse ancora senso sognare l’estate e tutto quello che comportava.

Fu V a romperlo: quando troppi pensieri le si affollavano in testa era sempre meglio fuggire, provare a lasciarli indietro. Almeno per un po’.
“Come fai a sopportarmi, Jude?”
“Perché sei tu, suppongo. Senza di te le mie giornate non sarebbero le stesse… e perché ti amo, sì. Immagino c’entri qualcosa.”
“Interessante. Sei innamorata della mercenaria più stupida di tutta Night City e non l’hai ancora annunciato pubblicamente? Tipo, non so, affittando uno spazio pubblicitario con dei neon giganteschi?” Si lasciò andare ad un sospiro melodrammatico, affondando di nuovo la testa nello schienale ma senza perderla di vista per controllare la sua espressione. “Magari troverei lavoro con un fixer che assume solo mercenari completamente imbecilli. Perché lavorare con dei veri professionisti, quando puoi avere un – ahi!”
Judy l’aveva morsa sulla spalla.
“Stai zitta, calabacita.”
“Ehi! Prima mi mordi, poi mi chiami calabacita e poi mi zittisci?” si massaggiò la zona aggredita dai denti di Judy, fingendo indignazione nel suo miglior tono da fidanzata ferita nei sentimenti. Judy rincarò la dose, spingendole un dito nell’addome.
“Sì, sei dici stupidaggini. Hai raggiunto la quota massima giornaliera di autocommiserazione.”
 Completò il quadro posandole un piccolo bacio sulla guancia, delicato come quello che le aveva dato all’uscita del Clouds un secolo prima, dopo lo scontro con Maiko e i capi dei Claws. Abbastanza vicino alle labbra da farle correre un brivido lungo la spina dorsale. La sua solita magia. Ogni volta che si esauriva, si ritrovava a volerne sempre di più.
“Sei a posto, la crema si è asciugata. Ordiniamo le pizze?”
“Va bene,” concesse V, stiracchiandosi. Le si erano addormentate le gambe, ma era disposta a pagare qualunque prezzo per quei momenti assieme. “Al solito posto?”
“Ovvio. Nessun altro ha la tua preferita sul menù… ormai ti conoscono come ‘quella dell’avocado extra’.” Ridacchiò, alzandosi per cercare il telefono. “Aggiungo anche qualche birra. È una di quelle serate in cui ce n’è bisogno, o sbaglio?”

V annuì. Judy capiva sempre tutto al volo.


*
 

 
Due ore più tardi, dopo aver finito le pizze e diviso una bottiglia di birra per le grandi occasioni – quella grande che ordinavano quando era il caso di festeggiare, o di consolarsi – avevano sparecchiato e deciso che il posto migliore per godersi la serata era il letto. Judy aveva preteso che si spogliasse – anche se non nel senso che avrebbe desiderato. Aveva infilato di corsa in lavatrice tutti i suoi vestiti e le aveva allungato un paio di pantaloncini blu e una t-shirt con la copertina di Delicate Weapon, il singolo di Lizzy Wizzy, un regalo di Roxanne che si era ricordata di doverne cercare piuttosto una di Bushido solo dopo averla comprata.  Ti dona, aveva commentato, regalandole un altro sorriso da scioglierle il cuore nel petto. Molto più dell’occhio nero. Lei le aveva fatto la linguaccia.

“Stai meglio, adesso?”
“Sì, più o meno.”

Era bello starsene accoccolate sul lenzuolo bianco, circondate da cuscini, con la notte che scorreva alle loro spalle. Sentire il calore di Judy sul suo corpo, il respiro che le spostava di lato una ciocca di capelli viola. Tutta l’ansia, la paura e la frenesia accumulata durante quella missione assurda sembravano scivolare via, sparire nel nulla al solo tocco delle sue dita. Socchiuse gli occhi.
“È solo che… ho avuto paura, Jude, e non ha senso. Dovrei essere abituata a cose del genere, ho vissuto fin troppe giornate come questa… eppure ero terrorizzata.”
“Sei umana, V. È normale che sia così.” Le sfiorò le labbra, scaldandola dentro. “Ma ero sicura che ce l’avresti fatta. Te la sei cavata in ogni genere di situazione, e sei tornata da me. È un onore, sai?”
“Felice di farti sentire onorata, dottoressa Judy. Non c’è altra persona in tutta Night City che conosca i miei problemi meglio di te.”
“Come quando mi hai detto che provare una braindance durante il ciclo ti faceva girare la testa,” ridacchiò lei, scoccandole un’occhiata sorniona. V grugnì: quella sorta di primo appuntamento sarebbe dovuto sparire nel buco spazio-temporale dei flirt destinati al disastro, ma in quel modo Judy non avrebbe più potuto sfoderarla come un’arma segreta. E si poteva star certi che non avrebbe mai perso l’occasione per farlo.
“E mi sei quasi caduta addosso scendendo dalla sedia. Eri adorabilmente goffa.”
“Vuole davvero giocare a questo gioco, signorina Alvarez? Perché potrei contrattaccare con i messaggi che mi manda quando è ubriaca.” Alzò le dita per contare, con espressione meditabonda. “Ne ho una luuunga lista. Potrei recitarli a memoria, cominciando da ‘sai cosa fa rima con Judy? NUDI!’ seguito da ‘sei carinaaaaaa’, e -

“Sei. Sleale.”

Il bacio con cui aveva intenzione di zittirla nasceva come casto, ma i loro corpi erano troppo vicini: presto le mani di Judy scivolarono sotto la maglietta, accarezzandole l’addome, il ventre, la parte inferiore del seno. Erano tiepide, invitanti. V lo approfondì, sfiorandole le labbra con la punta della lingua, una richiesta di qualcosa di più che Judy fu felice di accontentare. Inspirò a fondo il suo profumo come se volesse imprimerselo nella mente, mordicchiando il labbro inferiore, passando poi a sfiorarle un capezzolo con l’unghia, per ricevere in cambio un gemito soffocato. Due a uno. I gemiti di Judy erano gentili, lievi, e ogni volta si sentiva immensamente fortunata all’idea di esserne la causa. Il modo in cui i suoi occhi si illuminavano quando la guardava, la fiducia totale, disarmante, che riponeva in lei, la riempivano di meraviglia, di una gioia sottile che mai avrebbe saputo spiegare. Forse esistevano sentimenti che non era possibile esprimere con le parole.

La luce viola e blu dei neon del salotto le raggiungeva fin lì, si mischiava a quella della città, avvolgendole: se si guardava il muro della stanza tra le palpebre abbassate, sembrava quasi di trovarsi sott’acqua. Un acquario che chiude fuori il mondo esterno, pensò V, posandole le labbra sul collo.
Judy rabbrividì al suo tocco.

“Ho un casino in testa, Jude,” confessò in un sussurro. “Un casino di sensazioni diverse. Non mi va nemmeno di fare sesso… cioè, sì, in realtà mi andrebbe,” – aggiunse in fretta – “ma non ce la faccio.”
Judy sorrise. Le passò un dito sul labbro, disegnandone il contorno. “Non devi mai scusarti con me, V. Ho detto che mi sarei presa cura di te, no? Le coccole sono sempre incluse nel pacchetto.”

Si perse per un attimo nel suo sguardo, lasciandosi cullare dalla sicurezza che le trasmetteva. Non era mai stato facile parlare dei suoi problemi. “Un attimo prima sento che tutto andrà bene, quello successivo ho una paura fottuta e vorrei solo urlare e scomparire, scappare via insieme a te e dimenticare tutto quello che è successo. Mi sento così confusa… e cerco di pensare che è colpa del Relic, che tutto passerà una volta finita questa storia, ma non ci riesco. Me la sono sempre cavata in un modo o nell’altro, fin da quando ero piccola, e adesso mi sento crollare tutto addosso. Vorrei solo che finisse, la paura e il dolore, questo schifo di sensazione di perdere pezzi di me stessa…”

Inspirò a fondo nel tentativo di calmarsi. Stava per mettersi a piangere, sentiva le lacrime stringerle la gola in una morsa. Detestava farsi vedere andare in pezzi, così stupidamente piccola e fragile da non sembrare più la stessa persona che si guardava allo specchio ogni mattina, pronta ad accettare una nuova missione con un sorriso sicuro. Era Sumire quella che piangeva disperata, Valerie non ne aveva più bisogno. V era una persona nuova, costruita pezzo per pezzo per sostituire la bambina spaventata che era stata. V sapeva cavarsela, per lei il Relic era solo una bazzecola… ma c’erano giorni in cui Sumire tornava, e non sapeva come consolarla.

Detestava mostrare quella parte di sé, ma non a Judy.

Come al solito, lei capì senza bisogno che aprisse bocca. Allargò le braccia e la invitò a girarsi, ad appoggiare la testa sul suo petto per accarezzarle i capelli.

“V… so che c’è qualcosa di meraviglioso che ci aspetta, oltre tutto questa merda. L’Oregon, il sole, le montagne. Un viaggio solo per noi due, senza preoccupazioni, se non quanto faranno schifo i letti dei motel in cui ci fermeremo.” Le posò un bacio tra i capelli. “Possiamo scappare da tutto e rifugiarci dai miei nonni, immaginare una vita completamente nuova. Quando mi sento senza speranza mi ricordo di quanto era bella l’alba che abbiamo visto insieme, al molo di Laguna Bend… provo a convincermi che esiste ancora qualcosa di altrettanto bello, oltre tutto questo. Ci meritiamo un finale diverso e ci arriveremo insieme, Sumi. Fidati di me.”

Da quella posizione riusciva a vedere perfettamente i suoi tatuaggi, nonostante l’oscurità. Sfiorò con il polpastrello il fantasma nel guscio, sorridendo: Judy le aveva spiegato la sua origine. Avevano guardato insieme un vecchio film che parlava di cyborg e nascita di anime in corpi sintetici, in una città che sembrava un misto di Kabuki e Japantown ma con un tocco più retrò, da mente visionaria a cui piace immaginare scenari futuri. Di quella sera ricordava la coperta avvolta attorno a loro per proteggerle dal fresco della sera che avanzava, Judy che smanettava con i file cercando quello giusto in una miriade di film e video della sua collezione vintage, la pizza ancora calda appoggiata sul tavolino che spargeva il suo profumo per l’appartamento. La protagonista le era piaciuta: c’era qualcosa, nella sua voce e nel modo di muoversi, che le aveva ricordato Yoshimi, ma per una volta il pensarla non l’aveva resa triste. Ad un certo punto Judy le aveva preso la mano, e avevano guardato il resto del film così, con le dita intrecciate, mentre le immagini continuavano a scorrere sullo schermo del portatile.
Un fantasma nella conchiglia. Ma chi era davvero il fantasma e chi il guscio, tra lei e Johnny? E se fossero davvero diventati la stessa persona, e non esistesse un modo di eliminare il Relic senza cancellarli entrambi?
Le dita di Judy ripresero a passare tra le ciocche. Si aspettava una risposta, o forse no. Voleva solo consolarla a modo suo, toglierle di dosso un po’ del peso che si portava dietro perché potessero dividerlo.

La stazione radio aveva appena iniziato a proporre una selezione di pezzi ambient. Il Relic minacciava di rimettersi a ronzare, le appesantiva le palpebre confondendo i pensieri, ma non voleva che quella notte andasse sprecata.

“Sei l’unico pensiero che mi aiuta ad andare avanti, Jude. Dico sul serio.”
“E tu il mio. Senza di te, nessuno avrebbe mai mosso un dito per aiutare Ev… e me.” La sentì sospirare, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro. “Ho ricominciato a sperare grazie a te, e non avrei mai creduto fosse possibile. Sei arrivata come un uragano… in senso positivo, scema” aggiunse con una risata, intercettando il suo finto broncio. “Hai cambiato così tante cose, V. La mia vita, prima di tutto.”
“Judy…”

Era impossibile rispondere come avrebbe voluto, condensare in una sola frase tutto quello che provava. C’erano confessioni che aspettavano la notte per venire fuori, quell’ora in cui una parte della città dormiva e l’altra correva a perdifiato sotto le luci accecanti, mentre una terza sussurrava storie: le due di notte erano la rinascita dei pensieri. Sedersi accanto a lei con una birra in mano diventava la sua personale terapia per tornare nel passato, e portarne fuori gli unici ricordi che non erano più in grado di farle male. Lasciarsi semplicemente andare, accanto a qualcuno pronto ad ascoltarla.

“Sei stata tu a cambiare tutto. Anche in mezzo allo schifo che sto affrontando, la morte di Jackie e tutto il resto, non mi sono mai sentita sola. Nemmeno una singola volta. Sei una delle poche persone a cui sia riuscita a raccontare tutto di me… e per ‘tutto’ intendo il mio passato, quello che mi è successo… ogni cosa. Senza nascondere niente.” Si schiarì la gola, scacciando le lacrime. “Se davvero qualcosa ci aspetta alla fine di tutto questo, se possiamo ancora sognare uno straccio di vita migliore, voglio lottare con tutte le mie forze per ottenerla. Lasciarci Night City alle spalle ed essere felici, solo questo… perché lo meritiamo. E non potrei mai pensare a un futuro in cui non siamo assieme.”
Forse era davvero la notte, rifletté. O forse era Judy a farla sentire come se tutto, alla fine, potesse aggiustarsi. I piccoli gesti d’amore che si scambiavano, il modo in cui le restava accanto senza chiedere nulla. Aveva imparato ad affidarsi a lei giorno dopo giorno, e anche lei aveva imparato cosa significasse consegnarsi interamente a qualcuno, senza compromessi né paura, con il solo desiderio di condividerne la vita. La sentiva ridere, e qualcosa di colpo sbocciava in lei. Qualcosa di prezioso, di nuovo.
Non voleva lasciarlo andare.

Lei si limitò ad accarezzarle ancora i capelli. Non c’era bisogno di tante spiegazioni con Judy: non avrebbe mai smesso di essergliene grata.  

“Resti per la notte, vero?”
“Dovresti aver capito che è impossibile scappare dalle tue grinfie,” la sfidò, baciandole le dita. Strofinò la testa sotto il suo collo per farle il solletico, ricevendo in cambio un’altra ditata sul naso.
“Meno male. Non avrei sopportato di immaginarti a casa da sola… e poi, devo rifarti la medicazione. Dovrai restartene ferma ancora per un po’, signorina Sumire Valerie.”
“Agli ordini, dottoressa Judy.”
Le palpebre si facevano più pesanti ogni minuto che passava. Sentiva il corpo cedere alla morbidezza del materasso, Judy cambiare posizione per abbracciarla da dietro e posarle la testa nell’incavo del collo. Il suo respiro le sfiorava la nuca, era tiepido e familiare. La sentì mormorare qualcosa mentre la stringeva, le dita che affondavano nel tessuto e nella pelle, quasi volessero trattenerla per paura che svanisse.

Aveva sonno, ma non poteva darsi per vinta, non ancora.

“Jude?”
“Mh?”
“Perché, in una città enorme e piena di gente figa e interessante, hai scelto proprio me?”
“Sarà la millesima volta che me lo chiedi da quando stiamo assieme” mormorò Judy contro il suo collo.
“E…?”
“E la risposta è sempre la stessa: mi piaci, e voglio stare con te. Ti basta?”
“Sì, credo di sì.”
 “Non riuscirei a pensarmi accanto a nessun’altra che non sia tu, mercenaria più scema di Night City.”

Le scappò una risata impastata di sonno. Judy doveva aver impostato un timer sulla radio o qualcosa di simile, perché dopo l’ultimo pezzo si spense, le note finali che svanivano in un diminuendo ovattato. Il traffico in strada era diminuito, ogni tanto solo qualche auto e moto passava ancora a tutta velocità, il rombo del motore si perdeva in lontananza dopo la prima svolta. Forse correvano verso Japantown. Le luci al neon, le pubblicità, i negozi ancora aperti, le grandi luminarie che abbracciavano la folla, ti facevano sentire parte di un tutto che in fondo era solo un’illusione come tante altre…

La voce di Judy mormorava, accompagnando il flusso dei suoi pensieri. Si aggrappò al suono, cercando di identificare le parole, ma appartenevano ad una canzone che non conosceva. Yours are the sweetest eyes I’ve ever seen, sussurrava contro i suoi capelli, mentre le cingeva la vita con le braccia ed era difficile capire dove iniziasse il suo corpo e dove finisse quello di lei: il suo calore annullava tutto il resto, diventava l’unica cosa davvero importante in quell’istante. Doveva essere una vecchia canzone d’amore. Non ne sentiva mai in radio, ma forse era lei che non prestava abbastanza attenzione… that I put down in words how wonderful life is while you’re in the world, la sua voce le riempiva il cuore, contribuiva a scioglierle i muscoli. Era dolce. Chiuse gli occhi e la sua mano scivolò su quella di Judy, stringendosi attorno alle sue dita. Lei le restituì la stretta.
Era bello dormire accanto a qualcuno in un vero letto, fu quello l’ultimo pensiero coerente che la sua mente riuscì a formulare prima di piombare completamente nel sonno.
 

*
                                                                                                                                          

 
Lo strombazzare di un clacson si infilò tra i sogni e la veglia, strappandola bruscamente al sonno. Sole. Quello non era il suo letto, fece mente locale mentre si alzava, la mente ancora annebbiata.

Un attimo prima dormiva profondamente, la gamba poggiata sopra quelle della sua ragazza, l’attimo successivo era giorno e la luce entrava prepotente dalla finestra, accompagnato dai rumori mattutini di Watson. Si strofinò gli occhi guardandosi attorno: il letto era vuoto, ma non era difficile capire dove fosse Judy. Scese stiracchiandosi, sistemandosi la maglietta di Lizzy, e si lasciò guidare dal profumo delizioso che le riempiva le narici. Caffè, sandwich riscaldati e qualcos’altro che non riusciva a riconoscere, forse pancake istantanei? Di quelli che preparava ogni mattina anche la bancarella di All Foods davanti a casa, e che non era ancora riuscita ad assaggiare perché se ne dimenticava sempre…
Prometteva bene.

Judy trafficava al bancone della cucina, canticchiando come la sera precedente. Era così immersa in quel che stava facendo da non accorgersi nemmeno del suo arrivo, e quando V la sorprese con un bacio sulle labbra le regalò in cambio un sorriso che traboccava gioia. Da quanto non la vedeva così? Dalla mattina a Laguna Bend, ma quella era una gioia diversa, più sottile, meno spensierata, una felicità che si accompagnava alla riflessione… ora era radiosa. Sembrava davvero pronta a lasciarsi tutto alle spalle, contenta per il semplice fatto di non essersi svegliata da sola, di essere lì con lei in cucina, per prepararle la colazione e ridere delle sue battute. Era bello vederla così, pensò, e sentì il cuore spiccare un salto e finirle direttamente in gola.
Erano quelle, le piccole cose che sognava. Una vita tranquilla.

“Ehi” le sorrise, ricambiando il bacio. Indossava il grembiule che le aveva portato come souvenir da un giro al mercato di Kabuki, quello con la scritta “Kiss the Chef”, che aveva prontamente sbarrato per cambiarlo in “Tech”. “Buongiorno, dormigliona. Hai passato una bella nottata?”
“Meravigliosa. Non ti ho dato troppi calci, o sbaglio?”
“No, sei stata buona come un angioletto. Non hai nemmeno parlato come sempre.”
V emise un verso a metà tra una risata e un grugnito. Una notte, a quanto pareva, aveva imbastito un interessante discorso che riguardava bastoni e cibo ridotto in poltiglia, e Judy si era fermata ad ascoltarla quel tanto che bastava per darle ragione e rimetterla a dormire. Quell’episodio le era rimasto talmente impresso che non perdeva l’occasione di citarlo. Almeno non mi sono alzata per andare nel tuo studio e restare bloccata lì finché non mi hai trovata, ribatteva, e Judy riprendeva a ridere. V si fingeva indignata, ma adorava vederla ridere in quel modo: era diversa anni luce dalla ragazza triste che le aveva chiesto di aiutare Evelyn. Così tanto che nessuno l’avrebbe riconosciuta.
“Colazione?” chiese, sedendosi su uno degli sgabelli del bancone. Judy le posò un piatto davanti con aria furba, dopo aver versato una cucchiaiata abbondante di sciroppo sulla sua porzione di pancake. Erano tanti, dorati, e la padella con cui li aveva preparati ancora fumava sul fornello. Il profumo di zucchero si spargeva ovunque, le solleticava le narici.
“Una bella colazione come si deve, solo io e te. Suze dovrà aspettare,” aggiunse, sedendosi accanto a lei. “Oggi attacco più tardi. Tu devi scappare subito?”
“Nah, se Regina avesse avuto bisogno di me mi avrebbe già chiamato. Posso prendermi la mattinata libera.”

Le rubò un pezzo di pancake, infilandoselo in bocca con aria trionfante, e mentre osservava Judy farle la linguaccia e attaccare il suo il pensiero di quella normalità la colpì con la forza di un pugno nello stomaco. Svegliarsi ogni giorno accanto a lei, organizzare le ore che avrebbero passato separate e quelle in cui si sarebbero riviste. Fare il bucato, guardare film, uscire per Watson nelle sere umide d’estate, accogliendo la brezza come un regalo inaspettato. Godersi ogni singolo minuto, senza pensare a nulla, affrontando una preoccupazione alla volta. Una vita semplice, in cui il Relic era solo una strana parola senza significato, ascoltata in un notiziario e dimenticata cinque minuti dopo. Una vita in cui Johnny Silverhand era solo il suo eroe d’infanzia e una serie di canzoni da cantare a squarciagola in auto…

Inspirò profondamente. Johnny non si era ancora fatto sentire: rispettava il loro patto. Eppure, presto avrebbe dovuto decidere cosa fare, iniziare ad immaginare a come si sarebbero separate le loro strade, e il solo pensiero la faceva star male. Ma Judy era lì di fronte a lei, avvolta dal sole di un mattino di primavera inoltrata, continuava a mormorare una canzone sottovoce. Era bella. La faceva sperare in tempi migliori con tutte le sue forze.
Sì, valeva decisamente la pena di lottare per una vita del genere. E se lottare con le unghie e con i denti era ciò che sapeva fare meglio, ci avrebbe messo tutto l’impegno possibile. Per Judy, per se stessa, per le persone che erano entrate nella sua vita e le avevano lasciato qualcosa. Per chi aveva amato in passato, e per chi era rimasto nonostante tutto.
Perché qualcosa di bello sarebbe arrivato. Se lo sentiva nelle ossa.
“Sai, non avevo mai provato questo tipo di pancake” riprese, inzuppandone un pezzetto nello sciroppo. Erano davvero buoni… avrebbe dovuto iniziare a includerli nella propria colazione abituale. Magari iniziare a mangiare effettivamente qualcosa, invece di trincare caffè a stomaco vuoto. “Sono buonissimi.”
“Merito della miscela. E della cuoca, ovviamente.”
“Non sei solo esperta di braindance, ma anche tecnica, dottoressa e cuoca. Ho davvero la fidanzata più talentuosa di tuuuuutta Night City!”
“Scema.” Le affibbiò un pugno sulla spalla, ridacchiando. Come aveva fatto a vivere per ventisette anni senza sentire la sua risata?
“A proposito, devo farti la medicazione prima che tu esca. E no, gli occhi al cielo non sono ammessi” la ammonì Judy, intercettando il suo sguardo. “A volte la sua mancanza di gratitudine mi stupisce, signorina Sumire Valerie.”
“È un dono di natura. Come il mio incredibile senso dell’umorismo.”

V si alzò in piedi e la seguì verso il divano, cingendole la vita per mordicchiarle il collo. Aspettava solo di sentirla ridere ancora una volta: Judy non la deluse.
 





Note
Ho iniziato a scribacchiare storie su Cyberpunk da prima che il gioco uscisse, ma finora le avevo pubblicate solamente in inglese. Vedere attiva e "aperta" la sezione italiana mi ha fatto venire voglia di rispolverare una di quelle scritte in passato... ed eccola qui. La V in questione è Sumire Valerie St.Jude, Street Kid dai capelli viola che forse qualche frequentatore del fandom anglofono già conosce. 
Per tutti gli altri, qualche piccola nota d'autore: 

1. Tutte le mie partite al gioco sono state in inglese, per cui ho tradotto "a orecchio" i dialoghi di cui non conoscevo il corrispondente italiano, come la battuta di Stefan tratta dalla missione "Sweet Dreams". (A parte calabacita, il soprannome che Judy dà a V).
2. La canzone cantata da Judy è Your Song, di Elton John. Così come per Ghost in the Shell, nella mia versione di Cyberpunk i film e i cantanti del nostro mondo in qualche modo convivono con quelli dell'universo di gioco, integrandosi.

Grazie come al solito ad Ailisea, per la sua pazienza e l'amore che dedica ad ogni mia storia. E a te che leggi, per essere arrivat* fin qui! Cyberpunk significa tantissimo per me, e poter finalmente pubblicare qualche storia in italiano mi rende immensamente felice. 

Rey

 
   
 
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