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Autore: Pat9015    25/04/2021    2 recensioni
Circa otto mesi dopo il devastante tornado che ha spazzato via Arcadia Bay, Max e Chloe hanno cercato di andare avanti, ricostruendosi una vita quasi normale a Seattle, nonostante i traumi e i sensi di colpa che si portano dentro. Le indagini sui crimini di Jefferson, però, si stanno rivelando più complicate del previsto e vedono la bilancia della colpevolezza pendere sempre più verso Nathan Prescott, ancora dato per disperso e il cui corpo non è mai stato trovato e la famiglia finita in disgrazia a livello nazionale. Questo, unito a una serie di fatti ravvicinati tra loro, costringerà le due ragazze a tornare nel luogo da cui erano fuggite, costringendole ad affrontare, e questa volta senza poteri, i propri demoni interiori e questioni lasciate in sospeso sotto le macerie di Arcadia Bay.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Chloe Price, David Madsen, Mark Jefferson, Max Caulfield, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Parte Terza
 
Satya Yuga
 
 
 
 
 
1
 
 
 
 
Dal notiziario di KVAL-TV, Oregon
 
Breaking News!
 
 
Trovato un corpo all’Accademia Blackwell
 
 
 
“Circa due ore fa, la polizia ha rinvenuto un cadavere nei pressi del dormitorio dell’Accademia Blackwell di Arcadia Bay. Il corpo, stando da ciò che dicono le fonti interne, è stato rinvenuto sepolto, perciò non si tratterebbe di una vittima potenzialmente inserita tra i dispersi del tornado. Si fa largo l’ipotesi che sia il cadavere del giovane rampollo della famiglia Prescott, Nathan, dato per disperso da Ottobre Duemilatredici e sospettato di essere l’autore dell’omicidio di Rachel Amber e anche delle molestie avvenute nel bunker sotterraneo nella fattoria di proprietà proprio dei Prescott.
Se fosse confermato, la posizione di Mark Jefferson, attualmente  incarcerato per occultamento di cadavere e complicità nei crimini di Prescott, cambierebbe completamente.
Al momento, la polizia non ha ancora rilasciato nulla di ufficiale e, come vedete alle mie spalle, l’Accademia Blackwell rimane transennata e chiusa al pubblico. Si parla anche di un coinvolgimento dell’FBI, ma questo potrebbe essere solo una prassi per accertarsi se si tratta o meno del giovane Prescott.
Al momento, tutto tace e vi aggiorneremo in caso vi siano ulteriori sviluppi.
 
 
 
2
 
 
 
Dalla prima pagina del giornale ‘Headlight – Herald’ di Tillamook
 
 
Celebre Avvocato abbandona Jefferson
 
di William Green
 
Humphrey McKinsey, avvocato molto celebre nello stato dell’Oregon con all’attivo un impressionante numero di vittorie nella sua lunga carriera, si è ritirato dal caso che vede imputato il suo, oramai, ex assistito Mark Jefferson. Ancora non è chiaro chi raccoglierà il peso della difesa ma McKinsey ha dichiarato che sceglierà personalmente il proprio sostituto e che sarà un giovane promettente che si batterà degnamente per vincere questa battaglia. La nota, inoltre, non fornisce spiegazioni se non un accenno a delle motivazioni strettamente personali.
Immediatamente si sono rincorse voci e sospetti che l’abbandono sia legato al ritrovamento del corpo seppellito presso l’Accademia Blackwell, quasi confermando l’ipotesi che si tratti del giovane Nathan Prescott, diciannove anni, svanito nel nulla poco dopo il tornado e, sulla quale, si basava tutta la struttura difensiva di McKinsey che vedeva nell’erede della famiglia Prescott il vero e solo colpevole, con il ruolo del suo assistito di insegnante troppo diligente e preoccupato nel tutelare un giovane problematico. La nota, si precisa, è stata rilasciata ben prima che il corpo fosse ritrovato, ovvero a metà mattina. Quindi, l’abbandono di McKinsey dovrebbe essere indipendente dal fatto avvenuto nel pomeriggio presso l’Accademia Blackwell.
Continua a pagina 4
 
 
 
3
 
 
Le porte dell’ascensore si aprirono e Kristine Prescott sbucò fuori in gran carriera. Era moltissimo che non metteva piede nel piano privato del Seaside e non badò molto a vedere se era stato cambiato qualcosa (aveva lasciato quasi carta bianca al direttore) dato che le tre ragazze erano davanti alla porta a vetri della piscina. Erano tutte e tre molto provate, specialmente Max, ma sembrava che i loro visi cominciassero a rilassarsi un poco. Erano passate trentasei ore dalla loro scoperta e non aveva avuto modo di raggiungerle prima. Prima era stata convocata in commissariato per rispondere ad alcune domande, poi aveva dovuto riconoscere il corpo in base ai pochi oggetti rinvenuti addosso al cadavere. Infine, aveva atteso il test del DNA per avere la conferma finale.
Nathan Prescott era deceduto da almeno nove mesi, sepolto poco dopo la sua morte, con i vestiti che indossava al momento della scomparsa. Non se ne era mai andato, non era un pericoloso fuggiasco. Era solo l’ultima vittima. Era finita.
Sorrise al trio e, una per una,le abbracciò, mormorando un ‘grazie’ a tutte. Chloe e Max si limitarono a un ''figurati’' '‘ grazie a te'', mentre Steph chiese se ora poteva almeno uscire con lei.
Questo le strappò un sorriso divertito. Era bello sapere che, comunque, stavano mantenendo la loro personalità.
“Vi ho chiesto tanto, forse troppo, e me ne rammarico. Ma ci siete riuscite. Avete fatto ciò che tante persone ben più qualificate non hanno saputo fare. Sono e sarò sempre in debito con voi. Grazie ancora.”
Sospirò, passò in rassegno i loro volti, poi riprese
“Vi devo chiedere un ultimo sforzo, ma stavolta non per me, ma per voi stesse: dovreste continuare a restare qui, nascoste. Non uscite, non incontrate nessuno. Non scendete nemmeno ai piani di sotto. Vi farò portare su tutti i pasti e ogni cosa di cui voi possiate chiedere e necessitare. Per quanto il personale dell’albergo sia professionale e non abbia aperto bocca sulla vostra presenza qui, qualche ospite penso possa averlo fatto, perché stanno già per riunirsi di sotto dei giornalisti. Ora sono pochi, ma se la voce trovasse conferma, presto saranno molti di più.”
“Siamo sotto assedio, quindi?” chiese Chloe
“Brutale, ma si. Sopportate tutto per un paio di giorni, poi spero che le forze dell’ordine li facciano sloggiare.”
“I miei genitori…”
“Non possono venire, Max. Perdonami, ma non ora. Dì loro di aspettare ancora, magari altri tre giorni. Se non trovano alloggio, vi darò la terza suite libera, ma per favore non convocate nessuno dei vostri parenti.”
Steph alzò la mano
“Mi servirebbe un servizio di lavanderia e, se possibile, alcolici. Mandateci su cibo e un barman, per favore.”
Kristine sorrise
“Si, perché no. Ve lo meritate. Vi farò avere un servizio privato di lavanderia per la notte, allestiremo qui un tavolo per farvi mangiare e qualsiasi altra cosa vi serva. L’importante è che sopportiate questi due giorni di reclusione forzata. Il processo, si dice, potrebbe essere spostato di un giorno o di una settimana. I vostri avvocati vi hanno contattato?”
Max e Chloe annuirono
“Ci hanno detto che la situazione è un po’ cambiata, che saremo obbligate a presenziare e che forse abbiamo dato all’accusa l’asso vincente, ma ci hanno pregati di stare ferme e non fare più niente di niente.” spiegò Max
“In parole povere: brave ma non muovete più il culo o vi strangoliamo.” disse Chloe
“A me nessuno mi ha cercata, eccetto i miei. Volevano solo sapere se avessi sentito di quel cadavere ritrovato in questa zona visto che credono che sia qui con delle amiche a rilassarmi.” disse Steph
“Ah si?” chiese Kristine “Che gli hai detto?”
“Che ero con le mie amiche…. Anche quando lo abbiamo trovato. Credo che mia madre sia svenuta per un paio d’ore.”
Kristine rise poi decise che era ora di congedarsi ma, prima che potesse andarsene, Chloe la chiamò
“Sei stata tu, vero?”
Kristine pareva confusa. Steph pescò dalla tasca una pagina di un giornale locale e la aprì. Parlava dell’abbandono di McKinsey. Sorrise.
“Quello stronzo di avvocato. Sei stata tu, vero? Tu lo hai fatto saltare.”
Kristine annuì
“Aveva ingaggiato un detective privato per seguirvi e poi minacciarvi. Non ho voluto dirvi nulla ma sono intervenuta appena ho potuto e l’ho fatto sloggiare. Penso che la sua carriera, con questo scherzo, non sia finita bene come avrebbe voluto. Ho del materiale interessante su di lui che penso di far recapitare, per caso, a qualche giornale locale, non appena l’attenzione su Jefferson sarà calata. Così, giusto per rinvigorire il fuocherello.”
Steph si batté una mano sulla testa
“Cazzo! Il mio aggressore!” esclamò “Ecco chi era e perché sapeva tutto! Bastardo d’un avvocato!”
Chloe, invece, emise un fischio di approvazione
“Notevole, Prescott. Ci hai salvato le chiappe, a quanto pare. Ti siamo tutte debitrici.”
Kristine scosse la testa
“Affatto. Sono io che ho un debito con voi e questo non cambia minimamente la questione. Ho dovuto agire per il vostro interesse tanto quanto per il mio. Inoltre, potrebbe rientrare nel mio compito di fornirvi supporto logistico, come darvi le stanze. Davvero, ragazze mie, vi devo moltissimo. Spero di rivedermi presto, dato che ora anche per me inizierà un bel periodo di caos e sarà meglio per tutte non incrociarci qui fino a dopo il processo, o i media potrebbero fare due più due.”
“Aspetta!” disse Max “Il corpo di tuo fratello…. Dove….”
“Dove si trova? Dove lo seppelliremo?” chiese Kristine “Per ora è ancora in mano alla scientifica. Quando sarà possibile, lo farò seppellire in Florida, dagli avi. Non credo sia giusto seppellirlo ad Arcadia, dopo quello che ha fatto. Anche se qui riposa una bella fetta di generazioni di Prescott, Nathan ha perso il suo diritto a riposare accanto ai suoi nonni e tornare da dove la nostra famiglia arrivò, parecchie generazioni fa. E’ più giusto cosi, per la gente di Arcadia, per i morti di Arcadia e per i crimini che mio fratello ha commesso in Arcadia. Il nome dei Prescott, come vi dissi, deve lasciare Arcadia Bay il più velocemente possibile. Il resto, verrà con la ricostruzione.”
Max annuì e abbracciò nuovamente Kristine che, sorpresa da quel gesto, inizialmente non ricambiò, salvo poi rimediare con estremo affetto.
“Mi dispiace davvero per tuo fratello. Non meritava di finire così…. Se solo fosse stato aiutato…”
“No, non lo meritava, ma ha comunque ucciso una persona e ferito molte altre. Comunque, avrebbe dovuto pagare e sì, andava aiutato. Ma questo non è più un tuo cruccio: lo sarà per mio padre e mia madre. Lascia andare, Max. Lascia andare per sempre tutte queste ombre. E’ finita. Sei uscita dalla tempesta.” le sussurrò Kristine in risposta.
Separatesi, Kristine annunciò che avrebbe pensato lei ai loro abiti per il processo, fornendogli capi su misura e decisamente adatti a spaccare l’obiettivo. In realtà, era solo una provocazione per Jefferson: le avrebbe viste bellissime e irraggiungibili. Per sempre.
 
 
 
Quella sera, per loro, fu abbastanza inusuale cenare in quel tavolo da campeggio, montato in fretta e furia, in mezzo al corridoio.
Verso le cinque del pomeriggio, quattro uomini del personale erano saliti e avevano portato il materiale necessario per allestire tavolo e sedie, oltre che un corredo nuovo di asciugamani, accessori da toletta nuovi, chiedere loro cosa gradissero per cena e colazione e sacchi per la lavanderia che avrebbero ritirato dopocena e consegnato il mattino seguente. Max si sentiva un po’ a disagio a essere così servita, ma accettò il tutto con una sorta di rassegnazione. Alla televisione, infatti, le parole di Kristine si erano presto concretizzate in fatti: servizi di enti locali e non puntavano le telecamere sul Seaside interrogandosi se le ragazze fossero davvero al suo interno, nascoste alla stampa e alla verità nazionale.
Ovviamente, i commenti spaziavano dai più lusinghieri (ancora una volta, le eroine di Arcadia Bay compiono un passo decisivo per le indagini contro Mark Jefferson!) ad altri meno piacevoli (prima Rachel Amber, ora Nathan Prescott: come fanno due ragazzine a scovare due cadaveri mentre le forze di polizia falliscono? Che sappiano o che siano loro le vere colpevoli?). La gogna mediatica era ricominciata e, questa volta, si annunciava pesante e cinica anche verso di loro.
“E nemmeno una menzione sulle mie chiappe. Io ho un bel culo, perché non fa notizia?” commentò Steph, per stemperare la situazione.
Dopocena, si dedicarono a una partita a carte e si fecero servire due giri di mojito, ma nemmeno questo sembrò alleggerire le loro menti.
Max continuava a rimuginare.
Non si era rilassata molto dalla scoperta del cadavere di Nathan. Era triste perché sentiva di aver deluso i suoi genitori, avendo mentito loro. Certo, li aveva sentiti e loro erano parsi orgogliosi di lei e Chloe ma, in cuor suo, sapeva che un po’ si sentivano in ansia per via dell’esposizione mediatica alla quale la loro bambina si era esposta (di nuovo )  volontariamente. I coniugi Caulfield avrebbero voluto raggiungerla subito ma, purtroppo, gli avvocati avevano sconsigliato, per il momento, di muoversi da Seattle poiché presto si sarebbero trovati nell’occhio nel ciclone anche loro. Previsione concretizzatasi la mattina seguente la scoperta del corpo di Nathan, con un nugolo di giornalisti fuori da casa Caulfield. Inoltre, con la visita di Kristine, aveva intuito che i tempi per rivedere la sua famiglia si sarebbero ulteriormente allungati. Forse, se tutto fosse andato bene, li avrebbe rivisti al processo. O forse, addirittura dopo.
Questo, purtroppo, non aiutava il suo umore. Oltre a sentire di aver tradito la loro fiducia, sentiva anche di averli esposti troppo questa volta, stravolgendo la loro vita pacifica. I suoi genitori non erano gente da stare troppo sui riflettori. Erano riservati, tranquilli e pacifici, non avrebbero retto troppo a lungo quell’esposizione.
Si sentiva in colpa anche verso Chloe e Steph.
Sulla prima, non bastava sminuire il tutto con un ‘siamo partner, sempre e comunque’ questa volta. Erano i suoi guai, erano le conseguenze delle sue scelte e avrebbe dovuto affrontarle da sola. Chloe voleva solo rivedere sua madre, invece si era ritrovata a fare i conti con lei, su scelte che non aveva fatto. Sentiva, nella sua mente, la voce di Chloe che ripeteva ‘no Max sono scelte anche mie, ti ho obbligata io, le mie stronzate ti hanno obbligata a compiere certe scelte’ eccetera eccetera, ma stavolta non attaccavano, non la sollevavano. Stavolta, era tutta una sua responsabilità. Anche stavolta, il tornado lo aveva visto solo lei, il senso di colpa di tutte quelle morti negli incubi avevano preso forma dei suoi compagni di classe, non di Chloe. Questa era una sua battaglia e la ragazza che amava ci era finita in prima linea. Non era giusto, non doveva finire così. Poteva esserci tutto l’amore del mondo ma non era comunque sufficiente a giustificare un sacrificio.
E Steph?
Cazzo, l’aveva conosciuta da poco e ora era loro prigioniera, in cima a quell’hotel, con pochi vestiti e con i suoi genitori che le telefonavano ogni ora sempre più in preda all’angoscia, totalmente spiazzati dalla situazione. Certo orgogliosi, ma spaventati.
Steph la metteva sul ridere e non voleva far credere che fosse preoccupata, ma lo era. Le spiaceva sentire suo padre e sua madre così in pensiero per lei, timorosi che la sua vita fosse ora finita in un ciclone che non le avrebbe più restituito tranquillità e anonimato.
Inoltre, lei stessa era rimasta sconvolta dalle testimonianze di Laureen e Samantha, nel sapere quante altre erano finite vittime di Jefferson, senza contare la vita di un cadavere di un ragazzo che, anche se poco, conosceva.
Per quanto loro due apparivano più forti di lei, anche nella loro armatura vedeva crepe di stanchezza e timore. Nessun tornado sarebbe giunto a coprire le tracce, stavolta.
Ora loro erano il tornado.
Lo era la gente che voleva vederle, parlare, chiarire, incolparle, glorificarle. Erano tutti quanti parte di una tempesta che, al momento, non riusciva a capire dove si stesse per abbattere, se non sulle loro stesse vite.
Si sorprese mentre fissava la sua stessa mano destra. Quella mano che era, da quasi un anno, una chiave per un potere che non aveva voluto. Giaceva inerte e abbandonata sulla sua coscia e le sembrò aliena, distante. Non sua.
Negli ultimi, lunghissimi mesi aveva dovuto educarsi a un più corretto e responsabile uso della sua mano destra. Aveva capito che il potere si sarebbe attivato solo che la sua volontà e la sua determinazione erano mirate a riavvolgere il tempo ma, per qualche strano motivo, era fisicamente necessario che la sua mano destra si sollevasse. Non occorreva alzare molto il braccio, solo compiere un movimento con il polso verso l’alto, deciso e con la mente ben determinata a tornare indietro. Aveva, perciò, compreso a suo malgrado che non poteva distrarsi. Ogni movimento della mano destra doveva essere eseguito consapevolmente o comunque in uno stato di quiete. Se si fosse distratta o agitata e, inconsapevolmente, alzato la mano destra, il potere si sarebbe riattivato contro la sua volontà. Non sapeva dire quanto tempo avesse speso a rimanere concentrata, a far diventare di nuovo la sua mano destra una semplice mano, misurando attentamente ogni azione. Per un po’, aveva considerato anche di diventare mancina…
Cazzo, più la guardava e più sentiva il desiderio di amputarsela….
Beata Chloe che era nata mancina!
Il lato positivo è che aveva preso più consapevolezza di sé.
In parte, l’esperienza maturata al primo ritorno ad Arcadia l’avevano aiutata moltissimo a maturare e, perciò, molto del suo nuovo carattere era frutto di quella settimana infernale. Poi però, il costante pericolo del suo potere, la vigilanza ininterrotta fatta per tenerlo imbrigliato e l’attenzione mirata a ogni suo piccolo gesto, l’aveva resa più acuta e più propensa ai dettagli. Forse per questo che aveva risolto il mistero del corpo di Nathan.
Ma quel cazzo di potere, per quanto non lo usasse più, era sempre fonte di guai.
Iniziava a chiedersi (e iniziava a farlo sempre più frequentemente) se i suoi incubi, i suoi traumi e lo stress non fosse anche una sorta di ‘sfogo’ per la repressione del suo potere. Sì, accettava l’idea che lei e Chloe vivessero con una sindrome del sopravissuto, uno stress post traumatico eccetera eccetera, ma perché le sue sensazioni si facevano sempre più amplificate, i suoi incubi sempre più vividi e ferocemente intensi? Temeva, in cuor suo, che il potere avesse bisogno di essere sfogato: se lo avesse usato, la natura avrebbe chiesto il conto, se lo avesse continuato a reprimere, sarebbe stata la sua stessa mente a pagare.
In ogni caso, avrebbe pagato lei.
Una maledizione, altro che cazzo di superpotere!
Inoltre, sentiva occasioni fastidi al polso, come se i nervi si tendessero e si rischiassero di rompere. Inconsciamente, pensava, tendeva a tenere la mano più tesa e immobile possibile, per un timore interiore di usare le sue abilità. Non avrebbe voluto? Cazzo si!
Sarebbe tornata fino all’inizio di quella storia di merda, avrebbe indicato il luogo di Nathan in maniera anonima e se ne sarebbe rimasta tranquilla con Chloe, lontana da tutta la merda. Sarebbero venute solo per salutare Joyce e nient’altro.
Si sentiva così confusa e stanca e oltremodo in colpa per le altre due ragazze.
Se solo…
“Hey, sei ancora con noi?”
Chloe la stava chiamando. Aveva appoggiato una mano sulla sua spalla e la fissava con un sorriso a mezza bocca.
Lei e Steph stavano ancora giocando a carte (lei si era ritirata perché continuava a perdere: non capiva il gioco) e doveva aver notato che si era persa nei suoi pensieri.
“Si, scusatemi… io stavo solo…”
“Pensando?” chiese Steph “Come al solito. Pensi troppo Max! Dico davvero: rilassati.”
“E’ solo che non riesco. Io mi sento…”
“Come? In colpa per Jefferson? Ti ammazzo di botte.” disse Chloe
Steph rise e anche Max abbozzò un sorriso distensivo.
“No, mai. Solo che… beh mi spiace. Per voi” aggiunse “insomma se avessi detto di no a Kristine, ora saremmo tutte più tranquille.”
“Oh, si certo. Saresti in camera tua a frustarti da sola pensando che Jefferson sarebbe uscito dal carcere facilmente e tu non lo hai impedito.” le disse Chloe “Max, smettila, ok? Ci siamo venute dentro noi, di nostra spontanea volontà. Non ci hai mica obbligato!”
“Esatto.” s‘intromise Steph “Io potevo salutarvi appena Chloe mi disse cosa riguardava la faccenda in cui mi volevate coinvolgere. Ho scelto di rimanere e sono felice: se voi due non aveste agito, ora Jefferson avrebbe ancora McKinsey e tutte le possibilità di uscirne quasi indenne. Ora,invece, è fottuto.”
“Sai cosa, Max? Va in camera e lavati i denti e la faccia. Poi torna qui con un bel sorriso e riprova a giocare con noi!” le suggerì Chloe
Pensò che era inutile ( davvero era imbranata a carte!) ma non poteva passare quella prigionia a pensare e ripensare a tutta quella situazione e darsi la colpa. Annuì e andò in camera. Si accorse che avevano lasciato il televisore acceso ma non lo spense subito. Prima andò in bagno e si lavò faccia e denti. Poi, prima di raggiungere le altre, andò a prendere il telecomando dal letto e fece per spegnere il televisore, quando vide la trasmissione e si bloccò.
Era un’edizione straordinaria del telegiornale locale.
Lesse i titoli e urlò a gran voce i nomi di Chloe e Steph.
Le due ragazze si precipitarono in camera, allarmate
“Che c’è ? Che succede??” chiese Chloe
Max non rispose e si limitò a indicare il televisore: l’edizione speciale indicava che, finalmente, qualche vittima presunta di Jefferson aveva iniziato a parlare. Un servizio stava trasmettendo un’intervista a una ragazza, in ombra e con la voce contraffatta, in cui raccontava la sua molestia e che era coinvolta una seconda ragazza con lei, di cui era certa che la polizia non sapesse nulla. Steph spalancò gli occhi ed esclamò
“E’ Laureen!”
Chloe e Max la fissarono per un istante, poi osservarono di nuovo la siluette nera nel televisore. In effetti, somigliava a Laureen nei contorni e la storia che conoscesse una seconda ragazza coinvolta…
Steph cominciò a urlare e saltare perla stanza.
“Cazzo, si! SI! Ci siamo riuscite, ragazze! Abbiamo vinto in tutte le piste! Cazzo, si! SI!!”
Max si lasciò cadere a sedere sul letto e cominciò a ridere nervosamente e a piangere.
Non ci poteva credere, non riusciva lontanamente a credere….
Ora anche le vittime stavano iniziando a parlare. Era finita davvero.
Quel mostro era senza speranze: niente più avvocato difensore esperto, cadavere di uno studente cui aveva scaricato ogni colpa e ora le vittime si stavano facendo avanti per incastrarlo.
Il cerchio si stava chiudendo.
“Dite che è merito nostro?  Cioè perché abbiamo trovato il cadavere di Nathan o perché le abbiamo parlato?” chiese Chloe
“Penso entrambe le cose: il fatto che i nostri nomi siano stati associati al ritrovamento del cadavere del ragazzo più ricercato dell’ultimo semestre, unita a quella visita per farla parlare, potrebbe averle dato la sicurezza per scoprirsi. Ormai Jefferson era fottuto, no? Perso ogni alibi, non c’erano possibilità che se la potesse cavare nemmeno se fosse rimasto McKinsey. Questo potrebbe aver dato coraggio a Laureen per appesantire le accuse e, mi auguro, darà coraggio a tutte le altre. Oh, ragazze vi rendete conto di cosa abbiamo fatto? E’ un fottuto capolavoro!”
Anche Chloe si accasciò sul letto e prese Max tra le sue braccia, stringendola con orgoglio
“Ci sei riuscita ancora, Max. Non puoi salvare tutti, ma quasi. Sono tremendamente fiera di averti.”
Max sentì scaldarsi il cuore
“Merito di tutte e tre, Chloe: non avrei retto da sola.”
“Ok, ok. Ora però promettimi una cosa: che salverai ancora una persona, la più importante.”
“Chi, Chloe?”
“Tu. Salvati Max. Non cadere nel buio. Non permetterò che accada, ti prenderò se dovessi farlo. Ma devi essere la prima a volersi salvare.”
Come al solito, la sua mente era un libro aperto per Chloe. Com’era possibile che quella ragazza la vedesse sempre, anche quando mascherava? Anche quando voleva rendersi invisibile?
Era così forte l’amore tra di loro?
Doveva salvarsi, è vero. Soprattutto per lei, che per se stessa.
Per l’ennesima volta, i suoi nervi cedettero e pianse tra le braccia di Chloe.
Steph, in religioso silenzio, si allontanò dalla camera e concesse loro un po’ d’intimità.
 

 
 
 
 
 
 
4
 
 
La previsione di Steph fu quanto mai azzeccata.
La bomba sganciata dalla confessione spontanea e pubblica di Laureen (ancora non si era provato che fosse lei, ma le tre ragazze erano certe) aveva innescato un domino e nel giro di un giorno, altre tre ex vittime di Jefferson si fecero avanti presso le autorità competenti. Alla sera, le vittime pronte a testimoniare e confermate dalla loro presenza sulla ormai celeberrima lista era salito a sette.
David aveva chiamato nel pomeriggio per far parlare Chloe con sua madre che, venuta a conoscenza della storia, si voleva sincerare che la figlia stesse bene
“Sei una pazza, sai?  Sei davvero folle, ma sei un’eroina. Sei ancora una eroina, Chloe! Ti vorrei strozzare e abbracciare allo stesso tempo. Stessa cosa per Max. Siete pazze, ragazze. Ma per fortuna che lo siete, visto tutto il bene che state facendo. Ora riguardatevi e state lontano dai giornalisti!”
Finita la pseudo ramanzina della madre, David si era soffermato al telefono per dire loro che l’agente Castillo sapeva che l’improvvisa voglia di confessare delle varie vittime, specie della prima che si era esposta, era colpa loro e voleva far sapere quanto era grata verso le ragazze, anche se ufficialmente non poteva dichiararlo apertamente. L’FBI, adesso, contava solo su di lei, mentre gli altri agenti erano stati ritirati da ogni mansione inerente al caso Prescott.
Anche David volle ringraziarle e ripetere quanto fosse fiero e, al tempo stesso, preoccupato per le conseguenze che queste azioni avrebbero avuto sulle loro vite e nell’immediato futuro.
Disse anche loro che, vista l’ondata di confessioni, c’era il concreto rischio che il processo potesse essere spostato di qualche giorno.
Chloe si lamentò, dicendo che non intendeva aspettare rinchiusa in hotel fino a data da destinarsi ma fu rincuorata subito: i giornalisti stavano per andarsene, attirati più dalla caccia alle vittime che, ora, si stavano facendo avanti. Molte volevano ancora l’anonimato, altre erano pronte a parlare pubblicamente.
Così, il giorno dopo, David in persona si presentò all’hotel per annunciare loro che, ufficiosamente, il processo era quasi sicuramente spostato a Settembre. Si sarebbe sempre tenuto nel tribunale di Portland ma, viste le pesanti novità, era necessario analizzare tutto: ogni confessione, ogni dichiarazione, le analisi sul corpo di Nathan. Loro, però, non erano ancora autorizzate a lasciare l’hotel fino al giorno successivo, tranne Steph.
“I tuoi genitori verranno a prenderti oggi pomeriggio. Scusa se te lo comunico così, ma siamo veramente incasinati e vogliamo organizzare anche la vostra partenza nella maniera più discreta possibile. Non tornerai, per ora, in università, ma ti chiediamo di restare a casa dei tuoi genitori finché non sarai convocata per una dichiarazione ufficiale. Non verrai convocata subito al processo, forse alla seconda seduta, a differenza di Max e Chloe. Il motivo è che loro due sono coinvolte anche nella faccenda di Ottobre e sono più interessati a sentire la loro storia da quella famosa settimana. Mi spiace comunicarvelo così, ma a breve dovrete salutarvi.”
Questa notizia rattristò un po’ il trio. Si godettero il pranzo insieme e un ultimo tuffo in piscina. Poi, alle sei di sera, Kristine salì al piano accompagnata da un uomo e una donna sulla cinquantina. La donna era minuta, con capelli castani e punte bianche ai lati, un viso che somigliava tremendamente a quello di Steph: era la famiglia Gingrich.
I genitori di Steph sorrisero nel vedere la figlia che, senza remore, si precipitò ad abbracciare.
“Sei stata eccezionale, Stephanie.” mormorò il padre, con una voce bella rauca.
La madre, invece, si prodigò a ringraziare anche Max e Chloe, trattandole come eroine nazionali e con una formalità che mise a disagio non poco le due.
Steph, che aveva già i bagagli pronti, si attardò a salutare le sue nuove amiche.
“Beh, ci vedremo prima o poi. Vero?” chiese, un po’ triste “Spero che riusciate a fare il vostro viaggio in California questa estate.”
Max lanciò una occhiata complice a Chloe
“Sai, la brandina in soffitta starebbe giusta giusta ai piedi del nostro letto. Vero?”
Chloe, che aveva colto, si fine pensierosa
“Si, penso di si. Certo, lo spazio sarebbe ridotto un po’, ma…. Beh non staremo mica tutto il tempo in camera. Oppure nel finto studio di tuo padre!”
“Si, anche… ma troppo brutto piazzare un’ospite li, no? Senza nemmeno un armadio…”
“Certo. Non siamo incivili. In camera nostra, andrà bene.”
Steph fissava entrambe con aria interrogativa
“Siete impazzite?”
Le due risero
“Ti vogliamo da noi appena possibile, per tutta l’estate.” disse Max
“Sei pazza!” esclamò Steph “Non posso farmi mantenere in casa tua per il resto dell’estate!”
“Non saresti mantenuta!” disse Max “Saresti ospite.”
“Esatto: quella mantenuta sono solo io e ci tengo a rimanere la sola.” ribatté Chloe “E poi io devo tornare a lavorare: servirà che qualcuno controlli Max quando non ci sono, prima che decida di fare ancora la detective.”
Steph era confusa
“Ma il vostro viaggio…”
“Lo faremo.” disse Max “Se vuoi puoi venire con noi. Oppure torna a casa  per i giorni in cui non ci saremo, ma penso ci piacerebbe di più averti con noi in California.”
“Ma è il VOSTRO…”
“Smettila, Steph.” disse Chloe “Ne abbiamo parlato l’altra sera, dopo che ci hai abbandonato in camera: vogliamo che tu venga a Seattle e in California. Con il processo e la tua università, potremmo non vederci più fino al Ringraziamento. Approfittiamone finché possiamo. Inoltre, sei nostra amica ed è giusto che…”
Non finì la frase perché Steph le si era gettata addosso, abbracciandola. Poi abbracciò anche Max
“Grazie. Grazie davvero. Ci sentiamo presto, ok? Si, cazzo si… mi piacerebbe vedervi il prima possibile!”
Ricomposta, si preparò a scendere con i suoi ma, colta da un dubbio, si voltò e disse
“Ma come farete a fare sesso se sarò sempre in camera con voi?”
“CIAO STEPH!” strillò Max, divenuta rossa come un pomodoro dato che la ragazza aveva avuto la brillante idea di dire quella frase con ancora i coniugi Gingrich presenti.
Kristine, invece, si mise a ridacchiare in un angolo.
Erano così concentrate a salutare Steph, che avevano scordato la sua presenza
“Andiamo a cena fuori, stasera?” propose la Prescott “Offro io e vi porto in un luogo esclusivo e lontano da occhi indiscreti.”
“Sul serio? Dove?” chiese Chloe incuriosita
“Promontorio di Arcadia Bay con tre pizze giganti a testa.” disse Kristine
Stupite da quell’affermazione, sorrisero e accettarono di buon grado.
La Prescott si sedette su una sedia vicino al tavolo improvvisato nel corridoio
“Entro due giorni ve ne andrete da qui e tornerete a Seattle. Io mi tratterrò qui fino a Settembre per sbrigare alcune cose e, soprattutto, per godermi la fine di Jefferson in prima linea. Mi prenderò la terza suite così potrò svuotare definitivamente la casa di famiglia e poi potrò abbandonare Arcadia Bay per un po’ di tempo. Ammetto che mi dispiace vedervi andare via, ragazze. Sappiate però, che vorrò vedervi quando dovrete tornare per il processo. Non prendete camere a Portland: alloggerete qui ancora. Per il trasporto, posso portarvi io con la mia auto.”
“Non sarebbe male.” disse Chloe, con un sorriso.
Anche se non lo disse, Max comprese che anche lei era ormai convinta della buona fede di Kristine e che era, a tutti gli effetti, una loro amica. Non era l’idea di viaggiare su una Dodge, quanto la possibilità di rivedere Kristine e passare del tempo anche con lei.
Solo che, ovviamente, non lo avrebbe mai platealmente ammesso. Non era nella sua personalità, specie con qualcuno che aveva inizialmente detestato.
“Allora passerò a prendervi per le otto. Tranquille, vestitevi casual e aspettate il via libera per scendere di sotto: vi farò chiamare dalla reception.”
Rimaste sole, Max e Chloe non spesero molto tempo a rilassarsi perché nessuna delle due si sentiva realmente tranquilla di mente, specialmente Max. I dubbi e le angosce, seppure attenuate, alleggiavano tra di loro come fantasmi scomodi.
“Prima o poi dovrò anche affrontare i miei.” disse proprio Max “Mi sento così colpevole per loro…. Spero che non abbiano avuto troppi problemi troppo a lungo a Seattle.”
Chloe tentò di consolarla
“Credo che se la siano cavati alla grande. Presto li rivedrai e te ne accorgerai da sola e sono abbastanza certa che non sono nemmeno arrabbiati con noi: siamo delle eroine, dopotutto. Sicuro, non saranno entusiasti all’idea che siamo state in zonzo a scavare tombe presunte, ma penso che possano capire, alla luce di quello che sta succedendo, che abbiamo fatto solo la cosa giusta per tutti. Specie per noi stesse. Dico bene?”
Max annuì, ma in cuor suo non sentì alleggerirsi nessun peso. Sentiva di aver deluso, di nuovo, la sua famiglia.
 
 
 
“Non male questo localino, vero?”
Kristine era fiera e ironica mentre chiedeva il loro parere, prima di addentare una fetta di pizza gigantesca.
Il tramonto sul promontorio era luminoso e spettacolare come sempre e la compagnia delle pizze e delle birre (bibita per Max) lo rendeva ancora più intimo e particolare.
Max si sentiva più leggera mentre mangiava in compagnia delle altre due ragazze, con gli occhi fissi sull’oceano e l’orizzonte che andava spegnendosi nel mare. In quel momento, sentì per la prima volta la mancanza della sua macchina fotografica.
“Sì, niente male.” disse Chloe “Anche se il servizio lo trovo un po’ assente.”
“Compensa la vista, però.” suggerì Max
“Sapete una cosa? E’ la prima volta che ci vengo dopo anni. Forse, se non sbaglio, l’ultima volta avevo quindici anni. Ci venni con mia madre e Nathan. Nostro padre era via, non so per cosa e sinceramente non m’interessa, così decidemmo di fare una gita fino a qui. Nathan ci teneva moltissimo a venire: lo vedeva sempre da lontano e nostro padre non voleva mai portarlo. Così, quella volta, convinsi mia madre a portarci qui anziché passare un noiosissimo pomeriggio in casa, ognuno isolato in una stanza a perdersi in solitudine e fredda distanza. Beh, quel pomeriggio almeno, per qualche ora, mio fratello fu sereno. Dovevate vedere i suoi occhi! Erano meravigliati, assolutamente meravigliati, nel vedere tutto questo. Per lui, come disse, era come volare. Si sentiva come un uccello: in alto e libero sopra Arcadia. Forse, è stata anche l’ultima volta che si è sentito così. Se mio padre non fosse stato cosi stronzo, ora lui sarebbe libero e anche molte altre ragazze. A volte mi chiedo come sarebbe stato mio fratello se fosse stato seguito e aiutato…”
“Lo sappiamo già.” disse Max, con un sorriso “Nel messaggio che mi ha mandato… lì era tuo fratello, il bambino che si era emozionato qui, su questo promontorio. Era un ragazzo che si sentiva solo e voleva volare ma non poteva. Però, negli ultimi istanti, era lui. Sono certa che fosse tuo fratello e non quello che è stato per troppo tempo, sotto l’ombra di Jefferson e dei farmaci.”
Kristine sorrise e appoggiò una mano sul ginocchio di Max, mormorando un grazie.
Chloe si alzò in piedi e levò in alto la sua bottiglia di birra
“Un brindisi! Alle donne più cazzute che Arcadia abbia mai visto: Maxin… scusa, Max Caulfield, Stephanie Gingrich, Kristine Prescott e, soprattutto, Chloe Elizabeth Price! A noi, puttanelle!”
“A Joyce, che ha più palle di noi!” aggiunse Max, sollevando la sua cola
“A Samantha e a tutte le vittime di mio fratello e Mark Jefferson..” aggiunse Kristine, sollevando la sua birra
“A Rachel e Kate.” disse Chloe
“A Nathan.”disse Max, notando gli sguardi delle altre due “Perché i mostri peggiori sono le persone che dovrebbero amarci quando abbiamo bisogno di essere protetti, non umiliarci e manipolarci. A tutti coloro che non sono stati aiutati. A Frank, perché fu il suo unico amico per qualche tempo.”
Chloe sorrise, Kristine si commosse.
Brindarono mentre l’ultimo raggio di sole colpiva il vetro delle loro bottiglie levate, come a volersi unire a un brindisi e dire addio a quell’infausta avventura.
“Che sia la vostra Satya Yuga.” disse infine Kristine
“La nostra che?” esclamò Chloe visibilmente confusa
Max non seppe che dire, non aveva mai sentito quella parola.
Kristine abbozzò un sorrisetto e, sempre guardando l’orizzonte, cominciò a spiegare
“Satya Yuga. Per gli induisti indica l’età dell’oro. Dopo il periodo di perdizione e declino del Kali Yuga, in cui un uomo uccide un altro uomo, arriva il tempo in cui gli dei scendono a governare di nuovo gli uomini e portare ordine e pace, ovvero la Satya Yuga. Che sia per voi, ora, il momento della quiete. Ve lo meritate, ragazze mie.”
Finirono di mangiare e rimasero a parlare fino a che non scese il buio. Si sentivano più leggere e spensierate e un po’ tristi all’idea che tutto stesse per finire, che quella tregua volgeva al termine e si preparava il processo, l’ultima battaglia contro un mostro, contro le loro peggiori paure e ansie degli ultimi tempi. Kristine le riaccompagnò in albergo poco prima di mezzanotte, promettendo loro di passare a salutarle prima che dovessero andarsene.
Felici e consapevoli che il legame con Kristine avrebbe potuto durare anche dopo questa faccenda, tornarono in camera e, non avendo voglia di preparare le valige, andarono filate a letto e cercarono di riposare.
Il giorno dopo passò sereno e quello successivo, in altre parole il giorno della definitiva libertà, fu invece stravolto da due notizie, entrambe portate da David.
Erano sedute a fare colazione in compagnia di Kristine che, la sera prima, si era accordata con loro per passare la mattinata in compagnia al loro piano in albergo. Un ultima colazione in compagnia prima di salutarsi. Improvvisamente però, una chiamata di David e una richiesta di poter salire al piano per incontrarle che fu, ovviamente, acconsentita.
Il patrigno di Chloe, che sembrava sempre più indaffarato con il passare dei giorni, annunciò loro che il processo aveva subito l’ennesimo cambiamento: sarebbe cominciato il ventotto di Luglio, con le prime fasi, per poi proseguire nella prima settimana di Settembre. Max e Chloe, manco a dirlo, erano convocate già per il ventotto Luglio.
“Non finisce qui: i vostri genitori non verranno qui. Dovete tornare da sole a Seattle e restare fino al ventiquattro di Luglio, dove verrete interrogate due volte, alla presenza dei vostri avvocati.”
“Perché due volte??” protestò Chloe
“Perché  la seconda interrogazione dovrà avvenire in presenza dell’agente Castillo. E’ stata una sua personale richiesta. Penso che per voi non ci siano problemi ad accontentarla, no?”
Era sottinteso che le dovevano un favore e che non vi erano problemi.
“Perché i miei non possono scendere fino a qui?” chiese Max
“Temiamo che i giornalisti possano inseguire loro da Seattle a qui o viceversa. Dato che, per ora, non vi sono più tutti addosso come avvoltoi, vorremmo evitare che si accorgano che la famiglia Caulfield si riunisca con la figlia a breve. Ad essere sincero, non volevo nemmeno che tornaste a Seattle con l’auto di Chloe: troppo riconoscibile.”
Kristine soffocò un gemito di trionfo.
“Possono prendere la mia auto, se vogliono.” propose la Prescott
Chloe si voltò a guardarla con occhi luminosi: sembrava fosse tornata una bambina di otto anni a Natale
“D A V V E R O?” strillò eccitata
“Non se ne parla.” disse David “Presterò loro la mia, se necessario. O prenderanno un autobus notturno.”
“A me non serve, signor Madsen. Purtroppo, sono costretta a rimanere ad Arcadia tutta estate anche io e, a dirla tutta, posso sempre prendere un auto a nolo per i giorni che le ragazze avranno la mia auto a Seattle.”
“ D A V V E R O ?” strillò, di nuovo, Chloe
“No, non possono avere la tua auto per…”
“David… non c’è problema. Davvero. Sono sicura che non la rovineranno.”
Chloe era sempre più incontenibile ma David era irremovibile.
“Ne parleremo più tardi. Perché non torni per pranzo, David?” propose Max
“Non so. Ho un po’ di lavoro da fare e…”
“Hey, vieni a pranzo qui oppure scappiamo tra poco con la Dodge.” avvertì Chloe
David accettò di buon grado l’invito.
 
 
Chloe appoggiò l’ultima valigia nel bagagliaio prima di richiudere lo sportello con un colpo deciso ma delicato. Ammirava la carrozzeria rossa e lucida della Dodge Charger di Kristine. Ancora non credeva alla fortuna di poter guidare quel bolide e usarlo per le prossime settimane. David non era sembrato molto entusiasta all’idea, aveva spinto perché prendessero un’auto a noleggio, ma Kristine l’aveva convinto che dovevano partire subito, con una auto diversa e magari abbastanza veloce da portarle a Seattle entro sera e senza problemi. Inoltre, aveva fatto promettere a Chloe che l’avrebbe usata solo in caso di necessità e, in cambio, le avrebbe curato il suo pick – up. Se nonostante questa clausola Chloe si era convinta, David non lo era ancora del tutto ma accettò la cosa.
Riuscì anche a farsi convincere su una deviazione prima di tornare a Seattle: andare a trovare Joyce in ospedale. Temeva che avrebbero trovato dei giornalisti appostati all’ingresso, come la prima volta ma, al tempo stesso, non voleva impedire loro di salutare la donna. Perciò, andò in avanscoperta per valutare i rischi e avrebbe mandato un messaggio per dare loro un eventuale via libera.
Erano nella penombra e nella frescura del garage sotterraneo, destinato ai dipendenti. Kristine, appoggiata al cofano della sua auto, osservava divertita Chloe che ammirava estasiata l’auto.
“Non voglio nemmeno un graffio, quando la riporterai.” l’ammonì
“La tratterò meglio di Max!” promise
“Hey!”
“Scusa Max. Comunque giuro di lasciarla nel garage dei Caulfield a Seattle e non usarla mai se non in casi eccezionali. Chiederemo in prestito l’auto di Ryan, ma  dubito che avremo molte possibilità di libertà fino al processo.”
Kristine si separò dall’autovettura e andò incontro a Chloe, porgendole le chiavi
 “Ci vedremo dopo il processo.” disse
Chloe prese le chiavi e porse, in cambio, le sue e il telecomando per aprire il cancello.
“Tratta bene quel ferrovecchio: non sarà come la tua Dodge ma ci sono affezionata.”
Il telefono vibrò nella sua tasca: era il via libera di David, ne era certa.
“Obbedisco, comandante Price. Ora andate, prima che sia troppo tardi per fuggire da questo posto. Scrivetemi quando vi toccherà tornare: vi farò trovare la stanza pronta.”
Istintivamente, Chloe abbracciò Kristine, lasciandola sorpresa.
“Grazie di tutto.” mormorò
“Questa dimostrazione di affetto è perché ti ho lasciato la Charger?”
“Ovviamente.”
Sorrise e si mise al posto di guida, mentre Max emergeva dalla penombra per salutare e abbracciare Kristine a sua volta
“Ti siamo debitrici.”
“Ancora con questa stronzata? Sparisci, Max. Non esistono debiti tra noi. Fate solo attenzione, ok? E scrivetemi!”
“Lo farò. Promesso.”
Poi anche lei sciolse l’abbraccio e abbandonò Kristine, sedendosi accanto a Chloe in auto.
La ragazza ne approfittò per sgasare un poco
“Caaaazzo senti che fottuto motore ha sotto. Dio, è un fottuto orgasmo.”
“Ottimo, così sono esonerata dall’intimità finché esisterà questa auto.”
“Scordatelo Max. Al massimo ti tradirò con questa meraviglia, ogni tanto.”
Partirono, mentre Kristine apriva loro il cancello e le salutava con un cenno della mano. Appena furono svanite, si voltò a cercare il pick-up e sorrise nel trovarlo in un angolo, al riparo da occhi indiscreti.
“Bene. E ora pensiamo a sistemare anche te, vecchia gloria.”
 
 
 
Parcheggiare e spegnere il motore fu, per Chloe, un dramma.
“Non poteva essere più lontano l’ospedale?” chiese
Max, invece, era sconvolta. La guida sportiva di Chloe l’aveva traumatizzata
“Giurami che non comprerai mai e poi mai un’auto del genere.” disse con un pigolio terrorizzato.
“Magari potessi!  Se capitasse un’occasione…”
“Cazzo devo farmi la patente e l’auto il prima possibile.” replicò immediatamente lei.
Scese dal mezzo con le risate di scherno di Chloe che l’accompagnarono finché non chiuse lo sportello alle sue spalle.
Stranamente, l’ospedale sembrava immerso in una relativa quiete. Non videro gruppi di giornalisti, nascosti o radunati allo scoperto, pronti ad aggredirle. Incredibilmente, non erano già più interessati a loro: la caccia alle vittime di Jefferson era iniziata e si prospettava feroce.
La strada per la stanza di Joyce era anch’essa libera da minacce. David le aspettava già all’interno, seduto accanto alla sua consorte che, appena vide le due entrare, si provò a sistemare a sedere.
“Sta giù, mamma! Sei ancora convalescente.”
“Tu e Max siete le ultime che potete dirmi cosa fare, signorina.” la rimproverò lei, ma senza astio.
Joyce sorrise a loro due, mentre si sistemavano in piedi, al bordo inferiore del letto.
“Scusaci Joyce. Non volevamo farti preoccupare.” disse Max, ma venne liquidata con un gesto della mano da parte della madre di Chloe.
“Non avete nulla di cui scusarvi. Anzi, in verità si: ci avete nascosto e mentito questa faccenda. Ritengo, però poco carino darvi una tirata d’orecchie visto cosa siete riuscite a ottenere anche questa volta.  David mi ha accennato qualcosa: sembra che abbiate spedito Jefferson in gattabuia definitivamente.”
Max si grattò la testa per l’imbarazzo: l’elogio da parte di Joyce le causava sempre quell’effetto. Chloe, invece, sorrise orgogliosa a sua madre.
“Siamo state una forza, eh? Oh, non so cosa avrei dato per avere una foto nel momento in cui comunicavano a quello stronzo che era fottuto. Però lo vedremo al processo e ci faremo una idea di come l’avrà presa. Giusto Max?”
La ragazza si limitò ad annuire e questo non sfuggì a Joyce
“Sei preoccupata, vero?”
Annuì di nuovo.
“Non vuoi andare al processo, giusto?”
“No, Joyce. Non vorrei mai andarci ma lo farò. Devo farlo.”
“Piccola mia, ti capisco. Tutto questo incubo è durato anche troppo per te. Per voi. Meritate davvero di voltare pagina. Tenete duro fino al giorno del processo, ok? So che non sarà bello tornare a casa e rimanere in uno stato di quasi prigionia per un po’, ma ricordatevi che è l’ultimo sforzo. Dopodiché, le vostre vite torneranno sui binari di qualche anno fa, noiose e monotone e felici.”
Annuirono, eppure Max non era pienamente convinta di quelle parole: non avrebbe mai avuto una vita normale con il suo potere. Avrebbe dato tutto pur di perderlo per sempre, ma non sarebbe mai capitato, perciò doveva sbrigarsi a rassegnarsi a coesistere con quel fardello, sperando ardentemente che non le costasse ancora un prezzo troppo grande da sopportare.
Non avrebbe più retto.
“Tu come stai, Mà?” chiese Chloe “ Novità?”
Joyce fece le spallucce
“Sto recuperando un po’ di vocaboli e i muscoli rispondono bene. Fino a fine Settembre, però, posso scordarmi di uscire da qui. Spero solo che mi aumentino le ore di riabilitazione in fretta, almeno mi annoierò di meno.”
“Oh, puoi sempre chiamarmi e darmi lezioni di cucina per telefono: posso sbizzarrirmi in questi giorni di reclusione forzata che mi aspettano in casa Caulfield.”
“Tu che vuoi cucinare… ancora non mi capacito.”
“E’ solo un modo per sentirsi meno in colpa verso i miei, Joyce.” spiegò Max.
“Che ingrata malfidente!” esclamò Chloe, dando un pugno al braccio sinistro di Max.
Passarono una buona mezz’ora con Joyce prima di separarsi da lei, augurandole di migliorare e che avrebbero fatto di tutto per vederla, una volta che fossero ritornate.
Prima di uscire, però, David chiese a Chloe di parlare un attimo in privato, lontani da Max e Joyce. Fu una chiacchierata veloce e dal visto di Chloe, Max non vide nulla di particolare per ci sembrasse preoccupata, ma colse una fugace ombra nei suoi occhi.
“Che ti ha detto?”
“Oh. Nulla. Di non andare veloce con la Dodge…”
“Chloe…”
“Nulla, Max. Solo una raccomandazione per il futuro. Nulla che tu non abbia già sentito o che possa intuire.”
“Chloe sei sicura di..”
“ Fidati di me,ok? Nulla che non sia una frase ‘alla Madsen’. Stai serena.”
Si volle fidare ma aveva intuito che gli nascondeva qualcosa. Forse riguardava Joyce e decise di non indagare oltre: se avesse voluto, lei le avrebbe parlato spontaneamente quando lo avrebbe ritenuto necessario.
Scacciò dalla mente ogni pensiero e si concentrò sul non soffrire troppo la guida sportiva di Chloe fino a Seattle.

 
 
 
 
 
 
Interludio: Agosto 2013
 
Osservò la pila di scatole di cartone ancora intatte, pronte per essere utilizzate e riempite della sua roba, dai vestiti agli oggetti che avrebbe portato con sé o lasciato a Seattle, dove sarebbero stati destinati alla soffitta.
Stentava ancora a credere che fosse stata presa alla Blackwell Academy.
La Blackwell, cazzo! Uno degli istituti migliori della West Coast!
Per non parlare del suo futuro insegnante di fotografia: Mark Jefferson! Dio, che emozione!
Sarebbe tornata nella sua vecchia città natale… sarebbe tornata ad Arcadia Bay.
Prese la prima scatola e vi scrisse sopra ‘Magliette’ così per essere certa che almeno una scatola d’indumenti l’avrebbe preso.
Se sarebbero state magliette destinate alla soffitta o no, lo avrebbe deciso poco alla volta.
Aveva anche una piccola valigia, dove aveva già stipato il necessario per partire con qualche vestito ma, principalmente, aveva messo le cose più delicate come la sua macchina fotografica.
Aprì il cassetto e passò in rassegna un po’ di magliette vecchie e meno vecchie: da brava geek, non era molto attenta al suo guardaroba, se non sporadiche magliette a tema nerd.
Una sua piccola fortuna era dal fatto che, in sostanza, non era cresciuta granché negli ultimi quattro anni. Sì, aveva preso qualche centimetro in altezza, ma il suo fisico era rimasto eccessivamente magro e questo le aveva permesso di mantenere invariato il suo guardaroba dalla preadolescenza. Scelse facilmente tre magliette tra le sue preferite che, sicuramente, avrebbe portato con sé. Un paio, magari, tra le più amate le avrebbe lasciate a casa per timore di non rovinarle tutte. Non che andasse in guerra, certo, ma non voleva rischiare di perdere tutte le sue migliori e preferite ad Arcadia.
Pensò a cos’altro potesse portare, di sicuro anche abbigliamento invernale (anche se pensava di tornare a Seattle per Natale) e magari anche un paio di stivaletti se mai avesse nevicato!
Ma sarebbe uscita, in pieno invero, ad Arcadia?
Non era stata capace di farsi grandi amici durante la sua permanenza in Seattle, eccetto che per Fernando e Kirsten, ma voleva cambiare per il suo ritorno ad Arcadia! Voleva farsi degli amici, voleva poter uscire, voleva poter avere una amica con cui….
 
Ma lei l’aveva una amica ad Arcadia Bay… l’ha sempre avuta….
 
“Toc, toc… si può?”
Era sua madre. Aveva appena appoggiato il pugno per simulare il gesto del bussare sull’uscio mentre si affacciava sorridente nella camera e osservava la figlia intenta a cominciare a svuotare tutto.
“Scusa mamma, sono un po’ indietro. Giuro che finirò di dividere i vestiti entro l’ora di cena.”
“Ah, non penso tu possa farcela. Per questo sono qui a darti una mano. Forza, comincio dai pantaloni, visto che tu ti stai già occupando delle magliette?”
“Come vuoi. Fortunatamente non ne ho molti e non voglio portarli tutti.”
“Nemmeno questi jeans con la toppa a forma di ape sulla chiappa?” chiese sua madre, estraendo un paio dal cassetto e mostrando la vistosa ape cartoon all’altezza del gluteo sinistro.

Max, arrossendo, scosse la testa
“Non che per me sia un problema, ma eviterei di portarli: non riuscirei a sopportare tutta la popolarità che potrebbero darmi.”
Vanessa Caulfield rise e piegò i jeans. Li adagiò sul letto in quella che, secondo Max, sarebbe diventata la pila dei vestiti da portare in soffitta.
“Sarai popolare non appena vedranno il tuo talento, Maxine. Magari la fama ti aiuterà a socializzare un po’: in questi anni non ti nascondo che sono stata seriamente in pensiero per te. Non sei mai stata una molto aperta con gli altri, questo lo sappiamo, però sarebbe stato carino che tu ti fossi fatta più sabati sera fuori a divertirti che in casa o a zonzo da sola.”
“Non ero sempre sola. Ogni tanto c’erano..”
“Fernando e Kirsten, lo so. Ma due amici… Maxine, andiamo… sei una ragazza così solare e dolce: perché hai il timore di farti conoscere”?

“Max, non Maxine… Non so, mamma…. Non riesco a pormi con gli altri. Mi mette ansia il confronto.”
“La tua ansia ti ha sempre giocato brutti scherzi e abbiamo sempre lavorato per fartela limare un po’, ma devi fare dei passi avanti anche tu sennò non ne uscirai mai.”
“Grazie mamma: ora si che sono serena e pronta ad affrontare una scuola esclusiva piena di sconosciuti.”
“Non saranno tutti sconosciuti.”
“Non credo che sia pieno di miei ex compagni di classe che abbiano scelto di andare alla Blackwell. Quasi certamente, sono la sola che è andata via da Arcadia e che ora ci torna.”
“Può darsi, ma chi ha parlato di compagni di classe? Persone che conosci ne hai, soprattutto una…”
Max non rispose. ‘Ci siamo’ pensò

“Mamma non mi va di..”
“Scrivile, sciocchina.”

Max scosse la testa
“Meglio di no.”
Vanessa lasciò perdere i pantaloni e mise le mani sui fianchi e osservò sua figlia

“Perché? Perché non vuoi dire a Chloe che torni ad Arcadia?”
“Non penso le interessi più, oramai.”
“Questo non credo proprio, sai? Sei la sua migliore amica!”

“Ero.. sai prima di… prima di aver smesso di scriverle per quasi cinque anni…”
“Potrebbe essere l’occasione giusta per riallacciare i rapporti, allora! Scrivile e magari chiedile se puoi telefonarle, così sentire le vostre voci potrebbe aiutarvi a…”

“Ho detto no, mamma.”
Detto ciò, Max si sedette stancamente sul letto, a osservare il nulla.
“Non posso farlo mamma. L’ho delusa, non siamo più amiche perché io sono stata una stronza. Le farei solo del male a chiamarla… potrebbe pensare che lo stia facendo perché non voglio stare da sola ad Arcadia.”
“Max! Ma cosa vai dicendo? E’ Chloe! Non vedrà l’ora di rivederti!”

“Non le parlo da cinque anni, mamma! Le ho lasciato uno stupido messaggio dopo il funerale di suo padre e mentre ero qui io non riuscivo a scriverle ne ha chiamarla dopo che le avevo promesso che l’avrei fatto! Ho deluso Chloe e l’ho abbandonata nel momento peggiore della sua vita. Non sono stata presente, non l’ho aiutata!”
Sentiva le lacrime lottare per uscire. Teneva dentro tutto quanto da così tanto tempo che ora non poteva smettere di parlarne. Sua madre si sedette accanto a lei e le passò un braccio attorno alle spalle, con affetto e delicatezza.
 
“Max…”
“Avevo paura, ok? Avevo paura che se le avessi descritto come stavo qui, lei si sarebbe sentita ancora più abbandonata. Le avrei sbattuto in faccia la mia vita tranquilla con entrambi i genitori mentre lei doveva fare i conti con la morte di suo padre e rimaneva incatenata ad Arcadia? Mi sentivo così stronza all’idea di parlarle di Seattle che non sapevo cosa dirle. Mi sono sentita una vera merda perché non riuscivo a dirle, con il passare del tempo, che mi mancava e che non riuscivo a farmi amici, che ero sola. La sentivo dentro di me che mi sgridava, dicendomi che dovevo tirare fuori le palle e farmi nuove amiche, che tanto nessuna l’avrebbe sostituita e non sarebbe cambiato niente tra noi ma… era già cambiato tutto perché non le stavo parlando. Prima che potessi chiederle scusa, era già passato un anno e cresceva costantemente questo senso di colpa, di inadeguatezza. Mi sentivo un’amica di merda, mi sento ancora la peggiore amica che potesse mai avere. Sento di averla tradita e non posso scriverle ora che torno, quando avrei dovuto farlo sempre, per cinque anni. Cazzo, mi manca. Mi manca da morire, mi è mancata ogni giorno in questi anni, ma non riuscivo a dirglielo. Perché mi ha fatto tanto male non avere più lei nella mia vita, mamma? Perché non sono più riuscita a trovare un’amica che potesse alleggerire questo peso? Mamma, mi manca Chloe ma non posso più essere sua amica: sono stata troppo egoista per meritarmi una amicizia come quella che avevo.”
Sua madre la strinse a sé e lasciò che si sfogasse un poco con un pianto liberatorio. Poi le sussurrò

“Non dire queste cose. Certo, avresti potuto e dovuto essere più presente nella vita di Chloe. Sì, hai sbagliato e la tua ansia, le tue insicurezze, ti hanno fregata. Per questo dovresti pensare a scrivere a lei, a dimostrarle che ci tieni e che hai sempre tenuto a lei. Dovresti riallacciare i rapporti con lei, se davvero ti è mancata così tanto. Sono certa che anche tu sei mancata a lei, per quanto possa essere stata brava a farsi nuove amicizie in tua assenza. Sono certa che sarà arrabbiata e felice al tempo stesso di poterti rivedere: vi sentirete, vi chiarirete, magari urlerà un po’ e ti dirà parole poco carine ma, ne sono certa, poi ti abbraccerà e ti vorrà di nuovo con sé. Siete amiche da tutta la vita, non si può cancellare questo.”
“Ma io sono sparita per cinque anni…”
“Bene, vorrà dire che gli garantirai i prossimi cinque in esclusiva, no?”rispose sorridendo “Le scriverai?”

“Forse… non lo so…. Magari dopo che sarò già arrivata… prima vorrei ambientarmi e conoscere i miei compagni per non isolarmi…”
“Ottima idea, ma scriverai a Chloe? Oppure ho ancora il numero di Joyce Price in memoria sul telefono e posso sempre avvisarla io.”
“Non ti permettere. Le scriverò. Avrò bisogno dei miei tempi, ma le scriverò.”
“Promesso?”

“Promesso.”
“Bene. Ora torniamo a questi scatoloni: non vorrai andare alla Blackwell con un solo paio di mutande, vero?”
Risero e si rimisero al lavoro. AL piano di sotto, Ryan Caulfield urlò

“Tutto bene? Spettegolate su quanto io sia bello?”
“Assolutamente tesoro!” rispose Vanessa “Ma ci chiedevamo perché non fossi andato a prenderci una torta gelato per stasera!”
“Davvero? Posso andare a prenderla tesoro?”
“Sì, vai. Ma da Settembre giuro su Dio che ti voglio a dieta!”
Seguì una sonora risata dal piano di sotto.

Max sorrise.
Avrebbe raccontato di questo a Chloe? No, perché suo padre era morto…
Le avrebbe scritto almeno? Ci avrebbe provato…
Sapeva che non poteva essere perdonata, ma forse sarebbe stato peggio tornare ad Arcadia e non dirle nulla: se l’avesse vista in giro, sarebbe stato peggio!
Inoltre aveva già l’acquolina in bocca al pensiero di una colazione preparata da Joyce al Two Whales Diner…. Non poteva certo presentarsi nel locale dove lavorava la madre di Chloe senza avvertirla del suo ritorno e si conosceva abbastanza bene per sapere che non avrebbe resistito molto senza mangiare una colazione di Joyce.
Ci avrebbe provato. Sul serio.
Prima però avrebbe speso delle energie a farsi degli amici a scuola e cercare di essere socievole, anche in previsione dei compiti: poteva far comodo avere una compagna di studi, no?
Avrebbe dovuto fare attenzione stavolta: la vita non presentava seconde occasioni e, tantomeno, avrebbe avuto modo di correggere i suoi errori! Poteva solo aggiustare qualcosa con Chloe, ma non poteva tornare indietro e dire alla giovane Max di cinque anni fa di scrivere sempre alla sua migliore amica, in previsione di un ritorno a casa.
Avrebbe preso tempo, ma non troppo tempo.
Poteva farcela.
Nuove amicizie, nuova scuola, nuova Max e, sperava, vecchia Chloe. Con il tempo che sarebbe stato necessario a rivederla.
In fondo, cosa sarebbe potuto andare storto?
 
 
 
 
5
 
Il caldo era insopportabile, nonostante fosse nuvoloso.
Per essere una mattina di fine Luglio, l’estate nell’Oregon era fin troppo pesante quell’anno. Fortunatamente, quella mattina, vi era una bella popolazione di nubi grigiastre e cariche di pioggia che mitigavano la presenza del sole, ma di contro, portavano un’afa pesante sulla loro pelle.
Le sembrò di respirare attraverso una spugna.
 O forse, era solo l’ansia di quello che l’attendeva.
Portland.
Nove e trenta del mattino.
Giorno del Processo a Mark Jefferson.
Erano ancora sedute nella Dodge di Kristine Prescott, isolate e silenziose nei propri vestiti fatti su misura proprio dalla giovane erede Prescott. Erano tornate ad Arcadia due giorni prima e Kristine aveva lasciato loro la stessa stanza al Seaside, dato che si era rivelata una ottima copertura la prima volta. Inoltre, aveva lasciato loro anche la sua automobile  per questo infausto giorno e aveva spedito loro due sarte a prendere loro le misure e confezionare in tempo record due bellissimi abiti per presentarsi al meglio, assieme a due parrucchieri e due giovani ma esperte estetiste.
“Possiamo andare alla fabbrica della Nike e farci un giro turistico, se vuoi. Cazzo, siamo a Portland e la sede di quella fabbrica di scarpe è a pochi minuti da qui. Molliamo tutti e tutto, fanculo il processo e ci facciamo un giro a vedere come fabbricano le Air Jordan.” Suggerì Chloe.
Max si voltò a fissarla.
Era seduta al posto di guida, avvolta nel suo abito nuovo color rosso fiamma e leggero ed estivo. Niente borchie, niente collane: sandali semplici, tatuaggio in evidenza sul braccio nudo e i capelli blu lievemente scoloriti a fare da contrasto e ricordare che lei era, sempre e comunque, Chloe Price. Era bellissima, mentre lei si sentiva così anonima.
Il vestito era identico a quello di Chloe, tranne che era di un blu elettrico. Anche per lei sandali semplici e i suoi bracciali in silicone al polso destro.
“Si, potrebbe essere una buona idea, in effetti.” replicò, sfoggiando un sorriso nervoso.
Chloe le mise una mano sul ginocchio
“Andrà tutto bene. Sono qui e sarò sempre qui con te.”
Allungò la sua mano per toccare quella di lei e cercò di regalarle un sorriso meno carico di ansie e timori.
“Sei bellissima Max.” aggiunse Chloe.
“Nah, non quanto te. Tu fai un figurone: dovresti valutare questo look più spesso. Ti slancia le gambe, sai?”
“Così poi avresti attacchi di gelosia continui? Nah, troppo femminile questa roba, non fa per me.” rispose, stampandogli un bacio sulle labbra “Tornerò ai miei jeans appena possibile. Ho accettato questo vestitino per Kristine.”
Max le diede un’amorevole pacca sulla gamba
“Ammettilo: ti piace questo vestito e ti piace essere femminile. Lo sei e quando vuoi sai essere fin troppo femminile. Sei solo incastrata in questo ruolo di punk che ti piace tanto. Ma io ti conosco fin troppo bene.”
Chloe spalancò gli occhi, meravigliata
“Io femminile? Stai scherzando, spero!”
“Oh, si che lo sei.”
“E tu sei gelosa.”
“Certo che lo sono e certamente lo sarei se ti guardassero. Ma che ci posso fare: sono fortunata ad averti, un po’ di gelosia mi spetta di diritto.”
La ragazza dai capelli blu le sorrise
“Sei una maledetta leccaculo, Max Caulfield.”
Rimasero in silenzio per qualche istante dentro l’auto. Avevano parcheggiato a poche vie traverse di distanza dalla loro destinazione, il Gus J. Solomon  U.S. Courthouse, il tribunale scelto per il processo a Jefferson e si trattava di una scelta inusuale e straordinaria dato che il Solomon era stato pensionato a favore del più moderno Mark O. Hatfield U.S. Courthouse da qualche anno oramai.[1]
La scelta di questo cambio di preferenza per l’ex- tribunale era dovuta per delle semplici ragioni: una mediatica e una di becera propaganda.
Quella mediatica era dovuta dalla capienza logistica: non si voleva intasare il moderno edificio del tribunale Hatfield quando il vecchio  Solomon era praticamente disponibile e con più libertà per disporre testimoni, curiosi, giornalisti e tutta la carovana mediatica che ne sarebbe seguita, oltre che arginare eventuali attacchi di rabbia da parte dei civili.  In sostanza, si stava dedicando l’intero ex tribunale al solo processo Jefferson e, quindi, si legava a doppio filo con la seconda motivazione, quella propagandistica. Essendo un ex tribunale federale, come lo era l’attuale Hatfield, l’FBI aveva premuto per avere più spazio per giudicare un criminale che aveva colpito sicuramente in due Stati diversi e, al contempo, farlo in una vecchia gloria come lo era l’edificio Solomon, notoriamente classificato come monumento di interesse culturale e storico per tutta Portland e dintorni. Quindi, oltre a dedicargli un intero edificio per motivi di sicurezza, lo si faceva dedicandogli anche uno dei migliori che la città aveva da offrire, come per dire ‘Hey lo abbiamo preso e ora lo processiamo anche con stile, vedete?’.
In sostanza: volevano giocare in casa e volevano farlo sul terreno più solido, tranquillo, sicuro e più facile da vendere che disponevano.
Si era anche paventata l’ipotesi di svolgere in processo in sedi alternative, come Eugene o Medford, anch’esse città con un tribunale federale importante, ma Portland era più comoda per tutti, dai giornalisti ai parenti delle vittime.
“David lo sa che siamo qui?” chiese Max
Chloe annuì
“Si, l’ho avvisato con un messaggio appena abbiamo parcheggiato. Sa in che via siamo e che non ho il mio pick-up. Non sarà felice quando vedrà la Dodge, ma pazienza. Comunque ha risposto poco fa dicendo che stava per arrivare e di non scendere assolutamente finché lui non ci avrebbe bussato al finestrino.”
“Eppure sembra tutto tranquillo.”
“Max, sembra perché siamo distanti dal tribunale. Se avessimo parcheggiato cento metri più vicino, sono abbastanza sicura che ci avrebbero trovate subito.”
Max pescò da sotto il sedile, una borsetta da pochi dollari, ma che lei riteneva graziosa, e l’aprì per cercare il suo telefono. C’erano due messaggi presenti, entrambi dei suoi genitori, ma non se la sentì di leggerli e rispondere. Richiuse la borsetta e la rimise sotto il sedile. Non voleva portare effetti personali con sé e non voleva avere contatti con nessuno. Si sarebbe aggrappata alla presenza di Chloe e David e questo le sarebbe bastato.
Da dietro l’angolo, sbucò la figura familiare dell’ex soldato Madsen, proprio in quel momento.
“Oh, perfetto! Mi stavano venendo i crampi al culo qui, anche se si sedili sono comodi. Andiamo.”
Chloe aprì subito la portiera e saltò giù, anche se David aveva chiesto loro di aspettare che lui arrivasse fino all’auto. Dallo specchietto retrovisore, Max vide David alzare gli occhi al cielo, in segno di arrendevolezza.
Max, perciò, non si trattenne oltre e scese dall’auto anche lei, avviandosi verso i due poco lontano. Poteva sentire David redarguire Chloe ma lei, come al solito, minimizzava la cosa
“Dai, non c’è nessuno! Siamo al sicuro… e poi sono si e no dieci metri, cosa ti cambia?”
“Dovete fare attenzione! Non posso farvi da scudo io solamente se vi trovassero qui. I vostri avvocati arriveranno tra un’ora circa perciò muovetevi. Dai, sbrighiamoci.”
Prese entrambe le ragazze sotto braccio e le spinse con delicatezza nella direzione in cui era venuto, cercando di proteggerle da chissà quale nemico invisibile. Svoltarono a destra e proseguirono dritti poi, di nuovo, svoltarono velocemente a piedi a sinistra e si tuffarono nella via che portava al Solomon, con la tensione crescente in tutti e tre. Max sentiva il respiro farsi sempre più corto e le gambe sempre più deboli. Non voleva cadere a terra, ma sentiva che sarebbe successo se avesse ceduto all’ansia martellante nel suo petto.
Cazzo, quanto avrebbe voluto guarire da questa maledetta e perenne ansia!
A pochi metri dall’ingresso, David si fermò
“Impossibile.” borbottò
Non era difficile capire a cosa si riferisse: non c’era nessuno. Vuoto totale.
“Impossibile.”  ripeté David “Qualcosa non quadra. Come fa ad esserci questo deserto?”
Le ragazze si rilassarono e si avviarono all’ingresso del tribunale, a cui si accedeva mediante una ampia scalinata.
David, allarmato, salì i gradini due alla volta ma, poco prima di arrivare all’ingresso, uscì a fermarlo una persona a loro familiare
“Agente Castillo? Che ci fa qui?” chiese l’ex soldato.
L’agente Castillo dell’FBI andò loro incontro con fare rassicurante. Regalò un sorriso di saluto alle due ragazze e le fermò a metà strada, mettendole da parte sulla scalinata.
“Buongiorno, siete mattinieri vedo. Sono qui dato che questa è la mia indagine, signor Madsen. Mi sembra ovvia la mia presenza, non credete?”
“Si, certo ma perché lei è qui e nessuno..”
“Abbiamo spifferato alla stampa a che ore sarebbe arrivato Jefferson.” l’anticipò lei “Come accordo di scambio, non dovevano creare assembramenti fastidiosi qui all’ingresso: così l’attenzione mediatica si è spostata su quel criminale sin dal suo prelievo dal carcere di South Fork. Lo tampineranno tutto il tempo e formeranno un capannello di curiosi abbastanza esiguo quando arriveranno: volevamo evitare il più possibile il coinvolgimento di civili. Le notizie che arrivano sul fronte dell’opinione pubblica non sono buone e vogliamo avere meno persone gironzolare qui intorno. Anche i parenti delle vittime che hanno scelto di testimoniare sono stati convocati a scaglioni e a orari diversi per ogni sessione processuale. Oggi ne sentiremo solo due e nel primo pomeriggio. Meno informazioni possibili: questo era l’ordine perentorio dall’alto.”
David annuì in maniera formale e poco convinto di ciò che ebbe appena sentito.
“Quindi, arriverà un orda di zombie famelici di notizie e scoop insieme a quel bastardo? Li avete dato come scorta i giornalisti? Geniale, cazzo. Davvero geniale.” commentò ammirata Chloe
“Linguaggio.” sbuffò David
Castillo sorrise
“Esatto, Price.  Un modo per unire due problemi e trovare una mezza, temporanea, soluzione. Ora, visto che siete arrivate in anticipo, vi accompagno dentro. Vi faccio accomodare e vi faccio portare un caffè: non è così male quello che abbiamo qui.”
Con un cenno, l’agente dell’FBI li invitò a seguirla e David si mosse immediatamente, con Chloe incerta sul da farsi ma pronta a muoversi.
“Io lo aspetterò qui.” disse Max con tono fermo
I tre si bloccarono e guardarono la ragazza.
“Come?” disse David
“Signorina Caulfield, arriveranno anche i giornalisti e vorranno..”
“Lo so, agente Castillo. Io resto qui.”
Chloe si avvicinò alla sua ragazza. La prese per un polso teneramente e le disse
“Max? Ti staranno addosso.. ti vorranno mangiare viva quei bastardi di giornalisti. Non aspettano altro! Poi perché vuoi vedere Jefferson? Non hai già visto abbastanza quella faccia da culo?”
“No: devo vederlo ora, Chloe. Devo vedere come è da sconfitto. Voglio che mi guardi e che veda che non ho paura di lui. Voglio vedere che espressione proverà a fare di fronte a una ragazzina che voleva tormentare ed è finita per incastrarlo. Devo farlo per me stessa. Ne ho bisogno.”
Chloe annuì e le diede un buffetto al braccio.
“Resto con lei.” disse alla fine.
David alzò di nuovo gli occhi al cielo, mentre Castillo non sembrava entusiasta di quella volontà comune.
“Ragazze, forse voi dimenticate che, dopo Jefferson, siete quelle più ambite dalla stampa. Hanno l’obbligo di non salire la scalinata, ma non posso garantire che tutti vorranno rispettare questo accordo, se vi vedranno qui, in bella mostra.”
“Agente Castillo, non mi aspetto che capisca ma devo vedere in faccia Jefferson prima del processo. Voglio vederlo e voglio che mi veda prima che sia un tribunale a obbligarci a farlo. Voglio vederlo finito prima di andare alla sbarra.” replicò Max con fermezza.
L’agente Castillo sospirò
“Va bene. Restate qui, chiederò a un paio di agenti di farvi da scorta per tenere alla larga eventuali curiosi o giornalisti troppo esuberanti. Ma vi chiedo di non muovervi da qui, chiaro? Restate a metà della scalinata, non un gradino in meno, d’accordo?”
David fece un passo verso le ragazze
“Un agente basterà, signorina Castillo: resterò qui anche io. Sì, lo so, non sono in servizio, ma devo solo tenere alla larga chi vuole infastidire la mia figliastra e la sua amica, dico bene? Penso di potercela fare.”
Castillo annuì e salì le scale fino a sparire dietro le porte d’ingresso, fatte di legno e vetro.
“Spero sappiate cosa state facendo, voi due.” disse David, mettendosi accanto a Chloe e con le braccia conserte all’altezza del petto e sguardo fermo verso la strada.
“Grazie David.” rispose Chloe.
“Sì, grazie.” le fece eco Max.
Un paio di minuti dopo si presentò un agente della sicurezza del tribunale, in divisa, con berretto da baseball con il logo del distretto. Era molto alto, forse oltre il metro e ottanta, abbastanza corpulento e sulla quarantina, viso rasato e capelli radi sale e pepe che sbucavano ai lati del berretto. Aveva penetranti occhi azzurro cielo e sorrise amabilmente al trio.
“Buongiorno signorine. Agente Madsen, è un piacere conoscerla. Sono George Olsen e sarò il vostro supporto morale.” disse l’agente, presentandosi.
Aveva un tono affabile e sembrava sinceramente lieto di essere con loro. Scese i gradini, una volta che ebbe ricevuto i saluti dai tre, fino a posizionarsi alla destra di Max. Anche se se era un paio di gradini più in basso, svettava comunque sulla ragazza. Lanciò uno sguardo e un sorriso e, parlando con voce bonaria, le disse
“Mi sono offerto volontario. Ci tenevo molto a conoscerti di persona, Max Caulfield. Quello che hai fatto è davvero notevole! Per essere così giovane, hai fegato, oltre che intuito. Mia figlia ti considera un’eroina. Sai, ha circa la tua età!”
Max sorrise e arrossì leggermente al pensiero.
“Non sono una eroina. Volevo solo fare la cosa giusta, anche per me stessa.”
“Certo, ma lo hai fatto. Potevi convivere con i tuoi dubbi, goderti la tua età e pensare ad altro per guarire a tuo modo, come farebbe qualsiasi ragazza della tua età. Eppure lo hai fatto e questo, credimi, fa tutta la differenza. Lo dico sia da poliziotto che da padre.”
Max ringraziò di nuovo.
Non si sentiva un’eroina, per niente. Si sentiva, per l’ennesima volta, una grandiosa egoista.  Aveva fatto tutto per coloro che erano morti, o solo per togliersi di dosso i sensi di colpa e tornare a dormire decentemente? Lo aveva fatto per Kate e Rachel, o per togliersi la soddisfazione di vedere Jefferson umiliato? Perché, sostanzialmente, tutto si riduceva al fatto che non tollerava di essere stata delusa dal suo mito.  Uno dei suoi modelli d’ispirazione si era rivelato un verme, allontanandola momentaneamente dal mondo della fotografia, una passione lunga tutta la sua vita, un amore che credeva capace di reggere a qualsiasi cosa. Per quanto tempo aveva faticato a prendere in mano nuovamente la sua macchina? Settimane, mesi forse.
A Natale aveva scattato, ma era più per immortalare il ritorno a casa per le feste e con Chloe, che tornava a sorridere per davvero.
Aveva trascinato all’inferno Chloe e Steph per un senso di giustizia, vero e intoccabile, o solo per un suo personalissimo bisogno di benessere mentale?
Non sapeva rispondere.
Ogni volta che si ripeteva nella mente che era stato tutto fatto in ottica di salvare la memoria di quelle ragazze, di consegnare in pasto al mondo il vero Mark Jefferson e non rischiare che si accollasse ogni crimine un cadavere di adolescente, aveva combattuto con un senso d’inadeguatezza e sconforto.
Sentiva che lo aveva fatto per sé stessa. Sentiva che aveva accettato la proposta di Kristine come una manna dal cielo perché era la scusa perfetta per ottenere quello che voleva.
Era tormentata da quei dubbi dal giorno in cui aveva capito che aveva messo nel sacco Jefferson.
Non trovava pace, la sua testa pareva esplodere. Da quella maledetta settimana, il suo mondo sembrava crollare lentamente, a colpi d’incertezze su chi fosse lei: un’egoista presuntuosa o una ficcanaso altruista?
Reggeva solo grazie alla sua famiglia e all’amore di Chloe, ma sentiva che stava cadendo a pezzi ugualmente.
Si augurava, con tutto il cuore, che il processo mettesse fine a questi dubbi, che vedere quel pazzo bastardo del suo ex professore, ridotto a un galeotto in catene, potesse dargli un suggerimento in qualche direzione, almeno per decidere che cosa fosse davvero il suo più grande desiderio: egoismo o altruismo?
Cominciava solo a faticare di riconoscersi allo specchio e non solo per l’aspetto emaciato, dovuto allo stress dell’ultimo mese e di una carenza di appetito che si era fatta via via più ingombrante con l’avvicinarsi del processo. Faticava a riconoscersi perché sentiva troppo contrasto dentro di sé.
Si udirono dei suoi convulsi, sirene e stridore di gomme.
“Arrivano.” borbottò l’agente Olsen “Rimante vicine e non muovetevi.”
Chloe fece scivolare nuovamente la sua mano destra nella sinistra di Max e la strinse con dolcezza. Entrambe, senza scambiarsi nemmeno uno sguardo, compresero le emozioni dell’altra: Max sentì nella mano sudata di Chloe la tensione, la rabbia e l’impazienza. Voleva pace, voleva tornare a una vita noiosa e normale. L’altra comprese, nella tensione dei nervi di Max, l’ansia costante, l’angoscia e il desiderio di concludere quell’orribile capitolo della sua vita che durava da quasi un anno.
Le prime auto che fecero capolino, erano due volanti della polizia di Portland, che si misero di traverso poco dopo il tribunale, a bloccare la via per eventuali curiosi in arrivo. A seguire, arrivarono altre due volanti della polizia di Portland, due suv neri e un cellulare della polizia penitenziaria del South Fork, blindato e al centro del corteo di auto, chiuso da una berlina nera con i finestrini oscurati.  A breve distanza, arrivarono i furgoncini delle varie reti nazionali e locali. Non fecero in tempo a parcheggiare le auto delle forze dell’ordine che i giornalisti erano già smontati dai loro mezzi, pronti ad attaccare. A seguire, però, Max notò una piccola folla di curiosi e civili che avevano seguito, a piedi, in bici e in auto, la scorta di sicurezza verso il tribunale.
I poliziotti smontarono in fretta dalle auto e si scagliarono subito contro i giornalisti, arginandoli in un piccolo spazio alla base della scalinata, a sinistra rispetto l’ingresso. Erano troppo pochi ma subito, come se fossero pronti dietro le porte d’ingresso, scesero rapidamente i  gradini un’altra decina di agenti, pronti a dare manforte ai colleghi. Dalle auto blu scesero degli agenti diversi, non in divisa.
“Federali.” mormorò l’agente Olsen, come se le avesse letto nel pensiero.
Dalla berlina, invece, scese un giovane in giacca e cravatta, con una lussuosa ventiquattroore: il nuovo avvocato di Jefferson, intuirono le ragazze.
Non lo avevano ancora visto e nemmeno ne sapevano il nome. Notarono il nervosismo sul suo giovane viso, barba sfatta e occhialetti da intellettuale mancato che stonavano con i capelli radi e ricci.
Dal blindato del carcere, scesero quattro agenti con assetto tutt’altro che amichevole: giubbotti antiproiettile, caschi, mitra e protezioni a ginocchia e gomiti.
“Manco scortassero Hannibal Lecter.” commentò Chloe
Infine, scese la ‘star’ della giornata.
Mark Jefferson era vestito elegantemente. Barba e capelli sistemati, occhiali nuovi, scarpe in pelle lucide e schiena dritta.
Se non fosse stato per le manette ai polsi, poteva apparire come il solito professore di fotografia che Max aveva conosciuto.
I poliziotti in assetto di ‘assalto’ lo circondarono e lo scortarono per ogni passo, per ogni gradino.
La folla urlava, i giornalisti chiamavano Jefferson e nessuno sembrava essersi accordo di Max e Chloe, nonostante fossero ben visibili. Erano a pochi passi ormai.
Chloe strinse la mano di Max con più decisione, mentre quest’ultima sentiva lo stomaco ribollire.
Mark Jefferson camminava con passo sereno e sembrava freddo e rilassato ma, appena voltò lo sguardo verso la sua sinistra, incuriosito dal quartetto, vedendo Max il suo voltò si trasfigurò in una maschera di odio feroce.
Sentì un brivido lungo la schiena, la giovane Caulfield, nel vedere tutto quell’odio verso di lei. Poteva intuire quanto ardentemente, in quel momento, lui avrebbe voluto ucciderla.
“Jefferson!”
Mark Jefferson e Max Caulfield incrociarono i loro sguardi per un paio di secondi ma fu uno scambio chiaro per entrambi: odio e desiderio di morte da parte di lui, fierezza e risolutezza da parte di lei. Max avvertì i muscoli del viso contrarsi in un sorrisetto superbo e altezzoso.
“JEFFERSON!”
L’ex professore voltò nuovamente i suoi occhi davanti a sé, concentrandosi sull’ingresso del tribunale, l’ultimo edificio che avrebbe visto oltre alla sua cella.
“MARK JEFFERSON!”
Chloe si sporse in avanti, incuriosita
“Chi è che urla come un’isterica?”chiese
Max si sporse anche lei in avanti, verso la folla dei giornalisti.
Vi era una donna bionda, sulla cinquantina, con il viso scavato e gli occhi che lanciavano fiamme.  Sgomitava, facendosi largo tra la folla. Max pensò che avesse un viso molto familiare.
“MARK JEFFERSON! BASTARDO! MIA FIGLIA, HAI ROVINATO MIA FIGLIA!”
Tutto avvenne al rallentatore.
La donna bionda estrasse un braccio dalla folla in cui si era incagliata, alzandolo fin sopra la testa e rivelando una pistola.
Max prese Chloe e la gettò a terra, mentre i colpi esplodevano nell’aria.
David si tuffò sulla figliastra, mentre l’agente Olsen estrasse la sua arma d’ordinanza e si piazzava davanti al trio.
Max alzò lo sguardo e vide Mark Jefferson cadere al suolo, reggendosi la gola mentre fiotti di sangue sfuggivano tra le sue dita e le sue labbra. La folla di giornalisti era a terra, mentre due poliziotti fermavano la donna, rompendole un braccio e inchiodandola a terra.
“Mia figlia!” urlava ancora tra le lacrime “Mia figlia, bastardo!”
David la prese di peso, insieme a Chloe e la trascinò verso l’ingresso, anche se il pericolo era scampato. Tutti erano in allarme, ma sembrava che non vi fossero altri genitori infuriati in cerca di vendetta.
David non voleva fermarsi, ma Max perse una scarpa e scivolò a terra, trovandosi a pochi centimetri da Jefferson. Lui non la vide ma lei, in cambio, poté assistere agli ultimi istanti della vita del fotografo, del suo professore, del suo idolo, del suo incubo peggiore, del maniaco, del manipolatore, del bastardo che l’aveva allontanata da ciò che amava di più. Il responsabile di tanto dolore, suo e di molte altre ragazze, era morto.
 
No
Non può finire così
No
Così è troppo… semplice… no, bastardo. No!
 
 
Era confusa, distrutta.
Aveva vinto Mark Jefferson.
Aveva vinto lui, alla fine.
La morte non era che  una meravigliosa scappatoia per lui. La sua umiliazione era durata poco, nessun processo in sua presenza, nessuna cella in cui invecchiare.
La morte, l’ingiusta salvatrice.
Si mise in ginocchio a osservare il cadavere di Jefferson e strinse i pugni e i denti dalla rabbia. Voleva urlare dal nervoso.
Voleva colpire quel viso inerte con foga.
Tutto quanto finito in polvere: il processo senza l’imputato non avrebbe donato giustizia.
Qualcuna si sarebbe beata della sua morte, ma altre no.
O forse solo lei?
Ancora egoismo, ancora la convinzione che il suo pensiero fosse il pensiero collettivo.
Magari alle altre vittime stava bene che fosse morto, magari avrebbero festeggiato a breve e tirato un sospiro di sollievo.
Magari sarebbero uscite e avrebbero chiesto a gran voce la scarcerazione della donna che aveva assassinato quel bastardo.
Ma lei non voleva questo. Il suo egoismo era così forte?
 
 
SONO IO O SIAMO TUTTE A NON VOLERE CHE SIA FINITA COSI?  CAZZO!
 
 
Chloe comparve al suo fianco. Si era liberata da David e si era gettata su di lei. La fissò negli occhi e comprese.
Capì senza chiedere, come solo una persona che ti consoce da tutta la vita, che ha vissuto quasi ogni istante con te e che ti ama sopra ogni cosa, può fare.
Non disse nulla. Non parlò
Sorrise e annuì.
Semplicemente, con calma, annuì.
A Max non bastò nient’altro.
Alzò la mano destra e si concentrò.
Dopo mesi, avvenne.
Sentì uno strappo allo stomaco e alla base della nuca. Fu diverso, intenso e le fece un male cane, tanto che dovette chiudere gli occhi per un istante ma, intorno a lei, tutto si mosse a ritroso. La luce si attenuò, i contorni del mondo si erano sfocati.
Il mondo procedeva all’indietro.
Jefferson si rialzò, il proiettile abbandonò il suo corpo, tornando nella canna della pistola della sua assassina, che ripose il braccio in mezzo alla folla di giornalisti, mentre David, Chloe e l’agente Olsen tornavano al loro posto.
Jefferson tornò circondato dai poliziotti in assetto da guerriglia, alla base della scalinata.
Poteva bastare.
Abbassò la mano e sentì un fortissimo dolore alle tempie.
 
Merda… qualcosa non va…  non ha mai fatto cosi male.
Cazzo.
 
Prese la sua scarpa e si rimise in piedi.
“MARK JEFFERSON!”
Chloe si sporse in avanti, incuriosita
“Chi è che urla come un’isterica?”chiese
“David!” urlò
David si voltò sorpreso e stupito nel vederla lì. Spalancò occhi e bocca mentre la squadrava
“Max cosa ci fai lì? Quando ti sei..”
Non lo stette ad ascoltare
“Quella donna ha una pistola! Fermala!”
Alzò il braccio indicando la folla dei giornalisti: la donna bionda era quasi arrivata al limite del corteo.
David fissò preoccupato la folla e anche l’agente Olsen sembrava allarmato a quelle parole.
Chloe, invece, fissava Max terrorizzata e confusa.
La donna bionda estrasse il braccio armato dalla folla.
“HA UNA PISTOLA. A TERRA!” urlò David.
Uno dei quattro agenti della scorta di Jefferson prese quest’ultimo e lo gettò malamente al suolo, mentre esplodevano i colpi. Uno dei quattro, rimasto in piedi, fu colpito alla spalla e cadde a terra gemendo per il dolore.
Il secondo colpo, invece, finì per aria, dato che i poliziotti si erano già gettati sulla donna, con leggero anticipo, senza spezzarle ossa.
“Lasciatemi! Ha rovinato mia figlia! Ha molestato la mia bambina!” urlava disperatamente la donna, mentre veniva immobilizzata e ammanettata al suolo.
Nella confusione che ne seguì, Jefferson fu sollevato di peso e portato dentro di fretta da due agenti, mentre il terzo soccorreva il collega ferito alla spalla, urlando che serviva un’ambulanza.
Max vide, in un angolo della strada, un uomo in piedi che fissava lei, o così le sembrò.
Aveva una polo bianca, jeans scuri e una tracolla molto simile alla sua. Sembrava vicino alla quarantina, capelli rasati e le sorrideva.
Si, fissava lei e le sorrideva. E annuiva anche lui, soddisfatto.
In quel momento, passarono davanti al suo campo visivo gli agenti con Jefferson e, in quell’istante, l’uomo era svanito.
Forse era stata una sua illusione dovuta allo stress.
David fissò sbalordito Max che, nel frattempo, si era seduta sul gradino. Si sentiva sfinita e la testa le pulsava come non mai.
“Come cazzo….?”
Ma David non poté finire la frase, perché Chloe era già su di lei. La prese per le guance e la fissò negli occhi
“Stai bene?”
Annuì ma non parlò
“Come  hai…?”
“E’ la madre di Laureen, Chloe. L’ho riconosciuta troppo tardi.”
“Io non direi.” mormorò lei, sorridendole
David si era avvicinato e la fissò preoccupato
“Stai bene? Sei pallida, Max.”
“Si, sto bene. Solo un po’ di stress.”
“Ok, ma vi farò mettere da qualche parte, lontano da tutti. Meglio che vi rilassiate un po’. Tieni.” disse David porgendole un fazzoletto di carta “Ti sanguina il naso.”


 
Erano sedute su una panca di legno in un corridoio isolato del tribunale, lontane dall’aula in cui si sarebbe tenuto il processo.
Era passata un’ora abbondante, ma Max era ancora dolorante.
La testa le pulsava meno e l’epistassi era praticamente finita. Si stava tamponando con il terzo fazzolettino di carta ma era quasi immacolato, rispetto ai primi due.
Chloe, seduta accanto a lei, le massaggiava amorevolmente la schiena in silenzio.
Passi pesanti sul marmo, che rimbombavano con un eco inquietante, annunciavano il ritorno di David.
L’uomo porse a Max due bustine di zucchero e una bottiglietta d’acqua.
“Prendi. Credo ti serva incamerare un po’ di energie. Il processo è stato spostato all’una, perciò pensavo di fare un salto al McDonald’s in fondo alla strada e prendervi dei panini. Non potete reggere tutto il giorno a stomaco vuoto, soprattutto Max. Sei stravolta: quello che è accaduto fuori deve averti dato decisamente un bell’eccesso di stress, vero?”
Max annuì e si preparò a mentire
“Abbastanza. Diciamo che è stata tutta quest’assurda situazione che mi ha reso molto suscettibile ma quello di poco fa è stato una sorta di colpo di grazia. Mi ci vorrebbe una lunga vacanza.”
“La faremo.” disse Chloe teneramente, prendendole la mano.
David adagiò accanto a Max la bottiglietta d’acqua e le bustine di zucchero, raccomandandole di usarle subito, mentre si allontanava di nuovo, per andare a prendere loro il pranzo. Chloe s’incaricò di mandargli una lista con tutto quello che desideravano.
Appena furono sole, Chloe non esitò molto prima di chiederlo
“Hai riavvolto, vero?”
Max annuì
“Mi hai dato il permesso, te lo giuro. Non lo avrei mai fatto alle tue spalle.”
“Il mio permesso? Max, che cazzo dici? Tu non devi chiedere mai il permesso a nessuno. Abbiamo fatto un patto, anzi hai fatto un patto con te stessa con cui io voglio condividerne il peso: mai utilizzarlo. Mai più. Se non per casi eccezionali. Se questo lo era, hai fatto bene e sono certa di essere stata d’accordo con te se lo hai fatto. Mi fido e non occorre darmi spiegazioni. Il permesso! Ah, ti scuoierei viva se lo dovessi ripetere in futuro e no, non potrai riavvolgere.”
Max sorrise e annuì
“Scusa, intendevo dire quello. Eri d’accordo. Per come si erano svolte le cose hai pensato che….”
“Era morto, vero?” la interruppe Chloe “Quella donna, la madre di Laureen, lo avrebbe ucciso. Anzi, l’ha ucciso. Giusto.”
“Già. Ma non poteva finire così, capisci? Doveva pagare e morire su quella scalinata, per quanto miserabile che fosse, non era la fine giusta per lui. Per le sue vittime, per tutte le donne che ha rovinato. Doveva pagare e non c’è cosa peggiore del tempo che scorre inesorabile dentro una cella, rispetto alla morte.”
“E tu di tempo te ne intendi alla grande, lo so.” scherzò Chloe “Per quanto io lo voglia vedere morto, forse hai ragione tu. Sì, una pallottola in testa e vederlo morire poteva essere una soddisfazione, ma passeggera. Immaginarlo invecchiare tra quattro mura e con il culo rotto da qualche altro detenuto più grosso, forse potrebbe essere il finale più giusto. Hai fatto di nuovo la cosa giusta, Max. Sai la cosa ironica: quello ti deve la vita e non lo saprà mai.”
Max si rabbuiò
“Ma ho fatto davvero la cosa giusta? Non ho solo sfogato l’ennesimo mio desiderio egoistico di far andare le cose come vorrei che andassero?”
Chloe la guardò stranita
“Egoista? Tu? Max sei la persona meno egoista del mondo! Hai idea di cosa avrebbe fatto altra gente, al posto tuo, con questi poteri? Cazzo, avrebbe rubato o peggio e nessuno lo avrebbe mai saputo. Avrebbero sempre commesso crimini senza mai essere puniti. Tu hai scelto di usarlo per me,per aiutarmi a trovare Rachel, per dare giustizia alla sua morte, per salvarmi la vita e per sbattere in carcere un maniaco. Questo per te sarebbe egoistico?”
“Magari molte ragazze volevano Jefferson morto. Per salvare te ho lasciato distruggere Arcadia e ucciso molte persone. Tutto perché volevo te, ti volevo nella mia vita. Non volevo rinunciare a te perciò ho rinunciato alle vite di molti altri e a una città intera. Aiutarti nelle indagini per Rachel, certo…. Se lo avessi fatto perché desideravo tornare ad essere la tua migliore amica? Se lo avessi fatto solo con lo scopo di riprendermi il posto che Rachel aveva preso in mia assenza? Se lo avessi fatto perché eravamo innamorate e ti volevo per me?”
Chloe le accarezzò il viso e le sorrise
“No. Non sapevi che fosse morta, lo hai fatto per me. Sì, mi hai salvato a scapito di molte altre vite e questo ti è costato moltissimo: il peso che porti, per quanto simile, non è comparabile al mio. Io non avevo quel potere di scelta, tu sì. Tu hai scelto, io ho accettato quella scelta e, per quanto sia sottile la differenza, il peso che porti te è migliaia di volte più pesante. Potevi obbligarti a tornare indietro e lasciare che Nathan mi uccidesse, morire senza sapere che eri di nuovo ad Arcadia, morire con la consapevolezza che non ti avrei più rivista, convinta che mi avessi abbandonato e dimenticato. Ma non l’ho fatto. Sono stata codarda e mi sono rimessa a te, come una sporca vigliacca. Su di te è ricaduta tutta la scelta, io ti ho solo consegnato una foto e detto che era giusto far vivere Joyce e David. Potevo insistere, potevo obbligarti, persuaderti che quella fosse la strada più giusta. E sono ancora convinta che sia così.”
“Cosa? No, non esiste Chloe, quella era..”
Chloe non la fece finire. Le mise un dito sulle labbra e riprese a parlare
“Max, come per Jefferson poco fa: c’era una via facile e una giusta. Tu hai visto quella facile e hai scelto quella giusta. Con me non c’era nulla di facile, solo quella giusta per me o quella giusta per tutti. Ma non c’era una via giusta per te, capito? Tu ci rimetti sempre. Non è stato egoistico scegliere me, così come non è stato egoistico scegliere di mandare Jefferson a processo invece che lasciarlo morire sulle scale. Hai scelto quello che tu hai ritenuto giusto, non quello che ti faccia bene. Si, io sono viva e forse ti rendo felice, ma guarda come tutto ciò ti sta devastando dentro…. Non hai chiesto questo potere eppure lo hai sempre usato nel modo che hai reputato migliore per tutti, tranne che per te stessa. Non ti stai regalando la pace, te la neghi. Solo per poter vedere gli altri felici. Volevi vedere me viva, felice e spensierata. Hai cercato Rachel per me, mi hai tenuto in vita tre volte perché credevi che non meritassi di morire e il dono che mi hai fatto è la cosa più grande che potessi ricevere. Mi hai dato mille vite, non una, per rimediare ai miei danni. Nessuno può vantare tanta fortuna. Ma io, senza poteri, ho tale fortuna grazie a te. Te che hai rinunciato a quella fortuna per me. Non è te stessa che stai cercando di migliorare, ma solo me. Stessa cosa per Jefferson. Non lo hai salvato per pietà, ma per coerenza, per giustizia verso chi ha sofferto. Per Kate. Potrei avere tutto ciò che vuoi e non voltarti mai indietro, ma non lo hai mai fatto. Se questo è egoismo, allora non so più cosa sia l’altruismo, Max Caulfield.”
Max pianse silenziosamente
“Sono così confusa. Così stanca. Ho tanti sentimenti misti dentro di me che sento che sto per crollare. Non so davvero più cosa fare, Chloe. Cazzo, non so più se le mie azioni siano mie o siano solo atti di menefreghismo per smettere di soffrire. Per redimermi.”
“Redimerti? Agli occhi di chi? Smettere di soffrire non è menefreghismo, Max. Io guarda come ho agito! Quello era menefreghismo e non volevo smettere di soffrire. Pensavo di volerlo, ma lo alimentavo ogni giorno con rabbia e facendo la stronza. Tu mi hai fatto capire la direzione giusta per guarire. Fallo anche con te stessa, Max. Comprendo come tu ti stia sentendo ma se può aiutarti, allora ricorda solo una cosa: ti amo. Questo non sarà mai confuso e egoistico. Sono qui perché ti amo per ciò che sei e sei sempre stata e se non lo fossi, non so se ti amerei così intensamente. Sei davvero una fottuta eroina di tutti i giorni e la tua sofferenza ne è l’ennesima conferma. Ecco perché sei così fottutamente straordinaria e io sono così innamorata di te.”
Max sorrise e si lasciò baciare delicatamente
“Ti amo anche io. Forse è anche per questo che non riuscirei mai a vederti morire. Ma questo è egoismo.”
“L’amore è la quintessenza dell’egoismo, alimentato da un feroce altruismo.” commentò Chloe “Basta saper dare il giusto equilibrio. E tu lo fai in maniera straordinaria.”
“Questa da dove l’hai rubata?”
“Hey, sono una poetessa anche io! Malfidente!”
Risero ma durò poco. Max ebbe un’altra fitta alla testa e gemette dal dolore.
“Cazzo.” si lamentò
“Ancora?”
“Si. E’ diverso, Chloe. Non come l’ultima volta. Non ha mai fatto male cosi tanto, nemmeno quando lo usavo. Ho provato una sensazione strana, diversa. Come se mi strappasse in due, mi sono sentita spaccare. Di solito era tutto leggero, ma oggi è stato intenso, quasi violento.”
“Forse perché non lo usavi da molto tempo.” suggerì Chloe “Erano mesi che non riavvolgevi e probabilmente il potere si era accumulato troppo e, avendolo attivato così all’improvviso, è come se fosse esploso di colpo, facendoti pagare gli arretrati.”
“Non so. Forse è così. Forse devo solo far riabituare il mio corpo. Ma non servirebbe: non intendo riavvolgere mai più. Basta, ora inizia a farmi male troppo anche fisicamente.”
“E se dovessi farlo? Forse il tuo corpo deve farlo, per scaricare questo eccesso di potere. Non credi?”
“Può darsi ma non voglio usarlo, Chloe. L’ultima volta che..”
“L’ultima volta hai cambiato cose importanti, tipo la mia morte. La natura ha richiesto il suo pedaggio ma solo per quello, non per riparare la tua macchina fotografica o vasi rotti. Max, se tu lo usassi una volta al mese, solo per queste banalità che non influiscono con il tempo, forse ti farebbe bene.”
“Se influissero? Se anche queste piccole cose influissero con l’andamento delle cose? Se riparassi un ombrello che era destinato a piegarsi, magari cambierei una piccola cosa che scatenerebbe una conseguenza enorme altrove. Sai l’effetto farfalla e le solite stronzate.”
“Si, lo so, ma non importa. Se questo potere che non sfoghi, si accumula e diventa come un veleno dentro di te, preferirei rischiare un temporale violento piuttosto che rischiare che tu possa morire, uccisa dal tuo potere represso. Forse serve al tuo benessere, liberarlo un po’.”
Max tentò di pensare a riguardo, ma la testa stava dolendo ancora troppo e non riusciva a riflettere lucidamente
“Non so Chloe. La rischierò, non me la sento di sconvolgere ancora le leggi della natura. Ti prometto che, se sentissi il bisogno fisico di usarlo, lo farò.”
Chloe la osservò preoccupata ma annuì
“Ok. Ma fallo. Non voglio che ti esploda dentro di notte e mi debba svegliare un mattino trovandoti neonata o  ultracentenaria.”
“Beh meglio così che esplosa letteralmente, no?”
“Dipende: se mi svegliassi, potrebbe non dispiacermi. Dai, devo dire a David che  cosa mangiamo o si spazientirà.”

 

 
 
 
6
 
 
Era ormai sera, quando la sua Dodge Charger fece capolino sulla strada che conduceva a casa.
Il cielo tinto di un blu cobalto e un’aria frizzante, rendeva l’atmosfera rilassante per Kristine e fu felice nel vedere Chloe Price smontare dalla sua vettura in prestito, vestita in maniera sportiva e con un sorrisetto rilassato e baldanzoso.
Avvicinandosi a lei, le porse le auto.
“Ecco qui la sua bambina, madame.”
Kristine afferrò le chiavi e, istantaneamente, porse quelle del pick-up alla legittima proprietaria
“La sua bimba l’attende in garage. Vuoi vederla?”
“Oh si cazzo. Mi manca.”
Kristine ridacchiò e accompagnò la ragazza dai capelli bluastri verso il garage della villa, dove sostava il mezzo.
Chloe spalancò gli occhi nel vederla: era tirata a lucido e sembrava in ottimo stato. Troppo in ottimo stato.
“Ma che le hai fatto?”
“Io nulla, ma alcuni a cui ho chiesto l’hanno lavata e dato una mano di cera, ridipinto parti della carrozzeria, sistemato e sostituito alcune parti del motore che erano poco in forma. Direi che ha guadagnato qualche anno di vita in più. Ah, anche i sedili sono stati rimessi quasi a posto.”
Chloe era sbalordita
“Ti sarà costato una fortuna! Sei pazza!”
“Al contrario: non ho speso un dollaro. Sai, molti mi dovevano un favore, altri amano maneggiare auto, altri ancora hanno ammirato quello che tu e Max avete fatto per questa storia… insomma, la tua auto non ha richiesto nessuna spesa extra. Goditela e basta, ok?”
Chloe stava accarezzando l’automezzo con dolcezza, come se fosse davvero una sua bambina.
“Io non so che dire…..insomma… grazie di nuovo Kristine… io… Io non ti ho nemmeno lavato la Dodge… il pieno l’ho fatto però.”
“Hai comunque messo più soldi nella mia auto di quanti io ne abbia messi nella tua. Dai vieni fuori: ti offro una sigaretta.”
Mentre si avviavano al marciapiede, verso la Dodge di Kristine, Chloe buttò un occhio verso la villa dei Prescott. Notò che, senza le tende e con le luci accese, poteva vedere tranquillamente all’interno e fu colpita da vuoto totale che ora aleggiava nella casa.
“Hai concluso.” commentò, colpita
“Già: tutto finito. Rimangono solo le mura.”
“Quindi stasera verrai a dormire all’hotel?”
“Negativo: ho organizzato un piccolo party di addio con alcuni amici. Pizze d’asporto, alcolici, sacco a pelo e tanta spensieratezza. Poi questa casa, finalmente, non mi vedrà mai più.”
“Capisco. Comunque ti saluta Max: voleva venire  ma è completamente distrutta.”
Erano arrivate alla macchina.
Kristine prese dal pacchetto due sigarette e un accendino. Ne porse una a Chloe e l’accese, prima di fare la stessa cosa con la sua. Poi prese una boccata e, infine, chiese
“Che le è successo?”
Chloe fece le spallucce
“Credo sia lo stress. Già lei soffre mostruosamente di ansia da sempre e credo che oggi per lei sia stato troppo. Sai quel tentato omicidio seguito da un processo all’uomo che ha rovinato la sua vita nell’ultimo anno…. Beh penso che abbia i nervi un po’ a pezzi e che l’emicrania che l’affligge sia una conseguenza normale.”
Kristine osservò attentamente il volto della ragazza e capì che era turbata più di quanto la sua espressione indifferente lasciasse trasparire. Le parve anche che ci fosse di più, ma forse avrebbe chiesto qualcosa di privato. Era chiaro che, però, era molto preoccupata per lo stato di Max.
“Ricambiale il saluto e dille che domani sera sarò dei vostri. Magari starà meglio. Quando avete intenzione di andare via?”
“Penso un paio di giorni. Domani arrivano i genitori di Max e andremo a salutare tutti mia madre all’ospedale. Domani sera saremo tutte tue, non preoccuparti. Infine penso ci prenderemo un’altra giornata di libertà e preparare le valigie e poi, via, di nuovo a Seattle.”
“Non ne sembri entusiasta, però.”
Chloe tradì un sorrisetto bizzarro, tra il divertito e il sorpreso
“Ho un po’ di pensieri.”
Kristine la lasciò tranquilla e prese una boccata, prima di chiedere quali pensieri.
Chloe prese a sua volta una boccata dalla sua sigaretta e disse
“Diciamo che anche la mia vita potrebbe cambiare un po’. Ci sono un po’ di cose che mi fanno riflettere, soprattutto mia madre. Insomma, è una roccia, ma vorrei essere certa che si riprenda completamente nell’immediato futuro. Inoltre, sarà in grado di lavorare? Relativamente, è ancora giovane e senza lavoro ho paura che possa impazzire, oltre che faticare a mantenersi. Però, chissà se il Two Whales  verrà ricostruito o no, dato che i precedenti proprietari sembra che non vogliano avere più nulla a che fare con Arcadia Bay. Ma anche se fosse così, prenderebbero mia madre di nuovo, nonostante la sua esperienza, sapendo che potrebbe non lavorare quanto prima, finché non si sistema completamente? Sempre che possa recuperare….”
“Questo non credo che sia un problema per la quale tu debba preoccuparti troppo.” disse Kristine, spegnendo la sigaretta per terra “Il Diner non verrà ripreso dai suoi proprietari.”
Chloe fissò Kristine e non riuscì a nascondere un’espressione sconsolata
“Oh….. capisco…. Beh naturale, insomma.. Verrà acquistato da qualcun altro… beh spero di rintracciare i nuovi proprietari e far capire loro che…”
“Sono io.”
Chloe voltò la testa di scatto verso Kristine, facendo scrocchiare il collo
“Cosa?”
“L’ho rilevato io: è mio. Anzi, momentaneamente lo è. Sto facendo in modo che tua madre ne sia la titolare. Io sarò socia di minoranza ma tua madre e tu sarete le nuove proprietarie del Two Whales. Congratulazioni!”
Chloe era imbambolata e scioccata. Si era ingobbita e sembrava persa nel vuoto
“Scherzi vero?”
“No, affatto. Sempre se t’interessa diventare mia socia. Ho accennato qualcosa a David e ho chiesto di sondare il terreno con Joyce, ma in ogni caso non intendo rimanere ad Arcadia Bay per controllare gli affari di un diner. Non mi fido di nessuno se non della sua impiegata di più lunga data, ovvero tua madre. Perciò, io affiderò tutto a lei e a te. Gestirete voi, o meglio lei se tu torni a Seattle, mentre io mi assicurerò di ricevere la mia minima parte d’incasso mensile. Tutto qui. Mi sembra un rischio calcolato, dopotutto. Perché darlo in mano a sconosciuti quando c’è tua madre che lo consoce come casa sua.”
Chloe si appoggiò alla Dodge.
“Perché? Perché mi aiuti così tanto? Con tutto il fango che ti ho sputato addosso…”
“Non sapevi. Anche io avrei dubitato di me, al posto tuo. Avevi bisogno di tempo e fiducia per conoscermi e sono felice che ora tu abbia cambiato opinione su di me. Affidarti il diner è solo il minimo per quello che avete fatto voi per me.”
“Ci hai mantenuti qui, mi hai sistemato l’auto, hai scacciato McKinsey e il suo tirapiedi e ora mi regali il Two Whales? E’ troppo, Kristine.”
“No, affatto. Io non ho praticamente speso un dollaro per tutto questo. Sì, ho acquistato il diner ma credimi che la cifra è stata irrisoria e non finirò sul lastrico. Ho solo guadagnato da questa storia: mio fratello non è il colpevole e, anche se non è riabilitato, almeno ne esce più come vittima che carnefice. Il nome della mia famiglia è distrutto ed io presto rileverò tutto quello che mio padre possiede, relegandolo in una pensione anticipata in Florida, a nascondersi ancora per chissà quanto, mentre io potrò cambiare tutto l’impero Prescott in qualcosa di più decente e più vicino ai miei interessi. Se questo è possibile è anche merito vostro che, avendo trovato il corpo di mio fratello, avete fatto saltare fuori la sua storia e peggiorato ulteriormente la fama di mio padre. Sono io che ho un debito verso di voi e credimi, ancora non ho trovato qualcosa per sdebitarmi a dovere con Max.”
Chloe alzò gli occhi al cielo
“Credimi: non vorrebbe nulla. Si sente già troppo in colpa per averti trascinato in mezzo a salvarci la cotica con McKinsey e per il vestito fatto su misura per il processo.”
La ragazza dai capelli blu fece un passo avanti, fissando ora il prato ben curato, nonostante la casa fosse ormai spopolata
“Credi che sarebbe cambiato tutto, se fossi rimasta? Che Nathan sarebbe stato in salvo da tutto questo?”
Kristine non si aspettava quella domanda e ne fu colpita, ma sorprendentemente sapeva come rispondere
“No. Non sarebbe cambiato molto perché mi conosco troppo bene e il mio desiderio di fuga mi avrebbe reso fredda e distante dai suoi bisogni. Sono un’egoista, lo sono sempre stata, soprattutto quando mi sento sotto pressione e limitata nella mia libertà. Nonostante ci sia sempre stata per lui, se mi avessero impedito di fuggire da questa casa di merda, sarei fuggita in un’altra maniera: mentalmente. Sarei stata più fredda, rancorosa e disinteressata verso la mia famiglia. Sapevo già che Nathan soffriva e cercavo di star accanto a lui ma, se non fossi andata via, non so quanto mi sarei preoccupata di tutto questo. Avrei smesso di badare a lui, lasciando che diventasse un problema di mio padre. Si forse se avessi notato un peggioramento magari avrei provato a calmarlo, ma sarebbe stato tutto inutile e sarebbe stato troppo tardi. O forse, nella peggiore delle ipotesi, avrei solo accentuato un aspetto di lui che è già stato fonte di guai per molte persone. No, penso che la mia presenza qui non avrebbe cambiato nulla perché le uniche due persone che potevano salvare Nathan erano due genitori normali, amorevoli e attenti a un figlio che aveva bisogno di aiuto. A lui sarebbe bastato questo e le cure giuste, non un abbandono e una vergogna da giocattolo rotto, sballottato di psichiatra in psichiatra. Credimi, per quanto le medicine sarebbero comunque servito, sono convinta che l’amore di un genitore lo avrebbe aiutato meglio nel suo percorso di guarigione. Non è stato così e ora possiamo solo fare i conti con tutto questo.”
Chloe aveva incrociato le braccia e l’ascoltava con attenzione. Attese qualche istante dopo che ebbe finito di parlare, prima di dire la sua
“Forse hai ragione tu. Non ero in casa vostra e non ti conoscevo ma fatico a immaginarti menefreghista verso di lui: guarda come hai trattato me e Max! So che avresti dato una mano a lui, nonostante il tuo risentimento, ma forse lui sarebbe ugualmente crollato perché, giustamente, con i tuoi genitori non poteva essere altrimenti. Mi spiace davvero che sia andata cosi, Kristine. Mi spiace sul serio.”
Kristine notò che era sincera. Nonostante suo fratello avesse tolto la vita a una delle poche persone davvero importanti per lei, Chloe non le portava più rancore o odio, ma era davvero dispiaciuta per lei. Forse non per Nathan, ma solo per lei e per il fatto che avesse perso un fratello.
“Ti ringrazio.” disse infine con un sorriso. Chloe rispose facendo le spallucce e abbozzò il suo solito sorrisetto indifferente.
“Cerca solo di non sparire, ok? So che te ne vuoi andare il prima possibile da Arcadia e, credimi, ti capisco più di chiunque altro ma so che Max non la prenderebbe bene se svanissi dalle nostre vite. Cerchiamo di rimanere in contatto, ok?”
“Certo che rimarremo in contatto.”
“Allora fatti vedere per il Ringraziamento. Puoi passare da Seattle magari, così non devi stare con quella tua simpatica famiglia.”
“Non credo. Penso di voler tornare in Brasile per un paio di mesi, anche se sembra esserci un’emergenza sanitaria al momento.[2] Poi penso di spostarmi in Europa per un po’.”
“Europa?? Dove diavolo vai?”
“Parigi. Ho un piccolo appartamento lì.”
Chloe fischiò ammirata
“Cazzo, che invidia. Ho sempre voluto visitare Parigi ma non…. Beh diciamo che un paio di cose me lo hanno impedito.”
Kristine si fece pensierosa e si grattò il mento
“Mmmh beh potreste venire da me ma dopo capodanno. Farò in modo di ritagliarvi un angolo notte nel soggiorno, penso non sia un problema. Però ve lo pagate voi il volo, tranquilla.”
Chloe prese per i polsi Kristine
“Sul serio?”
“Certo. Non posso venire io a Seattle ma potreste venire voi a Parigi qualche giorno. Almeno non rimarrò in solitaria in un paese straniero tutto il tempo. Amo la solitudine, ma un break ogni tanto potrebbe essere balsamico, no?”
“Cazzo realizzerei un mio sogno d’infanzia a vedere quella città. Cazzo, cazzo, cazzo! Grazie”
Kristine si limitò a sorridere.
Dietro li loro, un rombo e dei fari segnalarono l’arrivo degli amici della Prescott.
“Credo che siano arrivati i tuoi ospiti.” commentò Chloe
“Già. Beh, ci vedremo domani sera, promesso.”
Ma Chloe fece un cenno con capo verso la villa.
“Hai già trovato a chi appiopparla?”
“Nah. Ci penserò a tempo debito, dopotutto non ho fretta. Con l’arrivo delle nuove aziende, qualche imprenditore sadico vorrà sicuramente acquistarla, sapendo che era la casa del pazzo maniaco di Arcadia Bay. Magari non la venderò alla cifra che voglio, ma sono certa che potrebbe fruttare un bel gruzzolo ugualmente. Almeno due o tre offerte me le aspetto, non solo molte ma considerando la storia che ha dietro, sarebbero già sufficienti.”
“Fico. Te lo auguro e spero che potrai spennare qualche vecchio scemo pieno di soldi.”
“Oppure potresti farlo tu. Per te questa casa è al prezzo amico di dieci dollari.”
“Come?”
“Se vuoi villa Prescott, è tua. Per dieci dollari.”
Chloe fissò interrogativamente Kristine
“Mi prendi per il culo?”
“L’offerta scade domani.”
“Ripeto: mi prendi per il culo?”
Kristine scosse la testa
“Potrebbe essere la tua nuova dimora, o quella per te e Max in futuro. Magari solo una base d’appoggio per le vacanze o semplicemente un posto per fare del sano casino. Non avreste la mobilia, certo, ma con pochi dollari e con calma potreste arredarla piano piano. Oppure, soluzione più semplice e credo più a tuo favore, potresti valutare tu le proposte dei vecchi idioti pieni di soldi e intascarti una bella cifra da dividere con Max e costruirvi un futuro in una casa più piccola per voi. Solo se la compri per dieci dollari.”
Chloe era scioccata.
Fissò Kristine, poi la casa, poi di nuovo Kristine e infine di nuovo la villa dei Prescott.
Emise un gemito indefinito e allungò la mano con un fare incredulo e ancora sorpreso
“Affare fatto. Ma ti darò i dieci dollari domani: non ho prelevato.”
Kristine scoppiò a ridere e strinse la mano di Chloe
“Non ho fretta di intascarli. Potrei anche aggiungerli alla mia quota mensile del Two Whales, nel caso ti scordassi. Ti farò avere la documentazione intorno a Settembre.”
“Non ci credo.”
“Ha fatto un affare, signorina Price!” replicò Kristine imitando un agente immobiliare
Chloe scosse la testa, ancora incredula. Gli amici di Kristine si stavano avvicinando e iniziavano a chiamarla a gran voce.
“E’ la casa della tua famiglia…”
“No: è stata una gabbia. Per me, per mio fratello, per Rachel, per Samantha e anche per te e Max. Non mi importa minimamente, puoi anche demolirla da cima a fondo per quanto mi riguarda. Questa casa è stata solo fonte di brutti ricordi, non sono triste all’idea di separarmene. Anzi, sono felice che il fato abbia deciso di destinarla a te e Max: ancora una volta avete in mano il destino dei Prescott, qui ad Arcadia Bay. Demolitela, vendetela, abitatela… non mi importa ma so che in ogni caso, con te e lei, avrebbe finalmente ricordi migliori di quanti io ne possa avere.”
Si fissarono negli occhi scambiandosi intesa e ringraziamenti. Poi, sorprendentemente, Chloe l’abbracciò con affetto sincero.
“Grazie. Grazie davvero di tutto, Kristine.”
“Grazie a te per ogni cosa, soprattutto per esserti fidata di una Prescott ed esserci persino diventata amica.”
Chloe sorrise
“Dovresti andare. Ti reclamano.”
“Già.”
Sciolsero l’abbraccio e si sorrisero di nuovo
“Prometto di non rovinare casa tua, Chloe.” disse Kristine, congedandosi e avviandosi verso i suoi amici, per scortarli dentro la villa.
Chloe Price rimase in piedi e la salutò con un cenno della mano. Sorrise nel vedere la sua nuova e inaspettata amica raggiungere festosa un gruppetto di ragazzi e ragazze. Ancora faticava a credere che una Prescott era ora una delle sue più grandi amiche. Faticava soprattutto a credere nel suo cambiamento degli ultimi tempi: esclusa Max, non era mai stata in grado di farsi amiche. Rachel era stata l’eccezione, ma in generale non legava mai. Era la solitaria, rabbiosa Chloe Price.
Ora aveva Steph, Fernando, Kirsten e Kristine Prescott. Chissà, presto avrebbe ampliato la sua rete di amicizie.
Ma soprattutto, faticava a credere che, guardando la villa dei Prescott, quella ora fosse casa sua.
Si avviò verso il suo pick-up, con il cielo che ormai era sempre più scuro, fremendo dalla voglia di rivedere Max e aggiornarla sulle novità clamorose.
 
 
 
 
L’entusiasmo passò in secondo piano appena varcata la soglia di camera sua.
Max giaceva a letto, con la luce del comò accesa. Era pallida, con profonde occhiaie e respirava irregolarmente. Si avvicinò e vide che il blister delle pastiglie per l’emicrania, adagiato sul comò, contava due pastiglie in meno e il bicchiere d’acqua accanto era quasi terminato. Lo afferrò, andò al frigo bar dove stava una bottiglia d’acqua in fresco e lo riempì.
Mentre si avvicinava di nuovo al mobile per sistemare il bicchiere, Max aprì gli occhi
“Ti ho svegliata? Perdonami.”
Max scosse la testa
“No, figurati. Non stavo realmente dormendo. Stavo solo riposando gli occhi.”
“Hai preso altre pastiglie….”
Max annuì
“Non passa?”
Max, ancora una volta, scosse la testa a mò di diniego
“Cazzo. Dovrei portarti in ospedale…”
“No, Chloe. Non se ne parla, te l’ho detto. E’ solo un mal di testa.”
“Che dura da troppo tempo e ti sta massacrando, cazzo.”
“Lo so, ma cosa posso dire? Come posso giustificare questo continuo dolore? Non posso dire che ho riavvolto il tempo e questo potrebbe essere una conseguenza per aver represso il mio potere per troppi mesi.”
“Sperando che sia così.” borbottò Chloe “Mi auguro con tutto il cuore che sia così.”
Max le sorrise. Allungò la mano e la invitò a sedersi sul bordo del letto accanto a lei. Chloe obbedì.
“Anche se non fosse per quello, non potrebbe aiutarmi nessuno. In ogni caso, sta migliorando. Te lo giuro, non guardarmi con quella faccia.”
Chloe alzò le mani in segno di resa
“Se lo dici tu!”
“Te lo garantisco. Appena riuscirò a dormire, sono sicura che domani starò molto meglio. Non una parola con i miei genitori, ok? Continuiamo con la storiella dello stress e l’ansia.”
“Ma mica è una bugia! Il tuo potere c’entrerà qualcosa, ma credo che i tuoi nervi siano a pezzi e questo stia amplificando il tuo malessere. Diciamo che l’aver riutilizzato il tuo potere potrebbe solo aver dato la botta finale al tuo sistema nervoso in bilico.”
“Forse si. Diciamo che non mi sono molto annoiata in questo ultimo mese.” replicò con un sorrisetto Max
“Nemmeno io. Non me l’hai più data!”
“Chloe ti sembra il caso di..”
“La carenza di incontri sotto le lenzuola è un grosso problema per la sottoscritta. Soffro anch’io, solo che non lo nascondo bene. Vedi come ci tengo a te? Dovresti apprezzare.”
“Sei la solita idiota. Come sta Kristine? Mi sento così in colpa per non essere potuta venire.”
“Sta alla grande e non preoccuparti: la vedremo domani sera. Stasera doveva dire addio alla casa facendo festa con alcuni amici, perciò non mi sono trattenuta molto. Comunque, domani sera spero tu sarai in forze per cenare con lei.”
“Devo: arrivano anche i miei e dobbiamo andare a trovare tua madre in ospedale. Per domani devo alzarmi per forza da questo letto. Kristine demolirà la casa, stanotte? Credo non veda l’ora!”
Chloe si morse la lingua e fissò Max
“Ecco a questo punto…”
“Cosa? Non vorrai demolirla tu…”
“No: è nostra.”
“Come?”
“Villa Prescott…. È nostra. L’ho comprata..”
“COSA?!”
Max si mise a sedere e la fissò con occhi increduli
“Sei impazzita?”
“Per dieci dollari… era un affare..
“Non possiamo permettercela! Hai idea di quanto verrebbero a costarci le bollette? Inoltre andrebbe arredata! Cazzo ma…”
“La possiamo demolire….. oppure rivendere e con i soldi che ne otterremmo in cambio ci sistemeremmo per un bel po’, non trovi?”
Max sembrò tranquillizzarsi e annuì
“Inoltre, mi ha sistemato il pick-up. Gratis. O almeno, così dice lei e spero davvero che non abbia speso nulla per farlo.”
“Me lo auguro anche io…. Ci ha regalato una villa….”
“….e ci ha invitato a Parigi dopo a capodanno.”
“Davvero?? Ma è fantastico! Non vedo l’ora di andarci!”
“…e mi ha regalato il Two Whales…o meglio, è di mia madre ma è anche mio….”
Ora Max era di nuovo sconvolta
“Non posso crederci…. Ma perché?”
“I vecchi proprietari non lo volevano più, perciiò ha pensato che sarebbe stato carino che passasse in gestione all’unica persona rimasta ad Arcadia che lo conoscesse per bene e che avesse anche una notevole esperienza pregressa come lavoratrice in quel posto, quindi lo ha rilevato e poi lo cederà, quasi totalmente, a mia madre. Lei rimarrà socia in minoranza e io pure.”
Max provò a scuotere la testa ma una lieve fitta le interruppe il movimento. Riuscì comunque a trasmettere la sua incredulità
“Incredibile. Kristine ci ha svoltato la vita. Domani dovremmo pagare noi la cena.”
“Come minimo.”
Chloe prese la mano di Max e l’accarezzo amorevolmente
“Tu però non pensarci ora, ok? Penseremo con calma a tutto questo, quando saremo a Seattle e lontane da tutto e tutti. Magari anche dopo la nostra vacanza in California. Ci penseremo a tempo debito. Non caricare la tua testolina spaccata in questioni non più urgenti. Siamo belle, siamo innamorate e siamo probabilmente ricche. Quindi, ora, rilassati e dormi. Chiaro?”
Max annuì
“Chloe?”
“Dimmi.”
“Credi davvero che sia finita? Che finalmente avremo una vita normale e nulla ci impedirà di vivere come due vecchie piratesse imbecilli?”
“Me lo auguro davvero tanto, Max. Tu no?”
Max la fissò negli occhi e Chloe ne lesse una grande tristezza
“Vorrei davvero tanto, Chloe. Dico davvero. Lo vorrei con tutta me stessa ma ho paura che la mia vita non sia ancora destinata a essere pacifica. Ho un brutto presentimento.”
Chloe l’abbracciò e tentò di consolarla
“Sei solo spaventata, ok? Il tuo potere ti ha danneggiata come mai aveva fatto, ferendoti e lasciandoti scossa. Aggiungiamo che arrivavamo da mesi di terapia e ci siamo catapultate qui, affrontando noi stesse e, di nuovo, un cazzo di maniaco manipolatore. Sei solo stressata e insicura ed è normale, cazzo. Andrà tutto bene. Sono qui e se qualcosa andrà storto, sarò sempre e comunque qui. Chiaro?”
Max annuì, ma non riuscì a scacciare quel presentimento.
Non ebbe il coraggio di dire a Chloe cosa popolava la sua mente, da quando aveva riutilizzato il suo potere.
Lo avrebbe fatto, prima o poi. Non ora, però.
 

 
 
 
 
 
7
 
Nel pomeriggio, un leggero temporale aveva colpito Arcadia Bay e ora il cielo era puntellato di nubi simili a batuffoli di lana gettati alla rinfusa su una tela blu. Non vi era afa, ma una dolcissima e rinfrescante brezza, che permetteva di poter passeggiare in tutta tranquillità, senza rimanere scottati o accaldati.
Max e Chloe stavano nella casa di quest’ultima, intente a smontare tutto dalla cameretta che era divenuta loro centro operativo durante i giorni di ricerca del cadavere di Nathan. Si erano entrambe rese conto che non conveniva lasciare troppe cose in giro per casa, una volta che Joyce fosse tornata (o anche semplicemente, che David fosse solo passato per controllare che fosse tutto in ordine).
Già, Joyce.
Quella mattina, la madre di Chloe era più energica e radiosa di quanto non fosse mai stata. In parte era anche merito dei medici ma, sosteneva Chloe, anche per la visita di Vanessa e Ryan Caulfield. La notizia che presto sarebbe diventata anche la proprietaria del suo vecchio posto di lavoro, per poco, non le costò un infarto. Era incredula e divertita all’idea e disse che le sarebbe piaciuto incontrare Kristine Prescott per ringraziarla di persona, non appena sarebbe stato possibile. Si chiese anche, con molta enfasi, quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poter entrare al Two Whales in veste di titolare. Ovviamente, sottolineò che avrebbe comunque continuato a lavorare ogni tanto: non le piaceva la noia. I coniugi Caulfield erano divertiti e colpiti da quella ventata di energia che spesero un quarto d’ora buono a ricordare a Joyce che era ancora in ospedale e in osservazione costante e forse doveva frenare un poco l’entusiasmo. I genitori di Max erano venuti da Seattle già di prima mattina, avendo viaggiato di notte, per stare il più tempo possibile con le ragazze e in ospedale per salutare la loro vecchia amica. Volevano anche aiutare le ragazze con i bagagli, ma quello riuscirono a ottenere di poterlo fare da sole e che sarebbero rientrate l’indomani sera, con tutta tranquillità. Accettarono di buon grado di poter pranzare tutti insieme, con David invitato al momento, in un ristorantino carino poco fuori Tillamook, in mezzo al verde. Tutti, ovviamente, si accorsero dello stato di Max: pallida, emaciata, con pesanti occhiaie violacee. La ragazza riuscì a persuadere tutti che fosse solo una conseguenza della pessima nottata passata. Disse che il carico emotivo era stato eccessivo e che non aveva riposato a dovere. Chloe le resse il gioco, ma non si sentì a suo agio a mentire ai genitori di Max. Era preoccupata ma, al tempo stesso, voleva spalleggiare la sua ragazza. Non sapeva cosa fare, perciò si limitò a dare corda, in attesa di capire se convenisse avvertire i Caulfield di far visitare Max da un neurologo, non appena fossero rientrati a Seattle.
Decise che si sarebbe lasciata questo altro giorno e mezzo per valutare le condizioni di salute.
Nel pomeriggio, poco dopo pranzo, si separarono e le due andarono ad Arcadia, con l’intenzione di svuotare la camera di Chloe.
“Abbiamo quasi fatto.” disse Max, guardandosi attorno “La piantina la possiamo portare con noi.”
“David ha giurato che sarebbe venuto qui a darle da bere ogni due giorni.” rispose Chloe
“Non voglio dare questo compito a David. Questo mese, per lui, sarà impegnativo: deve prepararsi per entrare ufficialmente nel corpo di polizia di Arcadia Bay. Hai sentito cosa diceva a pranzo: il nuovo ospedale di Arcadia sarà operativo già da fine Agosto perciò, entro quella data, vogliono mettere in funzione anche la caserma dei pompieri e il nuovo distretto di polizia.”
Chloe sbuffò
“Si si, ho sentito. Solo che i tuoi non mi sembravano entusiasti di una piantina in più.”
“La metteremo in giardino, che fastidio può dargli?”
Chloe però si era rabbuiata e Max lo aveva notato
“Che ti prende?”
“Nulla. Pensavo solo che qui sarebbe meglio.”
Max si avvicinò alla sua ragazza, che reggeva la piantina e lo sguardo perso nel nulla
“C’è qualcosa che devi dirmi, non è vero?” chiese con tono affabile
Chloe annuì, mordendosi il labbro inferiore
“Avanti, spara. Smettila di pensare a me e dimmi cosa c’è che non va.”
Chloe la fissò con sguardo colpevole
“Mi ha chiesto di restare, Max. David vorrebbe che restassi qui o perlomeno che tornassi qui per Settembre, per aiutarlo con mamma. Lui me lo ha chiesto…”
“Poco prima che tornassimo a Seattle, qualche settimana fa. Si lo sospettavo.” concluse Max “ Avevo notato che eri pensierosa e non avevo bevuto la tua bugia, ma so che necessiti del tuo tempo prima di parlare. Sono felice che tu lo abbia fatto, ora.”
Chloe era sorpresa
“Felice? Max, hai capito? Mi hanno chiesto di tornare a vivere ad Arcadia, lo capisci? Tornare qui!”
“Si, l’ho capito.”
“Vorrebbe dire abbandonare Seattle!”
“Beh, è logico.”
“Come sarebbe a dire ‘è logico’ ? Che cazzo di risposta è?”
Max alzò le mani per tranquillizzarla
“La risposta di qualcuno che ti ama e che non oserebbe mai impedirti di fare quello che ritieni corretto per te e per la tua famiglia. Chloe, lo so che in fondo hai già deciso e sono con te, ok? E’ giusto cosi: devi tornare qui per Joyce. Non solo per aiutarla a riprendersi ma anche per gestire il Two Whales in sua assenza. Sappiamo entrambe che è la cosa migliore che tu possa fare.”
“Max io non posso….”
La ragazza non l’ascoltò. Le prese la piantina dalle mani e le sorrise. La adagiò vicino alla finestra e commentò
“Qui starà benissimo. Chiediamo a David di annaffiarla ogni tanto, almeno quando tornerai sarà ancora viva. Andiamo a fare due passi, ti va?”
Max la prese per mano e, con un cenno lieve del capo e un sorriso, la invitò a uscire di casa.
Si avviarono lungo Cedar Avenue, in direzione sud.
“So che pensi che sia una stronza, ma Max credimi io…”
“Non lo penso affatto.”
“….io vorrei anche recuperare il tempo che ho perduto con mia madre a causa mia. Sento che è una seconda occasione che il destino, anzi, che tu mi hai donato salvandomi la vita quel giorno. Posso recuperare tutto quel tempo che ho buttato per colpa della mia rabbia….”
“E’ meraviglioso Chloe e ne sono pienamente convinta anche io. Devi riprendere il tempo che hai perso con tua madre.”
“…..e migliorare il rapporto con David. Inoltre qui potrei tenere Pompidou con più tranquillità, finché Frank non verrà scarcerato….”
“Dobbiamo andare a recuperare Pompidou prima che Frank s’innervosisca, allora. Magari, per ora, teniamolo a Seattle con noi.”
“….. in ogni caso, ora ho una auto funzionante e decente: sono solo quattro ore da Seattle e potrei venire da te spesso, anche tre volte al mese. Non credo che sia un problema, finché non termini gli studi e non decidi cosa fare. Non credi? Ma dove stiamo andando?”
La direzione presa da Max era la stessa che conduceva alla vecchia villa dei Caulfield, quando risiedevano ad Arcadia. Chloe pensò che volesse vedere la sua vecchia dimora, com’era stata ristrutturata o semplicemente riguardare con nostalgia la sua prima casa. Invece si fermò di colpo, all’angolo tra due strade, indicando uno spiazzo verde di una villetta attualmente disabitata, come del resto lo era tutta la città.
“Ricordi?”
Chloe scosse la testa
“No. Non ricordo. Che devo ricordare?”
Max le prese una mano con dolcezza e sorrise
“Qui ci siamo incontrate la prima volta, sai? Io stavo scorrazzando per la strada, con i miei nonni appresso che erano venuti a trovarci. Avevo una spada di spugna e una benda sull’occhio quando tu sei sbucata dall’angolo con la tua piccola biciclettina rosa e tuo padre in gran carriera che tentava di fermarti. Ricordo il tuo viso stupito nel vedermi vestita così e la tua voce entusiasta che mi chiedeva…”
“Anche a te piacciono i pirati?!” concluse Chloe, ricordando tutto con nostalgia “Il primo giorno che ti vidi.”
“Esatto. Il nostro primo incontro. Unite dalla passione per i pirati, ti ho invitata a casa mia, poi tu invitasti me e da allora, per molti anni, non abbiamo fatto altro che vivere l’una a casa dell’altra. Ma quel giorno, in questo punto… questo è il momento che ho scelto. Il mio momento cariologico.”
“Il tuo cosa? Termine di fotografia?”
Max ridacchiò
“Ma no. Indica un momento specifico nel tempo, al di sopra di ogni altro. Bellissimo e unico. Tu che entri nella mia vita per sempre: questo è il mio momento cariologico, il mio istante supremo sopra ogni altro. Perche anche se divise, saremo sempre Max e Chloe. Da quel giorno è quasi sempre stato così.”
Chloe la strinse a sé
“Sei pazzesca, Max Caulfield. Io non ho un momento cariocoso, ma so che ogni momento con te è unico e ciò mi basta.”
Max prese il viso di Chloe tra le mani
“Quello che abbiamo passato è stato orribile, unico e spaventoso. La mia testa sta per esplodere e non so se sarò in grado di reggere a tutto questo. Qualcosa non va in me, Chloe. Si è rotto qualcosa, lo sento. Dentro di me, ora, albergano troppi mostri che non sono miei. Per qualche istante ho pensato di….di…”
Chloe non capì subito ma, vedendo gli occhi di Max inondarsi di lacrime, ebbe un atroce sospetto
“No! Col cazzo, Max. Non osare nemmeno pensarci. Tu non provare nemmeno a suicidarti, chiaro? Cosa diamine sarà di me se tu ti togli la vita? Sei pazza per caso?”
Max pianse per la colpa e la vergogna
“Lo so, non volevo farlo e non voglio farlo ma qualcosa in me, qualcosa che non so se sia mio ma sento che è così, lo voleva disperatamente. I miei sentimenti sono in frantumi come la mia mente dal giorno del processo. Sento che sto per impazzire, anche se il dolore sta diminuendo. Ho paura di non essere più sana. Sono diventata un corpo in balia di tempi e sentimenti alieni e comunque miei. Non ce la faccio più, Chloe.”
Chloe si mise in ginocchio, prese le mani di Max e le strinse con convinzione
“Ascoltami, ok? Cazzo, ascoltami! Sei solo spaventata, chiaro? Appena torniamo a Seattle andiamo di nuovo in terapia e vedrai che tutto si sistemerà. Datti tregua, Max! Sei un essere umano e hai affrontato troppe cose e tutte più grandi di te, in troppo poco tempo. Datti una cazzo di tregua, ok? Respira e promettimi che sarai più egoista e cercherai di star bene. Intesi?”
Max annuì
“Intesi. Ma tu devo tornare qui lo stesso. Ok?”
Chloe sbuffò e annuì
“Si. Tornerò. Ma ti prometto che non starò lontano da te. Noi continueremo a stare insieme e vedrai che andrà tutto bene. Ora ce ne torniamo a Seattle, poi ci facciamo quella vacanza del cazzo che abbiamo progettato e poi, solo poi, penseremo al mio ritorno ad Arcadia Bay, ok?”
Chloe si rimise in piedi e fissò il punto che Max aveva indicato prima
“Il mio momento fico? Quando abbiamo rovesciato il vino. Cazzo, quello si che è stato un momento di follia come pochi. Non potrò mai scordare quel giorno.”
Max ridacchiò
“Nemmeno la strigliata di tuo padre.”
“Oh, quella resta memorabile!”
“Sai Chloe, in realtà mi è tornata in mente una cosa.”
“Sentiamo.”
“Quando siamo tornate qui, il preside Wells mi aveva detto che, se fossi stata interessata, potevo riprendere i miei studi alla Blackwell. Anche tu sei stata reintegrata, se volessi concludere almeno il diploma.”
Chloe fissò Max stupita
“Davvero? Posso tornare in quell’istituto di merda? Cazzo, voglio il diploma ad honorem a prescindere, anche se dovessi fare un giorno di presenza e basta. Perché non me lo hai detto?”
“Non credevo ti importasse e non avevo intenzione di accettare. Poi è successo di tutto e mi è scivolato in un angolino della mente. Solo ora mi sono ricordata di quel giorno. Magari ti potrebbe interessare. Potresti parlare con Wells e vedere cosa si può fare, tenendo in considerazione che devi gestire un locale.”
Chloe ci pensò su un po’ ma poi concluse facendo le spallucce
“Mah, vedrò tra un mese cosa mi andrà di fare. Però tu invece…”
“Diciamo che ora potrei riconsiderare la mia posizone. Dopotutto, l’Accademia Blackwell varrà qualcosa in termini di curriculum scolastico, no? Inoltre, dovrò farti risparmiare benzina.”
Chloe sorrise raggiante e baciò con foga Max
“Stai davvero…..”
“Ti secca avermi come coinquilina? Posso pagare l’affitto aiutandoti al Two Whales…”
Chloe la zittì con un bacio
“Solo una cosa, Max: non radere più al suolo questa città.”



Epilogo
 
18 anni dopo
 
 
Il sole del tramonto filtrava come una lama arancione dalla finestra, illuminando lo studio di un tenue bagliore dorato.
L’ora d’oro.
La famigerata terminologia da fotografa la tormentava in continuazione, anche ora, in preda alla più totale disperazione.
Non badò alla bellezza, ai riflessi, alla quiete che quella luce poteva trasmettere. Esisteva solo il dolore.
“Cazzo, non so più cosa fare.” disse in lacrime “Non riesco a reagire. Sono passati diciotto anni da quel maledetto giorno e ancora ha gli incubi. Cristo, ho trentasei anni e ne dimostro almeno dieci in più, per quanto sono conciata. Vorrei solo star bene, ma non posso. Non è che non riesco io non posso. So che suona assurdo da dire ma è cosi. So cosa sto dicendo, anche se non è semplice da spiegare. Mi manca, cazzo. Mi manca terribilmente. La vedo sempre, nei miei pensieri, dissanguarsi lentamente in quel cazzo di bagno ed io che non posso fare più nulla per salvarla. Cazzo, vorrei poter star bene. Vorrei solo poter star bene un istante.”
Nonostante la vista offuscata dalle lacrime, guardò fuori dalla finestra. Seattle le appariva offuscata, piatta, inerte. Non le dava nessuna gioia. Niente, da troppo tempo, le dava gioia.
Questo era il suo quinto psicologo in meno di dieci anni ma, a differenza degli ultimi, sembrava che si trovasse meglio. Ormai erano quasi due anni che era in cura da lui e, benché non si sentisse meglio, aveva rari momenti di quiete, come una brezza fresca quando sei a corto di ossigeno. Forse perché era giovane, forse perché anche lui aveva le sue stesse origini, forse perché era solo bravo nel suo mestiere.
“Immagino che deve essere snervante, dopo tutte le sedute che abbiamo fatto, sentirmi ancora parlare così, come se tutto il suo lavoro si fosse vanificato in nulla. Perdonami, davvero. Sei bravo è solo che io… io…. Cazzo, non ce la faccio più.”
Sentì nuove lacrime bruciargli negli occhi e scendere sulle gote.
Era seduta su una comodissima poltrona in velluto marrone, con un bellissimo tappeto multicolore sotto i suoi piedi, un tavolino in vetro molto elegante al centro con adagiata una scatola di Kleenex (di cui si apprestò a prenderne un paio) e il suo psicologo, seduto di fronte a lei, in una poltrona in finta pelle nera. Dietro di lui, una scrivania in legno molto semplice e una libreria ben rifornita. Completava quel piccolo studio, un piccolo attaccapanni accanto all’ingresso, posto alla sua destra.
“Se vuole me ne vado e ci vediamo…”
“No. Rimani pure seduta. Continua. Sfogati. Siamo qui per questo.”rispose lui, sorridendole con calore.
“Sfogarmi… ti sto solo annoiando. Ripeto sempre la stessa solfa: mi sento in colpa, so che non posso cambiare le cose e che non potevo allora, che mi manca, che l’amavo con tutta me stessa e lei è morta senza sapere nulla di tutto questo. Senza nemmeno sapere che ero tornata e a pochi passi da lei.”
In realtà avrebbe potuto cambiare tutto, ma non poteva confessarlo. In realtà lo aveva già cambiato, ma aveva scelto lei di rimettere in ordine le cose. Non poteva dirlo e, anche se lo avesse fatto, come avrebbe mai potuto credergli? L’avrebbe presa per pazza definitivamente, altro che depressione.
“Per questo stai pensando al suicidio?” chiese lui, cogliendola di sorpresa.
Sbalordita, lo fissò con occhi vitrei
“Come?”
Lui le sorrise con pazienza e complicità
“Tra tre giorni a partire da oggi, giusto? Farai un mix con i tranquillanti e sonniferi che hai in casa, ingoiando tutto, poi ti addormenterai e cesserai di vivere. Almeno, così lo stai progettando. Alla fine di questa seduta, mi chiederai di vedermi di nuovo, un incontro extra, tra tre giorni, al mattino. Ti presenterai serena e dichiarerai che è tutto merito della tua mostra, inaugurata oggi, che sta andando a gonfie vele. A proposito, sono passato velocemente e i tuoi lavori sono splendidi come sempre. Poi andrai a casa, prenderai il tuo mixi di farmaci e ti distenderai sul divano in attesa di spirare in uno stato di incoscienza, lasciando una lettera di scuse e spiegazioni che stai cercando di scrivere già da qualche tempo, ma che solo domani avrai il coraggio di stilare dal tuo portatile.”
Era sconvolta. Gli aveva letto dentro perfettamente. Come aveva fatto a scoprire tutte le sue intenzioni? Non era ancora convinta di suicidarsi, ma era così che ci stava pensando….
“La cosa che non mi torna….” proseguì lui “è la data. Perché proprio fra tre giorni? Insomma non è Marzo, quindi non è il suo compleanno. Non siamo nemmeno a Settembre, quindi nemmeno per il tuo compleanno. Siamo a Maggio ma mi sfugge il motivo per cui dovresti scegliere esattamente quella data. Ma forse, è solo figlia della tua esasperazione e tristezza. A volte ci sforziamo di cercare un significato laddove non ce ne sono, vero? La fredda logica vince quasi sempre sul sentimentalismo.”
Si sentiva nuda. Spogliata di ogni dubbio, di ogni possibilità di spiegare
“Io…. Io non so…. Ma come…”
“Non occorre negare. So che andrà così perché è già successo. Mi sono preso la libertà di tornare per rimediare. No, non si dovrebbe creare alcun problema a riguardo. E’ solo una sovrascrittura, molto più semplice spiegarla così che scendere nei dettagli. Tu ne sai qualcosa, dopotutto.” disse lui, facendole un occhiolino.
Poi, il suo psicologo si alzò in piedi. La sua polo bianca rifletteva brillantemente il raggio dorato del tramonto. Si diresse verso una tracolla nera adagiata accanto alla scrivania. Pensò che anche lei, da giovane, aveva avuto una tracolla molto simile durante i suoi anni accademici.
Lo psicologo estrasse qualcosa e lo portò alla sua attenzione, adagiandolo sul tavolino in vetro. Tamburellò con l’indice per invitarla a osservare. Era un semplice scontrino di una caffetteria.
“Non capisco.”
“Guarda attentamente.”
Si sforzò di leggere qualcosa ma era troppo confusa e frastornata
“Il caffè lo fanno pagare troppo a Portland.” disse lei
Lui scoppiò a ridere.
“Sì, ma non ti colpisce che stamattina fossi a Portland?”
“Non vedo perché dovrebbe. Non è lontana da qui.”
“Poco fa ti ho detto che ho presenziato alla tua mostra. Ho ancora il biglietto nel portafogli con la data di oggi. Difficile che fossi a Portland stamattina.”
“Non capisco.”
“Guarda la data.”
Si concentrò per leggere la data dello scontrino. Era stato battuto di mattina ma…..
“Curioso che sia di Luglio e, per giunta, di diciassette anni fa.” disse lui, notando che non faceva nessuna espressione sorpresa
“Problema al sistema, magari.” concluse lei, con sicurezza
“Oh, no. Nessun problema. Anche perché, se tu andassi a Portland ora, quel bar non lo troveresti. E’ fallito circa una decina di anni fa. Dopodiché, è diventato un negozio di animali per tre anni e infine un negozio di bigiotteria che è fallito a sua volta tre anni fa. Attualmente, il locale è in disuso e deserto.”
Si sforzò di capire in che direzione stava andando quella conversazione
“Quindi questo scontrino è falso?”
“Assolutamente no. Perché mai dovrei impegnarmi tanto per far creare uno scontrino fasullo di un locale che è fallito dove avrei consumato ipoteticamente una colazione scarna? Per giunta di Portland? No, è autentico.”
Detto ciò, estrasse dalla tasca un tovagliolo di carta malconcio e lo adagiò sul tavolo: vi era impresso in blu il marchio del bar, identico allo scontrino. Ora era più confusa e, al tempo stesso, sospettosa
“Inoltre, mi farei fare anche un tovagliolo di carta di pessima qualità per giocarti un brutto tiro? No, assolutamente no. Voglio solo darti prove a sostegno di quello che ti sto dicendo: sul perché so che ti suiciderai e sul perché possiamo impedirlo.”
Ora sentì un’ansia crescente dentro il suo petto. Cosa stava dicendo? Non poteva essere che lui…
“Era là. Viva. Con te. Si eravate entrambe li, al Solomon, il vecchio tribunale in disuso. Perciò, la risposta alla tua domanda è: si, è possibile. Tutti i tuoi dubbi e le tue ansie sono concrete e possiamo rimediare.”
Si ritrasse sulla sedia, mentre un brivido percorse la sua schiena. Non voleva crederci. Non poteva crederci..
“Chi sei tu?” chiese a quello che credeva il suo psicologo
“Nessuno che non sia il tuo psicologo, amico e confidente preferito degli ultimi due anni. Non sono diverso. Sono sempre io. Forse sono più simile a te di quanto tu possa pensare. Condividiamo un segreto pensate, tu ed io.  Ciò che posso fare io non è tanto dissimile dal tuo. Anzi, lo è, ma posso vedere ciò che tu puoi alterare e viceversa. Penso che, se coordinati correttamente, potrebbero funzionare come un unico grande strumento per sistemare le cose e permetterti di stare bene definitivamente. Possiamo farcela. Ho controllato io stesso stamane e so che è possibile. Esiste una scappatoia per te!”
Ora era emozionata e spaventata. Sentì le gambe tremare e farsi molli, mentre le sue mani affondavano nei braccioli in velluto della poltrona.
Lui si alzò in piedi e si mise in ginocchio davanti a lei, prendendole delicatamente le mani e sorridendole come incoraggiamento. Parlò con voce calma e serena, quasi paterna
“Può funzionare davvero. Ma prima devi farmi un favore: spiegami esattamente come funziona il tuo potere, Max.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringraziamenti
 
Non sono mai stato un fan delle ‘fanfiction’, anzi è un genere che ho sempre evitato e non ho mai letto nulla a riguardo. Sono abitato a scrivere racconti originali da sempre e, perciò, si può dire che questa sia stata una vera e propria sfida, oltre che la mia prima fan fiction in assoluto. Inoltre, è il primo racconto che pubblico interamente online poiché, di solito, non tendo a rilasciare mai nulla se non a pochi intimi.
Diciamo che ho sperimentato (e parecchio ) prendendo una ambientazione e dei personaggi ben caratterizzati e strutturati e proiettarli in un racconto originale, cercando di non dislocarmi troppo dallo spirito e dai sentimenti che muovono il mondo di Life is Strange. Non so se ho saputo rendere giustizia a Max e Chloe perché, nella loro complessità, sono tra le due creature videoludiche che io abbia mai incontrato (ben fatto, Dontnod). Mi sono avvicinato al mondo di Life is Strange a Dicembre 2020 e ammetto che mi è entrato dentro subito, sconvolgendomi e sorprendendomi come pochi giochi hanno saputo fare e, attualmente, in una personale lista potrei mettere il primo gioco comodamente in seconda o terza posizione. Cercando gente con cui potessi parlare, sono entrato in contatto con la community di LiS dove ho consociuto parecchia gente che ha spunti davvero interessanti e ama davvero questo gioco. Quindi, il primo ringraziamento (o colpa) va necessariamente affibiato al gruppo Facebook Life is Strange (e dintorni) per essere stati i responsabili di questo esperimento di 360 pagine che vi siete letti. A questa community va perciò il primo ringraziamento e per voi che avete letto, vi invito a leggere le fan fiction prodotte da altri membri di quel gruppo, tra cui Life is Strange: Untold  e Life is Strange: Never Go Back. Le troverete sia su EpicFanfic che Wattpad.
Il secondo ringraziamento va a tutti coloro che hanno letto fino alla fine questo racconto, a chi ha lasciato recensioni di ogni tipo e chi anche non lo ha fatto. Tengo a precisare che questo che avete appena letto, per me, è completo all’80%. Sento che questo racconto può essere migliorato e ci sono punti che vorrei approfondire meglio, descrizioni che vorrei rivedere, dialoghi da scrivere oltre a un discreto numero di correzioni dovute alla fretta e alla battitura rapida e a un disattento e poco curato controllo prima di pubblicare. Mi scuso e prometto che correggerò con calma ogni errore di battitura o grammaticale.
Nel frattempo, beccatevi il ringraziamento, voi lettori. Aggiungo anche che, se ne aveste voglia, mi farebbe piacere sapere quale punto, di queste trecento e passa pagine, vi è piaciuto di più o vi è rimasto impresso.
Concludo dicendo che, di solito, quando scrivo racconti miei tendo ad affibbiare un brano che fa da colonna sonora al racconto. Se penso a una canzone, penso a quel racconto o come potrebbe sposarsi bene, come una specie di trailer cinematografico.
Per questa fanfic, ho scelto Elastic Heart  di Sia.
E con questo, concludo definitivamente Life is Strange: Kairos.
 Se è la fine definitiva, basta che rileggiate l’epilogo e mi seguiate nelle prossime settimane.
Grazie a tutti.
 
[1] I tribunali esistono davvero e anche la loro storia citata è vera: il Solomon è stato davvero ‘pensionato’ a favore del nuovo e più moderno Hatfield nel 1997.
[2] Sono curioso di vedere chi saprà cogliere questa citazione
   
 
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