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Autore: _Lightning_    26/04/2021    1 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Parte IV
 
Una linea nella sabbia
 “Chi piange? Io no, credimi:
sui fiumi corrono esasperati schiocchi d'una frusta,

i cavalli cupi, i lampi di zolfo.
Io no, la mia razza ha coltelli
che ardono e lune e ferite che bruciano.”

[Le morte chitarre – S. Quasimodo]

 
 
 
.1.

 

 

 

 

Un mese dopo, 25 Giugno 1908,
Distretto di Kanda, Ishval,
18:20



Il bagliore intenso del sole calante viene oscurato dalla linea dei tetti e posso finalmente smettere di socchiudere gli occhi.

Sbatto un paio di volte le palpebre per scacciare i puntini luminosi rimasti impressi sulla mia retina e controllo di riflesso l'area circostante. 
Case belle, ricche, ornate da giardini pensili e cortili, tutti ormai rinsecchiti e devastati dai bombardamenti. La polvere e la sabbia si sono insinuati fin qui, rivendicando la periferia benestante di Ishval e le sue strade lastricate d'ardesia.

La via in cui ci troviamo è deserta, se non per una decina di corpi riversi in fila contro il muro a pochi passi da me. Tra i capelli bianchi risalta il rosso del sangue rappreso, dipinto anche sull'intonaco ocra in aloni sbavati e distorti dalle crepe.

Su quel che rimane di una modesta palazzina è infisso un palo sbilenco, su cui sventola il lungo drappo nero-arancio dei ribelli. Ondeggia lievemente al vento, ipnotico. Lancio un piccolo getto di fiamme nella sua direzione: lo guardo avvitarsi tra le lingue di fuoco e cadere a terra ridotto a un mucchietto di stoffa carbonizzata e braci. Sento la tensione costante alla base del collo sciogliersi un poco, in uno strappo di legamenti contratti.

Tutto è immobile, a parte il fumo che si leva pigramente dai cumuli di macerie e le mosche che si avventano già avide sui cadaveri in un banchetto macabro e ronzante. Il lezzo di sangue opprime le narici. Una mosca mi svolazza fastidiosamente intorno da interi minuti; ormai ho rinunciato a scacciarla, se non quando mi zampetta fastidiosamente sul volto bruciato dal sole impietoso.

Mi concedo di sedermi sul muretto di un giardino, assicurandomi che Patrick sia ancora di vedetta sul tetto della casa di fronte. Lui intercetta il mio sguardo e mi fa un cenno di via libera con la mano, per poi riprendere a sorvegliare il suo quadrante, gli occhi stanchi ma concentrati.

Accolgo la brezza serale che rinfresca l'aria afosa come una liberazione. Mi allargo il colletto della divisa, traendone ben poco beneficio vista la pesantezza del mantello d'ordinanza. Mi agito sul mio sedile di fortuna e non faccio che peggiorare la situazione. 

Ho la bocca secca, la divisa incollata addosso, il sudore mi cola in rivoli lungo le tempie impregnando i capelli. Sto pregando da ore che i lavatoi dell'accampamento non siano prosciugati, come ieri. Rialzo lo sguardo in direzione della strada dissestata e ancora vuota. Contraggo d'istinto le dita guantate: questa calma mi innervosisce.

Spero che Jace torni presto con gli altri. Non mi sento affatto tranquillo ad aver affidato a loro il rastrellamento, così da poter presidiare meglio l'accesso al quartiere: questa zona si è rivelata più pericolosa del previsto, con tutti i monaci guerrieri che la infestano. 

Sarò costretto ad affrontare nuovamente il Colonnello Ironclad riguardo alla dubbia strategia adottata dal Comando – spedirci nelle zone di guerriglia a macchia di leopardo, in gruppetti spesso capitanati da Alchimisti di Stato. Per quanto io abbia provato ad arginare i danni, si è rivelata comunque fallimentare.

Il solo pensiero di dover discutere con lui mi sfianca più del caldo. Sono quasi tentato di appellarmi direttamente al Generale Crowell, il nuovo comandante in carica a Kanda, ma farlo equivarrebbe a guadagnarsi l'ulteriore odio di Ironclad. Mi passo una mano sul volto madido. Queste rivalità tra superiori servono solo a rendere la nostra vita un inferno ancor più bruciante.

Sto ancora cercando un modo innocuo per affrontare l'argomento, mentre scribacchio distrattamente il rapporto su un pezzo di carta lasciandovi più macchie d'inchiostro e impronte di fuliggine che parole, quando sento il rumore familiare di passi cadenzati. Chiudo la stilografica e la ripongo assieme al foglio nella tasca interna della giubba. Da dietro l'angolo spunta Jace, seguito dal resto della truppa. Mi alzo per andare loro incontro.

«Libero?» chiedo, non appena sono tutti schierati in strada.

«Libero,» conferma lui, poggiando la canna del fucile sulla spalla.

Annuisco compiaciuto, passando in rassegna i soldati e contandoli rapidamente per assicurarmi che non ci siano state perdite.

Ventuno. Sono tutti.

Tiro mentalmente un sospiro di sollievo. Non vedo l'ora che arrivino i rinforzi dal Sud. Avere un numero così esiguo di uomini rende ogni operazione un salto nel buio.

Jace mi fa un cenno discreto col capo. Ordino alla squadra di prendersi una pausa e mi sposto di qualche passo, in modo da avere sotto controllo sia loro che la zona, mentre mi accosto a Jace.

«Non c'erano superstiti,» esordisce lui. «Forse dovresti usare più spesso quelle fiammate rasoterra.» Fa una pausa, esitante a continuare: «Ci risparmierebbe un po' di lavoro,» aggiunge infine, quasi di sfuggita.

«Va bene,» convengo subito, annuendo.

Non mi sfugge il sollievo di Oskar che, pur non prendendo parte attiva alla discussione, è in ascolto.

«Sono ostiche da controllare, ho quasi bruciato voi. Ma se studiassimo una tattica efficiente potrebbero tornare utili,» proseguo poi, coi pollici nella cintura e gli occhi che saettano da una viuzza all'altra, solo apparentemente rilassato.

Non ricordo l'ultima volta che ho allentato la guardia, né l'ultima in cui ho poggiato la testa sul cuscino – o meglio, sulla terra – senza avere parate di cadaveri carbonizzati a sfilare dietro le palpebre. Me le stropiccio anche ora, per impedire loro di sedimentarsi.

Jace sembra soddisfatto dalla mia risposta. Colgo di nuovo quella freddezza nei suoi occhi acquamarina, come se si spegnessero alla luce. Per la prima volta mi accorgo di quanto profonde siano le sue occhiaie, gonfie, quasi color cenere sul volto pallido. La piega delle labbra screpolate è rigida, contratta nella tensione. 

Jace Sikorsky non ispira più quell'aura di sicurezza che aveva ai tempi dell'Accademia. Piuttosto, sembra che stia concentrando tutte le sue forze nel rimanere impassibile e saldo sulle sue gambe.

Si accorge che lo sto osservando, e dopo un'occhiata schiva distoglie lo sguardo e affianca Alena, più piccola e magra che mai nella sua divisa enorme. Dà l'impressione di un animale spaurito e pronto a balzar via al minimo movimento troppo brusco. Accetta di buon grado il braccio di Jace sulle spalle e mi volto nella direzione opposta quando lui si china a sfiorarle la guancia graffiata con le nocche altrettanto escoriate.

Mi ritrovo mio malgrado a fissare Oskar, ed è come vedere il suo fantasma. Le lentiggini si intravedono appena sotto il viso scottato ferocemente dal sole. Gli occhi chiari sono così infossati da sembrare neri, quasi si fossero sporcati nel corso di questi mesi. Si è tagliato di punto in bianco la treccina sulla nuca un paio di settimane fa, e i suoi capelli sono ormai diventati una massa bruno-rossiccia aggrovigliata. 

Oggi mi ha stranamente rivolto la parola mentre eravamo in fila alla pompa dell'acqua, ma la nostra discussione è morta dopo poche frasi di circostanza.

Il livido sul mio zigomo brucia ancora. So che mi avrebbe sferrato volentieri altri mille pugni, se non fossero intervenuti Roderick e Jace a separarci, quella sera di un mese fa, quando dopo aver compiuto il mio dovere ho dovuto fronteggiare le conseguenze.

Non ho reagito, ma da allora Oskar non ha più contestato i miei ordini. E ha anche iniziato a fingere che io non esista. Ho perso un compagno e un amico, ma non riesco a non pensare che sia giusto così.

Mi chiedo cosa penserebbero di me Hughes o Riza, ma freno quell'interrogativo che mi suscita una nausea profonda, simile a una marea che mi annega. Sento le linee alchemiche del guanto premere sul dorso della mano. Mi chiedo spesso come sarebbe, averle impresse sulla pelle – quanto male faccia. So solo che non avrò mai la salamandra scarlatta tatuata sul palmo come Komanche o Kimbly, che hanno reso il loro stesso corpo un'arma.

Quest'alchimia non mi appartiene, né voglio farne una parte di me. Deve rimanere racchiusa nel guanto e nella stoffa d'accensione, separabile dalla mia carne, in quella che so essere una mera bugia che mi racconto. Il sangue che verso mi artiglia comunque la coscienza con mani carbonizzate.


Strappo lo sguardo dalle sottili linee rosse e noto solo ora che anch'io vengo osservato: Rod mi fissa senza curarsi di nasconderlo. I suoi occhi hanno perso quella gentilezza bonaria che faceva di lui la vittima di ogni scherzo all'Accademia: adesso sono severi, più simili a quelli di una statua che di un uomo.

Sono cambiato anch'io? Non ci sono specchi, sul campo di battaglia, solo le superfici levigate delle canne dei fucili o dell'orologio d'argento ormai opaco, con la sabbia che ne ha inceppato i meccanismi. L'unica differenza che ho notato è il dover allacciare la cintura un buco più stretta, o il fatto che ormai posso tirare avanti quarantott'ore senza dormire. Il resto è diventato una routine di fuoco e spari e notti insonni.

Mi riunisco infine agli altri, impegnati a parlottare a mezza voce e a bere dalle borracce ormai agli sgoccioli. Quasi mi dispiace rompere l'idillio, ma ci resta ancora l'altra metà della zona da perlustrare. In realtà, preferirei ritirarmi prima del crepuscolo, ma non oso immaginare la reazione di Ironclad se sapesse che non abbiamo ripulito almeno un quarto del distretto di Kanda. Se riuscissimo a prendere il tempio nel settore nord potremmo mettere in seria difficoltà la rete di monaci ribelli che ormai infesta Ishval.

Poi, il Colonnello ha detto che dopo aver preso la capitale verremo dislocati fuori città, nelle campagne circostanti. Così ripuliremo l'intera Area Est dei guerriglieri e schiacceremo le ultime sacche di resistenza. 

Personalmente, non vedo l'ora di lasciarmi alle spalle questi vicoli claustrofobici: mi faccio forza e mi rassegno a un'altra settimana di schermaglie e scontri sfiancanti, in una Ishval ormai in ginocchio che aspetta solo di essere sgozzata dal coltello amestriano, così da irrorare quell'inutile sabbia di sangue.

«In marcia,» annuncio con riluttanza. «Ancora un paio d'ore e avremo finito,» li incoraggio, con un po' più di forza a corroborare la bugia.

Loro si riscuotono, scrollandosi di dosso la fatica come marionette forzate a rimettersi in piedi, gli arti molli.

«Forse...» comincio a voce un po' più alta, e vi appaio un sorrisetto complice che mi tira le guance, ormai estraneo.

Aspetto di avere la loro attenzione e, quando tutti mi fissano con curiosità, continuo:

«Forse stasera potrei rimediare un paio di quelle bottiglie di vino di Dublith destinate al Quartier Generale.»

Parlo a voce abbastanza alta da farmi sentire anche dalla vedetta. Come per magia, i loro volti si distendono e si riempiono di aspettativa a quella promessa così semplice e che fino a pochi mesi fa davamo per scontata. Persino Oskar mi rivolge un sorriso microscopico, lanciato nella mia direzione per poi voltarmi le spalle, quasi a non volersi esporre troppo.

«Sarà meglio sbrigarsi, allora,» commenta Jace, improvvisamente pieno di nuova energia che mi trasmette con una solida pacca sulla spalla.

«Maggiore...» la voce di Patrick ci raggiunge, un po' più acuta del solito, probabilmente pronta a gettare su di noi uno dei suoi commenti acidi.

«No, Patrick, per te niente! L'ultima volta che hai bevuto...» inizia Alena, piantandosi le mani suoi fianchi e suscitando già le risatine dei compagni mentre ci rimettiamo in marcia – ma le sue parole vengono inghiottite dal suono riecheggiante di uno sparo.

Ho appena realizzato ciò che ho sentito, che Patrick precipita in mezzo alla strada. Per un istante sono paralizzato sul posto, ipnotizzato dal foro rosso e vomitante sangue sulla sua fronte che va a impregnare l'ardesia insabbiata. Poi sento una scarica elettrica trapassarmi le ossa.

«Al riparo!» riesco ad ordinare, e al mio grido roco ci riscuotiamo come un sol uomo.

Altri spari spaccano l'aria. Sento i sibili sfiorarmi, ma non vedo nemici – non vedo nulla, sento solo il sangue che grida nei timpani.

Lancio una fiammata nella direzione approssimativa degli spari per coprirci la ritirata. Scatto verso la casa più vicina, preceduto da Rod – mi segue uno scalpiccio concitato. Sento dei fischi acuti dietro di me, urla, richiami, ma non mi volto a guardare e manca un passo alla porta scardinata dell'abitazione.

Rod inciampa, cade di fronte a me. Io inciampo su di lui, finendo faccia avanti per terra a un soffio dall'ingresso. Mi spacco un labbro sul mattonato e il dolore mi acceca per un istante.

Nel mulinio di piedi e mani che arrancano nella polvere colgo delle sagome indistinte e affusolate che fendono il cielo. Nella frazione di secondo in cui il mio cervello processa quello che sto guardando, so che è troppo tardi. 

Sbarro gli occhi e cerco di rialzarmi con le gambe molli, incespicando nelle falde lunghe della divisa – è finita ormai è finita è finita no no no – le mie mani artigliano il suolo cercando di issarmi in piedi – non ho mandato le lettere a zia Chris a Riza a Maes ormai è tardi è finita no no– 

Rod fa appena in tempo ad afferrarmi di peso per il colletto e a scaraventarmi oltre la soglia prima che i colpi di mortaio esplodano con un boato di ferro dietro di noi.

 





 


Note:
– Il quartiere di Kanda viene citato nel manga/anime. È dove vivono Scar e suo fratello.
– Le lettere citate in chiusura torneranno ;)


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
non potevo certo lasciare in pace la nostra Truppa Flame per molto, no?

Vi lascio con la "suspense" – anche se credo sia chiaro sin dal primo capitolo cosa stia per accadere – e ci vediamo tra qualche giorno col continuo ♥

Grazie di cuore a chi segue, commenta e/o legge in silenzio. Ricordate che ogni feedback è gradito ♥
Alla prossima,

-Light-

EXTRA: il recente rewatch di Brotherhood mi ha ricordato quanto sia bella la sua colonna sonora. Quindi, vi lascio qui i due brani che ho sentito a ripetizione durante la stesura-> Mist (per l'inizio) e Knives and Shadows (per il finale)

   
 
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