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Autore: _Lightning_    07/05/2021    1 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Parte IV
 
Una linea nella sabbia
.2.


 
Il mondo è una massa indistinta di fumo, grida, sapore di sangue e denti digrignati. Un fischio acuto mi preme solido nelle orecchie. Non riesco a capire se sono in piedi o sdraiato e se quelli sono i miei timpani rotti o altri colpi di mortaio sibilanti.

Il mio corpo è insensibile, inerte, le giunture slegate come quelle di una marionetta rotta. Riesco a capire dove siano i miei occhi e li schiudo appena con difficoltà oltre un velo denso di lacrime. Intorno a me vedo solo penombra e sagome indistinte che si muovono ora a scatti, ora al rallentatore. Capisco di essere sdraiato su un pavimento polveroso. Metto a fuoco una scala, delle piastrelle scheggiate, delle porte, un tavolino a gambe all'aria, un divano sfasciato. Un salotto?

Sento dei colpi ritmici in lontananza, ma potrebbero anche essere a un passo da me e non farebbe alcuna differenza. Tutto risuona ovattato. Riprendo coscienza delle mie mani e constato di indossare ancora il guanto.

Ruoto la testa e non capisco perché mi sembri così pesante finché non realizzo che ho l'occhio sinistro oscurato da un sipario di sangue. Mi tampono cautamente la tempia trattenendo una smorfia e faccio per tirarmi a sedere, col cervello a pezzetti che si rimescola come la scatola di un puzzle scossa violentemente.

La mia truppa. I miei uomini. Siamo sotto attacco. Devo reagire. Devo reagire.

L'urgenza di questi fatti è smorzata da mille metri d'acqua, come se fossi adagiato sul fondale di un lago, il sole solo una capocchia di fuoco distorta oltre la superficie. Fuori, le raffiche di spari sono cessate e distinguo appena delle urla in una lingua che non comprendo. Seguono dei colpi singoli, a distanza regolare, alcuni seguiti da tonfi attutiti. Sento le mie viscere gelarsi.

Li ho lasciati soli.

Mi isso sulle ginocchia con uno scatto, ma un dolore lancinante al fianco destro mi strappa un grido rauco e ricado carponi a terra. Tutto il mio corpo cessa di funzionare, esiste solo in quel punto dilaniato dalle fitte, umido di sangue.

Mi appiglio con le unghie all'ultimo barlume di lucidità. Oltre il velo che ovatta le mie orecchie distinguo dei tonfi, forse dei passi, forse altri spari. Riapro gli occhi, i palmi premuti sul ventre, e stavolta scorgo quello che a prima vista mi sembra un grosso sacco abbandonato per terra. 

Solo dopo qualche istante riconosco la sagoma imponente di Roderick, prono e con le braccia allargate, la schiena scossa da respiri rotti. Sussulto quando mi accorgo che accanto a lui si staglia la silhouette di un uomo. Armato. Esalo un rantolo e stavolta riesco ad alzarmi sulle ginocchia, il guanto già pronto.

L'uomo si gira verso di me ed è con un vuoto allo stomaco che incrocio delle iridi rosse che sembrano rilucere nella penombra. Mi fissa, la pupilla quasi invisibile, contratta dal disgusto. Abissi scarlatti, densi di sangue rappreso e appena versato. Non ho nemmeno il tempo di trasmutare. Succede in un attimo: punta la canna del fucile contro la nuca di Rod e preme il grilletto.

«NO!»

Lo sparo copre il mio grido e lo schiocco dell'ossigeno che si incendia. Un violento getto di fuoco avvolge l'Ishvaliano e lo fa crollare a terra in un nugolo di fiamme roventi, mentre cerca di strapparsi di dosso le vesti infuocate – non ricordo nemmeno di aver schioccato le dita. 

Mi lascio ricadere, senza forze, ascoltando intontito le sue urla che pian piano scemano nel silenzio. La stanza ondeggia intorno a me, pregna del lezzo di carne bruciata. Sento le labbra appiccicose.

Fuori regna di nuovo il silenzio, rotto solo dal vento che soffia tra le macerie.

Ho la divisa inzuppata di sangue. So che è inutile cercare di arginarlo. Non riesco neanche a localizzare la ferita: il mio intero fianco destro è un pulsare indistinto di bruciore sordo alternato a fitte acute che mi stroncano il fiato. Stringo i denti e striscio fino a portarmi all'altezza di Roderick. Quasi mi accascio su di lui quando lo raggiungo. La sua schiena è un'unica chiazza di sangue, tessuto strappato e carne dilaniata.

Rod.

La voce muore in un singulto muto mentre tento di riscuoterlo nonostante la fredda logica della mia mente mi urli che è inutile. 
Intravedo il foro d'ingresso del proiettile sulla nuca, confuso tra i ricci e il sangue scuro che continua a riversarsi in terra, lambendo la sagoma carbonizzata e ancora fumante dell'Ishvaliano, le mani bloccate in una stretta d'agonia sul nulla.

Mi stringo il fianco e rivolto faticosamente il corpo di Rod sulla schiena. I suoi occhi sono rovesciati, fissano il soffitto senza vederlo. Gli chiudo le palpebre con dita tremanti, macchiandole di rosso con nuove pupille. Forse vedono già l'azzurro del cielo dell'Est, quello sotto il quale voleva tornare a scottarsi la nuca – senza ritrovarsela sfondata da un proiettile nella terra di nessuno.

Rod era il nostro pilastro, il gigante dalla pazienza infinita che fingeva di essere un duro nato per la vita militare, quando avrebbe preferito di gran lunga rimanere nella fattoria di famiglia, ad allevare cavalli e arare campi, se solo non fosse arrivata la guerra con le sue grinfie a graffiare la sua città. Era quello che si prendeva colpe non sue per le nostre bravate e passava notti immeritate in cella mentre noi, crudeli ma grati, ci piazzavamo sotto la finestrella e lo prendevamo in giro, passandogli però le sigarette attraverso la grata e tenendogli compagnia con canzonacce inventate.

Mi ha fatto da scudo col suo corpo. Dovrei esserci io in questa pozza di sangue. I miei occhi sono lucidi, ma per la polvere e il fumo che li irrita: nessuna vera lacrima preme per uscire. Mi sento prosciugato.

L'ho sempre saputo, mi balena in testa, insensato, un pensiero frastagliato come la linea di una saetta che si abbatte in fondo al mio cervello sprizzando fuoco e scintille.

Vorrei solo rimanere qui, immobile, ma tiro un respiro spezzato e mi alzo in piedi, la vista offuscata, i piedi molli ma ben piantati. Qualcosa si squarcia, dentro di me – il velo sottile che ancora divideva luce e ombra si dissolve nel nulla. Mi fa male la destra, serrata in un pugno di muscoli rigidi e spasmodici. Mi sostengo al muro e avanzo verso la soglia, che mi appare solo come un riquadro leggermente più chiaro del resto della stanza. Là fuori c'è la mia truppa – per la prima volta, è un pensiero terrificante.

Non appena metto piede in strada sono costretto ad aggrapparmi allo stipite per non cadere. Un capogiro dopo l'altro mi avvita il cervello in un vortice nauseante. Non vedo altro che rosso: sulla sabbia, sui muri, sui cadaveri, sulla terra imbrattata dall'esplosione.

Colgo un movimento alla mia destra e ho appena il tempo di scagliare una fiammata prima che dei guerriglieri mi freddino sul posto. Si dibattono avvolti dal fuoco, gridando in agonia, ma quasi non li sento. Un vocio concitato risuona poco distante, ma non riesco a staccare gli occhi dai cadaveri smembrati dei miei soldati. Alcuni non sono neanche riconoscibili. A molti, quelli sopravvissuti ai mortai, hanno sparato in testa, metodicamente. Come facciamo noi con loro, quando qualcuno sopravvive alle mie fiamme. Ruoto sul posto, i tacchi che strusciano nella sabbia macchiata, la divisa intrisa di sangue tiepido.

L'ho sempre saputo – dal momento in cui siamo saliti su quel treno, forse sin da quando mi sono arruolato. Ho sempre saputo che, un giorno, avrei visto questo. L'ho sempre saputo e non ho fatto nulla per impedirlo.

«Oskar! Jace! Alena!»

Li chiamo, con voce spezzata. Non mi importa di attirare l'attenzione del nemico. Le corde vocali stridono per lo sforzo mentre cammino in una devastazione di sangue e membra scomposte. Nessuno risponde.

E infine, li vedo.


Jace, riverso a terra con metà corpo maciullata dalle esplosioni, il bianco delle ossa esposto al sole, a un passo dal cratere d'impatto. Sotto di lui, Alena, egualmente esanime, il volto rigato di sangue le gambe ritorte in un'angolazione innaturale. Premo un palmo sulle bocca, a soffocare una conato. C'è puzza di carne bruciata. Sento una morsa al petto e al cuore, che potrebbe rompermi le costole per quanto sta battendo forte. 

L'ho sempre saputo
.

Un altro gruppo di Ishvaliani sbuca da un vicolo, fucili alla mano. Li incenerisco quasi senza guardarli; le fiamme sono così roventi e incontrollate da assumere una sfumatura bianca. Una colonna di fuoco si leva verso il cielo, esageratamente violenta, e il calore mi incendia le vene.

È questo il potere che volevi, Roy? La voce del Maestro mi rimbomba nei timpani. Per un attimo, il sangue che mi cola addosso non è il mio – è quello del Maestro che mi muore tra le braccia, con gli occhi di Riza puntati addosso.

Annaspo tra pensieri e aria rarefatta e mi guardo intorno barcollando, ma non individuo altri pericoli immediati. Solo terra bruciata e sangue rappreso dal calore. Porto una mano sul fianco comprimendo con forza la ferita, ma sento la vita che mi sfugge via una goccia dopo l'altra, imbrattandomi i palmi e la divisa. Il sangue mi sta colando anche sulla schiena, non riesco a tamponarlo. 

La testa si fa leggera, sospesa nel vuoto... pensare è così difficile e vedo solo il massacro che mi circonda. Le ginocchia mi tremano e per un momento sono sul punto di cedere. Non ci sono superstiti. Solo io, per uno scherzo beffardo del destino che, forse, vuole dirmi qualcosa. Non ho protetto nessuno, neanche col potere alchemico più devastante tra le mie mani.

Mi sfugge un gemito mentre lotto per non cadere in ginocchio. Devo tornare alla base

Ma vorrei rimanere qui, coi miei compagni. Vorrei consumarmi anch'io qui, nel fuoco. Sarebbe così facile lasciarsi andare e stendersi nella sabbia. Prima o poi morirò dissanguato. Prima o poi mi troveranno e sarò troppo debole per reagire. Prima o poi, Riza e zia Chirs riceveranno quelle lettere, macchiate di sangue, imbucate sotto al doppiopetto della divisa e spedite in una bara anonima.

Un rumore sordo dietro di me mi riporta alla realtà. Mi volto di scatto, già pronto a trasmutare, con gli istinti vitali che sopraffanno quel desiderio di oblio – di riposo, di annullamento – ho sbagliato tutto, tutto.

Quasi perdo l'equilibrio mentre giro su me stesso in cerca del pericolo. La strada è ormai immersa nel buio bluastro del crepuscolo, deserta. Con la coda dell'occhio colgo uno dei corpi fremere leggermente. Un colpo di tosse umido risuona dall'oltretomba. Zoppico il più rapidamente possibile verso di lui – lampi rossi e blu e bianchi mi esplodono negli occhi – e mi accascio al suo fianco, ansante per il dolore.

Riconosco a fatica il volto un tempo sempre sorridente di Oskar nella smorfia di sofferenza in cui è distorto ora, gli schizzi di sangue confusi con le lentiggini. Gli sollevo appena la testa per farlo respirare meglio, ma mi congelo nel farlo, con una consapevolezza strisciante che mi risale come acqua fredda nelle vene. 

Morirà qui. È un pensiero fluttuante, ma si àncora nella mia testa con rampini arrugginiti.

L'esplosione lo ha quasi sventrato; intravedo il baluginio dei visceri oltre la stoffa blu, squame di pesci guizzanti sotto la superficie. Sollevo un lembo del mantello a coprire lo squarcio, senza neanche cercare di fermare la perdita di sangue. Oskar socchiude gli occhi, ridotti a due pozzi neri segnati da striature rosse nella sclera, le pupille dilatate che quasi inghiottono l'azzurro sporco.

Mi fissa, ma mi chiedo se riesca a vedermi. Tenta di dire qualcosa, ma la voce si perde in un gorgoglio agonizzante e non posso fare altro che sorreggerlo al meglio. Ascolto il suo respiro farsi sempre più debole, coi polmoni distrutti che sibilano appena. La sua risata è solo un'eco lontana, vibrante di vita stroncata.

Si aggrappa debolmente alla mia divisa. Gli stringo la mano, impotente, unendo il sangue che ci imbratta i palmi. Mi sento distante da qui, come se tutto ciò non stesse realmente accadendo. 

Come se fossi ancora all'Accademia, sul tetto della caserma a bere e parlare con lui e gli altri di ciò che ci aspettava. Jace era alticcio, ma vinceva comunque una mano dopo l'altra di poker, Oskar rideva troppo forte per nulla, io schioccavo le dita, sparando piccoli, innocui fuochi d'artificio nel cielo notturno e Rod versava troppo poco alcool nei bicchieri mentre ci richiamava all'ordine con un sorriso sotto i baffi, le gote brillanti a sua volta. 

Dopo qualche bicchiere di troppo, Oskar mi ha detto che, se non avessi smesso di preoccuparmi degli altri prima di me stesso, sarei stato il primo a lasciarci le penne in battaglia. L'avevo zittito con uno scappellotto, seguito da un fuoco artificiale più potente degli altri che aveva richiamato l'intero servizio d'ordine, costringendoci a scendere a rotta di collo dalla caserma, verso i dormitori.

Le ombre di quella serata si proiettano sul presente, danzando macabre sul volto di Oskar. Serro la mascella fino a farmi male e non riesco a dire neanche una parola di conforto, si infrangono tutte sui miei denti digrignati. Lascio che se ne vada in silenzio, mentre anche io mi spengo, un minuto dopo l'altro.

Alzo appena lo sguardo, verso la strada. Solo adesso noto che i corpi degli Ishvaliani giustiziati poco meno di un'ora fa sono spariti. A terra è rimasta solo una chiazza di sangue, confuso con quello dei miei soldati, senza alcuna linea definita a distinguerli.

Riabbasso il capo, tremante, ma incontro solo gli occhi ormai vitrei di Oskar.

 


25 Giugno 1908
Distretto di Kanda, Ishval,
??? Notte

Riemergo con un sussulto dal torpore ingannevole indotto dalla ferita. La boccata d'aria che immetto a forza nella trachea mi spezza i polmoni, pungente.

Non so quanto tempo io abbia passato alla deriva nei flutti dell'intorpidimento, ma sono intirizzito, gelido fino alla punta delle dita. Solo il fianco impregnato di sangue è tiepido. Non capisco quanto sia grave la ferita, ma il fatto di essere ancora vivo suggerisce un danno non fatale, a dispetto delle fitte lancinanti che mi torcono le carni ad ogni respiro.

Sto ancora sostenendo il corpo senza vita di Oskar. La sua testa abbandonata pesa sul mio palmo, come se vi si fosse addensata tutta la paura degli ultimi istanti di vita. Le sue iridi sono velate, con la macchia d'inchiostro della pupilla che le divora, spalancata sul cielo offuscato e privo di luce.  Gli abbasso le palpebre, come ho fatto poco fa con Roderick, poi lo adagio a terra con delicatezza, a riposare nella polvere imbrattata di sangue suo e non. Tiro una falda del suo mantello a coprirgli il volto, in un sudario lacero. Il movimento mi strappa un singulto.

La mia vista si allarga, uscendo dalla visione a tunnel, come se avessi infine scostato gli occhi da un mirino puntato unicamente su Oskar.  Sono circondato dalle ombre bluastre della notte, tra le quali spiccano sagome di carbone riverse a terra. Arti ripiegati, occhi bianchi e sbarrati, denti stretti che rilucono tetri, mani aggrappate alle divise e ai fucili che iniziano a essere assalite dal rigor mortis. Una parata macabra che sembra accerchiarmi, accusatoria.

Sono ancora vivoE loro no. Loro no.

I pensieri mi divorano il cervello, ne trapassano le volute come tarli affamati di lucidità, spingendomi verso l'oblio. I cadaveri che mi circondano diventano d'un tratto animati, ombre vive nella notte con gli arti tesi verso di me – compagni, nemici che si aggrappano alle mie vesti con mani scarnificate per trascinarmi con loro verso il fondo. Sto per cadere.

Non voglio morire qui.

Semplici parole che si incuneano alla base della nuca, inviando una scossa elettrica alle sinapsi. Non voglio morire, nonostante l'abbia desiderato fino a un istante fa. La mia mente vuole forse spegnersi e annullarsi, la mia anima vacilla sul baratro, pronta a lasciarvisi cadere – ma il mio corpo azzanna la vita e vi affonda i denti, rifiutandosi di lasciarla scivolare via.

Faccio leva sulle ginocchia, seguendo l'impulso ancestrale che ha preso il controllo dei muscoli e li obbliga a tendersi, a fallire e ricadere nella polvere più volte, fino a issare in piedi il mio corpo martoriato e a rimanervi, ansante, scosso dai tremiti.

Vivo, in mezzo ai morti.

Avrei potuto salvarli tutti

Ma sono solo un misero essere umano incapace di proteggere chiunque. Il potere che mi brucia i palmi innesca solo distruzione e morte – imparare a usarlo non è servito a nulla, nulla. Se il Maestro Hawkeye è morto tempo fa, consumato dall'alchimia perfetta che non è riuscita nemmeno a salvare poche vite, io sono morto oggi, nell'istante in cui mi sono rialzato.1

Con un ringhio da bestia ferita muovo un passo, accusando la fitta che mi attraversa e sconquassa il fianco. Rod non mi ha fatto da scudo col suo corpo perché morissi qui, poco dopo, vinto per scelta.

Porto l'altro piede di fronte a me, con l'impressione di lacerarmi il busto in due. Riza non mi ha affidato la sua schiena e tutta se stessa per vedermi gettar via alle fiamme la sua fiducia e il sogno che ci ha acceso gli occhi in quei giorni lontani d'autunno.

Ti prego, non morire. Me l'ha detto con un filo di voce quasi perso nel vento freddo del cimitero.1

Mi accascio contro il muro più vicino, col respiro accelerato e privo di qualsiasi ritmo che mi scortica a sangue la gola. La mia mente si chiude di nuovo, si oscura creando ombre illusorie. Mi dice che andrebbe bene appoggiarsi per un momento al vecchio olmo, o stendersi qualche minuto tra le spighe scricchiolanti della segale per riprendere fiato dopo una sfiancante partita di acchiapparella. Di stendermi sulla schiena e riempirmi gli occhi delle nuvole estive che corrono nel cielo terso, di un azzurro chiaro e irreale. 

Sotto il guanto, però, non c'è l'asperità della corteccia, ma un muro friabile e diroccato. I miei piedi affondano nei detriti grigiastri delle case, lontani da qualunque campo in attesa della mietitura. E sopra di me c'è la cappa di fumo e polveri che ammanta il cielo, precluso alla vista. Le carezze del sole sono lontane, perse nelle lunghe estati che ho vissuto troppo poco.

Mi artiglio alle sensazioni vere, sgradevoli, reali. Al morso umidiccio della ferita nel fianco. Il velo della febbre recede, bollente sulla pelle.

Ti prego, non morire.

Devo agire in fretta; devo fare qualcosa. Riordino i pensieri, do loro priorità definite; ascolto gli istinti di battaglia e sopravvivenza.

Mi serve un riparo. È un obbiettivo, è qualcosa.

Riprendo ad arrancare accostato alle case e palazzine, seguendo la strada rettilinea. La mia mente obnubilata non riesce a raccapezzarsi tra i crocevia tutti uguali, ma sono abbastanza sicuro che la guarnigione di Kanda sia da questa parte. Prima o poi incontrerò una pattuglia. O una banda di ribelli. O un proiettile vagante. Forse morirò mentre cammino, senza neanche accorgermene, in una marcia verso l'aldilà. Ogni passo è un'agonia, ma non mi fermo – poi non sarei più in grado di muovermi.

Raggiungo un incrocio di strade che non mi è familiare. Le finestre esplose di una casa ammiccano dall'altro marciapiede come troppe orbite vuote. L'area è piuttosto malmessa, ma le strade sono state sgomberate dalle macerie: devono averla bombardata da tempo. Lascio l'appoggio del muro e mi guardo intorno battendo le palpebre, il respiro denso di sangue che si rapprende in nuvolette di vapore.

Ormai è notte. L'unica luce che rischiara gli edifici bianchi è quella di un timido spicchio di luna che di tanto in tanto riesce a farsi spazio tra le nubi e il fumo, gettando occhiate lattee al mondo sottostante. In lontananza riecheggiano delle esplosioni. Cannoni a tamburo amestriani, ne riconosco i boati serrati, secchi come i latrati di un cane. Non riuscirò mai a raggiungerli prima di morire dissanguato.

Adocchio una casa a due piani devastata: il tetto superiore è esploso, un muro si è disarticolato dalla struttura, una faglia profonda ne solca una facciata. Questo sfacelo non è opera di un proiettile. Mi avvicino con l'impressione di galleggiare nel vuoto, ma anche in queste condizioni riconosco, su cemento e pietra, le dentellature regolari e in rilievo di una trasmutazione. L'Alchimista Scarlatto2, a giudicare dall'apocalisse circostante. Ho sconfinato nel settore già liberato da Amestris, dunque. Al sicuro, almeno, anche se non in salvo.

L'edificio colpito dall'esplosione sembra ancora piuttosto stabile ed è l'unico ad avere un accesso agevole, oltre a un tetto ancora in piedi. Non ho comunque scelta: non posso rimanere allo scoperto, settore liberato o meno. Devo trovare riparo, cercare di arrestare l'emorragia e riposare qualche ora. E non pensare, soprattutto, a cosa mi sono appena lasciato alle spalle.

Mi faccio largo tra le macerie il più silenziosamente possibile, nonostante le gambe malferme, ma causo comunque una piccola e rumorosa frana. Slitto sui calcinacci e la mia vista si oscura per un istante – riesco ad aggrapparmi a una trave sporgente appena prima di rovinare a terra.

Entro nel buio dell'abitazione. La luce è appena sufficiente a distinguerne i contorni, grazie a uno squarcio in alto che lascia intravedere il cielo. Evito di accendere una fiammella per non attirare l'attenzione. Avanzo in un'ampia stanza che un tempo deve essere stata un soggiorno. Intravedo un tavolino basso sfondato e una credenza infranta al suolo, che ha disseminato ovunque schegge di vetro e cocci lucidi di stoviglie, rendendo i miei passi scricchiolanti sul pavimento di ceramica decorata. 

In un angolo c'è una pompa per l'acqua, ma non sembra funzionante: mi rende solo più conscio della mia sete latente, fomentata dalla febbre. Una cassapanca è rovesciata, col contenuto sparpagliato qua e là: animali intagliati, una bambola di pezza, palline colorate – giocattoli ormai senza valore e senza proprietario. Qua e là pendono drappi colorati e intessuti di fitti arabeschi, ridotti a stracci. Il resto è stato saccheggiato dagli sciacalli.

Un tempo deve essere stata una dimora signorile, forse appartenente a qualche sacerdote o diacono. Adesso non è molto diversa dal resto della città devastata.

Mi guardo intorno in cerca di un divano, un letto, una panca su cui adagiarmi, ma la maggior parte dei mobili è sparita, probabilmente fatta a pezzi per ricavarne legna da ardere. La porta che conduce al resto della casa è ostruita dalla scala del piano superiore crollata. Tra i detriti scorgo il corpo denudato di un vecchio.

La testa riprende a girarmi e prendo un respiro stentato, puntellandomi contro il muro. È innaturalmente molle sotto al mio palmo. Strizzo gli occhi nella penombra appena rischiarata dal fioco chiarore che filtra dalle brecce. Non mi sento al sicuro qui, ma non riesco a muovere un passo di più. Devo occuparmi della ferita. Devo riposare, non importa dove. Le gambe non mi porteranno più lontano di così.

Prendo un respiro profondo, preparandomi all'arduo compito di sedermi senza svenire o dissanguarmi.

Uno scricchiolio di vetri mi fa sobbalzare, il cuore che si congela in gola. Mi giro con la destra già contratta e pronta a liberare scintille, ma mi blocco un attimo prima di incendiare l'aria, le pupille dilatate nella luce fioca. Dall'altra parte della stanza, una donna mi fissa con gli occhi sbarrati, paralizzata sul posto. Un panno le copre in parte il capo e stringe una sacca al petto come a farsi scudo. Scocca un'occhiata frenetica all'unica via di uscita, ma non osa muoversi. 

Capelli bianchi e occhi rossi – lo so, anche se non riesco a vederli con chiarezza, e sembrano brillare scarlatti nell'assenza di colore. 

La fisso, pollice e medio che frizionano con forza la stoffa d'accensione, pronti a schioccare e liberare la fiammata. Lo sparo che ha ucciso Rod riecheggia nelle mie orecchie; vedo Jace e Alena accasciati l'uno sull'altro in un abbraccio di morte; sento i rantoli di Oskar risuonarmi nel petto, la presa viscida di sangue sul mio palmo.

La mano mi trema e una rabbia ustionante mi invade come lava, una morsa malsana che mi artiglia il cuore e vi traccia solchi dolorosi nel ritrarsi, portando via con sé brandelli sanguinolenti. 

Quell'oscurità dilagante si riapre dentro di me. Mi risucchia, divora ogni luce nel buio di un'eclissi.

Oltre le tenebre non c'è luce –

Addenso l'ossigeno, i denti serrati.

– c'è altro buio, altre tenebre –

Carico la fiammata.

–  c'è una promessa infranta, c'è un sogno ormai in fumo che lotta per riaccendersi.

È un sogno meraviglioso.3

Abbasso la mano, con la trasmutazione che evapora in uno sbuffo assieme al mio respiro trattenuto. Scivolo a terra contro il muro, lasciando una pennellata di sangue sull'intonaco, e mi accartoccio con le ginocchia ripiegate contro il petto, il guanto inerte. La donna mi guarda ammutolita e rimane lì, una statua di pietra dalle iridi rosse cristallizzata sotto i raggi deboli della luna. Lascio che i miei occhi si socchiudano, appesantiti dal buio. 

La ferita continua a stillare sangue, silenziosa, pulsante. Sento un rumore di passi leggeri che sgattaiolano via – un refolo d'aria mi sfiora la guancia. 

Sospiro, col ferro sulla lingua. 

Sono stanco.


 

 


Note:

[1] Queste sono citazioni (dirette o rielaborate) dal volume 15 del manga, rispettivamente di Berthold Hawkeye (Capitolo 58) e Riza (Capitolo 60).
[2] Ho scelto il nome dell'edizione italiana cartacea per Kimbley. In Brotherhood è Alchimista Cremisi, ma personalmente preferisco appunto Alchimista Scarlatto.
[3] Questa è la frase che pronuncia Riza subito prima di affidare a Roy le ricerche del padre sulla sua schiena (Capitolo 60).

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
siete sopravvissuti? Spero di sì. 

Questo è uno dei capitoli più cruenti e meno "giusti", me ne rendo conto. Vi ho fatto conoscere dei personaggi che mi sono impegnata a delineare, per poi spazzarli via nel giro di pochi capitoli. Ma era esattamente così che volevo organizzare la storia, ovvero sottolineando quanto semplice sia morire in guerra. E, a livello di trama, la prima squadra di Roy ha una rilevanza notevole. Ho costruito molto sulla sua infanzia/adolescenza/giovinezza, incluso il periodo all'Accademia, e spero di potervi mostrare quella parte di sviluppo del personaggio che nel manga (e soprattutto in Brotherhood) è stato solo accennato.

Mi rendo conto che l'ultima parte è un po' contorta, tra i vari pensieri intersecati, ma in realtà è voluto. Volevo che a far desistere Roy fosse un filo logico sconnesso, sul momento, ma verrà ovviamente ripreso e sbrogliato in seguito.

Grazie a tutti coloro che leggono, votano e/o commentano questa storia. Era partita come un progetto estremamente personale per cui nutrivo ben poche speranze di "successo", ed è stato bellissimo vedere come, invece, sia riuscita a coinvolgere molte più persone di quanto mi aspettassi. I numeri delle liste parlano chiaro, anche se molti di voi sono lettori silenziosi, e vi ringrazio anche solo per spendere del tempo leggendo la storia. Se poi vorrete lasciarmi la vostra opinione, anche in privato, ne sarò felice ♥
Grazie di cuore ♥

-Light-

   
 
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