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Autore: Gaia Bessie    20/04/2021    3 recensioni
Monologo di Lena sul bipolarismo, in due momenti.
Mi dici che cerchi di afferrarmi, ma non mi prendi mai – che è semplice pensare di prendermi per la coda, ma io non l’ho, una coda da afferrare, un’anima da prendere e rimboccare come un letto con le coperte tutte scompigliate, dopo che ci hai dormito tu.
[Tematiche delicate | OS]
Seconda classificata al contest "Pranzo senza dessert" indetto da Freya_Melyor sul forum di EFP
Partecipa al contest "Vuoi storiarmi?" indetto da milla4 sul forum di EFP
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sdoppiata
 
Mi dici che cerchi di afferrarmi, ma non mi prendi mai – che è semplice pensare di prendermi per la coda, ma io non l’ho, una coda da afferrare, un’anima da prendere e rimboccare come un letto con le coperte tutte scompigliate, dopo che ci hai dormito tu. Mi dici ti chiamo, e io come in una pessima commedia romantica ti rispondo che anch’io ti amo, e allora tu mi guardi e dici che lo vedi? Il problema è questo.
Il problema è che io ti sento anche quando tu dici di non sentirmi più, e allora non mi basta, questo lo capisci? A. Me. Non. Basta.
Sentirti quando non mi senti e vederti quando tu mi guardi e mi dici che non comunichiamo abbastanza, che magari tu mi dici andiamo al mare e io – che il mare lo odio – fingo di non sentirti per non dover dire sempre di no. E fingo di non vederti per non notare quell’espressione sfuggente, arrabbiata, e sentirmi dire che sono troppo.
Troppo per te, troppo per chiunque, troppo problematica, troppo incazzata con la vita che fa incazzar chiunque, troppo. Io fingo di non capire e ti dico che se c’è troppo sale, puoi anche evitare di mangiarlo, quel cazzo di piatto di pasta, e tu sospiri stremato.
«Lena, dai» commenti, con aria stanca. «Lo sai».
Che è il momento in cui impazzisco e allora dico cose sconnesse, e tu mi guardi e mi domandi: le hai prese, le medicine? Ma non sono sopraeccitata, amore, te lo giuro, semplicemente non vedevo l’ora di vederti e, e, e. E.
E, sì, le medicine le ho prese, anche se non servono a niente e lo sai – Dio, lo sai – che io sto bene anche senza quella merda che mi scorre con il sangue nelle vene.
«Cosa dovrei sapere?» ti domando, con l’innocenza di una bambina. «Amore, dai. Ne parliamo dopo, sì?».
Ne parliamo, ti chiamo, ti amo. Mentre posi la forchetta sul piatto mezzo pieno, e il vicino di casa sceglie questo cazzo di momento per piantare un chiodo nel muro, mi guardi – hai degli occhi bellissimi, li ho sempre amati, i tuoi occhi: del colore del mare d’inverno, come Draco Malfoy amore, ci pensi mai? Perché io ci penso e tu non lo capisci, che ci penso, ci tengo, e la conclusione è inconcludibile. La conclusione è io che amo te, tu che ami me, e ci amiamo in silenzio e senza pretese, senza problemi. Ti andrebbe?
«No, Le’, ne parliamo adesso» mi rispondi, con durezza. «Noi ne parliamo adesso, sono mesi, Lena, mesi che ne discutiamo».
«Ma io ti amo» commento io, spalancando gli occhi. «Tu mi ami? Se vuoi andare, ti posso chiamare più tardi, sì?».
«Lena» continui a dire il mio nome, come se la ripetizione di un nome mutasse l’essenza che mi muove, che mi anima. «Tu hai smesso di prendere le medicine».
Io rido – amore, mi fai sempre ridere – e penso che mi conosci così bene da non saper più sbagliare, con me. Stiamo insieme da quando avevo quindici anni, io, venticinque tu: e adesso mi parli di casa, di famiglia, e sai che mentre tu sei a lavoro io lo faccio con il mio istruttore di palestra, con il ragazzo cui do ripetizioni per analisi uno, con. Con te, anche quando ti dico che non mi va e poi ti salto addosso.
«Non dire cazzate» ti rimbecco, con una calma che non provo. «Io sto bene, okay? Sto benissimo».
Tu sospiri, hai il cellulare in mano, componi un numero – alzo il collo, sbircio, lo riconosco. Che stai facendo?
Urla crepano i muri, io non posso, tu non devi, io ti odio lo capisci che ti odio? Le tue dita sul touchscreen mi strappano le urla dalla gola: maledizione, Gabri, perché devi per forza ferirmi in questo modo? Come quando ti sei scopato la tua stagista, la sedicenne – non dire no, io lo so che te la sei scopata – e nemmeno hai avuto il coraggio di dirmelo, l’ho scoperto io, quando ho visto come ti guardava. Tu la salutavi con una stretta di mano: troppo professionale, per il modo incantato con cui ti guardava.
E non c’è, non c’è, posto per l’incanto in questo mondo. Perché io soffro, Dio, lo capisci che soffro?1
Perché mi guardi come se non ti fosse chiaro, non ti fosse in qualche modo evidente, che il tuo comportamento mi dilania?
Posa. Quel. Cazzo. Di. Telefono.
Ma tu continui a scrivere quel fottuto messaggino – a che troia stai scrivendo? – e posi il telefono sulla tovaglia, a faccia in giù.
«Domani ti porto dal Dr. Lombardi, Lena» borbotti, conciliante. «La terapia non sta funzionando. Se la stai prendendo correttamente».
«Tu non mi porti da nessuna parte» ti rispondo, alzando il capo con aria fiera. «Io sto bene, Gabri, perché non lo capisci? Va tutto bene, no, siamo felici. Lo siamo? Certo che lo siamo, che domande che faccio, che sciocca…».
Le parole si perdono nel tuo sguardo, mentre scuoti il capo e semplicemente lo dici: che ci sono degli ingranaggi, nella testa di ognuno, e i miei ogni tanto crepitano di scintille e adesso lo stanno facendo di nuovo. E non posso andare a fuoco tutta in una volta, io devo bruciare a pezzi – un braccio, una gamba, tutte le mie cazzo di appendici superflue devono incendiarsi in momenti diversi – finché non capirò più niente. Ma cosa c’è da capire?
Io ti amo, tu ami me. Mi chiami, Lena, Lena, Lena, ma a cosa dovrei rispondere? È come quando dici che non comunichiamo, e io ti amo, certo che ti amo.
«Lena, dai» sussurri, carezzandomi il capo. «Lo so che, da qualche parte, sei ancora lì. Ascoltami. Devi riuscire a tornare su».
A tornare a respirare in mezzo a tutto quel fumo denso che mi circonda: registro le tue parole, te lo giuro, ma mi sembrano solamente l’ennesimo tocco di disincanto che questo mondo potrà mai regalarmi. E io sto benissimo, okay? Okay.
Okay, possiamo andarci da questo dottore: e mi dirà che ho ragione, a mollare un lavoro di merda che non mi rende felice, affatto, la vita è meravigliosa per questo, amore, per la capacità di cambiare tutto con uno schiocco di dita. Mi sento Dio, Gabri, quando prendo una decisione così impulsiva e non riesco a pentirmene.
Forse lo sono, se Dio è bipolare, e allora forse dovrebbe essere fatta la mia parola e la mia volontà, non credi?
Forse non lo sono abbastanza, quando mi guardi e mi dici che, per te, ho perso ogni diritto di replica: devo andare dal dottore, dici, e basta. Ma basta cosa, Gabriele, mi dici cosa basta che a me, di questa vita, non basta mai?
Io ho fame, amore, del mondo. Tagliamene una fetta, spruzziamoci un po’ di panna montata, anche se a me fa schifo la panna, montata e non, e mangiamocelo, questo mondo. Facciamolo a pezzi e divoriamolo, amore, ti va?
Beh, a me va.
«Amore ti va se poi andiamo a fare un giro in moto, in autostrada?» ti chiedo, sperando di farti sorridere. «A tutta birra, che importa dove andiamo? L’importante è andare, venire, oh… ti va?».
Tu sospiri e io comprendo: no, non ti va. Non mi vuoi più, forse mi vuoi lasciare, e forse non sarà la stagista, ma sarà la segretaria, chi? Dimmelo, chi?
Oh. Mi dici che sono solo io, fin da quando avevo quindici anni, io, i-o. Mi chiami per nome e mi dici che non sto ascoltando e forse è vero, i-o sto ascoltando o non lo sto facendo?
«Lena» mi chiami, come se pronunciare il mio nome possa aiutarmi a guadagnare in lucidità. «Guardati, guarda cosa ti stai facendo».
Io mi guardo. Nello specchio, una donna che non è cresciuta mai mi guarda in una posa da carta d’identità.
Nome, Elena, Cognome, Sanfilippi.
Luogo di nascita, Roma, data di nascita è ventidue ottobre millenovecentonovantacinque, mi raccomando, segni bene. Sì, ho ventisei anni, lo so che ne dimostro la metà, sì.
Occupazione? Laureata in Fisica con lode, ho mollato un dottorato, l’insegnamento e adesso un comodo impiego di commessa in un supermercato.
Stato civile? Mi creda, io non lo so.
Mi guardo allo specchio e ci vedo riflessa me, questo sì, ma anche te che mi guardi e senza il riflesso dei tuoi occhi grigi io non credo più. C’è qualcosa da credere, un Dio bipolare da far pronunciare, quando smetti di volerci provare?
Quando smetti di voler tentare di dare un senso a quei punti spaiati che sono nella tua testa, ma non compongono mai un disegno, sono solo lì, le lentiggini del tuo cervello in fiamme. Forse sono macchie solari, o lunari, un giorno adorerei andare sulla luna. Sono già in orbita, quando mi rendo conto che sono tre notti che non dormo e allora sono a tanto così dall’avere le allucinazioni, perché non si vive senza dormire, no?
«Domani andiamo dal dottore» mi ripeti, carezzandomi il capo. «E sistemiamo tutto questo, te lo prometto. Basterà solamente…».
Trovare il dosaggio, pensi, ma non lo dici perché io ti guardo e ho il viso di chi ne ha provati milioni, no, miliardi, di dosaggi. Ma il litio non sembra attecchire nel mio sangue – quand’è che ho smesso di prenderlo? Ho mai veramente cominciato?
Una pillolina magica per finire in un altro modo, e io le ho provate tutte: l’ansiolitico per il peso sul petto, l’antidepressivo, il litio, l’antiepilettico che però io l’epilessia non ce l’ho, dottore, ma è lei che è impazzito o sono io?
E allora non lo dici, mi carezzi il capo e forse pensi che avresti voluto una vita normale con una donna normale e dei figli e non me che mi sono svegliata sdoppiata quando avevo sedici anni, e non mi sono più ricongiunta con me stessa. Non mi basta, essere Dio, per ricomporre i pezzi smembrati della mia storia con te.
Però dici ancora che non mi capisci, che io non ti dico mai – ma ti dico amami, quello sì, e tu non lo fai. Non lo fai più.
L’hai fatto mai? O sono stata la tua missione, la buona azione da fare per sentirti bene con te stesso, in un senso di falsa sicurezza che – ne sono sicura – adori, e io sono solamente pazza di te che non ti lascerei andare nemmeno se me lo chiedessi. E tu ti arrendi, lo fai sempre con me, forse per disperazione forse per incomunicabilità, forse perché la realtà fa così male che può solo esser negata, e allora neghiamola, no?
D’altronde a me la realtà è stata negata, quindi perché io non dovrei negare la realtà? Me lo impedisci tu, Gabri?
Me lo impedisci mentre mi guardi e versi un bicchiere d’acqua frizzante, perché la vita è tutta una bolla e io mi sento effervescente come l’acqua nel vetro azzurro di fronte a me: mi hanno sempre fatto schifo, quei bicchieri, perché li abbiamo voluti azzurri? Mi versi un bicchiere d’acqua e me lo spingi davanti, e dalle tue mani – sei un prestigiatore, Gabri, sei magico? – compare la scatola delle mie pillole. Intonsa, io non l’ho toccata mai.
Ti porgo le mani, è un gioco che conosco fin troppo bene: ti porgo le mani e tu mi versi tre capsule blu sul palmo e io ti sorrido, grata, ma non le prendo.
«Lena» sospiri, con tono di avvertimento. «Prendile».
«Cosa vuoi che facciano» ti rispondo io, calma. «Non esistono i miracoli, sai?».
Ma tu sospiri nuovamente e mi fai cenno di prenderle, in un sorso, anche se io non voglio farlo mai più – ma devo, perché tu mi dici che non ne possiamo parlare, che non puoi più amarmi se non le prendo. E allora io devo semplicemente aprire la bocca e prendere un sorso d’acqua.
Metto le pillole sotto la lingua, deglutisco, tu mi guardi pieno di speranze e.
E.
 
***
 
Mi dici che cerchi di afferrarmi, ma non mi prendi mai – che è semplice pensare di prendermi per la coda, ma io non l’ho, una coda da afferrare, un’anima da prendere e rimboccare come un letto con le coperte tutte scompigliate, dopo che ci hai dormito tu.
Io non riesco a sentirti. È come stare sott’acqua, in un mondo insensatamente asfissiante, in un mondo che non c’è e allora non ci sono nemmeno io – ma, Gabri, te l’ho detto: il senso della realtà è quello di essere negata, e questa realtà non può esistere, non può. Io non ci voglio credere, che possa fare così male.
Mi dici che passerà. Mi dici che passerà perché tutto passa, anche questo, anche se io credo che questa sia l’ultima volta che sopporto qualcosa di simile. Mi dici ti amo, e io penso che mi chiamerai quando tornerai dal lavoro, quando la cena è pronta, e io sentirò la tua voce e mi domanderò ancora se ne varrà la pena.
Lo capisci che non ti sento più, anche se tu dici di sentirmi come un arto fantasma, e io sì sono un fantasma? Ma a te non basta. A. Te. Non. Basta.
A te non basta sentirmi in questa maniera imperfetta, come si sente qualcosa di evanescente, qualcosa di insensato, e che senso ho io?
Mi telefoni e dici ti va se usciamo, e io ti rispondo che anch’io ti amo, e mi dici andiamo al mare e io il mare lo odio, scusami Gabri, lo odio per davvero.
E odio quando devi provare a prendermi e la sera mi metti le medicine in mano, ma mi hanno solo ucciso l’euforia e io sono così stanca, Gabri, te lo giuro, e le prendo quelle pillole e… e le prendo per davvero, okay? Okay.
Ne prendo tre, quattro, cinque, sei.
Quelle che servono, anche di più. Andiamo al mare?
Dici che il nostro problema è che non comunichiamo, ma io ti amo e tu pure, e io penso che il nostro problema sia che semplicemente io non funziono come dovrei e tu lo sai, lo sai, e non serve a niente perché io non ho più parole e.
E.



Forse Dio non è bipolare, perché il bipolarismo ti fa sanguinare l’anima in una maniera che esula dal comprensibile. Allora, mi spieghi perché?
[Trentadue].

 
1Euripide, Medea

Questa storia voleva essere un monologo pensato in due fasi diverse di Lena. La storia è al momento incompiuta, a causa del contest: due settimane dopo la pubblicazione dei risultati, aggiungerò il finale quindi, se volete sapere la conclusione, vi aspetto qui tra qualche tempo.
Fatemi sapere che ne pensate - da parte mia, ho cercato di essere onesta e mai esagerata nella rappresentazione di questo disturbo, spero che ciò si sia inteso dal testo.
Gaia

[Storia completata]
   
 
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