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Autore: storiedellasera    05/05/2021    2 recensioni
A seguito di un tremendo trauma, Agatha sostiene di sentire e avvertire cose strane... cose spaventose.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Agatha-Mei





"I confini delimitanti la vita dalla morte sono innegabilmente tenebrosi e vaghi.
 Chi può dire dove quella finisce e dove questa inizia?"
Edgar Allan Poe

L'orologio a muro nello studio della dottoressa Clarisse Stanley aveva un nonsoché di inquietante... o almeno queste erano le considerazioni di Agatha-Mei. Era a forma di gatto nero e bianco, la bocca spalancata a formare un tremendo sorriso. Gli occhi enormi, divaricati, si muovevano a destra e a sinistra a ogni secondo, come se volessero controllare costantemente l'intero studio. Il suo ticchettio, secco e profondo, riempiva il silenzio della stanza. Ricordava il verso di qualche pendolo antico. Se si chiudevano gli occhi, mentre si udiva quel suono, si aveva l'impressione di esser catapultati in qualche salotto del diciannovesimo secolo.
Agatha non poteva fare a meno di fissare l'orrendo gatto e il movimento ipnotico dei suoi occhi meccanici. Lo osservava attentamente come se si aspettasse un segno vita da parte di quell'orologio.

La dottoressa Stanley, intenta a prendere qualche appunto su un taccuino, sedeva di fronte a lei. Ciocche dei suoi corti capelli, tinti di un rosso acceso, sfioravano la montatura dei suoi piccoli occhiali da lettura.
Indossava un foulard damascato, una camicia vistosa e un taier grigio a quadri bianchi. Si trattava di uno stile che poteva andar bene trent'anni fa, secondo il parere di Agatha, e forse Clarisse Stanley era rimasta legata a quell'epoca, magari quando era ancora giovane e pensava solo a divertirsi.
"Questa è solo una seduta preliminare..." esordì la dottoressa mentre metteva via il taccuino degli appunti "...vedila come una normale chiacchierata." Intrecciò le dita all'altezza del ventre e accavallò le gambe.
Agatha, di fronte a lei, sedeva in una posizione del tutto scomposta. Si era sporta in avanti, con la schiena incurvata, gli avambracci sulle ginocchia e gli occhi puntati su quell'infernale gatto-orologio.
Si raddrizzò, sistemò le pieghe sui suoi pantaloni e rilassò le spalle.
"Non è mai un buon segno quando uno psicologo usa la parola normale nella sua prima frase" commentò.
La dotteressa sorrise, compiaciuta dal carattere graffiante della sua paziente.
"Immagino che qui non si possa fumare" continuò Agatha. Fin da quando aveva messo piede nello studio era stata investita da una gran voglia di accendersi una sigaretta. Ma la mancanza di posaceneri in quella stanza l'aveva allarmata.
La dottoressa scosse il capo... e poi aggiunse: "una bella ragazza come te non dovrebbe fumare."
Questa volta fu Agatha a soffocare un risolino. Non si considerava di certo una bella ragazza, e neanche brutta. Apparteneva a quella vasta categoria di persone a cui nessuno fa caso. Non odiava il suo aspetto, era semplicemente consapevole delle sue limitate potenzialità. Eppure andava fiera dei suoi capelli: una voluminosa chioma riccia di un raro colore castano cenere, segno distintivo delle sue origini iberiche.

"Ti dispiace se registro la nostra conversazione?" La dottoressa, senza attendere alcuna risposta, si sporse verso un elegante comodino alla sua sinistra, dove si trovava un vecchio e minuscolo registratore portatile.
Premette il tasto record e una luce rossa si accese sull'apperecchio.
"Chi usa ancora un oggetto così antiquato?" Domandò Agatha. La lucina rossa del registratore sembrava fissarla come un crudele occhio indagatore.
"Io" rispose semplicemente la dottoressa. "Ora... perchè non ti presenti?!" Domandò subito dopo.
Agatha sospirò: "cosa volete che dica? Mi chiamo Agatha-Mei e questa è la mia storia?"
La dottoressa stirò un altro sorriso... solo che questa volta era spento: "dove sei nata?"
"Salamanca" rispose prontamente Agatha, sfoggiando un perfetto accento spagnolo.
"I tuoi genitori vivono ancora lì?"
La ragazza scosse il capo: " si sono trasferiti a Madrid. Mia madre suona in un'orchestra."
"Che strumento?"
"Il controfagotto."
La dottoressa sorride di nuovo: "non capita tutti i giorni di sentire di una persona che suona... come hai detto che si chiama? Ah, si, il controfagotto. E'... particolare."
"Immagino che in questo studio avrà sentito molte cose particolari e conosciuto molti pazienti particolari. Dico bene, doc?"
-Oh, mai particolari come te, Agatha- Clarisse Stanley non espresse mai quel pensiero. Si limitò a passare alla sua seconda domanda: "e tuo padre?"
"E' un professore universitario. Insegna antropologia."
"Non è il tuo stesso indirizzo di università, Agatha? Sei venuta qui, a Bradford, proprio per studiare antropologia, dico bene?"
Agatha annuì lentamente.
Dopo qualche secondo di riflessione, la dottoressa estrasse di nuovo il suo taccuino degli appunti e annotò un suo pensiero tra quelle pagine.
"Cosa ha scritto?" Chiese Agatha.
La dottoressa colse una punta di sfacciataggine nella voce della sua paziente: "secondo te?" Si limitò a rispondere con un'altra domanda.
Agatha assunse una posizione più rilassata sulla poltrona: "che voglio scoparmi mio padre... o una cosa del genere. Voi psicologi vedete solo complessi di Edipo e altre diavolerie simili. Eros e Thanatos, non ruota tutto attorno a queste due parole?"
"Se così fosse..." rispose la dottoressa con tono pacato "...esisterebbe solo una terapia, non credi?"
-Touchè- pensò Agatha.
La psicologa si tolse gli occhiali -brutto segno- e li poggiò vicino al registratore. Il suo occhio rosso stava ancora fissando Agatha.
"Ragazza mia... sai perchè il rettore ti ha mandata da me?"
Agatha si strinse nelle spalle: "per giustificare il suo stipendio statale?!"
I trentacinque anni di esperienza della dottoressa Stanley le avevano conferito una certa invulnerabilità contro tali provocazioni.
Lei aveva ormai imparato a riconoscere, nei suoi pazienti, la paura quando era mascherata da spavalderia... e Agatha, in quel momento, era assai spaventata.

Clarise Stanley, perciò, non provò alcun astio nei confronti della ragazza... anzi ...la compativa.
Agatha infine si sbracciò: "se sono qui..." disse con un tono di rassegnazione "...è perchè la scorsa primavera sono stata dichiarata morta da un'intera equipe di medici. Un semaforo diventa rosso, un'automobilista pensa di essere furbo e un pedone... in questo caso, me ...viene travolto sulle striscie pedonali. I paramedici provarono con il massaggio cardiaco mentre l'ambulanza mi portava in ospedale. Ma il mio cuore non voleva saperne di ripartire. Mi sono risvegliata nell'obitorio. Ero già stata messa in  una bara. C'è chi dice che sono risorta, altri dicono che ho inscenato tutto quanto. Sindrome di Lazzaro... è così che viene chiamata, dico bene? Il primo caso accertato fu nel 1982, se non erro.
E ora c'è chi pensa che io debba affrontare lo shock di questa esperienza. In altre parole, sono costretta a venire da lei.
Lo sa che sono diventata famosa in città? Tutti sanno della mia storia e mi parlano alle spalle. Potrei anche spogliarmi e mettermi nuda a ballare per strada ma verrò sempre additata come la ragazza che si è risvegliata nella bara. Mentre venivo qui, due anziane mi hanno riconosciuto a una fermata dell'autobus e si sono fatte il segno della croce. Ero convinta che avrebbero tirato fuori dalle borsette un paletto di frassino e una collana d'aglio."
La dottoressa prese un gran respiro. Spense il registratore e un secco click riecheggiò nello studio insieme a tutti i ticchettii dell'orologio.
"Il trauma che hai vissuto, Agatha, non può essere ignorato... ma io mi riferivo anche a ciò che è successo dopo la tua rianimazione spontanea."
Agatha strinse i denti: "speravo proprio di evitare quest'argomento."
La dottoressa scosse il capo: "ragazza, la settimana scorsa sei entrata di soppiatto al 27 di Oak Avenue. La polizia ti ha preso e ti ha portato in centrale. Sapevi benissimo che quella casa è una scena del crimine. Gesù, Agatha! C'erano anche gli avvisi delle forze dell'ordine appese alle porte.
Ma tu hai deciso comunque di entrare. E come giustificazione, hai raccontato che dei fantasmi in quella casa stavano urlando."
"All'inizio non credevo fossero fantasmi..." rispose Agatha "...credevo che in quella casa stessero di nuovo massacrando delle persone."
La dottoressa si concesse qualche secondo di riflessione prima di replicare: "e quando hai capito di trovarti di fronte a dei fantasmi?"
"Solo quando entrai nella casa. Non vidi nessuno ma continuavo a sentire le grida..." la ragazza chinò il capo e si sorresse la fronte con una mano "...santo cielo! Che urla agghiaccianti!" Lunghe ciocche dei suoi capelli scesero ai lati del suo volto.
La dottoressa conservò la sua freddezza. Era fondamentale che Agatha la vedesse come la figura professione che era.
"Fu allora che capisti di poter sentire i fantasmi?"
Silenzio. I rintocchi dell'orologio sembravano aver acquisito una manciata di decibel in più. "Lì ho avuto la conferma di saperli avvertire" rispose Agatha. La sua voce era flebile come il sospiro di un moribondo. Continuò: "prima di entrare in quella casa, avevo il forte sospetto di poterli percepire. Tutto è iniziato da quando mi sono risvegliata in ospedale."
La dottoressa fece per prendere un altro appunto sul suo taccuino ma poi desistette: "per essere chiari..." disse "...sostieni di sentire i fantasmi fin da quando ti sei rianimata dal tuo stato di simil-morte, dico bene? E hai compreso a pieno questa tua capacità una volta entrata al 27 di Oak Avenue."
Agatha alzò lo sguardo verso la psicologa: "non sono pazza..." poi ridacchiò per il nervosismo "...immagino che non sono la prima dei suoi pazienti a dire questa frase."
"In effetti no" rispose la dottoressa, la sua voce era calma e non lasciava trapelare alcuna emozione.
"Quello che cerco di dire..." continuò Agatha "...è che sono realmente morta per un'ora o forse due o forse di più... non saprei dirlo. E in quel lasso di tempo ho avuto un contatto con... con... bhè ...con qualunque cosa ci sia oltre la vita."
"Ed è proprio questo contatto, se posso usare le tue stesse parole, che ti ha dato la capacità di interagire con le anime dei defunti?" Chiese la psicologa.
Agatha alzo le spalle.
La dottoressa premette di nuovo il tasto record del registratore e l'occhio rosso tornò a scrutare la sua paziente.
"Ricominciamo" disse la psicologa.
"Vedo la gente morta!" Agatha si esibì in una perfetta imitazione del bambino de Il sesto senso.
La dottoressa spense di nuovo il registatore: "pensi sia un gioco?" Domandò alla ragazza. Quest'ultima si schiarì la gola, abbassò la voce di qualche tono e si esibì in un'altra imitazione cinematografica: "sto pensando di mangiarle il fegato, Clarisse."
"Agatha..." la dottoressa sospirò, si sporse verso la sua paziente e disse "...hai subito un forte trauma. Deve essere affrontato. Capisci la gravità della situazione?"
Agatha imitò i movimenti e la postura della dottoressa, come se volesse ridicolizzarla: "e come intende procedere, doc?"
"Inizieremo con due sedute alla settimana, giusto per conoscerti meglio. Non sono una fan dei medicinali, quindi non ti prescriverò nulla. Con te userò ciò che amo chiamare un procedimento standard"
Agatha tornò ad assumere una posizione rilassata. Sul suo volto era apparso un sorriso beffardo mentre i suoi occhi comunicavano un senso di delusione: "lo vede, doc? Ecco perchè sono convinta che tutto questo è una perdita di tempo. Voi lo considerate un problema, qualcosa che può essere risolto con una terapia, con un procedimento standard."
"Stai forse dicendo che non c'è alcun problema, Agatha?"
"Sto dicendo che non c'è alcuna nevrosi nella mia testa. Il mio cervello è perfettamente sano. Presumo che ha spulciato la mia cartella clinica. Non ho riportato alcun danno permanente."
La dottoressa riaccese il registratore: "quindi sei convinta di sentire i fantasmi?"
"Riesco a percepirli" precisò Agatha.
"Spiegati."
La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo: "mettiamo il caso che un uomo sia appena apparso alla sue spalle, doc. Avanti, provate a immaginalo. Non avverte una certa tensione muscolare tra le spalle? Non sente le orecchie tendersi? Tutta la sua attenzione non è forse rivolta a un punto dietro di lei? Scommetto che nella sua mente riesce quasi a figurarsi un uomo intento a fissarla."
"Bhè... immagino di si" rispose la psicologa.
Agatha tornò a incurvarsi in avanti: "io mi sento proprio così... quando un fantasma si avvicina a me."
"Prima della tua rianimazione non hai mai avuto questi sentori?" Chiese la dottoressa.
Agatha ci pensò a fondo, poi rispose: "credo che tutti noi abbiamo queste sensazioni, ma in me si sono acutizzate mentre ero morta."
"Si sono acutizzate perchè, come sostieni tu, hai stabilito un contatto con il regno dei defunti?"
"Immagino che si possa dire così" Agatha, senza accorgersene, aveva messo le mani in tasca alla ricerca di un pacchetto di sigarette. Ma erano rimaste nella sua giacca che aveva lasciato in sala d'attesa.
"Quindi sei in grado di percepire i fantasmi..." disse la dottoressa con tono tranquillo e rilassato, come se avesse pronunciato una frase banale, una di quelle che si dicono quotidianamente "...hai mai provato a parlare con loro?" Si sorprese nell'avvertire un brivido risalire lungo la sua schiena mentre finiva di formulare quella domanda.
Agatha la stava fissando intesamente. Scosse il capo... e poi rispose: "qualche volta loro parlando a me."  
"E cosa ti dicono?" Chiese la psicologa.
Agatha si alzò in piedi e iniziò a camminare nervosamente per la stanza. Si avvicinò all'unica finestra dello studio.
Fuori si vedeva un elegante quartiere di periferia. Era un posto colmo di alberi e di villette a schiera. Una perfetta immagine per una cartolina romantica.
Una donna passeggiava spingendo una carrozzina rosa. Dall'altra parte della via, un ragazzo portava a spasso un grosso cane nero.
-Sono così sereni- Pensò Agatha. Era talmente presa da quelle immagini che avvertì solo da lontano la voce della dotteressa.
"Come avete detto, doc?" Chiese voltandosi verso la psicologa.
"Ho detto..." ripeté lei pazientemente "...se in questo momento avverti dei fantasmi. Siamo soli in questo studio? O c'è uno spettro insieme a noi?"

La reazione di Agatha-Mei fece accapponare la pelle della dottoressa.
La ragazza iniziò a guardarsi attorno con circospezione. Prima di rispondere alla domanda della psicologa, Agatha voleva controllare con lo sguardo ogni singolo centimetro dello studio.
La sua dedizione in quella ricerca fece rabbrividire Clarisse Stanley.
-Mio Dio...- pensò -...crede davvero ai fantasmi. Agatha sta vivendo un inferno personale.- Furono proprio quelle considerazione ad angosciare la dottoressa; l'idea che una persona fosse assolutamente sicura dell'esistenza dei fantasmi.
Qualche anno fa, un suo paziente era convinto che degli alieni volessero rapirlo per condurre degli esperimenti su di lui.
Clarisse Stanley, durante le serate in compagnia di un bicchiere di vino bianco, cercava di immedesimarsi nella mente del suo paziente. Pensò che stesse vivendo in un vero e proprio incubo se era convinto che degli extraterresti volessero catturarlo.
E in quel momento, seduta nel suo studio, Clarisse Stanley stava fissando una ragazza intenta a cercare fantasmi in una stanza.
Cosa si aspettava di vedere Agatha? Uno spettro a forma di lenzuolo svolazzante spuntar fuori da un armadio?
-Immagina di vivere con queste convinzioni- suggerì la voce della coscienza di Clarisse. Un altro brivido.Si rese conto che Agatha, mentre osservava ogni dettaglio della stanza, di tanto in tanto alzava lo sguardo verso il lampadario dello studio.
Anche la dottoressa alzò gli occhi in alto. Il suo lampadario non aveva nulla di strano.
"No" la voce di Agatha interruppe il flusso di pensieri di Clarisse Stanley.
"Come hai detto?" Le parole le uscirono spontaneamente di bocca.
"Non ci sono fantasmi qui" Agatha tornò a sedersi.
"Perchè guardavi il lampadario?" Chiese la dottoressa, indicando l'oggetto sulla sua testa.
La sua paziente si strinse nelle spalle: "quando mi concentro, quando cerco di avvertire un fantasma, inizio a vedere tutto nero. E' come se calasse la notte, ha presente? Allora inizio ad avere paura, molta paura. Mi sento osservata... anzi ...sento qualcuno che si avvicina per prendermi e portarmi via. Allora mi metto a fissare una fonte di luce per poter scacciare il buio attorno a me. Capisce?"
"Solo in parte..." la dottoressa prese tra le mani il taccuino degli appunti "...e ti sei sentita così quando sei entrata al 27 di Oak Avenue?"
Lo sguardo di Agatha si indurì: "lei cosa sa di quella casa?"
La dottoressa alzò le spalle: "quello che tutti sanno. I telegiornali non parlano d'altro. Il proprietario della casa ha massacrato sua moglie e le sue bambine mentre dormivano, poi si è impiccato nel corridoio."
"Ha usato un martello da cucina" disse Agatha.
"Come?" La dottoressa era perplessa.
La sua paziente continuò: "uno di quei martelletti per ammorbidire la carne. Inizialmente l'uomo aveva previsto di usare la doppietta che aveva nello sgabuzzino. La puntò sul volto di sua moglie mentre lei dormiva. Ma quell'affare si inceppò. Allora l'uomo prese il martelletto e trattò il cervello di sua moglie come di solito si tratta una bistecca prima di cucinarla." Agatha agito una mano per imitare il gesto delle martellate. La dottoressa deglutì.
"Poi fu il turno delle bambine. Non ci volle molto. I loro crani erano più fragili rispetto a quello della moglie. La vedo turbata, doc."
La dottoressa scosse il capo. Annotò qualcosa sul taccuino e si sorprese nel vedere che la sua calligrafia era incerta e tremolante.
"Continua" si limitò a rispondere.
Agatha cambiò posizione sulla poltrona prima di riprendere il suo discorso: "sa come viene chiamato il 27 di Oak Avenue? La casa degli orrori.
Sapeva che ha più di cent'anni? Quattro operai morirono durante la sua costruzione. Il suo primo proprietario, un uomo di nome Jhon Branch, era un assassino. Un serial killer. Non fu mai preso.
Da allora la sua casa ebbe altri cinque proprietari. Tutti loro sostenevano di sentire una voce... una voce che gli sussurrava cose orribili. Una voce in grado di condurre un essere umano alla pazzia. Uno dei proprietari si infilò la canna di una pistola in bocca e imbrattò il muro della cucina con il suo cervello. Un altro tentò di uccidere la fidanzata strangolandola. Fu salvata dai vicini.
Un altro ancora decise di abbandonare l'abitazione dopo solo tre mesi dal suo acquisto. E poi c'è l'ultimo proprietario, l'omicida-suicida.
Tutti questi uomini hanno sentito la voce di Jhon Branch. E vi dirò di più, doc... anch'io ho sentito una voce, quando entrai di soppiatto in quella stramaledetta casa.
E sono sicura, così come sono sicura di vederla di fronte a me in questo momento, che la voce che ho udito apparteneva a Jhon Branch. Proveniva... proveniva da un quadro di Winston Churchill appeso al corridoio, lo stesso corridoio in cui avevano trovato impiccato l'ultimo proprietario."
La dottoressa stava fissando Agatha senza dire una parola. Inclinò il capo e il riflesso della luce rimbalzò sui suoi occhiali. Molti dei dettagli che aveva detto la sua paziente non erano mai stati rivelati dalle autorità.
"Come fai a sapere tutte queste cose?..." chiese alla ragazza "...come fai a sapere tutti questi particolari? E come fai a sapere che fine hanno fatto tutti gli altri proprietari, Jhon Branch e i quattro operai morti?"
Agatha si portò un dito all'altezza della tempia: "ve l'ho già detto, doc. Io sento e avverto i fantasmi. In quella maledetta casa ci sono ancora due bambine e la loro madre che urlano... e continueranno a urlare fino a quando Jhon Branch non verrà portato via da quel posto."

La dottoressa distolse lo sguardo e inavvertitamente si ritrovò a fissare l'orologio-gatto appeso alla parete. Adorava quell'orologio, l'aveva comprato cinque anni fa da un mercatino dell'usato. Vide l'ora.
"La seduta sarebbe dovuta terminare circa un quarto d'ora fa..." commentò con una punta d'amarezza "...in sala d'attesa avrei altri pazienti che mi attendono."
Agatha si alzò dalla sedia, comprendendo che aveva fatto perdere fin troppo tempo alla sua terapeuta. Scambiò qualche convenevole con lei e si accordarono per la loro seconda seduta. Infine si salutarono ma, prima di uscire dallo studio, Agatha si voltò verso la dottoressa: "doc, Jhon Branch è ancora al 27 di Oak Avenue. Bisogna tirarlo fuori da lì."
Clarisse Stanley non dimenticò mai gli occhi di Agatha e il modo in cui la stavano fissando in quel momento. Erano occhi colmi di un terrore che la psicologa non aveva mai visto in nessun altro uomo.



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Se c'era una cosa che Clarisse Stanley non voleva sentire era il suono del telefono squillare a tarda notte.
Lei sedeva al tavolo della sua cucina, con un bicchiere di vino bianco tra le mani e il telefono a pochi centimetri da lei. Era sicura che una chiamata sarebbe giunta durante quella notte. E in effetti, il telefono iniziò a squillare.
Clarisse non si sorprese ma si concesse del tempo per bere un ultimo sorso di vino. Il trillo del telefono si diffondeva in tutto il suo silenzioso ed elegante appartamento.
"Pronto" disse con voce spenta una volta sollevata la cornetta.
"Claire?!" La voce gracchiante del tenente Ronald Simmons sembrò penetrarle il cervello. In sottofondo, Clarisse poteva chiaramente udire la sirena di qualche auto della polizia, il vocio incompreso di qualche agente e gli scatti di alcune macchine fotografiche.
"Ron" salutò la dottoressa.
"E'... è come aveti detto tu, Claire" disse il tenente. La sua voce pareva incerta, come se l'uomo cercasse di dominare un senso di paura e timore nel suo animo.
"E' Jhon Branch? E' lui?" Domandò Clarisse e sentì un nodo allo stomaco mentre finiva di formulare quella domanda. Posò sul tavolo il bicchiere di vino e lo allontanò da se. Aveva perso la voglia di bere.
Il tenente Simmons rimase in silenzio per diversi secondi, condividendo la stessa perplessità della dottoresa: "è ancora troppo presto, Claire. Mi trovo ancora al 27 di Oak Avenue. Sono appena uscito dalla casa e tra qualche minuto il coroner porterà via il cadavere. Quella salma ha circa cent'anni ma... si ...l'istinto mi dice che si tratta di Branch. Il laboratorio saprà confermare la sua identità."
-Capisco- avrebbe voluto dire Clarisse ma fu solo capace di annuire. La testa iniziò a girarle e sapeva benissimo che non era colpa del vino. Estrasse da una tasca il suo registratore e iniziò a rigirarselo tra le dita. Non aveva voglia di ascoltare di nuovo la voce di Agatha impressa sulla bobbina della cassetta.
Clarisse e Simmons si conoscevano da anni e il tenente sapeva benissimo che la donna aveva bisogno di qualche secondo per elaborare le idee.
"Dove... dove si trovava il corpo?" Chiese lei con un filo di voce.
"Nel muro..." rispose Simmons e Clarisse avvertì tutto il suo senso dell'orrore "...o forse dovrei dire dietro il more. Riesci a crederci, Claire? Quel pazzo si è murato vivo nella sua casa pur di non essere trovato dalle autorità. Il corpo è rimasto per un secolo oltre la parete del corridoio, proprio dietro un quadro di Winston Churchill. Abbiamo già trovato prove schiaccianti del fatto che ha agito completamente da solo... ma non posso rivelarti altri dettagli, tu... comprendi?!"
"Ma certo, Ron, ma certo."
Per diversi secondi, i due non riuscirono a dir nulla. Clarisse, dall'altra parte della cornetta, udì altre voci in sottofondo. Probabilmente la stampa aveva fiutato l'odore di carogna e si stava avventando su Oak Avenue come uno stormo di avvoltoi.
Il tenente Simmons si allontanò di qualche metro dalla casa dell'orrore... non per evitare tutta quella baraonda, ma per essere sicuro che nessuno potesse origliare la sua conversazione.
"Claire..." finalmente tornò a parlare "...devo chiedertelo: come facevi a saperlo? Come facevi a sapere che Branch era ancora in quella casa?"
Clarisse Stanley si accorse solo in quel momento che stava tremando come una foglia, che qualcosa nella sua mente si era irrimediabilmente spezzato. La sua conoscenza del mondo e della realtà, la sua presunta conoscenza, era crollata come un castello di carte.
"Claire? Cliare? Ci sei ancora?" La voce del suo amico la strappò via dai suoi pensieri.
"Si, scusami" la dottoressa dovette sforzarsi per poter parlare. Strinse forte il suo registratore.
"Allora, Claire... come facevi a saperlo?"
"E'... difficile da spiegare."

   
 
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